The Project Gutenberg eBook of Vecchie cadenze e nuove

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Title : Vecchie cadenze e nuove

Author : Emilio De Marchi

Release date : March 3, 2006 [eBook #17905]

Language : Italian

Credits : Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Sormani - Milano)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK VECCHIE CADENZE E NUOVE ***

Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the

Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Sormani - Milano)

OPERE COMPLETE di EMILIO DE MARCHI

Volume V.°

VECCHIE CADENZE e NUOVE

SECONDA EDIZIONE

LIBRERIA EDITRICE NAZIONALE

PROPRIETÀ LETTERARIA

Diritti di riproduzione, ristampa, traduzione, riservati per tutti i paesi a termini di legge.

Società Lito-Tipografica Lombarda BOLLINI e COLOMBO
MILANO—Via A. Kramer, 19

1904

Al lettore ,

Quando nel 1899 usciva per la prima volta sotto forma di Strenna (dell'Istituto dei Rachitici) questa raccolta di poesie che ora si ripresenta nella serie delle Opere complete di Emilio De-Marchi come parte integrante del pensiero e dell'animo suo, il compianto Senatore Gaetano Negri che alla profonda intuizione filosofica univa tanta genialità artistica e amore per tutte le cose gentili presentava il poeta con queste parole:

" Vecchie cadenze e nuove ", chiama l'Autore la raccolta delle sue poesie, volendo farci intendere che, se in alcune di esse, si ritrovano le forme e i procedimenti stilistici del tempo vecchio, egli non rifugge dagli allettamenti e dalle raffinatezze dello "stil novo" ch'egli ode. E sta bene. Ma ciò che ci piace, sopra tutto, è che il De-Marchi, e nelle vecchie e nelle nuove cadenze, non abbandona mai quel supremo, direi anzi, quell'unico precetto dello scriver bene, e in prosa ed in versi, che è di scrivere solo quando "amore spira" e di significare a quel modo ch'ei detta dentro. Tutta la differenza, come già ci insegnava Dante, fra gli scrittori profondi e gli scrittori superficiali, fra gli scrittori che rimangono e quelli che non vivono che un'ora di fugace applauso, è tutta qui. Gli uni hanno la sincerità dell'ispirazione a cui risponde la sincerità dell'espressione. Gli altri non hanno che l'artifizio dell'una e dell'altra. Tutte le discussioni d'arte, di scuola, di metodo, non sono che logomachie retoriche e pedantesche. Bisogna che le penne, come dice il padre Dante, vadano "strette diretro al dittatore" Quando ciò avvenga, tutte le cadenze, e vecchie e nuove, sono buone.

"Il De-Marchi divide la sua raccolta in tre parti, ognuna delle quali ha un titolo suggestivo. I segreti pensieri , la prima, Le vaganti immagini , la seconda, Gli intimi sensi , la terza. Il lettore, nei Segreti pensieri e nelle Vaganti immagini , segue gli inquieti atteggiamenti e il continuo agitarsi dello spirito moderno, davanti a problemi a domande, a misteri che ci appaiono tanto più insolubili ed oscuri, quanto più viva è la luce con cui l'intelligenza li rischiara e li determina; negli Intimi sensi egli risentirà la nota tranquilla di un'anima che, nella coscienza del dovere e nella fede degli ideali, sa trovar il conforto e la ragione della vita. Nelle due prime parti, la varietà e la snellezza dei metri riproducono la prontezza dell'impressione e del riflesso che essa suscita nel pensiero; nella terza, l'onda pacata del verso sciolto, condotto con classico magistero, porta sovra di sè la meditazione serena che armoniosamente si svolge con una cadenza misurata e sicura. Fra le belle cose di questa ultima parte, sono due componimenti Le ore della vita e Funerale bianco , che mi sembrano aver un pregio ben singolare di poesia e di pensiero. Si sente in quei versi il palpito di un uomo che è passato per le prove dolorose della vita, e trasmette agli altri la commozione profonda, ma non sconfortante, non disperata, di cui serba le tracce indelebili."

PARTE I

I SEGRETI PENSIERI

PRELUDIO

CANTA L'USIGNUOLO

"Benvenuto, vicin, di nuovo in questa
Erma dimora, che al lume si accende.
Che fu gran tempo spento al pianto mio;
Or che la notte la finestra splende,
Ove tu preghi su tuoi canti pio,
La veglia del giardin non è più mesta.

"Il verde delle foglie anche si accende,
La paura si dissipa di questa
Antica frasca, nido al pianto mio:
Brillan le stelle e vanno per la mesta
Vôlta del ciel in un circolo pio
Intorno ad una che lucida splende.

"È vuoto il nido tuo…. è vuoto il mio:
La speranza non più nel cor accende
Garrule gioie e lieti amori in questa
Notte del viver nostro; indarno splende
La danza delle stelle… In nota mesta
Al tuo risponde il mio querelar pio.

"Ma se un raggio di giubilo non splende,
Ci conforti, fratel, il cantar pio,
Che rompe il duolo della notte mesta.
Piangon le mute cose al pianto mio
(La nostra sorte altra non è che questa)
Nel canto il morto spirito si accende.

"S'apron l'ali agli affanni e scioglie il pio
Vol la pietà, se una canzone mesta
Nell'alta solitudine si accende.
Degli alberi al dolor mescolo il mio
Dolor canoro ed ogni stella a questa
Grazia vedo tremar che in alto splende.

"A noi concesse un buono Iddio la mesta
Voce del canto onde l'amor si accende.
Cantano i cuori amanti al canto mio,
E se tu canti, la virtù più splende:
Null'altro ufficio agli uomini è più pio,
Null'altra sorte è pura come questa"

A UNA GIOVINE POETESSA

Quel che nel verso mio matura a stento
All'ombra dell'antico biancospino
Fiorisce In un momento
In mille rose in mezzo al tuo giardino.

Quel che nel verso mio languido pianto
Suona o singhiozza nella notte oscura
Esce limpido canto
Presso il mattin dalla tua bocca pura.

Quel che alle carte io chiedo dei poeti
E faticosamente intesso al verso,
Al ciel, ai campi lieti,
Al mar tu strappi armonioso e terso.

Tu colle mani verginelle infiori,
O della vita interprete sincera,
I giovinetti amori:
Io sol conforto la vecchiezza a sera.

Piegarsi come salice al tuo pianto
Sento il dolore di mia vita oscura,
Ma quando ride il canto
Del tuo sorriso, rìde la Natura.

—Oh, cessi alfin—a me dice la gente
Una nenia che l'anima ci schianta;
A te, musa innocente,
Gridan l'altre fanciulle: canta, canta…

LITANIE VECCHIE E LITANIE NUOVE

Nell'ore languide dei caldi estati,
Mentre ronzavano
Api e farfalle d'oro nei prati,
E nella nitida chiesetta il sole
Pingea l'altare,
Non altro udivasi che un susurrare
Di labbra e un morbido
Striscio di suole.
Poi nulla, Attonita nel paradiso,
Bianca la tonaca e bianco il viso,
La pia badessa, dicendo l' Ave ,
In un soave
Sonno chiudeva le luci stanche
Entro una nuvola di cose bianche.
Il rossignolo nella foresta.
Facea la siesta.
L'aria tacea calida. Solo
All'ora inutile un oriolo
Metteva il segno
Nella sua vecchia cassa di legno.

* * *

Cangiano i tempi: crollano i santi
Dai pinti portici:
Se alcun ne resta, come si vede,
Su per i canti,
È dell'intonaco più forte il merito
Che della fede.
Stridon le macchine, stridono i garruli
Telai. La grande
Anima torna d'un mondo fossile
E pei comignoli urla e si spande.
Due mila ruote
Un soffio, un sibilo
Agita, scuote
Indemoniate da cento spiriti:
Treman le vôlte,
Balzan gli scheletri delle sepolte.

* * *

I tempi nuovi filano i vecchi,
Dai denti striduli degli apparecchi
Esce il rosario della felice
Età che dice:

"O Pane, o Pane, o bianco o giallo,
Ave boccone!
Dal primo fallo d'Adamo e d'Eva
Confitto in l'ugola l'uomo solleva.
Oggi non basta di un'età casta
La salmodia:
Sui fusi rotola la litania
E l'orazione:
Ave, boccone!

"Te a mattutino, te a mezzogiorno
E te a compieta
Chiama una gente irrequieta,
Che in mezzo ai vortici degli arcolai
Tesse la tela dei lunghi guai:
Ave, boccone, cotto nel forno!

"Sudore e lagrime inteneriscono
Un pan di cenere e di carbone
Che il dente macina della malsana,
Macchina umana.
Ave, boccone!

"O Pane, o Pane, o giallo o nero,
Tu sol sei vero,
Ave, spes unica . Se tu ne manchi,
Cedono i fianchi, cedon le braccia,
E nella macina il cor si schiaccia."

* * *

Così risonano nel rombo immenso
Del giorno e salgono, monache pie,
De' nuovi tempi le litanie
In mezzo a nugoli di nero incenso.
Ma s'io ritorno per il sentiero
Quando la bianca luna si specchia
Nei rotti muri del monastero,
Mi par d'intendere, o monacelle,
Le campanelle
Che ancor vi chiamano a salmodia:
" O rosa mistica,
O domus aurea,
Ave, Maria..
"

* * *

A queste note,
Che d'una morta speranza parlano,
Del cor io sento strider le ruote
E sonar l'ora d'una passata
Notte stellata.

IL TELEGRAFO SULLA MONTAGNA

Van per la verde valle e s'inseguono,
Salgono il clivo in ordin lento
I retti tronchi, la rupe sfidano,
Sfidano il vento.

Carche di folgori dal ciel le nuvole
Scendon, ma i tronchi salgono ancora,
Traendo il gracile filo, dell'aquila
Alla dimora

Il pie' confitto nella vulcanica
Roccia, fedeli soldati all'erta,
Dell'uom la scossa alma trascinano
Per la deserta

Region dei turbini, oltre le vergini
Cime, alle soglie d'irti ghiacciai,
Ove non pose capra selvatica
Orma giammai.

Mentre più candido cade sugli omeri
Dell'alpe il verno e tutto tace,
Mentre la spuma del fiume rigida
Sepolta giace:

Mentre sopiti dormono i pascoli,
Che udir nel maggio mugghiar gli armenti,
Sull'agil trama caldo lo spirito
Va delle genti,

Vanno le alate novelle ai popoli,
Vanno gli amori. Da lande ignote
Escon le insidie e delle lagrime
L'aride note.

Spesso nell'ululo piange dei turbini
Un cuor di madre, a cui da sponde
Arse pel vuoto sen dello spazio
Piange e risponde

Del caro figlio l'estremo anelito:
L'ansie s'inseguono al filo ordite,
Urtano i baci estremi e cadono
Spesso due vite.

Cinge la sorda terra una nervea
Rete, che spasima e pianto stilla:
Palpita il mondo del nostro palpito
Alla scintilla.

Così la Mente d'un invisibile
Nume la cieca materia avviva,
E a noi da cieli inaccessibili
La voce arriva.

Tolti gli indugi, muore più rapida
L'ora felice; ai tardi mali,
Tu dei viventi forse il più misero,
Hai dato l'ali.

LA TRASMISSIONE DELLA FORZA ELETTRICA

(Paderno-Milano, 29 Settembre 1898)

L'oziosa cascata di candide piume
Vestita, delizia di oziosi poeti,
Che versa da secoli dell'acque il volume
Scherzose tra i muschi dei ruvidi greti,
Dei gelidi laghi la chioma fluente,
Dei cieli, dell'iride lo specchio lucente,
La liquida ninfa—mirabile gioco!
Sprigiona, sfavilla dall'anima il fuoco.

Quell'acqua che molle sull'alpe beveste
Nel cavo del tufo freschissima e chiara,
Che lenta trascina nel verde la veste
A greggi, a pastori sì limpida e cara,
Da viva coscienza d'un subito invasa
Scintilla sul desco dell'umile casa,
Nel grave silenzio per lungo viaggio
Sui bruni miei canti diffonde il suo raggio.

Non più di remoti destini contenta
Agli echi susurra del povero sasso,
Non più del molino si abbraccia alla lenta
Costanza e alla ruota fa muovere il passo:
Percossa da nuova superba parola
Lo spirto dell'acque precipita, vola,
Divora le tenebre, le macchine invade,
Riempie di sibili le morte contrade.

Così d'una blanda memoria lontano
Discende la forza a un giovine cuore,
Così la carcassa di morbida mano
L'incendio vivifica d'un fervido amore,
Così dalle lagrime di muta pupilla
La fede d'un nobile coraggio scintilla
E scende infocato da pure sorgenti
Benevolo e forte il Genio alle genti.

Rallégrati, Italia!—non più della lorda
Fuliggine il limpido tuo cielo si oscura,
E manda il comignolo dall'ugola ingorda
Di nordica nebbia mal compra sozzura.
Per rupi e dirupi, per morbidi clivi
Correndo, saltando, tra lauri ed ulivi
Discende al tuo popolo da vette lontano
Sul raggio del sole men sudicio il pane.

Sia caro l'augurio! Se ancora feconda
Dal sasso deriva sì limpida e piena,
Se ancor nelle sabbie de' secoli abbonda,
O madre, la pura italica vena,
Sia caro l'augurio! l'umano destino
Dai cento ruscelli che versa Appennino,
Se al ciel non contrasti la sorte nemica,
Attenda una luce che vinca l'antica.

Qui dove dischiuse del morto metallo
I sensi e ne trasse gli spiriti ardenti,
Qui dove le forze nel ferreo cavallo
Più indomite strinse al cenno frementi,
Qui dove di nuovo miracolo ardito
Disdegna gli spazi del mondo finito
E sciolto dai lacci l'ignoto rischiara,
L'italico genio i tempi prepara.

A UN VINCITORE IN UN DUELLO

Or che l'orgoglio è pago e che le strette
Corser dei fidi amici e alfin respira
La bella, che ti spinse alle vendette,

Or che pende la spada e cessa l'ira,
Che a te discende per antica vena,
E rossa la tua gloria il mondo gira,

A te vien la mia Musa e una serena
Notte invoca di stelle all'agitato
Spirto sfuggito agli aspri colpi appena.

Umile ancella essa si pone a lato
Del letto, e mentre van ombre e perigli
Ti chiama al sonno il canto delicato.

A nova luce tu al mattino i cigli,
O signor, aprirai; ma se ghermiva
La morte il core coi feroci artigli,

A ben più nera e lacrimosa riva
Or scenderesti, ove il fratel si duole
Della ferita che il tuo ferro apriva.

Ivi non scende a colorire il sole
I soavi desiri e della cara
Vita son morte tutte le parole.

Nella palude senza fine amara,
Lugubre navicel, cerca e non trova
Ove sbattuta approdi ivi una bara.

E allora, o ciechi, il dolce amor che giova,
Che negli umani affanni il sole accende
Di vita in questa così breve prova?

Perchè da un cieco alto mister si scende
In questa valle inermi pellegrini,
Se nella rete sua l'odio ci prende?

Non come esigui e vani moscerini
Nascemmo intorno a un lume a far ronzio,
Ma per toccare agli ultimi gradini

D'un sacro tempio, ove il mortal desio
Trova riposo, dove l'uom sicuro
Di sua coscienza si abbandona in Dio.

Sia pace dunque, almen nel picciol muro
Che c'imprigiona in una mesta sorte,
Dove il sangue che cade è fango oscuro.

Tramontan presto le giornate corte
Del vivere ed ancor bianca è la sera,
Che già bussa nell'anima la Morte.

Allor ci sarà buona la preghiera
Dell'opra nostra, se con lampa accesa
Ci accompagni sull'ultima scogliera;

L'ira non già, non la fraterna offesa,
Non la vendetta, non dell'odio il vanto,
Non la minaccia, che sull'urna stesa

Nella tenebra eterna ulula il pianto.

ORA DI TEDIO

Non il piangere, no, tedio è il sentire
Morire in mezzo al core la speranza:
Non il morir, ma il non poter morire,
Quando non più che la memoria avanza.

Non l'onda umana, non la furibonda
Tempesta al marinar reca tormento:
Ma il deserto del mar senza una sponda,
Ma il legno infranto e non un fil di vento.

Non dir tu che la man stendi per via
Che il chieder pane è una miseria infame,
È più miseria, è più malinconia
Viver tra i vivi e non aver più fame.

Arder nel fuoco e far dal fuoco uscire
Una fiammante idea, gemer in croce
E dalla croce il mondo benedire
Come Gesù colla morente voce,

Questa che il cor distrugge od affatica
Od altra ancora più nemica sorte
Ti salvi dal languir misera ortica,
Non morto, no, ma segno della morte.

Pur ch'io senta il mio cor, fategli intorno
Di spine una corona e pur ch'io viva
Mi basta il breve luccicar d'un giorno
Di grande incendio scintilluzza viva.

IL TEMPO E LA MANO

Come il Tempo si uccida ah non mel' chiedere,
azzimato garzon, ch'io questo solo
conosco che la vita è un fil brevissimo
d'erba o più breve tra due fili un volo.

So che l'ora è una goccia, che dal vertice
scende al fiume per vie ridenti o cupe;
or rugiada d'un fior, or scarsa lagrima
ai dolori che spetrano la rupe.

So che il Tempo tra i doni è il sol che esiguo
Iddio comparte a' suoi figliuoli eguale;
ma quel che il perde al bell'ordito ingiuria
della sua tela povera e mortale.

Chè nel tessuto (e questo anche conoscere
i consigli mi diedero materni)
può ricamare ognun d'eterne istorie
con operosa man i segni eterni.

La Mano e l'opra, o mio fanciullo, innalzano
argin non breve al cieco andar del fiume,
nè tutto quel che s'inabissa perdesi
in oscuro mistero o in vane spume.

Il Tempo passa, ma restìo sul margine
siede il pensier del navigante. Ancora
il fuoco vive del lontan crepuscolo,
mentre già nasce la novella aurora.

De' morti amori ancor le rose ridono
nelle canzoni e la pietade ordita
prega nel sacro arredo a cui la gracile
man della Santa consumò le dita.

Il Tempo passa, ma nel marmo candida
palpita ancora calda alle percosse
la bella Ninfa, che stancò di Fidia
la mano e i morti popoli commosse.

Non men se l'ardua chiave intrudi ed agiti
nei giri arcani di ferrato scrigno,
senti del morto fabbro uscir lo spirito,
che ti parla così dal vecchio ordigno:

"Vivi nell'opra tua, garzon, se il vivere
ti piace e il viver breve anche t'è grave:
o in marmo o in tela o in un pensier recondito
o di mestizia in un lavor soave

"agita i giorni del tuo Tempo e semina
nella speranza i frutti del tuo cuore.
D'una pianta vitale all'ombra pallida
di cento vite rigermoglia il fiore."

"PER QUARANT'ANNI PARROCO"

Questa nel vecchio sasso
D'un uom la storia, o grande Machiavello!
Ignoto oltre il cancello
Giace sepolto in un coi morti il tumulo
Nell'erba folta antica,
Che ondeggia ai colpi rigidi del vento:
E va l'amara ortica
Per l'obliato muro a piacimento.

Costui di stridi e lagrime
Non fe' sua gioia, nè macchiò le mani
Nel vil sangue del popolo,
Come sta scritto dei più chiari eroi:
Non arse ville, nè gli piacque il mobile
Trofeo dei penzolanti corpi umani,
Come si legge ne' volumi tuoi:
Non dei tiranni coll'oblique insidie
Il pallido coraggio
Sostenne e i nappi taciti di morte,
O crebbe illustre di natura oltraggio;
Povero prete, il suo latin col povero
Divise e il poco pane e l'umil sorte.

Di carte filosofiche
Non consumò nè raddoppiò volumi:
Nè dal suo labbro balbettante uscirono
Dell'eloquenza i fiumi
D'oziosi grandi alto sollazzo e noia:
Predicò, benedisse, al capo languido
De' morenti arrecò l'ultima gioia,
Pregando a sè l'eguale in l'ultim'ora:
Cultor d'umili cose
Come chi per amor veglia e lavora
Nel picciol orto egli incurvò le pallide
Mani tra i rovi e suscitò le rose.

Se non parlan di lui le larghe pagine
Che il volgo bacia ed ama,
Se della rauca fama
Non vola alto il clangor, nostra è l'ingiuria:
Nostra che il falso orniamo
Ed ai superbi alziam templi di lauro,
Mentre la dolce ai vivi
Virtù nemmen sepolta adombra un ramo
Di lagrimosi ulivi.

Taccia l'insulsa istoria!
Tu sola, o santa poesia, sei vera,
Che il vivo senso delle morte cose
E i tenui affetti susciti
In mezzo all'ombre, ai sassi, alle nemiche
Care al Silenzio e d'ogni ben gelose
Invidiose ortiche.
Ove manchi il sospiro di Natura,
Irrigidite larve e di cuor vuote
Stan le passate immagini
Di questa labil vita, che si oscura
Di giorno in giorno in disperato oblìo.
Amor, luce di Dio, le scalda e scuote.

Sia gloria e luce all'ignorato atleta:
Se mai del pianto egli schiarì le torbide
Fonti e dei vivi alleggerì le spalle,
Per quante sciolse dalla rozza creta
De' suoi fratelli mistiche farfalle,
Per quel che disse e tacque
E che non scrisse, o grande Machiavello,
Al vergognoso avello
Sia pace e luce e gloria!

Di lui qual altro fu maggior poeta,
Di lui che tanto umano
Spirito strinse nelle sacre dita?
Che val la morta mano
D'un re che impugna un'asta irruginita
Di fronte a questa carità serena
Che dei più ciechi osò guidare i passi?

Restino ai grandi i sassi;
Egli altro onor non brama
Di quel che colla man leggiera e piena
In mezzo all'erbe il grato april ricama.

L'AGNELLINO DORME

Nell'ombra alta del frassino
Dove più l'erba è molle,
Dorme i sogni innocenti:

Sogna la balza morbida,
Il verde ampio del colle,
I giochi e l'acque garrule e lucenti.

Accanto bruca e vigila
La madre e sparsa giace
La greggia in suo riposo:

Mentre un sonar di fistole
Sveglia nell'erma pace
Dell'imminente sasso il Nume ascoso.

Dormi, agnellino! Il semplice
Spirto frattanto ignori
Quel che prepara il cielo….

Or or giunse alla bettola
E cionca tra i pastori
Cieco d'un occhio un uom dal rosso pelo.

Tonda la faccia ed ilare,
Nude le braccia, a sghembo
Sul ciglio alza il cappello;

Mentre affilato luccica
Nel rovesciato lembo
Di sanguinosa tunica il coltello.

Sogna, agnellino, e dissipi
L'alterne orrende voci
A te pietoso il vento,

Perchè non scenda al misero
Tuo cor dei patti atroci
Nel traboccar dei nappi lo spavento.

Il sangue tuo discendere
Dovrà prezzo del vino,
Ma tu, lieto, nol sai….

Se non è dato il leggere
Nel prossimo destino,
Meglio è sognar così come tu fai.

Perchè superbo e misero
Cerco al saper atroce
Dell'avvenir la sorte?

Passan le liete immagini
All'ombra della croce,
Che sulla culla ci piantò la morte.

IL CONTADINO

CANTILENA

Di nostra vita sparge lentamente
Il mesto pan, più caro al ciel che agli uomini,
Il contadin paziente.
Al gelo, al sole, al monte, al colle, al piano
Si muove egual la bionda spiga a tessere
Del contadin la mano.
Quando beati sulla prima aurora
Sognano i ricchi nelle piume morbide,
Il contadin lavora.
Se avvampa agosto torrido la testa,
A freschi lidi i cittadini emigrano:
Il contadino resta.
Se la gragnuola stermina o più rara
Fa la messe, Epulone il ciel bestemmia:
Il contadin ripara.
Mentre dei campi, alle sfrenate voglie
D'una bella, il signor i frutti sperpera,
Il contadin raccoglie.
Raccoglie e pane e vino e biade e strame
Agli uomini e alle bestie e spesso, ah misero!
Il contadino ha fame.
Se di fortuna cangia la bandiera,
Fatti feroci i fortunati stridono:
Il contadino spera.
Mentre di Dio la provvidenza nega
Sardanapalo in suo supremo orgoglio,
Il contadino prega,
Per molte vie tu ville a te procacci,
O tesorier, ma non avanza fabbriche
Il contadin nè stracci.
Quando sente d'aver compiute l'ore
Di sua giornata, all'ospedal si strascica
Il contadino e muore.
Han sulle fosse i re della fortuna
Croci di marmo, di bronzo e di porfido;
Il contadin nessuna.

CONCA ALPINA

Dentro il còncavo
Della rupe umido seno,
Non più grande
D'una coppa il tuo s'espande
Specchio lucido sereno.

Il ciel nitido
Vi discioglie l'oltremare:
S'arde in ciel rossa una nuvola
Sangue pare.

Bella a sera
Nel tuo freddo orror ferrigno,
Quando incombe la bufera,
Quando trema sul macigno
Un sottil candor lunare.

Pari a questa
Piccioletta anima mia
La tua conca all'armonia
Apri tutta dì natura.

Sotto i brividi
Della rigida tempesta
Senti il gelo
Che t'invade e che t'indura,
Umil conca d'acqua pura
Presso il cielo.

IL ROSARIO DELLA NONNA

Pende dal chiodo sul guancial, di grani
fitto il rosario della nonna mia:
pende e sui sonni miei torbidi o vani
l'ombra distende pia:

Fanciullo, il tintinnir mi piacque e il lento
volger di questa coronina antica;
e ancor quando la tocco ancor ne sento
uscir la voce amica

dei cari giorni e dei misteri santi,
che stanno ora confitti al vecchio muro:
che non temon di dotti e di pedanti
il perfido scongiuro.

Serban le perle le ancor calde impronte
delle tue dita, o nonna, ove passasti,
quando inchinata al tuo Signor la fronte
de' tuoi pensier più casti

gli svelavi i tesori intimi, arcani;
onde non morti ancor dopo molt'anni
come piccoli cor battono i grani
pieni dei santi affanni.

Forse già tutte consumò le nude
ossa la terra e accanto al sasso pio
della tua tomba già forse si schiude
un fior che non è mio;

ma quel che fu tuo spirito immortale
palpita e vive in questo scapolare,
che il ciel congiunge colla terra e vale
per me più d'ogni altare.

Presso qui sta di gravi opere denso
un armadio di libri, che raduna
in poco il mare della scienza immenso
che sta sotto la luna;

che la ragione delle cose amara
mi distilla nel cerebro e l'essenza
com'acido purifica e rischiara
della volgar coscienza;

a cui, del capo urtando al vecchio legno,
chiedo la notte e chiedo il dì la sorte
del viver mio, ma invan chiedo.—ed un segno
che plachi un po' la morte:

chè tutt'insieme il venerando stuolo
non fa più breccia, quando il cuore assale,
di quel che faccia lento un vermiciuolo
nel logoro scaffale….

Ma tu, sol che ti tocchi, una dolcezza
versi che definir non san le scuole:
scintilla amor e passa una carezza
su tutto ciò che duole.

Morremo e immota in suo rigor di sasso
starà dei saggi la ragion superba:
tu, povera umiltà, col picciol passo,
ove più dura e acerba

scende la via, sorreggi il piede e il fianco
alla languida vita; e sull'eterna
scala ove trema il pellegrin più stanco
innalzi una lucerna.

LA CAPRA ED IO

Sovra la rupe aerea,
Dove non giunge mai
Foglio di stampa od orma d'esattore,
Soli tra spini e cardi
Tra le nebbie emergenti e i scialbi sassi
Siamo una capra ed io.

Non prati, non ovili,
Ma solamente burroni scoscesi
Fra cui serpeggia e luccica
Al sol d'un'acqua povera la striscia:
Intorno alto il silenzio
Scende nel lento scendere del giorno.

Io lei rimiro ed essa
Sui piè diritta e rigida
Guarda il borghese ignoto che la guarda
E non sappiam che dire.
Qual scienza mai d'una barbara capra
Intese i biascicati sillogismi?
Del mio scarso viatico
Porgo alla bestia un morsellin di pane,
Che lieta il muso sporge
E mangia e ancor ne chiede: io la cornuta
Testa carezzo, chè già sento un nuovo
Affetto entrarmi in seno.

O sacra forza d'un boccon di pane!
Già in fondo agli occhi gialli
Io veggo il lento fluttuar di un'anima
Che mi ringrazia; parmi
Che anche un pensier si snodi
Tra la cornuta e l'uomo.

Un picciol suon non più che di zanzara
È degli umani il dire
In riva al mar ch'ogni pensiero asconde.
Meglio parla il silenzio
Degli occhi che una luce a noi riflettono
Degli infiniti flutti.

"—Amici entrambi del deserto, i cari
Verdi cerchiamo e l'ombre
Dei più segreti boschi;
Guardar nel fondo degli abissi e i cieli
Correr col guardo è giubilo
Comune—-essa mi dice s'io l'intendo.—

"Se de' belati tuoi, fratel, l'ascoso
Senso non colgo, la pietà del cuore
Sento nel pan che dài.
Una sola bontà forse ne spinge
Per i sassi del mondo
Verso un fonte che scioglie i tristi arcani.

"Rotta questa di carne e d'unghie e d'ossa
Compagine diversa,
Nel ben comune scioglierem le voglie
Or impedite, e cara
In altri mondi men ricchi di mali
Sarà di questo incontro la memoria.

"Però ti prego, o senza-corni, stendi
La mano alla mammella
E un po' del latte mio spremi a ristoro
Della riarsa sete:
Chè più del pane è dolce
Il beneficio che si rende altrui."

Obbediente all'amoroso invito
Porsi la mano e molle
Trassi alle labbra il tiepido tesoro.
Povera capra, addio!
Se Dio tien nota, ci vedremo all'ultimo
Di Giosafat in qualche ombra romita.

Perchè ride, marchesa?
Se tra gli umani irsuti arido è spesso
Il favellar e il vivere
Qual colpa n'ha la capra?
Qual colpa il servo suo quando all'altero
Riso non ride e l'anima non trova?

LA FANCIULLA BENEFICA

Quando tu scendi al poveretto albergo
in man recando del tuo cor la manna,
ogni misero a te guarda e sorride
come ad angelo suo.

La madre cui la voce acuta strazia
del bambinel, che invan le batte il seno,
ti saluta:—Da qual discesa a noi
scala celeste, o buona?

Cercano i fantolini, alto levando
le mani picciolette, onde dal tergo
ti si spicchino l'ale e donde al crine
tanto splendor ti venga,

inebriati al suon delle soavi
parole. Ed io, quando tu passi, anch'io
cerco, ma invan, dei molli piè la molle
orma nel fango impressa:

chè un alito ti porta tra le case
e per le vie correnti, un caldo affanno
ti accende ai mali altrui, sì che non pesa
a te la tua persona.

—Addio—ti gridan dalla soglia i ciechi
padri che ascoltan trasognati il sole
sulla morta pupilla.—Addio fanciulla,
bella siccome il sole!

In tua beltà tu scendi entro gli spiriti
chiusi nell'ombra, vision lucente,
scendi e vi lasci un pio calor di santo
raggio che d'alto piove.

Dal capezzal di gravi morbi afflitto
ti chiama e bianca a te volge la testa
la moribonda, quando vai pietosa
tra i molti letti in fila.

Sì, tu, come la mite entra di luna
luce per le finestre, ai molti mali
rechi un sorriso e ancor più dolce mesci
ai pianti umili il pianto.

Bontà, raggio di Dio, passa le pietre,
trapassa i cuori nel dolor sepolti,
di lei vivono i morti e in lei non muore
chi sen riveste e cinge.

Tu, perchè buona, fatta già sicura
tra noi mortali dubitosi e tardi
cammini innanzi e colla mano accesa
a noi rompi la via;

si che possiamo nella triste valle
credere a un raggio dell'eterna Luce
e sul tuo piede rintracciar la meta
delle lontane cose.

IL FIUME E LA VITA

Tu scorri e vai, tu fiume, alto sonando,
Tra i rochi sassi nel silenzio vai:
Donde partisti e quando
E dove e perchè vai forse che il sai?

Tu mi risvegli e ti sento passare
Pieno di pianti nel frigido letto:
Alzo la testa, e se attendo mi pare
Che meco pianga, o vecchio poveretto,
Perchè sei stanco di dover andare.

Mentre riposa ciascuna persona,
Tu sol non cessi dal lungo tuo guaio:
Fai nel passar una romba che suona
Come il girar d'un immenso arcolaio,
A cui la testa lenta si abbandona.

E lento mi abbandono sul guanciale,
Tornando ai sogni in cui tu piangi ancora.
Qual forza ne trascina entro il fatale
Corso del tempo e mai senza dimora
Uomini e fiumi in un destin uguale?

Tu scorri e vai, tu fiume, alto sonando
Tra i rochi sassi nel silenzio vai:
Che vai tu domandando?
Segui tua forza che non resta mai.

* * *

Nell'ombra d'un altissimo mistero
Nato dal pianto di fonte romita,
Sceso saltando per picciol sentiero
(Che per noi prende il nome della Vita)
Di balza in balza con rumor leggiero

Garrulo strepitasti, o fresco umore,
Di giovinezza tua cérulo e molle,
Ora questo baciando ora quel fiore
In un bel gioco tra le verdi zolle
(Che per noi prende il nome dell'Amore).

Dai caldi soli poi fatto vorace,
Più che d'acque lucente di tue spume,
Sprezzasti il verde dell'antica pace
Per penetrar gli abissi, avido fiume,
Portando guerra come ai forti piace.

Così si ruppe il giovanil tormento
Di questo cor contro le sorti cupe
Del viver, nè temette lo spavento
Che mugge ai piedi dell'aerea rupe,
Quando si sparse la gran forza al vento.

Tu scorri e vai, tu fiume, alto sonando,
Tra i rochi sassi nel silenzio vai:
Precipitar amando
È legge antica che non cangia mai.

* * *

Fatta più saggia l'anima si stende
In più docile corso. Ama la riva
Dei campi ove più densa erra e discende
L'ombra dei salci e la canzon giuliva:
E lieta dona quel che lieta prende.

L'estate in noi si specchia e corre l'onda
In mezzo ai fiori e in mezzo all'erbe piena:
L'opra dell'uomo placida seconda
Quando ai molini le sue forze mena,
O d'antica città bacia la sponda.

I neri ponti dagli archi fuggenti,
Gli ardui castelli e le ruvide mura
Senton l'istorie delle vecchie genti,
O sacro fiume, entro la notte oscura
Uscir dall'ombre de' tuoi fiotti lenti.

Le sente del poeta il mesto cuore,
Che ripieno di spiriti e leggende
Evoca i tempi e fa riscoccar l'ore
De' giorni morti, mentre il corso scende
Nella barca che porta il suo dolore.

Tu scorri e vai, tu fiume, alto sonando,
Tra i rochi sassi nel silenzio vai:
Proceder forte oprando
Questo ti salvi se di più non hai.

* * *

Alle città siccome fresca vena
Scendi di vita a rinnovar la forza,
L'acqua tua lava il fango che avvelena
Le dimore dei vivi e l'aria ammorza
De' giorni tristi e della calda arena.

Così sognai recar, fiume regale,
Ai pigri affanni l'onda de' miei canti
Come tu scendi in tuo furor fatale:
Così coi versi flagellar sonanti
Il fango che sugli uomini più sale.

Gran sogno, ohimè… Già l'onda, ohimè si lagna
D'esser poca allo sdegno… ohimè, già stanca
Nella maremma s'impaluda e stagna
L'acqua morta che pullula e che manca…
Già della morte il mare mi guadagna.

Tu scorri e vai, tu fiume, alto sonando,
Tra i rochi sassi nel silenzio vai:
Senza cercare il quando
Andiamo al fine che non manca mai.

AD UN GENEROSO SIGNORE

Mugge dall'ampio casolar la mandra,
Che bianco fiume a te versa di latte,
Donde poi tragge il tuo castaldo un aureo
Fiume al palagio: ma ti sforzi invano
Esser contento. Oh perchè mai si adira
Coscienza quasi vergognosa e freme
Il cor, quando tu vedi a un pigro nume
Fumar dell'opra altrui la valle e il piano?

Balzan veloci i tuoi cavalli al caldo
Schioccare delle ferze e corre il suono
De' tuoi cocchi tra i pallidi tuguri,
Ove il popol si annida, ultimo gregge.
Ma se dall'alto ai neri tetti il guardo
Volgi, che stanno come pietre al sole,
Ah delle cose il tuo pensier ravvisa
L'intimo error e la spietata legge.

Non versa a te l'oblìo della menzogna
Il vin che invecchia nelle oscure celle,
Dolce vendemmia degli antichi tralci,
Che ruppe ai padri il tedio doloroso:
Nè al gioco cerchi o alla superflua mensa
O al tripudio di Venere danzante,
Come de' pari tuoi l'agile sciame,
Contro all'acerba Idea sonno e riposo.

No, tu sei giusto. L'armonia del vero
Suona com'arpa dall'esatte corde
Nel tuo spirto magnanimo ed aperto
Al caldi venti dell'affetto. Il trono
Su cui ti diede di seder la sorte
Non per stolto dominio, e ben lo sai,
Fu a te largito o per sollazzo al volgo,
Ma sol per esser regalmente buono.

Tu sai come maturi entro il suo solco
L'opra dell'uomo, che non dorme al rezzo:
Sai come, esempio al pigro, anzi rampogna,
Il miel dall'arnia che più freme fili:
Rompe il sasso la stilla e schiude il ferro
Alla marmoree ninfe il passo e il volo:
Sai come scorra, spola entro il traliccio,
L'umana volontà dagli aurei fili.

Già di natura tra i più fitti arcani
Leggesti fanciulletto, allor che in traccia
Dei boschi andando e dei deserti monti,
T'era saggia maestra la formica.
Allor ti apparve l'inquieto affanno
Delle cose operanti ed il segreto
Della Vita, che a palmo invidia a palmo
Il campo al ferreo piè della Nemica.

Fu tuo dolor la stretta onde si duole
Nella viscida ragna il moscherino
E del morente grillo entro la tana
Miserasti tu placido la sorte:
Tu non del tuo, ma del dolore altrui
Doloroso ti muovi e guardi e temi
Non il tuo danno, ma l'ingiuria e il fato
Che all'umil giusto fa men giusto il forte.

Già con medica man indi mirasti
Degli anni in sul fiorir (quando più scorre
Amore ai sensi rugiadoso e molle)
A far incontro al Mal colpi leggiadri:
Sì che l'opra si spande, e come il sole
Spazza la nebbia in fondo alla palude,
È luce ove tu scendi, è vita, è pace,
È perdono, è sorriso almo di madri.

E a te letizia corre incontro e ride,
Se dal palagio tra gli scossi campi
Al lavor de' tuoi servi arrechi il dono
Della parola che le voglie esorta.
Oprar con loro anche t'è bello e senti,
Quando poi siedi co' tuoi figli a mensa,
Uscir dal pane un pio savor di fame
Ai denti ignoto della gente morta.

IL CANTONIERE

Col suon corrente la muta frangono
notte le ruote. Accusa il fischio
spaventevol la macchina che arriva,
che brace e fumo vomita.

Passan sui piani, ove la candida
neve dimora, le calde macchie
del sangue, che dall'orbite i fanali
biechi nell'ombra versano.

Passa ed il lento sonno e la tiepida
dolcezza rompe dei baci, o tenera
sposa, che voli al sospirato amplesso,
un bianco lume vivido,

che getta un rapido saluto e rapido
cade nel perso aere…. Morbida
reclini in seno al tuo diletto e sogni
nella rapita immagine,

una casetta sogni di candide
nevi coperta e un fuoco e un palpito
d'amor nella silente erma campagna
e senza fine un giubilo;

una casetta che april di glicini
circondi e irraggi il sol di fulgidi
eliotropi sull'orlo d'una verde
ombrosa solitudine!

Stan nelle valli coi bruni vertici
al ciel le chiese; lucenti si aprono
agli ozî dei palagi l'alte porte;
le ville ai poggi ridono:

Gridano i borghi vivi del fremito
dell'arte: Invidia agita ed Odio
le case sparse nel fecondo piano,
che al mio fuggir s'involano:

Tu, guardiano, pago alla povera
capanna, al segno fisso, propizio
genio custode dei destini erranti,
ai nostri sogni vigili:

ai nostri affanni vigili: e principi
rendi e tesori securi ai popoli,
tu la coscienza che giammai non dorme,
tu dell'amor un palpito.

Passan le genti innanzi e sfuggono
come ombre labili in acqua tremula:
nei carri alati van gemiti e canti,
vanno le cure e tornano;

pazze alla meta le voglie corrono,
corron sdraiate molli e trionfano
le viaggianti vanità più stolte;
tu sol, tu resti assiduo.

Al raggio fervido del sole, al perfido
urlar del vento, ai geli, al piovere
dell'irte nevi, a te pur sempre eguale,
la tua bandiera sventoli.

Non gloria il drappo ne l'aria sventola
(non è di sangue lordo e di lagrime)
non rauca stride la cornetta a segno
di morte…. Al ben degli uomini

sacra d'un uomo sta la miseria,
sacro il dovere che sorge rigido
contro la fame. Ignoto ai vivi e al tempo
di te che resta?—Un numero.

A UN VECCHIO CROCIFISSO

O buon Gesù, che invecchi sulla croce,
Scendi, ripiglia la tua veste bianca;
Vedi l'umanità, che a te la stanca
Mano distende e stanca alza la voce.

Il morto capo sgombra dall'incenso
In cui ti celi all'occhio dei meschini;
Dalle valli, dai monti e dai confini
Ultimi ascolta un singhiozzar immenso.

Scendi dal legno e le stecchite braccia
Sciogli, a stringere il mondo un'altra volta,
La tua greggia, o pastor, che va disciolta,
Teneramente al cor stringi ed allaccia.

Non vedi il nembo presso all'orizzonte
Già grave d'odio annuvolar la terra?
Dall'odio seminato urla la guerra
E volge sangue della vita il fonte.

Indarno il lento cantico di pace
Mandano i sacerdoti alla tua croce,
Chè rauca è fatta al chèrico la voce
E ignoto il libro tuo nel tempio giace.

Regna avarizia dei potenti in cuore
Famelica, e di lacrime si pasce:
Onde mal nasce e invidia già chi nasce
Il sonno a quel che affaticato muore.

Scendi; ritorna nella veste bianca
O del pietoso Amor biondo profeta!
Anche una volta l'aspre voglie accheta,
Sfamaci, o Padre, poi che il pan ci manca.

Sull'orme tue risorgeran gli ulivi
E stilleran dalle tue man gli unguenti
Dietro al profeta torneran le genti,
Recando in braccio i pargoli giulivi,

Vieni nel tuo splendor mite, siccome
Il dì che andasti placido sul mare;
Il popol vieni, Amico, a consolare,
Che mal si segna nel tuo santo nome.

PARTE II

LE VAGANTI IMMAGINI

CANTILENE DI NATALE

I.

Vorrei, se fossi il Re delle magìe,
Stender stanotte un bianco ampio mantello
Di neve sopra i tetti e per le vie
E in ogni casa alzare un focherello.

Al suon di pastorali melodie
Andrei pel mondo in groppa a un asinello
A scongiurar gli affanni e l'altre arpie,
Che stridono l'ingiuria al poverello.

Tornar farei gli arcangeli dei morti
A rendere alle madri lagrimanti
Con un sorriso i pargoli risorti;

E a quanti sono derelitti amanti,
A quanti sono generosi e forti
Farei nel core gli amorosi incanti.

II.

Allora, o verga magica, vorrei
Stender lunga una tavola imbandita
A fiori, a lumi, a lucidi trofei,
Colma d'ogni allegrezza più squisita.

E Siri e Turchi ed Arabi e Giudei,
Misti al popol di Cristo che ne invita,
E ciechi e vecchi logori vedrei
Inebriarsi a una seconda vita.

O festa lunga fino all'orizzonte!
Verrian dal mar le navi pellegrine,
Verrian dai campi i miseri e dal monte,

Verrian gli afflitti e l'anime meschine,
Ch'han la vergogna ed il delitto in fronte,
A chieder grazia, disciogliendo il crine.

III.

Al nuovo cenno si aprirebbe il coro
Del paradiso e giù dagli sgabelli
Vedrei scendere i santi in veste d'oro
Luminose le barbe ed i capelli.

In litania d'amor, nel concistoro
S'udrian cantar cogli esuli fratelli:
IN TERRA PAX, IN TERRA PAX… e a loro
Dal cimiter rispondere gli avelli.

E rose e perle e di mille colori
Le gioie spargerei sul mio cammino,
Adornando di lauro ogni stamberga.

Quando il gallo cantasse a mattutino,
Vedreste, o bimbi, un gran giardino a fiori,
E tramutato il mondo in Norimberga.

IV.

Stanotte a mezzanotte, quando spunta
La dicembrina luna,
Andiam, devoti amici, sulla punta
De' piedi a meditar presso una cuna.

Nel tenero sorriso
De' bimbi che riposano
È in terra un luccicar di paradiso.

A mezzanotte fra tintinni e canti
Per una liscia scalinata d'oro,
Scende nei sogni loro
Iddio con tutti i santi.

* * *

Se Dio tu cerchi invan nella morente
Speranza dei mortali,
E stanche in ciel va dibattendo l'ali
La superba ragion che il dubbio espia,
Oh credi almeno a questa poesia!
Fin che sorride un piccol innocente
Nei sogni della culla,
È Dio che dolcemente
Colla ragion dei padri si trastulla.

LA CHIESETTA

Sul sasso ignuda sta, carca le spalle
D'anni e di doglie la chiesetta antica;
Dal fondo guarda a lei tutta la valle,
Come tu pensi alla lontana amica.
Apresi a stento un praticel davanti
Tra gli orli dell'abisso e il vecchio muro,
Che le scosse sentì di non so quanti
Secoli e sta di sua bontà sicuro,
Una sola è la squilla, agli echi tutti
Nota del monte e povero è l'altare;
Un Cristo piange il suo dolor dai brutti
Occhi tra ceri stanchi d'aspettare.
Aspetta stanco anch'esso un cataletto
Che un qualche morto a scuoterlo si muova;
Per l'ampia soglia luminoso e schietto
Entra il sol, entra il vento, entra la piova,
Entra del fieno l'alito e dei fiori,
Entran le rondinelle, entrano i cuori.

CANZONETTE DI PRIMAVERA

I.

La bella primavera, o cittadini,
Di violette adorna,
Ecco tra noi ritorna.
April l'accoglierà ne' suoi giardini
E sotto i pergolati
Di fresco inghirlandati,

Uscite ad incontrarla, o quanti siete
Belle fanciulle e quanti
Desiderosi amanti:
E voi, che vecchi stanchi, non potete
Discendere le scale,
Correte al davanzale.

Ella sen vien di molli aure vestita
Nel rugiadosi umori
Il sen colmo di fiorì:
E dove passa colle rosee dita
Crolla le siepi e scioglie
Del mandorlo le foglie.

S'increspa il flutto e brilla
Bianco nel prato il torrentel; sul clivo
S'illumina ogni villa.
Andiamo ad incontrare,
O cittadini, in lungo stuol giulivo
Le rondini sul mare.

II.

Di raggi d'oro il sole
Rallegra le finestre:
E dalle stalle fuggono le fole,
Che le comari al novellar maestre
Allungan, quando fiocca,
Sul filo della rocca.

S'apre il mattin. D'argento,
Fanciulla, è l'alba e ride:
Tu la mantiglia sciorinando al vento,
Scoti la polve e le lusinghe infide,
Che in mezzo a false rose
Il carneval vi pose.

O mio dolore assorto,
O miei pensieri bruni,
Itene fuor, libratevi nell'orto
A far bisbiglio tra le siepi e i pruni:
E vi trasformi il sole
In rose ed in viole.

LASCIAMOLE VOLAR….

Alle allieve del Collegio Bianchi-Morand l'ultimo giorno di scuola.

Apriamo le finestre oggi a costoro,
Apriam la gabbia d'oro,
Lasciamole volar queste figliuole
All'aria, al verde, al sole.

Già troppo le vedemmo gli occhi inchini
Sui vecchi libri e sui gualciti lini
A tessere la vita
Rinchiusa e scolorita.

Mal tornan le viole
Entro il recinto oscuro,
Lenta si svolge abbarbicata al muro
L'edera senza sole.

Oggi le chiaman dall'erbose rive
Dai margini fioriti a larghi gridi
Dai numerosi lidi
Del mar, dalle cascate fuggitive

Le liberali voci di natura
A respirar la pura
Energia della vita tutta quanta
Che gioca, ride, canta.

Lasciamole volar. Le selve, i piani
Han bisogno di voci allegre e oneste
Ahimè! già troppo meste
Son le giornate dei lavori umani….

Queste alle selve, ai monti
Vadano, il crin fiorito
Degli altri uccelli al gorgheggiante invito
A farsi belle a specchio delle fonti

Nel sangue che scintilla
Più vivo balza il cor che lo riceve
Divina è la pupilla
Che più lembi di ciel dischiude e beve:

Quanto rapì nella stagione oscura
Il pigro e curvo inverno,
Col suo tesoro eterno
A cento a cento renderà natura.

Il sol che pinge i fiori
Il mar che mai non posa
Ritornerà sui languidi pallori
Il bel color di rosa.

A lor che un giorno soffriran la guerra
Dei torbidi elementi
Giovi produrre le radici in terra
Profonde e dar tutta la chioma ai venti.

A lor che un giorno forniranno i nidi
Nei verdi amplessi ai teneri usignuoli
Tornin benigni i soli
Tornin le brezze degli aperti lidi.

Lieto trionfo nostro
Sarà quel dì che sulle belle gote
Vedrem stampato in rubiconde note
Quel che scriviamo in troppo nero inchiostro.

Volate dunque ad imparar la grande
Storia che parla e vive
Nelle libere cose. Iddìo la spande
Nell'universo e in mezzo al cor la scrive.

Nell'ampia scuola ove il saper si stende
Del ciel, nel libro aperto di natura
Ragiona una scrittura
Che molte cose insegna a chi la intende;

Per gli stellati numeri si svolve
Una dottrina arcana
Che tutta passa della scienza umana
La radunata polve.

Questa dolce sapienza or dunque cada
A voi nel grembo e vi rinfreschi i cuori
Siccome la rugiada
Che rende sul mattin l'anima ai fiori

Volate dunque e sia festoso sciame
Di rondinelle ai grandi voli esperte;
Se del saper vi pungerà la fame
Qui troverete le finestre aperte.

I CONSIGLI DEL VECCHIO MARINAJO

Che la tua nave o figlio abbia buon legno,
Che ben si regga sui fasciati fianchi,
E scarsa all'uopo ove una cosa manchi:

Dico la forza natural del core,
Che guarda le tempeste, e soffre, oblia
La noia e il male dell'incerta via.

Vero padron dell'acqua e degli scogli
Solo è colui che nel voler ripone
Dell'arrivar la scienza e la ragione.

Questo più che il timon, più che le vele,
Più che la scienza delle astruse stelle
Ti caverà dal sen delle procelle.

Nè per rumor di ciel, nè per incanto
Che dalle rive a te mandi l'invito
Tu dalla rotta non piegar d'un dito,

Ma sempre va dentro la notte oscura
Col lume a prora della vecchia fede,
Ch'oltre la notte e le tempeste vede.

Stolto è infierir coll'onda o contro i sassi
O colle rauche spume. Avanti! aspetta
A far dal lido una miglior vendetta!

L'agili brezze, i molli increspamenti
E gli abbracci del mar, sono pei forti:
Restano i cataletti agli altri morti.

È il mare, il mare il campo di battaglia;
Morti ci culla e ci porta alla sponda
L'irrequieto palpito dell'onda.

Il pigro no, meschin, nè il sonnecchiante
Non l'incostante o il pazzo arrischi il mare,
Ai vili resta il bere o l'affogare.

Sempre arriva chi vuole, e sempre vuole
Chi sull'antenna innalza una speranza
E nel pensier di chi l'aspetta avanza.

IL MAESTRO CONTENTO

Purchè d'inverno il fuoco non mi manchi
E un botticel nell'angol del camino,
Mi creda, professor, rinuncio ai banchi
Dove lei spiega il greco ed il latino.

Che vuole? l'aria è pura alla campagna
E sdrucciola dai monti imbalsamata:
Il sole, grazia a Dio, non si sparagna
Nell'abbaino un tanto la fiammata:

Ma schiara i muri ed entra da padrone
Ad asciugar i travicci tarlati,
Scaldando l'ali d'oro a una legione
Di farfalle, che brillano sui prati.

Esco al mattin, ove qua e là si perde
Un sentierol che mena alla ventura
Fra due file di salici e nel verde
Delle foglie che fremon la frescura.

Vado lungo il sentier, la mente e il cuore
Che svolazzano via secondo l'estro,
Finchè dal campanil, sonando, l'ore
A scuola non invitino il maestro.

Ritorno e avvien talvolta che da un denso
Cespuglio io tragga i renitenti fuori.
Ma del cespuglio, quando ben ci penso,
Siam noi le spine ed essi sono i fiori.

Son cento insieme, ma trecento, mille
Se parlano e fra tanto ondeggiamento
Di teste bionde spiccan le pupille,
Come lucciole in campo di frumento.

E quando al cicalìo segue la pia
Cantilena al gran Padre dei bambini,
È inutil, professor, ch'ella mi stia
A citarmi i suoi Greci e i suoi Latini;

Allora provo—e piango—un senso nuovo
Come se navigassi in un gran mare….
Un non so che, mi scusi, che non trovo
Nei libri che m'han fatto studiare.

Fra quei piccini dalle mani ladre,
Dai musi tinti e che non taccion mai,
Vi son di quei che chiamano la madre
Ita lontana, assai lontana, assai….

Vi son cervelli modellati a stampo
Dei crani d'una volta e ingegni vivi
In cui divin guizza talora un lampo….
È il pan che manca che li fa cattivi.

Io penso (se tra i banchi una lacuna
Ricorda un saggio che morì giocando)
Che mal si resta a specular la bruna
Ora di morte e a ritardarne il quando.

Bello il morir, quando s'ignora il mondo,
Piegando come un uccellin la testa.
E il funeral, spettacolo giocondo,
Si fa con fiori e le campane a festa.

Qui nel mio seggio in legno di castagno
Io sono quel che son, nè i birbi sanno
Che sol trecento e trentatre guadagno
Lirette magre quanto lungo è l'anno.

Non sanno i punti che nel vecchio tema
Dello sdruscito ferraiol ricamo:
E note son che valgono il poema,
Come fa lei coi classici, mettiamo.

A sera il luogo è bello entro un tranquillo
Vïal divago al cimiter pian piano;
Brillan le stelle, si riscuote il grillo
E dei fanciulli il chiasso da lontano.

Sì, quando un giorno essi diranno (il volto
Fisso al cancello l'uno all'altro in spalla)
—L'han sepolto laggiù, l'hanno sepolto….—
Io dal cespuglio balzerò farfalla.

LA VILLETTA CHIUSA

Chiusa e muta ogni finestra
Sta il casino abbandonato
Nel giardin giallo di foglie:
Il novembre sulle soglie
E sul verde assiderato
Pioggia e neve insiem balestra.

La vagante e già si spessa
Di profumi ampia liana
Cade affranta lungo il muro:
Nel bacin di marmo puro
Più non mesce la fontana
L'onda a specchio di sè stessa.

Freddo versa l'occidente
Un chiaror quasi lunare
Sul balcone delle rose:
Stanno immemori le cose
Tra i lenzuoli ad aspettare
Nell'interno oscuro, algente.

Tornerà l'aprile in fiore,
Sarà lieta ancor la gronda
De' tuoi gridi, o rondinella:
Al balcone ancor più bella
Tornerai, signora bionda,
Al fiorir d'un nuovo amore.

Ma in un cuore già fiorito,
Se il crudel dubbio si avanza,
E la fe' muore di gelo,
Più non torna amico il cielo,
Più non si apre alla speranza
Un'amore intirizzito.

DOPO LA PIOGGIA

Fra i corni della Grigna apresi e pare
Una scena di mare umido il ciel:
E l'aria vaporosa
Come sul corpo di novella sposa
Cinge alla vetta rugiadosa un vel.

Scendon le nubi che trasporta il vento,
Lasciando un lento strascico regal
Che s'imporpora al sole:
Si screzia nel color delle viole
Il trasparente lembo boreal.

Dentro le valli a corsa si allontana
E si rintana il carro aspro dei tuon.
Qui salta ilare il fonte
Che fa la barba bianca al vecchio monte,
Empiendo il sasso d'un pazzo frastuon.

O ristorati dall'iniquo caldo,
O di smeraldo prati, o vigne, o bel
Poggio di folti ulivi,
Alfin vi vedo morbidi e giulivi
Della frescura che a voi diede il ciel.

Io no, che sempre sitibondo e roco,
Dall'alto invoco un refrigerio al cor;
Ma per mutar di vento,
Raccolto appena il desiderio, sento
Che torna in polve il desiderio ancor.

IL FUNERALE DEL POVERO

Il morto passa in mezzo al rumor grande
Della città, che brulica e non sente
La voce che dal feretro si spande…
Ad altre cose ha da pensar la gente.

La gente?—butta la spregiata creta
Nell'angolo dei cocci e passa via.
Oh ch'io ti segua, io sol, zoppo poeta,
Col mio rosario e colla fede mia:

"Ave, corpo mortal, in cui piangea
Tra duri ceppi l'anima divina,
O rozzo vaso d'un'eterna Idea,
O diroccato altar, ave, o rovina!

"Ave, spirto immortale, che s'inciela
A terger l'ali in più sereni amori.
O sfuggita da sozza ragnatela
Farfalla nata per gli eterni fiori.

"Tu scendesti una notte al lume bianco
Degli astri in mezzo ai campi, ove ti accolse
La madre poverina entro il suo fianco;
Poi de' suoi baci tiepidi ti avvolse….

"Era di sangue e latte il picciol viso,
La bocca era una frugola vermiglia:
Il cor nel dolce mar degli occhi fiso,
Tutta stringendo in te la sua famiglia,

"Contemplò la tua mamma una gioconda
Serenità che valica i confini
Della mente e che i sensi umani innonda:
Amor ti sprimacciò gli stracci lini.

"Di tua magrezza vergognoso al sole
Quindi posando sul materno petto,
Nel bel canto imparasti le parole
Che schiudono le porte all'intelletto.

"Poi corresti, fanciul, scalzo nel giallo
Frumento a fare l'eco alla cicala,
E a te dalla cascina ilare il gallo
Rispondea starnazzando sulla scala.

"Natura, al poverin sempre gentile,
T'empiè di bacche le siepi e di more,
Nè ti rifiutò del lieto aprile
Un bel raggio e d'un prato il più bel fiore.

"Te respinto dagli usci alfin raccoglie
Nelle sue braccia e t'offre un cataletto
Entro un lettuccio squallido di foglie
Pur dianzi cadute a farti il letto.

"E ancora, o Madre pia, culli i tuoi morti
A un modo istesso e il nome non ne chiedi;
Di pratoline e di virgulti smorti
A tutti una ghirlanda alfin concedi.

"Ave, corpo mortal, in cui piangea
Tra duri ceppi l'Anima divina,
O rozzo vaso d'un'eterna Idea,
O diroccato altar, ave, o rovina!

IL FABBRO

Tra i muti casolari odi frequente
il suono che rimbalza sull'incude:
è Bellincion, che colle braccia nude
batte il ferro rovente.

Ei sta fosco Vulcan da mane a sera
al mantice, al martel, alla tenaglia:
batte, inchioda, arroventa, il ferro scaglia
rosso nell'acqua nera.

Copron serrami e toppe aspre e ferraglie
l'affumicata volta della muda:
ansa la vampa sulla carne ignuda
le sue stridente scaglie.

Grida al compagno e cade in una dura
danza la solfa delle salde braccia:
tuona il martel, che rompere minaccia
le costole a natura.

Se il vino canta e scalda il sentimento,
piomban sì giusti i colpi del martello,
che la torre merlata del castello
balla sul fondamento.

Quindi egli siede ai caldi occhi del sole
sull'uscio e in così grasse risa il pane
accompagna che fuggono lontane
le donne alle sue fole.

Oppur si piglia in braccio o sui ginocchi
un suo vezzoso bambinel di latte:
e le morbide incudini gli batte,
soffiandogli negli occhi.

Dell'uom barbuto e nero il picciol fiore
mitiga i sensi e le parole audaci:
scendon spesse carezze e scendon baci
che fan rovente il cuore.

I VECCHIETTI

—Quanti anni son passati, Anselmo? venti
trent'anni che si viene insiem noi due
a goder questo fresco?
—Se ti senti
ancor padrone delle gambe tue,
o che importano i venti ed i trent'anni?
ognun si aggiusta colle forze sue.
—Sta ben! ma Giovannin non è Giovanni;
e settant'anni sulla gobba un peso
sono, che pesa settecento affanni.
—Settanta è un bel fardello, ben inteso…
—Or ti zoppica il pie'….
—Ti manca il fiato:
—L'occhio ti trema dalla luce offeso:
—Lo ragazze non sanno che sei nato:
—D'accordo…. le ragazze. Oh che vorresti
che inseguissero quello ch'è scappato?
—Di dosso, gua', ti cascano le vesti:
—E gli scalini? un sito non c'è dove
non sian tropp'alti, orribili, molesti.
—Se fai di camminar tre o quattro prove,
sudi in gennaio e ghiacci sotto il sole;
è brutto quando è bello e quando piove.
—Per me il difficil sta nelle parole:
penso a curato e dico cardinale,
e la gente non sa quel ch'uno vuole.
—E le gazzette?
—Se le stampan male!
—E quel che stampan?
—È l'ira di Dio
d'ogni ordine politico e morale.
—Non è che un litigar sul tuo sul mio,
di cani e gatti un odio vergognoso.
—E le leggi?
—Le leggi un arruffìo.
—Davanti a questo vivere odioso,
se l'impiccarsi un'eresia non fosse,
cosa indegna d'un uomo religioso,
guarda m'impicc…. uh! uh!
—Gianni, che tosse!
e che ci fai?
—È un mese che la curo.
—Provasti le pastiglie Delafosse?
—Fanno bene?
—È il rimedio più sicuro.
—Dove si piglian?
—Sai, quello speziale
che sta vicino a San Giovan sul Muro…
—Corro. Non vo' che invecchi, io, questo male.

LE DUE POESIE

—Buon dì, signor Maestro. —Bravo, sei tu, Marcello? e a quando queste nozze? —A quando? Iddìo lo sa. Son disperato e temo già d'esser fritto e bello spacciato. —O che mi dici? —Che l'è un'iniquità. S'è messa sui puntigli, mi fa le brutte scene: dice che non mi vuole e non vuol dir perchè. —Un caso grave insomma. Però tu le vuoi bene. —Lo cerchi come il mio un altro ben, se c'è. —Ci vai? —La non mi guarda. —Scrivi una bella lettera, in cui le tue ragioni esponi come va. Le dici che tu l'ami, che sol disposto.. eccetera.. a far ogni promessa. —Sta bene, ma c'è un ma. Lei sa come si scrive noi dotti poverini: il nome o bene o male, un te lo mette giù; ma il core ti s'impiglia in mezzo a quegli uncini per poco che tu voglia estenderti di più. Se lei me la scrivesse la lettera? —Ti pare? e che le devo dire? —Ma scriverla per me. —S'intende, la tua Lisa non te la vo' rubare. —Le dica che fa male, che una ragion non c'è, Le dica che non dormo da dieci notti intere, che così non la posso durare un pezzo ancor; che se proprio si ostina e non mi vuol vedere io…. io…. per quanto è vero che credo nel Signor, io che ho già la febbre e l'anima avvilita uno di questi giorni una pazzia farò: o che mi ammazzo… —Aspetta che trovo una matita; —o ammazzo lei, capisce? —Lisa? ammazzarla? oibò! —Se buono sono e tenero, non c'è ragion, perdio, che come un can soffrire mi facciano così: e se c'è qualche terzo che tocca ciò ch'è mio, scriva pure che come mi vede adesso qui, non ho paura. Venga colle ragioni sue, foss'anche il brigadiere, in un campo quaggiù, Scriva che, se li trovo, li ammazzo tutti e due, come due can' li ammazzo. —È amor questo, Gesù? O falso è Metastasio od io son rimbambito senza capir un'acca di quel che sia l'amor. —Ora però ha capito. —Capito, arcicapito. —Li ammazzo tutt'e due. — Accetta, o bella, un fior! —Se non mi farà piangere, morir di crepacuore, se ancora la mi stende con cortesia la man, non più vino e bestemmie, ma sol casa ed amore sarò per lei, paziente, onesto cristian: dica che tutti gli angeli non valgono un capello della mia Lisa e un bacio di lei vale per me il sol, il paradiso…. —… la luna… Tu bel bello mi fai scrivere un libro. —Ma lei saprà cos'è questo tormento e a lei non manca la grammatica, E Dio la benedica, Maestro; tornerò. —Addio: ma in queste cose che conta è più la pratica, la pratica, la pratica, ahimè, che più non ho.

O divo Metastasio, ed io son rimbambito, credendo che una cosa fosse così così tra il chiaro della luna e il giùggiolo candito, Amore… C'ingannammo: e t'ingannai, Mimì. Perdona alla grammatica, perdona anche ai poeti, mia vecchia, e facciam voti che si rinasca ancor. Ma se si torna a nascere, restiamo analfabeti, perchè l'altra non guasti la poesia del cuor.

LA SARTINA

—Aiuto, aiuto, olà… di quà… correte,
S'è buttata nell'acqua una ragazza.
—O poverina! com'ha fatto? è pazza?
—Sarà la storia solita, sapete.

—La portan fuori.
—Bravo il bersagliere!
—È morta?
—Vuol spirare ogni momento.
Indietro…. per di quà… fate piacere,
Oh signor benedetto, che spavento!

—L'avete vista?
—O Vergine dolorata,
Ha un viso bianco come un pannolino.
Fa la sartina ed era innamorata
D'un zerbinotto.
—È morta?
—Il signorino,

Quando fu stufo ha dato un bel saluto
(È la solita storia!) alla biondina.
—Per divertirsi è buona la sartina,
Ma si sposa il vestito di velluto.

—Gliel'ha scritto.
—E la Clelia?
—Nulla ha detto.
Pareva anzi, a vederla, indifferente:
Se il traditor le aveva il pugnaletto
Ficcato in core, che ci fa la gente?

—Stette tranquilla tutto il giorno. A scuola
Andò siccome il solito: non dette
Alcun segno di smanie o di vendette,
E a casa non ne disse una parola.

—Cenò colla sua mamma; e quando questa
Fu andata a letto, scese sullo spalto
Ch'era già buio e raccolta la vesta,
Si buttò dentro l'acqua con un salto.

ANGELINA

PER NOZZE

Madonna, a cui degli Angeli è il bel nome e l'innocente riso, s'io possedessi il delicato stile, onde vanno lodate ancor le chiome di Laura e lo saranno eternamente, farìa di voi, Madonna innamorata, innamorar la gente.

Un lieto spiritel d'amor gentile saltò nel core a Quei che in voi si specchia come in sua dolce stella; mentre che passa il giovinetto aprile, ite al trionfo dell'amor, voi bella ed egli forte di virtute onesta; ite e vi accolga nel suo caldo raggio padre fecondo il Maggio.

Se ciò Ragione con Amor comanda, altro non resta a noi che il coglier fiori e fare una ghirlanda.

MARIA

PER NOZZE

……………………………………
O ridente Maria, picciolo albergo
come alveare ove l'industria e l'arte
alzan piccioli lari, ove si accosta
il desiderio a mendicar sommesso
e frettoloso vi fiammeggia il sole,
queste le nostre case. Alla finestra
ove per uso sederai traendo
il filo entro la chiara onda del giorno
l'ore vedrai discendere graziose
come foglie da scossi alberi al vento
sulla tua testa e sul tuo cuor, Maria,
e te beata!—il cielo innanzi aperto
una picciola selva ivi raccolta
sul davanzal e giù nel sottoposto
giardin il verde tremulo che sale
dolce al guardo teatro e alla speranza:
Il saltellar, il cicalar perduto
dei passeri sul tetto allor che accade
pien di pace il meriggio; e il suon d'un passo
che ritorna improvviso a te le care
queste saranno ripetute gioie
che, traboccando, non sa dar la spuma
del profano piacer.

Altre dell'ara domestica languir lascian la fiamma vestali dissipate: ad altre il gioco piace e la mesta vanità di un'ora agitata ove più ferve il periglio men di pugnar che d'esser vinte altere: Tu, sacrata dal pio raggio materno, uscita or or dalle materne dita, farai tua festa il governar, succinta Penelope al mattin, in pria che l'ora entri a rider d'entrambi: e poi col canto non meno sgombrerai dagli occhi altrui che dagli angoli intorno la tristezza: finchè non torni ripercosso in molte labbra il tuo riso tenero nascente a far la casa risonar del padre, come al sol che li scalda alzano i nidi un mormorio che tutto agita il bosco.

L'ACQUA E IL SASSO

Dice l'Acqua al Sasso:—Io garrula
Rompo al monte gli aspri fianchi,
Fresca scendo ai campi, agli aridi
Cespuglietti, ai fiori stanchi:
Di mia voce apro il silenzio
Delle valli e rido al cielo:
Sempre lieta ad un'incognita
Meta io scivolo ed anelo.
Quando mai tu muovi un passo?
Nel mio corso io sono il simbolo
Del progresso che si avanza….

—Ed io sono la Costanza!—
In suo cor brontola il Sasso.

IL SORRISO

( Duetto per Mandolino e Chitarra )

IL MANDOLINO - Ridi, sorridi, Carolina: il riso
Al cuore è un elisir soave….
LA CHITARRA - e buon.

IL MANDOLINO - Più dei colori di un lieto viso,
Più che la pallida malinconia,
Che l'occhio ottenebra talvolta a sera
Della pensosa padrona mia,
Più che la bionda treccia o la nera.
O Carolina, amo il sorriso,
Ridi, sorridi, mentre è primavera
LA CHITARRA - Chi tardi ride ride fuor di ton.

IL MANDOLINO - Se come morbide piume le nude
Mani trascorrono alla carezza
E fanno spesso pallido il viso,
Come sul mare vivida brezza,
Che i flutti increspa, erra il Sorriso
E il mar dell'anima agita, schiude.
Ridi, sorridi e lascia che l'ebbrezza
Dello spirito scorra..
LA CHITARRA - in lieto suon.

IL MANDOLINO - Altri di Venere vanti le rose
E il pie' che candido il marmo imita,
O vanti i glauchi occhi di mare.
Sol nel sorriso scorre la vita
E rider senti tutte e parlare
Quante già furono donne amorose.
Ridi, sorridi e lasciati adorare.
LA CHITARRA - Chi non ride è una mummia od un birbon

PREDICHETTA

—Sì, vivremo al di là, belle signore,
Del ciel a tutti aperta è la gran strada,
Ma non si deve credere
Che bastino i rosari o che si vada
In carrozza alla casa del Signore.

E non basta tienimeli, ve l'assicuro,
Il far di magro e d'olio, o al Santo Padre
Mandar ricami e ninnoli
O a rischio di parere più leggiadre
Vestirsi la quaresima di scuro.

Perchè possa al di là viver ciascuno
È della fede mia primo argomento
Che è d'uopo saper vivere
Molto bene al di quà, fare per cento
Il bene e non vantarsene per uno.

Chi sè confronta spesso al poverello
E sol per sè non si condisce il pane
Costui potrà risorgere
Nell'alba luminosa del domane,
Che preludia ad un vivere più bello.

Chi si contenta perchè mai di pianto
Fe' spargere una stilla e tutto ha sciolto
Verso il fratello il debito
In fredda pace dormirà sepolto,
Ma l'alba non vedrà del Giorno santo.

Sol chi dai cuori toglier sa le spine
E ristorar gli inariditi steli
O sa pietoso scorrere
Sull'umano fallir…. quei rompe i cieli
E schiude il tempo che non ha più fine.

Voi non vivrete bigottine avare,
Che offrendo al Sacrè Coeur l'essenza e il fiore
Dei vostri oziosi spiriti,
Or cercate all'altar, ora all'amore
Un passatempo che non sia volgare.

Chi troppo il corpo suo carezza e loda
Non andrà tra gli spiriti immortali
Che a Dio fan corte e gloria;
All'alto volo si domandan ali
Che Parigi non mise ancor di moda.

FESTE E GLORIE

BRINDISI DEI TIPOGRAFI

FERRAGOSTO

Stampiam nel vivido
Color del vino
L'allegro brindisi;
L'ore s'affoghino
Del reo destino
In fondo al calice.

Coro Stampiam col vino.

Un giorno i monaci
Sopra i salteri
Alluminavano
I larghi margini
Curvi e severi
Coi volti pallidi.

Coro Sopra i salteri.

Taceano i gotici
Archi, o soltanto
Le malinconiche
Ore del vespero
Rompeva il canto
Tetro di Davide.

Coro Sia lieto il canto.

Ecco di Guttemberg
L'arte risplende!
Come dal Sinai
In nuove tavole
Ecco discende
La legge ai popoli.

Coro Onore a Guttemberg.

Scosse dal magico
Spirto inquïeto
Dal chiostro fuggono
Sciolte le lettere
Dell'alfabeto
In nozze libere.

Coro Dal chiostro fuggono

Si sbigottiro
Alla malìa
I vecchi secoli:
E si difesero
Con una pia
Giaculatoria.

Coro Si sbigottirono

Noi di fuligine
Suffusi e forti,
Urtiam le macchine,
Che acute strillano
Destando i morti
Dentro la polvere.

Coro Sorgono i morti.

Ai colpi cedono
Della tempesta
I monti. Ai ruderi
Cedono i ruderi:
Il libro resta
Tempio granitico.

Coro Il libro resta.

Cedono al vecchio,
Che gli anni fila,
Sfingi e Piramidi,
Ed è l' Iliade
De' suoi tremila
Anni ancor giovane.

Coro Cantiam l' Iliade

Stampiam nel vivido
Sangue latino
La bella Italia
Cinta di lauro.
Stampiam col vino
Viva l'Italia.

Coro Viva l'Italia!

Stampiam sugli angoli
Del Bel Paese
Dei nostri martiri
Che trapassarono,
Le sante imprese,
Le glorie, il numero.

Coro Onore ai martiri!

Al lieto applauso
L'ombre usciranno
Del vecchio Panfilo,
Degli Aldi a bevere
Il vin dell'anno
Nuovo in un brindisi.

Coro Sia gloria a Panfilo

Dei nostri pargoli
Nel bel candore
Stampiam la vergine
Fede coi teneri
Baci.—L'amore
Stampiam nell'anima.

Coro Stampiam l'amore.

A VICTOR HUGO

SALMO

Anno 1885

Tu muori, o te felice, ultimo vate,
A cui sorrise eterna giovinetta
La gloria, a cui sorride oggi la morte.

Bello è il morir ove chi passa incontri
Già festeggianti sull'aperta via
Le create speranze pellegrine.

Ahi tristo se allo spegnersi del sole
Non si ralluma una segreta lampa
Nella cella del cor! Piomba la creta

Negli abissi dell'umida spelonca
Ove regna la morte e si dissolve
Anche l'amore al crepitar dell'ossa.

A Te i campi si schiudon della luce,
A Te l'azzurro padiglion del cielo,
E il fluttuante mar dell'infinito.

Dalla soglia del mondo anche dipartono
Teco i fantasmi del tuo santo core:
E come nebbia in un baglior di sole

Volano teco ove in lor patria stanno
I sogni e stanno l'anime fanciulle
Delle belle fanciulle e degli eroi.

Ecco vengon dai gotici segreti
Di_ Nostra Donna_ le vaganti istorie,
Teco vengon le mitiche leggende

Cozzanti nel rumor aspro dell'armi
E i regi e le fortune alte di Francia
E il pianto e il core dell'afflitto Reno.

A Te vengono incontro in un sereno
Nembo di fiori e di farfalle i bimbi
Come a padre gentil—Salve—gridando,

—Candido vecchio, o coronato araldo
Della pace, o signor del dolce canto,
Che porti in ciel la voce della terra.

—Noi siamo i sogni, le speranze, gli astri,
Che tu chiamavi coi notturni inviti,
O poeta, noi siamo gl'Ideali.

—Noi, se ci prega un pio col mesto canto,
Scendiam nei solchi arsi dal sol e siamo
Ai solchi la rugiada mattutina.

—Noi scendiamo alla culla ove sospira
L'orfanello ed entriam larve ridenti
Nella rete dei suoi teneri sonni.

—Obbedienti al delicato incanto
Delle tue dita scorrerem di fiori
A seminar la terra, e di sorrisi,

—Finchè ritornerà sopra i gradini
Del tempo l'armonia della tua cetra
Finchè un sospir mandi dal cor Natura—

O vivi, o gente altera ed infeconda,
Più amor non freme nell'umana selva?
Ahi, la voce di Lui spinta dal vento

Come una voce d'organo si perde
Nei silenzi del ciel!—Col suo poeta
Muore un raggio di Dio sopra la terra.

ALL'ITALIA

Madre ritorna, Italia,
Madre de' figli tuoi,
Lascia l'amor de' fatui
Ed adiposi eroi,
Che di lor ciancie assordano
I monti, i lidi, i piani:
Dai baci onde son viscide
Asciugati le mani.

Non più rugosa suocera
Di trapassati tempi
Vantar ti senta i palpiti
E gli ammuffiti esempi;
Ma d'una gente libera
Che i campi suoi lavora,
In guarnellin più semplice,
Ringiovanita nuora,

Ti vegga al sole, all'aria
Nude le spalle e bruna
Tra messi d'oro e pampini
Coglier la tua fortuna.
Così forse pel Tevere
Di sangue ancor non rea
Venne l'antica Ausonia
Ad incontrar Enea.

Il vecchio elmo di Scipio,
Che ti stracciò la chioma,
Lascia alla morta polvere
Dell'infeconda Roma.
Sorgi, fanciulla, al tenero
Sospir d'un nuovo amore
Di nuove nozze a tessere
La veste tricolore.

Stesa la mano al vomero,
Cinta di fiori e spiche,
L'opere tue vendemmia
Sulle memorie antiche:
Forte dall'urne esauste
Di mutola rovina
Il risonante spirito
Aliti la fucina.

Se della lenta gondola
Già il dondolar ti piacque,
Dal lido a lidi incogniti
Ti chiama il ciel dell'acque
Novellamente a stendere
Le forti reti d'oro,
Che ad asciugar Venezia
Appese al Bucintoro.

Più che del flauto il morbido
Suon della luna ai rai,
Ti sia dolce la musica
De' striduli telai,
Sì che procace e cariche
D'oro le mani, il rude
Vicin non torni a ridere
Di tue bellezze ignude;

Nè de' tuoi cenci, o misera,
Schifi il tesoro immondo,
Che il freddo aspro sparpaglia
Per l'ampie vie del mondo:
Nè più muoia di lagrime
Sommersa la parola,
Che lieta nasce a Portici
Canzone o barcarola.

Ch'io vegga, ove la querula
Rana la morte insulta,
Uscir dai rovi indomiti
Della maremma inculta
Al tocco della giovane
Tua man gli aranci in fiore…
Oh chi mi vieta un agile
Sogno, un sospir d'amore?

Voi no, nell'armi attoniti
Irruginiti eroi,
Voi no, rochi di fatue
Ciancie… Chi parla a voi?
Ai baldi, ai forti, ai vergini
Cuori distende il canto
Oggi il poeta e mormora
Un requie al camposanto.

ODE A VERDI

Febbraio 1887 .

Se ricordi, il luogo è questo
Dove un giorno al suon di spade
Saltellanti per le strade,
E fra pali insanguinati,
Dei Crociati
Intonasti il pio lamento,
Che le cento
Dell'Italia torri scosse,
Ed i morti sobbalzare
Fece all'orlo delle fosse.

Era pien di gridi il vento,
Pieno il mare:
E venìa per le lontane
Terre il suon delle campane
Calde ancor della battaglia.
O momento!
Il cader delle tue note
Era maglio che percote,
Era incendio entro la paglia.

Morta è l'aria. Più non viene
De' tuoi numeri prigione
Mista al suon delle catene
D'Israello la canzone.
Tace il monte e tace Scilla
Che balzò, divino Araldo,
Del tuo Vespero alla squilla.
Chiuso è il cielo. Sui gradini
Dell'altar spenta è la face
Dell'Idea
Che agli italici destini
Nel crepuscolo splendea.
Nella cenere dei morti
Vedi i gelidi risorti
Ricercar, se sopravanza,
Una brace
Per accender la speranza.

"Dare, avere—avere e dare"
Ecco l'inno che borbotta
Or la gente al santo Affare
Curva e ghiotta
Sul messale a conteggiare;
A noi figli di mercanti
Bella musica è il tintinno
Del marengo quando rotola
Nella ciotola.

"Dare, avere—avere e dare"
Questo è il santo intercalare,
Questo è l'inno,
Che prostrato gracchia il coro
Fra gl'incensi al vitel d'oro.

Già nel tempio, ove solea
Sparger fiori ed ire sante
La bell'arte, una platea
Fescennina adora inchina
L'Elefante.
Cerco invan pudor di gota
Ove ignuda salta e strilla
una gallica sibilla
A sè stessa sola ignota.

Se dal ciel ove dimori
Nella luce benedetta
Della gloria, in mezzo ai cuori
Non ci scagli una saetta,
O Signor degli alti canti,
Una gente di mercanti,
Che non canta e che non prega,
Farà tempio la bottega.

Ma tu puoi, tu che raccogli,
Eco eterna di natura
Nella mano
Il fragor dell'uragano;
Tu che togli
Alle selve, al mar, all'etra
L'armonia che scande i cieli;
E tra i fili della cetra
Tu che Dio soffermi e sveli;
Tu che cinto d'alti canti
Quest'erranti
Muse ancor ritorni a noi;
Sì, tu puoi,
Stretta in man l'antica tromba,
Trarne un suon aspro di rame,
Che ci tolga dallo strame,
Che ci svelga dalla tomba.

La coscienza antica e sorda
Più non ha che questa lenta
Delle sette ultima corda:
Se a temprar l'affetto e il canto
Una mano non si attenta,
Onde scorra agile e pia
Della vita l'armonia,
Sul liuto, ahimè! del core
Il dolor va senza pianto,
Senza voce erra l'amore.

ALLA TOMBA DI RE VITTORIO EMANUELE II

CAVALCATA

Anno 1885

Vidi apparir sulla strada romana
Che le rovine del Foro discende,
Su scalpitanti cavalli una strana
Torma di spirti, il fior delle leggende.

Uscian dall'urne ove giacciono i morti
Quale ciascuno il tempo seppellì:
Chiusi nell'armi venivano e forti
Entro i sereni splendori del dì.

Quanti mietè paladini la spada,
Quanti del Cedron riempion la valle,
Quanti ne vide la bella contrada
D'Adige e Po, Normandia, Roncisvalle.

Quanti portaron la lancia in torneo
Dell'armi degni e degli sproni d'or,
Passano tutti in trionfal corteo
Sotto l'arco di Tito Imperator.

Viene con lor Carlo Magno di bruno
Ferro coperto, imperator sovrano,
E secolui catafratto ciascuno
Che strinse la quirina aquila in mano.

Cesare vidi e Traiano che tante
Armi distese e nel marmo effigiò,
E molle nella porpora fiammante
Quei che all'Imperio le leggi dettò.

Viene con lor su tedeschi cavalli
Ezio terror dell'Unnica rapina,
E Stilicon che sugli ultimi valli
Vide spirare la virtù latina.

E dietro ancor la selvaggia coorte
Seguo sonando dei barbari re,
Con Berengario primo a cui la sorte
La corona di ferro indarno diè.

Ecco sen vien Arduino d'Ivrea
Dentro il cappuccio del suo mesto sajo,
Ma le vive speranze ond'egli ardea
Mandan dagli occhi bagliori d'acciajo.

Passano cento, ne seguono cento,
Dai campi sorgono e dalle città:
Passati gli elmetti d'or del cinquecento,
Sforza, Ferruccio, Gaston di Foà.

Le variopinte tue divise ancora
Vidi e le piume e i kolbacchi di pelo,
Che scongiurar una terribil ora,
Eugenio, quando respinta dal cielo

Roma tremò che non vedesse il corno
Della fatal mezzaluna e gridò.
Ma da Belgrado non fe' più ritorno
Chi la tua spada, o Savoia, provò.

Ride di luce il ciel sopra la strada
Che le rovine del Foro discende,
Ecco un rullo che par fulgor che cada,
È la Gran Guardia che mai non si arrende.

Viene ancor esso e non agita il ciglio
Placido il Grande Imperator crudel:
E il bel delle battaglie Angel vermiglio
Incalza i Mille e ne fiammeggia il ciel.

Tanta immortale semenza di prodi,
Che nel sol mattutin s'agita, parmi
Un trionfo di Numi.—Lontan odi
Al Panteon salir l'onda dell'armi.

E mille voci di sotterra uscite
Alzano il grido: "Salute, o gran Re!
Noi di tre storie larve impallidite
Come a signore ci prostriamo a te.

Salve, o gran Re, nella tomba securo,
O dell'Italia paladino amante.
Al suo dolor le tue lagrime furo
Non men dell'opre gloriose e sante.

Per te fu vista una virtù risorta
Distender l'ali cinta dell'allor,
E d'una gente che pareva morta
Sangue stillar l'inaridito cor.

Pria che l'amor del tuo popolo e prima
Che cessi il verde onor della tua gloria
Nel mar sommersa andrà l'ultima cima
Dell'Appennin, o mentirà la Storia".

Mentre del canto ancor l'aer risona,
Galoppa il bell'esercito pel ciel.
Ma Carlo Magno lascia la corona
E la spada Bajardo sull'avel.

I FRATELLI CAIROLI

Per l'inaugurazione del monumento Cairoli in Pavia

Maggio 1900

Balzan dal bronzo squallidi com'ombre
Vaganti in aria bruna
Nel silenzio de' cuori e di fortuna.

Ma vermigli di sangue entro i fulgori
Dell'armi, vivi passeggiar la terra
A seminar la guerra
Delle sorti fatali.

Italia, Italia , era il bel grido. A noi
Gente che tace
Gridan dal bronzo i giovani immortali
Ah! non sia morte il sonno della Pace!

PARTE III

GLI INTIMI SENSI

SUL CAMPO DELLA BATTAGLIA

I.

Venimmo al bivio e:—Qui—disse la guida
(Un veteran tedesco)—qui si ruppe
La legion dei francesi. Entro la fossa,
A cui bevono i prati, a cento a cento
Incalzati cadevano travolti,
Dai nostri. I moribondi brancicando
Tiravan dentro i vivi e senza ponte
Vi passò lo squadron della Gran Guardia
Coi pesanti cavalli. Altri sul posto
Disceser dei caduti e novamente
Si contrastò, fin che si vide il mucchio
Emergere dei morti e far parete
Ai combattenti. Allor fu che dal colle
La mitraglia tedesca e morti e vivi
Spazzò via come volano le stoppie
Per il campo al soffiar dell'uragano.
Un bel colpo, perdio! ma finalmente
Verso sera potè l'imperatore
(Che Dio salvi) passar colla sua scorta.

* * *

Proseguimmo pel campo. Essa era pallida
Come uno spettro e nella mia mettendo
La sua mano e coll'altra i lembi sparsi
Stringendo della veste:—Ahimè!—proruppe—
Non lasciar che mi afferrino codesti
Poveri morti!

* * *

Il veteran cortese,
A cui già sorridea dei quattro marchi
Il lucente ideal, seco ci trasse
Verso un ponte e:—Di qui—disse segnando
Colla man la via lunga che discende
La sodaglia—passò dopo la rotta
Il sesto fanteria, quando improvviso
Si ruppe il ponte al saltar della mina;
Pel diavolo, un bel colpo! Ancor si scava
E trovan ossa e ciondoli e nell'oro
Chiusi sottili ricciolotti d'oro.

* * *

La meschina, la man sempre nascosta
Nella mia, balbettò tutta tremante:
—Quali voci usciran quindi di notte
Da queste zolle? e come sboccia ancora
Da tanto sangue un fiore?

* * *

Il veterano
Ci condusse a veder il freddo ossario
Che raduna gli avanzi. Ergesi in vetta
Al poggio, in mezzo ai pallidi cipressi
La smorta cripta, a cui salì per breve
Scala color di cenere. Un disteso
Leon sta sulla porta e va dicendo:
Qui riposa il valor . Escono a fregio
D'eroico stil sull'orlo delle lunghe
Finestre i nudi teschi degli eroi
Avidamente per le vuote occhiaie
Beventi il sol. Intorno scende e tace
La mal colta campagna e tace un bosco
Pien di sinistri agguati e di rimorsi.
Ella si strinse anche di più vicina
Al mio cor timorosa e mentre l'uscio
Del buio cimitero cigolava
Sui rauchi chiovi a palesar la ridda
Degli stinchi, inciampò lì sulla soglia,
Quasi in un fiero ed insolente oltraggio
Che l'afferrasse:—Oh! lascia ch'io mi sieda—
Disse—qui sui gradini all'aria e al sole:
Non per questo siam nate.

* * *

Il veterano
Tutta sapea di quelle tibie infrante
L'epica istoria, e ballottando i crani
Nella tremula man, tutta mi sciolse
La leggenda dell'odio ch'ei ricanta
Per quattro marchi ed un bicchier di birra
Com'è descritta in violente note
Sopra la scorza logora dell'ossa.

II.

La man levata a maledir proruppi
Allor dall'infocata ira travolto:
—Il sol piombi feroce su quest'erbe
Polverose, nè rivolo discenda,
Nè rugiada sull'arida sodaglia
A ristorar la maledetta creta,
Che di sangue fremente un giorno ingorda
S'inebriò. Tal sia. Possa ogni campo,
Che vide un giorno scempio scellerato
Far di natura e dell'umano affetto,
Inaridir così nelle sue glebe!
Sia maledetto il pan che da una spiga
Sanguigna spremi e possa a' tuoi figliuoli
Saper sì triste, che ciascun lo sputi
In terra e sia di vermi anche ribrezzo!
Non dei nidi di festa, non di molle
Usignol suoni il pianto ove il ruggito
Corse d'umane belve e scese il ferro
La vita a lacerar nei palpitanti
Visceri umani!

* * *

Consacrato altare
È il cuor dei figli al naturale amore,
Ove il trofeo dei padri si conserva
E pendono le pie vostre corone
Sempre verdi di preci e di sospiri,
Povere madri; ma vi reca il piombo
Rovina e morte. Maledetta taccia
L'aria che intese e gli ultimi raccolse
Arsi singhiozzi. Rondine non spieghi
Per la maligna landa irta di scheltri
Le memorie del mar liete e del cielo,
Ma sol vi gracchi la nera cornacchia
Dai tristi auguri e vagoli l'irsuto
Can che la bava della febbre asciuga
Nelle amare ginestre. Ove la buona
Pietà fu morta, cessi anche il profumo
Dei fiori sacri alla pietà dei morti,
Dei fiori sacri al crine delle spose,
Dei fiori onde l'altar si veste e ride.

* * *

A queste mie singhiozzanti parole
Essa mi porse lagrimosa il volto
E singhiozzando meco:—Oh! non per questo
Siam nate—mormorò—non per comporre
I figli nostri trucidati e rotti
Nell'empia sabbia! non per questo il duolo
Del crear ricerchiamo e le vigilie
Ansiose delle culle e non di baci
Infiniti copriamo i tenui corpi
(Divino incanto) e non le picciolette
Mani atteggiam nei lacci d'una dolce
Preghiera di perdon! non per nutrire
Del latte nostro una terra selvaggia
Cerchiam l'amore giovinette e tutta
Sveliam la grazia dei sorrisi e il sacro
Mister della bellezza. O sciagurate!
Tutto il tesor dei seminati grani
Per le valli del mondo un sol non vale
Grano d'amor che germini nel core
D'un tuo dolce fratel. Ma se di tante
Vedovate il dolor una non pesa
Ragion di ferro, e per le figlie nostre
Meglio è morir di spasimo nei tetri
Asili delle vedove speranze,
Maledetta la man che in sen ci pone
Il cuore e in mezzo al cor il mesto affanno!

* * *

—Viva l'imperator! disse il canuto
Veterano: e baciò stretta nel pugno
La mercede che a lor frutta la gloria.

IL CANTO DELLA PIETÀ

Essa diceva il suo dolor. La voce
Scaturiva dal cor come un gorgoglio
D'acque interrotte, che fan specchio al piede
D'una pallida Niobe di marmo.
Anch'essa nata era di carne viva
La bella donna e quel suo cuor di sasso
Avea pur gorgheggiato entro la festa
Degli usignoli, quando april dischiude
L'anima ai fiori ed escono i profumi
Dalle selve com'onda pia d'incenso
Verso un gran dio.

È allor che si diffonde
La giovinezza per il mondo e voce
La natura non ha che non diventi
Armonia sulle corde d'un pensiero
Innamorato. Il cor, come rosata
Conchiglia tolta ai ceruli misteri
Dell'onda, emana un mistico frastuono,
Che vien da un'invisibile e ritorna
A una sponda invisibile, tra cui
Non anco rugge la tempesta umana.
E mi dicea come morì travolta
Dalla sterile vita in un'angoscia
D'oltraggiate speranze, invan stringendo
Nella man l'ombra dei fuggenti sogni
Fatti quasi rimorsi. E non bagnava
Il suo mesto parlar stilla di pianto,
Ch'è pur sì dolce a chi racconta i mali:
Ma gli occhi aperti e cristallini tutta
Rinfrangean la mestizia del deserto,
Ove più non ritorna ombra di bella
Cosa passata e sol vi regna il nulla
Che ripensa sè stesso.

Allor si ruppe
La pietà del mio cor: e col mio pianto
Lei piangendo e le gelide di marmo
Piccole mani accarezzando, e tutta
Spirando su di lei l'anima accesa:
—Ch'io senta, dissi, oh ch'io per te ritrovi
Il tuo dolor, oh ch'io per te la piena
Versi del pianto mio sulle tue mani
A riscaldarle: e la mia mano ardente
Ti cerchi il cor fatto di pietra e un fiato
Passi della pietà che mi distrugge
Per le rigide labbra. A desolate
Rovine è vita il pio pensier dell'uomo,
Che le penetra spesso, onde par quasi
Ch'escan le storie più lontane e torni
La voce delle cose. Io so che a qualche
Simulacro sepolto la carezza
D'un amoroso artefice ha potuto
La bellezza ridar d'una divina
Luce scomparsa e l'immortal sorriso
Che fu delizia già del mondo. O estinta
Ove scenda la mia che ti carezzi
Spiritual pietà, di fibra in fibra
Trascorrerà la vita, delle spine
Risentirai la punta e colar sangue
Vedrò dalle tue carni e gli occhi pregni
Farsi di pianto e trasalir le membra
Entro i soavi spasimi—soavi
Se ci fan questa vita anche una volta
Ritrovar sul cammin della speranza.
—Nulla può—mi rispose—a un corpo morto
Pietrificato in un dolor eterno
Dar vita e forza, non s'altri lo ponga
Nelle fiamme del sol. In me già spenta
È la memoria d'ogni antico sogno
E giace il desiderio in un oscuro
Angolo come spada irrugginita:
Lascia ch'io posi qui sul mio sepolcro
Statua dolente di me stessa morta,
In fin che il tempo colla lenta ingiuria
poco a poco il mio nome cancelli
Dalla pietra e la gialla edera stringa
Del mio destin la bruna urna caduta.

* * *

Così dicendo, aprì gli occhi solenni,
Che parver vuoti d'ogni idea e fece
Infine al fondo a me tutta palese
L'infinita tristezza. Un senso oscuro
Quasi di morte allor mi assalse e curvo
Sopra i ginocchi, al suo rigido corpo
Appoggiato, intonai l'inno del pianto,
A cui dal sen delle dolenti cose
Mille voci risposero piangendo.
Un fremito mandò scossa la selva
Pei rami infranti e dei rapiti fiori
Si querelò sul margine il cespuglio
Delle rose di maggio. In un lamento
Singhiozzando la tortora proruppe
Dall'alto nido e raccontò l'angoscia
Dei rotti amori. E fin dentro le grotte
Del cavo tufo risonò la lenta
Storia d'oscure lagrime stillanti,
Di cui le ortiche pasconsi e s'imbeve
L'orrida spina. Dai meandri, in cui
S'appiatta il verme, un susurrìo di duoli

Venne a narrar come si soffra indarno
Di vita fin nell'ultime radici
Poi che una legge di dolor governa
I sostegni del mondo e sol si pasce
Di sè stessa natura. Ecco non una
In braccio al vento trema arida foglia
Senza dolor, non sfiorasi una siepe,
Ma quando autunno misero sparpaglia
Per le fredde campagne quasi un sciame
D'anime stanche, stridono i viali
Che le vedon fuggir e lunghe stendono
A lor le braccia gli alberi morenti
Sopra i bianchi crepuscoli.

Più triste
Sarìa di quest'uman gregge la sorte
Nella valle del duol ove non fosse
Della pietà la lagrimosa fonte
A ristorar le forze inaridite.
Forse a rimedio d'immutabil sorte
E d'inconsulto error questa nel coro
Ci pose un dio di lagrime sorgente,
Che sovra i mali ampia trabocca e spegne
Di molti mali il furibondo orgoglio.
Sgorga la fonte e qual si apre al ristoro
Della rugiada un fior consunto, un fiore
Torna così di pallida speranza
Sulla tomba dell'anima e diffonde
Il non morto profumo. Essa è divina
E vien da noi questa bontà del pianto,
Che benedice alle morenti cose
E le morte consacra. Ai colpi acerbi
Della forza che strugge, una gentile
Forza che sana contrappone e tragge
Dall'ingiuria l'amor. Ove non fosse,
Nido di serpi il mondo ed esecrata
Sorte sarìa la vita e combattuta
Ragion l'amor come tra i ciechi armenti;
Ma la pietà che stilla e che ti avvolge
Di lagrime in un tiepido lavacro
Ti fa più bella pensierosa e santa,
Alta ti posa sull'altar del duolo
Quasi raggiante, e in te fissarsi è luce
Al lontan pellegrin ch'erra smarrito
Per la sassosa valle e che già teme
D'essere morto o faticosamente
Conduce il peso dell'inutil vita.

* * *

Un vermiglio color corse le guancie,
La man che ghiaccia resistea si sciolse
In un tiepor di calde rose al sole;
Si schiusero le labbra e fatto indarno
Argine all'onda che le gonfia il petto,
Proruppe il pianto vincitor dei mali.

SOLITUDINE
( Chiaravalle Milanese )

Qui si apre in mezzo ai pioppi, nel profumo
Del buon fieno, che a mucchi odora al sole,
Il mio regno, Tacete! ogni rancore
Di voce è spento e va lento per l'aria
La fatica degli uomini nel lento
Fumo dei campi. Oh quanto egli è soave
L'errar su l'orme di sè stessi, ignoti
Agli occhi dei saccenti! oh come il filo
Dolce si snoda dei pensieri all'ombra
Coperta d'una siepe! ecco ti sfugge
Di mano il libro che portasti grave
Di logorati sillogismi e stai
A leggere te stesso.

Erra a mancina
Una garrula allodola: si stende
Un vol di corvi a destra, che fan lunga
Macchia nel ciel; là svolgasi nel mezzo
Una gloria di nuvoli d'argento.
Piena di rotte immagini.

Se l'ora
Poi tramonta col sol dietro la rete
D'una boscaglia che s'incendia, o suona
Un cinguettìo di passeri raccolti,
Senti, amico, vibrar come d'un'ala
Di farfalla la morbida carezza
Sulla carne del cuor. Tu nel languente
Crepuscolo t'immergi e ti par quasi
Di spegnerti nell'ora che si spegne.

* * *

Ma se porgi l'orecchio, è nel tramonto
Di quest'ora che parlano le oscure
Cose del mondo a chi timido veglia
Al lume d'una fede. Odi, son mille
E mille voci ch'escono dal campi
Ottenebrati, come se uno spirito
Pulsasse da ciascun filo dell'erba:
E nel passare fremon non so quanti
Altri spiriti spessi entro la chioma
Delle molli robinie: e luci e stridi
Corron per l'aria nera, in cui susurrano
Ignoti stillicidî di piangenti
Anime che ti chiaman….

Son le vostre
Anime antiche già passate a stormi,
Lavoratori della terra, stanchi
Di seminare il pan duro nel duro
Seno della natura. Or che disciolta
È la prigion del corpo e giace in polve
La struttura dell'ossa entro il recinto,
Che biancheggia laggiù dietro i cipressi,
Al morire del dì tornati le voglie
Dei buoni spirti a folleggiar tra i solchi,
E guizzando ti toccano, o vibrante
Anima mia. Mi parlano e rispondo
Un pensiero che sdegna il rauco suono
Della parola e non sarà mai scritto.
Che se per vago error non sbaglia il senso
Arcano che mi fa non istraniera
Questa tristezza, anch'io fui già del volgo
Forse altra volta o cadde alcun dei miei
Ne' rotti solchi. O forse in una sola
Anima ondeggia il mar delle tristezze
E in me percote, mormorando, il flutto
D'antichissimi pianti….

* * *

Ancor non era
Nata in quei giorni, o verde Chiaravalle,
Nel dolente pensier d'un cenobita
Quest'abbazia, che in mezzo ai prati erompe
Gotica mole e par fatto di pietra
Malinconico sogno.

O Chiaravalle,
Quante migrar dalle tue chiostre al cielo
Consolate colombe e quante ancora
Vorrian fermar nelle tue nicchie brune
Una pace che fugge! A stento il nido
Nelle rovine tue nasconde il picchio,
A cui lacera il cor spesso il rimbombo
Del cacciator malvagio; e l'ombre stesse
Del padri incappucciati (s'egli è vero
Che si adunino a notte in mezzo al coro,
Quando la luna luccica inquieta
A turbare il gran sonno degli avelli)
L'ombre dei padri esterefatte balzano
Al reo fischiar della macchina nera,
Che solca l'orto del convento e versa
Bave di foco ed aliti d'inferno
Sulla mesta Certosa. O Chiaravalle,
Alle tue mura già scende l'insulto
Della vita che rugge e che trascina
Gli stridenti bisogni. Indarno all'urto
Potran dei vivi reggere le antiche
Mal sorrette dai santi absidi tue
All'incalzar del tempo. Alla cresciuta
Prole d'Adamo è scarsa aiola il mondo,
Sì che ogni valle ne trabocca e ingombra
È d'ogni solitudine l'asilo.

* * *

Questi pochi che ancor restano a noi
Viottoli deserti assai più cari
Ci sian, fratelli, e per le ombrose vôlte
Andiam recando i desideri e i sogni
Cari agli dei, che il grosso volgo ignora.

IL CANTO DELL'ULIVO

Battaglia di Abba Carima

Il tuo bel giovinetto Aldo partìa
Per la terra dei mali un dì d'aprile,
Mentre di rose rubiconde e bianche
Fiorìa tutto il giardin: e ancor fiorisce
Maggio che lui già d'Africa il deserto
Preme sepolto… e non avea vent'anni,
Povera madre!—il tremolante bacio
Tu non sentisti allor che sull'arcione
Ei balzò vigoroso e via si tolse
Dalla soglia paterna e dagli sguardi
Delle pallide amiche. Oh almen se morta
Fossi e discesa innanzi a lui, tu prima
Ad aspettarlo sull'oscuro ingresso,
Ombra ridente, non vedrei te folle
Nella vedova casa andar vagando
Senza pianto a cercar, ombra mai viva,
L'orme sanguigne del tuo figlio ucciso.
Mai non si sazia l'egra fantasia
Che si specchia nel reo sogno (se un sogno
La reità può vincere del vero)
A rinnovar le non mai viste scene
Di dolor, di terror, di scempio atroce.
Quando dall'ambe quando dagli acuti
Inesplorati sassi, ove s'infranse
Non la menzogna, ma d'Italia il cuore,
Fur visti uscir neri nugoli densi
Di vive fiere umane e scender quasi
Torrenti nel fragor cupo dell'armi
A travolger le candide coorti,
Il segreto a cercar della fiorente
Lor giovinezza coll'immondo ferro.

A quest'assalto d'indomati affanni
Arde la fronte. Una vampa ti assale,
Misera donna, qual di sabbie aduste
Pregne di sangue. Nell'odor del sangue
Balzi la notte esterefatta e scalza
Discendi a supplicar qualche rugiada
Dal ciel che brilla immobile sul capo.

* * *

Pace, fratelli, alle materne angoscie
Pace preghiamo! e se la pace è tolta
Alle torbide voglie, alti dal cielo
Preghiamo i sonni all'umido guanciale,
Fin che sugli occhi placido discenda
Come lento crepuscolo l'oblio.

* * *

Ecco dorme la madre: e per incanto
Dagli assopiti sensi ecco fiorire
Una verde vision di spessi ulivi,
Tra cui sen viene in veste più che neve,
Reggendo il tronco d'una spada infranta,
Il suo bel giovinetto Aldo, più bello
Dell'Arcangelo in viso e più raggiante.

"Da una terra di sogni, ove non giunge
"Che il sospir delle madri, a te ritorno,
"Madre—egli dice.—Ivi l'eterno ulivo
"Della pace frondeggia e a te un germoglio
"Ne reco intesto a una stillante lama
"Prendi, mia cara, e nella sacra terra
"De' padri miei la morbida radice
"Spargi ed il pianto delle oneste donne
"Le sia ruscello. A seminar l'ulivo
"Ti porgo il ferro della fredda lama,
"Che penetrò quest'ossa e vi si ruppe.
"Ove del bianco ramo esce in tenera
"Ombra, rinasce il suon delle canzoni,
"Danzano i cuori, il negro sen la terra
"Schiude al tesoro del crescente pane,
"Ritorna il lento faticoso ardire
"Del ben oprare, che il furor di pochi
"Sgomina spesso e il vaniloquio assorda:
"Dell'umano alvear vola il ronzio
"Lieto, frequente, a sparger la dolcezza
"Che il sacro fiore della vita emana.
"Olio stilla il bel ramo e il lume scende
"Dalle lampade ai libri, ai miti altari,
"Alle nebbie dei secoli. Di questo
"Amabile arboscel sparsa la via
"Fu di Cristo quel dì che al mondo sparse
"La nuova legge, ah non compiuta, e invano
"Scritta nel libro, o sacerdoti, e in oro
"Scolpita invan nelle marmoree imposte,
"Se vivente non sia legge dei cuori.
"A voi madri, a voi spose, a voi sorelle,
"Serbato è il seminar questa di pace
"Viva radice all'ombra dell'amore,
"Che per voi crescerà grande coi rami
"Sopra le case e le dormenti culle;
"Ma non si posi il sacrosanto bacio
"Della donna sull'orma empia del sangue,
"Nè il dolce amplesso la fatica onori
"Di chi sogna lo strazio empio dei corpi
"E il fluttuar del sangue e le nequizie
"Oscure della Morte.

"Noi per sempre
"Caduti il lacrimar poco ristora,
"Ma ne ravviva il pio pensier dei vivi,
"Se dal nostro morir tranno argomento
"Di futura giustizia. Anche la morte
"È un proceder avanti, è un mite sogno
"Che rispecchia gli eventi ancor non nati,
"Se dalle tombe sanno estrarre i vivi
"L'idea sepolta e dispiegarla al sole."

EVOCAZIONI

I.

Chi togliere mi può questa possanza
Ch'eccita il core delle morte cose?
Se un dio si agita in me, ben alla forza
Che schiaccia il mondo io mi ribello e balzo
Sopra il dolor e là dove trascorsa
È poc'anzi la Sfinge scolorita
Figlia di morte col massiccio carro,
Del mio pensier (io magico poeta)
Suscito i fiori e a nuove danze incito
Le figlie del mio sogno. Inutilmente
Tenta intralciarmi di sua spine il passo
L'orrida selva, oppur di sue tristezze
Accumulate mi fa cerchio e muro
L'ora che passa. Il mio poter s'innalza
Incontro al fato e dalla morte chiamo
Fonte viva d'immagini viventi.
A lor io mi accompagno e vo superbo
Del mio corteo, qual simile non ebbe
Il gaio re della leggenda Arturo
E nessun dei dipinti Saladini,
Che di Georgia trassero e di Samo
Le più candide spose. Io son tal sire
Nell'ampio regno del pensier, che tutte
Meco trascino le letizie e i giochi
Che infiorano le culle. Io d'ogni bionda
Pargoletta che ride esser presumo
Fratello e d'ogni bimbo ingenuo amico.
Chi può vietar che al core del poeta
Scenda la voce e l'innocente invito
Dei fanciulli che chiamano? e chi vuole
Un amplesso intralciar d'anime amanti?

II

So che beato estimasi tra i pochi
Chi stringe nella man la chiave d'oro,
Ch'apre gli scrigni del pensiero e svela
Il tesor degli affetti e le riposte
Gemme della sapienza.

Anche beato
Chi può del libro rompere i suggelli
Che di Natura l'ultime contiene
Immobili ragioni e chi alla fonte
Può ber della Virtù, dove di quercia
Incoronata sta la veneranda
Esperienza, che le sempre eguali
Leggi ritrae con giusta mano e fila.

Ma più beato chi del cor dirige
I dolci incanti a suscitar le larve
Delle remote o spente illusioni,
A richiamare i tramontati giorni
Nella veste raggiante e sa dei morti
Baci evocar le timide fragranze,
Come allor che la vita altro non era
Che un fior di più nel semplice giardino
Di giovinezza. Al rifiorir di queste
Essicate memorie, io non so come,
Sento che tutta l'anima s'inebria
Di savia gioia e sembra che il ricordo,
Ombra del ver, scenda del ver più bello.

Io la serbo nel cor questa parola
Ch'apre le fonti alla dolcezza e chiama
Tutti gli erranti spiriti che vanno
Per la luce e per l'ombra. Ecco, s'io dico
Il sacro motto, a me tornan le belle
Donne che alla tristezza di Natura
Intessero un sorriso e tutte passano
A me davanti colla man gittando
In mezzo a molti fior frasche d'ulivo:
E passan le gentili a te facendo
Molle la strada, per la qual tu scendi
Estrema, nel dolor cinta, ma in pace
Tra le modeste ancelle dell'amore.

Chi trattener vi può nella leggiera
Procession che sfila sotto l'arco
Ch'io v'innalzo, o divine visioni?
E qual nembo è sì forte che vi possa
Sgominar nel pensier che vi rimena
In terra? Ancor se il mio voler indugia
A ripeter l'incanto, ecco ch'io traggo
A me vassalli quanti cavalieri
Portar la grazia del valor dipinta
Nei bianchi scudi e furono di dame
Pallide grazioso patimento:
E par che al lor trascorrere risuoni
Il rumor del torneo misto ai singhiozzi
Delle mandole. E voi dal tempo chiamo
E voi governo, ombre sepolte all'ombra
Dei vecchi monasteri, illividite
Nei passeggiati marmi, invan da mille
Anni consunti nelle cripte e spenta
Fin nella mente degli scribi illustri,
Che di vostr'ombra pascono la scarna
Gloria che li fa vivi. E vanno i canti
Per l'alte ogive e fremon le dipinte
Finestre al pio riverbero che emanano
I dischiusi sepolcri. A cento a cento
Escono le devote anime bianche
Delle mistiche spose a cui fu sposo,
Il morto in croce e talamo l'avello.

* * *

È questa la virtù, madre, che spesso
Mi mena a favellar presso la sponda
Del tuo riposo all'ombra d'una tenera
Edera affettuosa che ti abbraccia
Per amor mio. Colà dove ti è dato
Dal ciel per premio di sognar te stessa
Nel silenzio campestre, odo la nota
Voce che parla. Nel morir del sole
Vedo l'immagin tua venir tra l'erbe
Folte nel mezzo alla fiammante festa
Dei fior di prato, onesta apparizione
Più vicina al mio cor che mai non fosti,
Come ogni cosa che dal cor germoglia.

"Il dolce immaginar caro ti sia—
—Sento che dici—più che il vero e il fasto
Dei chiassosi trionfi. A te sia bello
Richiamar quel che fugge e far coi fiori
Del tuo pensier ghirlande a' figli tuoi.
Altri dai vivi a mendicar si affanni
La carità del vivere, o se piace,
Un lumicin di fatua gloria errante
Entro le stoppie. A te sia pane e luce
Il santo giusto che per sè risplende:
Nè ti spiaccia seder spesso coi morti
Pensoso ad ascoltar quel che la terra
Racconta al ciel, a cogliere virgulti
Molli di pianto, a riempir le mani
Di speranze a chi va senza conforto
Per le strade del mondo.

Alcun t'invidi
Nella vecchiezza tua, quando d'intorno
Rifiorirà la selva delle belle
Cose pensate e nel varcar la soglia
Ti verrà dietro l'ultima speranza.

LE ORE DELLA VITA

Disciolto il vago sogno, esco pei campi sotto la neve e nella nebbia occulti, quasi occulto a me stesso o a me sol noto quanto basta per dir: son un che piango, Per il nudo deserto in ordin mesto mi seguono, lasciando dietro un solco di tristezza nel pian candido, i morti pensieri della vita e quei che all'alba del primo gioco giovanil sereni nunzi di glorie e fantasie di pace all'innocente cor disser le prime insidie e quelli che al maturo senso schiusero il mito delle eterne cose. E seguon lagrimando, angeli vinti nella breve battaglia intorno al vinto lor signore, le rotte ali strisciando alle ruvide spine. Escono al pianto nostro dalla socchiusa urna del Tempo l'Ore cadute, che passar nel regno della mia vita luminose o brune, e ognuna a ricordar alza la voce quel che già fummo.

* * *

"Io son—una ricorda— l'ora del Sogno. Io son quella che i casti giorni dipinse e suggerì le rime preludiando all'amor. Se ti rimembri, molto ti piacqui in sul fiorir degli anni, allor che mi traevi ramingando per vie solinghe a ricamar la trama de' reconditi boschi o di solinga tomba a baciar le squallide viole. Nella vergine veste a te le immagini spesso recai, che ti facean dal forte sonno balzar ed allungar la mano a rosei lembi ed a fuggenti chiome.

* * *

"Son io—mi dice una seguente voce— l'ali fremente dell'amor son io, Ora che mai si oblia, quella che prima raccolsi sul bocciuol d'un rugiadoso labbro il singhiozzo d'un soave affanno, soave ancora a ricordar. La bella mal renitente a te sporse la bocca molle d'ogni dolcezza, onde fu a lungo inebriata poi, lieta di canti, l'aurora del tuo maggio e a lei men triste degli anni brevi il pallido tramonto.

* * *

"Io te guidai per la superba via e forte in man ti equilibrai la spada della Giustizia—un'altra erra dicendo in ton più grave.—Del voler ti cinsi i fianchi il dì della battaglia e l'ira t'armai di solitudine sdegnosa contro il volgo dei mali. Io nelle gare de' vili il core ti sostenni e stetti fiera in disparte a ritemprar la forza dei sacri sdegni. In altro scudo io penso non brami d'esser collocato il giorno che, nudo in terra, ma la fronte al cielo cadrai.

* * *

"Deh, non fuggir quel che ti attrista Io, io del tuo Dolor l'Ora più fiera col mio singhiozzo non dovrei nell'ombra rinnovellare i gemiti e gli auguri… (così se stessa una dolente accusa). Al cor molle di gioie e di speranze io stesi il dito acuto e tanto il tenni fin che quasi lo spensi. Amor e fede ne strappai spaventosa e al suol, non morto, ma sanguinante ti lasciai nel sangue della tua vita alla pietà dei buoni umil bersaglio. Ma del ben ti schiusi l'intime fonti e nel tuo pianto immersa i lenti moti dirizzai de' sensi a seguir della logora mestizia i passi tra i bisogni aspri de' miseri, chè scuola è il nostro mal ai mali altrui. Io non già t'insegnai l'orride piaghe a denudar del volgo e a far d'un cencio alta bandiera all'irritante musa, ma dal palagio all'umil tana a dito mostrai qual sia del vivere lo stento e il signorile affanno.

* * *

"Ed io, mi guarda, amico, io son la mite Ora che prega, che teco inginocchiata, ove il materno occhio vegliava, il tenero sospiro della Fede sorella al sen raccolsi. Andar senza di me, forte non lieto, sciogliesti poi, nume a te stesso. E ancora sulla soglia ti aspetto ove negletta mi lasciasti, se mai d'una cocente stilla di sangue ti lacrimi il cuore, o se disperazion dai desolati cieli più nera piova. Invan tu speri dimenticarmi. A chi bevve profonda la mia dolcezza in sul mattin, più lunga di me nel vespro tornerà la sete.

* * *

"Volgiti lieto al mio chiamar. All'opra sempre desta tu vedi in me la pronta Ora del tuo Lavor, madre a robuste speranze, quella che ai cresciuti danni porsi il ristoro dei raccolti frutti, che all'ombra edificai d'una sicura coscienza del tuo vivere la casa. Sai come al martellar forte e frequente si scosse il tuo vigor: dalle riposte fantasie scaturì qualche non rozzo simulacro e l'idea venne all'incude del sonante lavor docile ancella.

* * *

"Ed io son l'Ora del Dover—(sommessa parla un'ultima voce)—umile vissi nella tua vita e taciturna; scarse lodi raccolsi; di ragion ministra me di me stessa mi contento e pago".

* * *

Questo dell'Ore che fuggir il grido tra il doloroso e il lieto, a cui tra il lieto risposi e il doloroso:—O mie fedeli, o del mio viver sacre e benedette sorelle, il ricordar dite che giova? voi ben sapete come voli il tempo e in picciol spazio irrigidisca il labbro delle parlanti cose. In aria un segno di voi, di me non resterà più vivo di quanto lasci nel volar la nera rondinella che passa. Ove il più bello ci venga tolto e in particelle, in polve volga di noi la più divina parte, qual gioia il dir: noi fummo? e quale il vanto d'aver coi mali avuta inutil guerra? ogni cosa vien meno e tutto oscura un'estrema d'Oblìo ora che tace sopra gli stessi mali eternamente.

* * *

"Non vano esser vissuti!—a me col pieno coro rispondon le vaganti amiche— non vano, ove in gentil opra di bene si perpetui l'affanno. Anche se sciolta e sparsa al vento è la dolente polve, erra come di fior morto il profumo nella stanza dei vivi. A un Nume è sacro, non a sè quell'incenso che dall'ara sale continuo nella oscura cella, nè inutil scende la rugiada all'erbe che poi dissipa il sol. Non a sè stessa edifica la pietra. Al tempio giova non men l'ignoto che sepolto giace coccio sotto le basi e il crisolito ardente che prostrato il volgo adora. Ogni Ora nasce quando è il tempo e ognuna scende dell'infinito Essere in grembo di sua ragione coronata in fronte in una tenue, che all'orecchio sfugge del querulo mortal, vasta armonia. Nulla è vano, fratel. Non la stanchezza che mosse della terra i lenti semi, non il pianto che largo li feconda, non la morte che scioglie e riconduce il mister della vita. Alza la speme, chè a chi vien dietro non è vano il solco di chi prima passò. Migrano a sciami associati gli spiriti, siccome scendon nel freddo tempo in lunga riga gli stornelli a portar salva in più caldo lido del caro stuolo la speranza. Non ognuno per sè, ma ognun sorregge della stirpe il destin colla brav'ala non mai stanca, che tremola all'invito degli spazi del ciel ampi e del mare".

FUNERALE BIANCO

IN MORTE DI IDA DONATI

luglio 1895.

Giovani amici e giovinette in pianto
Precedono il trionfo della Morta
Per l'ampie strade. Il ciel ride giulivo,
Mentre lenta si avanza la coorte
Dal dolor disarmata, a cui la rigida
Non conosciuta man ha tolto il vivo
Fiore d'una speranza. Erra il profumo
Per l'aria delle mille rose bianche,
Che per amor di lei voller morire
Sulla pallida testa. Il popol scarso
Che stette all'ombra delle case in questo
Giorno chiaro di festa, al venir lento
Guarda del carro, e guarda i fiori e i bianchi
Visi delle compagne e— Addio, mia cara….
Dice ciascuno in cor, chè ognun ritiene
Sua figlia ogni fanciulla che si avvia
Al camposanto. In ogni giovinetta
Vita che muore ognun sente morire
Sè stesso, o almen di sè la più ridente
Memoria e coll'ignota si accompagna
Bara che passa quasi lagrimando.
Una spenta dolcezza.

A questo incanto
Giova il saper che bella era e gentile
La verginella ora caduta in grembo
Alle funebri rose e giova il dire;
"Questa che passa avea libata appena
La gioia che fa bello ogni sorriso
E soave ogni lagrima. Non una
Ora bruna volò di triste augurio
Intorno al capo giovanil che dorme
Senza rughe e senz'ombre. Inesplorato
Enigma a lei fu della vita il senso
E amor (l'antico tempestoso affanno)
Non fu per lei che un sogno mattutino.
Col suo pensier il suo bel corpo passa
Come puro alabastro al culto eterno
Di purissimi spiriti. Non cadde
Per forza, no, di vento o di tempesta,
Ma come si disfiora un ramoscello
Nel chiaro specchio d'un ruscello vivo,
Sì che la vita sua continua e scende
Di core in core in una fresca idea
Di giovinezza".

* * *

A quante più leggiadre
Candide fantasie passan nei sogni
Dei poeti gentili il nome presta
E le sembianze un'innocente morta,
Che poi ritorna rivestita e ardente
Di gloria a noi. Così non cadde il sogno
Amoroso di Dante nel trionfo
Di Beatrice morta e va soave
Nel triste verso il nome di Nerina:
Così per voi tra i vivi si perpetua
Il culto della Grazia, o a noi rapite
Ancor ridenti nell'esiguo fato
Di pochi aprili!

* * *

Alcun che a notte muta
Si smarrì tra gli avelli, ove più folti
Erano i gigli nelle nivee tombe,
Sentì voci tornar come di canto
Dolcissimo e fuggir vide una luce
Palpitante nel sasso, in cui rifulge
Il nome delle belle adormentate
Nel silenzioso oblio.—"Noi siam le vostre
Sopite illusioni ma non spente—
—Dicevano le voci—e nei scolpiti
Nomi fermiamo l'ideal che fugge.
Noi la bellezza siam che mai non ebbe
Dal tempo insulto o da infedeli amanti,
Noi siam la vostra giovinezza immota,
O padri stanchi e declinanti, e il vostro
Giovine core a custodir siam morte:
Per voi serbiamo in ogni tempo un fiore
Di bel ricordo e allo scoccar dell'ora
Ultima, allor che la speranza cade,
Da questi tabernacoli di marmo
Angeli vostri usciamo luminose
Di nostra luce a rischiarare a voi
La tenebrosa via, per cui sì triste
È l'andar soli e l'arrivare ignoti".

LAGRIME

Dopo la morte della figlia Cesarina.

IL TRISTE RITORNO

Caro è fuggir la stanca afa d'agosto
Per voi cercar, e quete ombre dei faggi,
Scossi e ridenti al tremolo
Rezzo che manda a voi l'umida valle.

Caro volger le spalle
Al fragor della gente e al vasto tedio
Che il piano ammorba per trovar voi, care
Ombre nere dei pini, sulla via.

Lasciato indietro il mare
Delle cure in tempesta, ecco qui snodasi
Dietro il clivo la pace e vien innanzi
Sparso di suoni un bel pascolo verde.

Il sentierol si perde
Tra le roccie lassù, lambendo il margine
Della chiesetta, albergo alto ed aperto
Alle rondini pie. S'incurva al basso

Dove coll'acque si trastullan l'anatre
Un ponticel co' pie' tra sasso e sasso:
Ivi il molino innalza
Tra verdi spruzzi ed urti il soffio ansante.

Or non fa l'anno ed io salìa la balza
Di questi monti e meco era una tenera
Fanciulletta cantante….
Or sola è l'ombra mia lungo la via.

Voi ridete del vostro verde eguale,
O prati, o boschi, e sotto all'arco provano
L'ali le spesse rondini al ritorno,
Che già le chiama il mare.

Rota e ripete la sua nota il rauco
Operoso molin tra l'acque chiare,
Che nuovo pane a nuovi figli appresta.
Io sol vo stanco e solo

Cercando invan la mia canzon. In questa
Foggia il ritorno è un picciolo morire.
O voi, ombre, prendetemi
Dei cipressi davanti al muricciolo.

* * *

Era cara con lei questa segreta
Stradella, che nei campi umile gira,
La mattina di maggio e nella queta
Ora che il vespro tra gli alberi spira.

Nella mestizia mia correa giuliva
La sua parola come un'acqua chiara
Tra lenti sassi garrula si avviva.

Della tristezza dissipato il fosco
Velo, sentivo nella voce cara
Rider le cose, gorgheggiare il bosco.

Ancor tra i campi cerco la segreta
Ombra là dove il mio dolor mi attira:
Ma tace il torrentel, chiusa è la meta,
E un gran tramonto nell'anima spira

* * *

Ombre placide e molli, ombre silenti
Del bosco, io vi ritrovo e trovo insieme
Quel che passò tra voi nell'ore estreme
Della mia gioia e de' bei giorni spenti.

Qualche cosa di mio tra le piangenti
Vostre foglie va lieto ed erra e freme,
Tal che il mio core, desiando, teme
Di rivivere in voi l'ore ridenti.

Una voce, destando echi lontani,
Par che mi chiami in quella parte e in questa
Ove più folto perdesi il viale:

E i passi guida affascinati e vani
In mezzo ai tronchi un'agitarsi d'ale
Ed il fuggire d'una rosea vesta.

* * *

Mentre le luci di mia vita a poco
A poco si spegnevano nel muto
Crepuscolo degli anni e mentre fioco
Moriva il sol di nuvoli involuto,

Mia cara lampa, io ben sperai che al fuoco
Avrei della tua fiamma ancor potuto
Toccar le corde coll'antico gioco
E cader sul mio povero liuto.

Alla tua luce avria la stanca mano
Scosse l'ultime note e men dolente
Saria finito il salmo della vita.

Or che sei spenta erra la man smarrita
Nel desolato buio eternamente
A ricercar le vecchie corde invano.

* * *

Tutta bianca al tornar del nuovo aprile
Fiorìa la siepe e tiepida fluiva
Per ogni verde riva
La tua fraganza, o violetta smorta.

Per queste balze andava essa gentile
Cogliendo fiori come in un giardino,
È morto il biancospino,
Morta è la siepe insiem da ch'ella è morta.

Non più pei freschi rugiadosi seni
Di questa valle, ov'ella corse e scese,
Ancor dal sole accese
Le rosette vedrò che il maggio porta.
Aridi e spenti, sol di stecchi pieni,
Rivedrò i boschi e serpeggiar le ortiche
Nel folto delle spiche:
Chè tutto è morto qui da ch'ella è morta.

VOCE DALL'ALTO

Dalla mia spoglia uscita
Or batto l'agil volo,
Non in un angol solo
Del ciel, com'io credea,
Ma vezzeggiata idea
Dovunque il tuo pensier mi cerca e brama.

Nel Dio che a sè mi chiama,
Che in ogni stella splende,
Lo spirito si accende
Della mia vita corta:
Seco mi tragge e porta
Ovunque il tuo pensier erra e riposa.

Quel che la bianca rosa
Dolce profumo esala
Son io: son io dell'ala
Il frullo accanto al nido;
Son io percossa al lido
L'onda che lenta mormora e sospira.

Nella sua dolce spira
Il venticel mi vuole,
Senton le mie parole
Le foglie scosse e i rami,
Tutto che cerchi ed ami
Di me racchiude una memoria, un'eco.

Quando tu piangi, teco
Intenerir mi fai:
Se al poverel tu dai
La tua pietade io sono;
Io sono il tuo perdono,
Io son di te quel che giammai non muore.

Strette in un solo amore,
Fiamme d'un solo Iddio,
Tu sulla terra ed io
Dal ciel donde scendea
Siamo la stessa Idea,
Che vince d'ogni morte ogni furore.

* * *

Pianger perchè?—se mia fortuna piangi,
Giusto non sei, nè pio,
Che tutta nel morir recai finita
La gioia di mia vita.

Pianger perchè?—se il mal che mi fu tolto
Piangi, ed accusi Iddio
Se per assenzio mi fu dato miele,
Il piangere è crudele.

Pianger perchè?—se questo pianto amaro,
Ch'ora ti solca il viso,
Non proverò giammai, non è pietosa
Invidiabil cosa?

Pianger perchè?—non dir: Morte ha diviso
Di polvere due grani;
Ma ricongiunse in suo voler potente
La goccia alla sorgente.

* * *

Or sai più cose che non t'eran note
Prima e che forman la tua scienza nuova:
Sai che il dolore quanto più percote
Del cor le forze invigorisce e prova.

Sai che cenere e fumo, ove le vere
Cose s'infiamman, son le cose vane:
Che come gemma tra le scorie nere
Tra i fuggevoli beni amor rimane.

Sai quanto amari son del pianto i rivi,
Che i dolori trascinano del mondo,
E quanta forza danno i morti ai vivi
A portar la speranza fino in fondo.

In mezzo al rombo degli umani guai
Dolce rifugio sai che aspetta e tace
Oltre il Tempo la Morte: ed anche sai
Come sorrida un angelo di pace.

LE VISIONI DEL CIECO

I.

Solo presso lo scoglio, ove il dolor mi lega,
vedo nel vuoto abisso passar gli anni caduti
e le cadute cose.

Giran le spente occhiaie qua e là dentro la bruma
dell'ombra che mi serra e, brancicando, ancora
qualche fantasma io stringo.

Nell'addormito spirito, quale su mar deserto
repente un alcione candido irrompe, il cieco
così della mia tenebra

Orror fende una donna, uno splendr che i muti
segni richiama e suscita delle memorie spente
nel gran mar delle lagrime,

Quale si annuncia candida, qual sorge dalle fonde
acque in un riso tremulo che luccica sull'acque
e in sen dell'acque specchiasi

Aurora rinascente, così donna più bella
non parve ad occhi vivi. Pei rivoli del pianto
tutta m'inebria l'anima.

Va dalla riva all'ultima onda una via lucente,
in cui scende l'immagine bianca ad un dolce invito;
onde convien che il gracile

Corpo io raccolga e rotte l'ultime inerzie, segua
la folgorante traccia, in fin che morto io tocchi
del mar l'ultima riva.

II.

Fanno nel cielo bianco i curvi rami
della selva, che molta neve ingombra,
de' vani, sottilissimi ricami.

Per i viali della terra, sgombra
d'ogni speranza, passa una mortale
tristezza, che il candor del suolo adombra.

Lugubri augelli van sbattendo l'ale
contro i gelidi tronchi. Io piango. È questa
la morta selva piena d'ogni male.

Torna la donna in una verde vesta,
che tiene un molle ramicello in mano
e vien benedicendo la foresta.

Non cade, no la sua pietade invano
nel rigido dolor, ma il segno santo
della prudente piccioletta mano

Alla tristezza scioglie il duro incanto.

III.

Ogni nebbia si dissipa e prevale
il sol che nasce da un bel mar turchino,
entro la selva che mutò colore.

Approdan vele stanche al litorale,
donde scendono donne nel giardino,
che fa la selva tra le piante in fiore.

Hanno nel viso le signore sante
le soavi memorie e reca ognuna
un picciol vaso di preziosa essenza.

Per i viali muovono le piante
senza versar dai corpi ombra veruna
come di sogno molle evanescenza.

IV.

Vanno le donne angeliche nell'alta erba fiorita
in lagrime la cenere strisciando di lor veste,
E morta, ma ridente nel suo splendor celeste,
portano una fanciulla tra i gigli impallidita.

Di soave tristezza inebriate, il suono
mandan le bianche voci. L'anima sofferente
le segue umile e casta del pianto alla sorgente,
ove le belle attingono la grazia del perdono.

Presso la soglia candida, da cui l'onda deriva,
si prostra il fiero sdegno, l'ira si prostra cieca:
più t'immergi nell'acqua che la fontana reca,
più la fanciulla morta a te ritorna viva.

"Io sono la speranza nata dal tuo piacere,
ho il sol dentro ai capelli e molte spine ai piedi:
io son la pura essenza di quel che pensi e credi,
l'anima profumata son delle cose vere.

"Morta son viva e passo nei sogni del mortale,
spargendo colle mani aperte la semente
di nuovi sogni. Io sono la bella sorridente,
che stillo eterni aromi dai morti fior del male."

V.

Venian per la selva silente
Con passo dolente le donne,
Non vive, ma come sottili
Fantasmi gentili nel viso.
Mi cinser la testa pietose
D'un olio di rose soave:
Mi tolser la nebbia che ingombra
Lo spirto com'ombra letale,
E—Figlio—mi dissero—Ave!

* * *

Noi siamo le eterne sorelle
Noi siamo le belle immortali,
Che sciolto il mister della Sfinge,
Di morte non spinge la mano.
Ci accoglie la selva divina,
Che verde sconfina nascosa
Ai cupidi sguardi dei vivi
Di rose e d'ulivi fiorente:
Riposa, riposa, riposa.

* * *

Solleva lo sguardo smarrito
Ascolta l'invito piacente:
Dal monte chi rotola in questa
Eterna foresta rivive.
Per balze scoscese e dirotte
Stancasti la notte: sei vinto.
Riposa, riposa, riposa.
L'effluvio di rosa immortale
Richiami lo spirito estinto.

* * *

Chi beve all'eterna fontana
Che limpida emana da Dio
S'inebria di santa certezza,
Gli anelli disprezza di morte.
Piantate per sempre le tende,
L'affanno distende di un'ora.
Ristora nel placido oblìo
Lo stanco desìo, dell'alma
Le crude ferite ristora.

VI.

Le belle voci e il vago incantamento
Aprir nel sasso la feconda vena,
Che corse come un rivolo d'argento.
La risorta fanciulla, a cui serena
Splendea la pace nel raggiante viso,
Mi die' dell'acqua colla mano piena,
Reggendomi degli occhi col bel riso.

* * *

Inebriare è pallida parola,
Se il dolce esprimer vuoi di paradiso,
In cui mi trasse la gentil carola.
Ma non dirò del sovrumano amplesso
Ond'io fui cinto e della bianca stola
Che me condusse fuori di me stesso.

* * *

S'anco è sognare, o miseri mortali,
Questo cieco veder che n'è concesso,
Se spento è il sole, resta il cielo all'ali.

PREGHIERA

_Quando verrà quel dì… quel dì, Signore,
Che vorrete con voi l'anima mia,
Fata che presso al letto del dolore
Venga a seder la santa Poesia.
Essa, che tutti sa di questo cuore
I desiderii, colla grazia pia
Farà che la tremante ora fatale
Passi sotto un bell'arco trionfale.

Di giovinetti tutti i casti ardori,
Che in rima chiusi tante volte e in prosa,
I veduti tramonti e i bianchi albori
Del cielo ed ogni più ridente cosa,
Le fanciullette amate e i baci e i fiori
Svaniscon meco in un color di rosa:
E nella notte che starà davanti
Scenda la luce dei sognati istanti._

INDICE

PARTE PRIMA

Al lettore , Pag. 7

I segreti pensieri.

Preludio: Canta l'usignuolo, " 13
A una giovano poetessa, " 15
Litanie vecchie e litanie nuove, " 17
Il telegrafo sulla montagna, " 21
La trasmissione della forza elettrica, " 24
A un vincitore in un duello, " 27
Ora di tedio, " 30
Il tempo e la mano, " 32
"Per quarant'anni parroco", " 35
L'agnellino dorme, " 39
Il contadino— Cantilena , " 42
Conca alpina, " 44
Il rosario della nonna, " 46
La capra ed io, " 49
La fanciulla benefica, " 53
Il fiume e la vita, " 56
Ad un generoso signore, " 61
Il cantoniere, " 65
A un vecchio crocifisso, " 68

PARTE SECONDA

Le vaganti immagini

Cantilene di Natale, " 73
La chiesetta, " 76
Canzonette di primavera, " 77
Lasciamole volar, " 79
I consigli del vecchio marinaio, " 83
Il maestro contento, " 85
La villetta chiusa " 89
Dopo la pioggia " 91
Il funerale del povero " 93
Il fabbro " 96
I vecchietti " 98
Le due poesie " 100
La sartina " 103
Angelina " 105
Maria " 106
L'acqua e il sasso " 108
Il sorriso " 109
Predichetta " 111

Feste e glorie

Brindisi dei tipografi " 115
A Victor Hugo (salmo) " 120
All'Italia " 123
Ode a Verdi " 127
Alla tomba di Re Vittorio Emmanuele II " 132
I fratelli Cairoli " 137

PARTE TERZA

Gli Intimi sensi

Sul campo della battaglia " 141
Il canto della pietà " 148
Solitudine (Chiaravalle Milanese) " 154
Il canto dell'ulivo " 159
Evocazioni " 164
Le ore della vita " 170
Funerale bianco " 178

Lagrime

Il triste ritorno " 183
Voce dall'alto " 191
Le visioni del cieco " 195
Preghiera " 203

End of Project Gutenberg's Vecchie cadenze e nuove, by Emilio De Marchi