The Project Gutenberg eBook of Fiore di leggende

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Title : Fiore di leggende

Editor : Ezio Levi

Release date : November 21, 2006 [eBook #19886]

Language : Italian

Credits : Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (Images generously made available by Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)

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SCRITTORI D' ITALIA

FIORE DI LEGGENDE
I
CANTARI LEGGENDARI

FIORE DI LEGGENDE

CANTARI ANTICHI
EDITI E ORDINATI DA
EZIO LEVI

Io prego voi che ciaschedun m'intenda, però che questo è il fior della leggenda.

Regina d'Oriente , c. III, ott I.

SERIE PRIMA
CANTARI LEGGENDARI
BARI

GIUS. LATERZA & FIGLI

TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI

1914 PROPRIETÀ LETTERARIA

MAGGIO MCMXIV—38475

Io veggo storie, favole e novelle, nuove ed antiche, tutte stare a schiera dinanzi a me, con lor senbianze belle, piú che non sono i fior di primavera, e gli autori, or di queste, ora di quelle, m'invitan con sí dolce lor matèra ch'io non so quale in prima cominciare o di qual piú vi piaccia udir cantare.

Il cantare dei cantári , St. 4.

I

IL BEL GHERARDINO

CANTARE PRIMO

1

O Gesò Cristo, figliuol di Maria, che pegli peccator pendesti in croce, non seguitare la mia gran follia, sed io inver' di te mai fui feroce: concedi grazia nella mente mia, favoreggiando me colla tua voce, ch'io dica cosa ch'a te non offenda, e questa gente volentier la 'ntenda.

2

Con ciò sia cosa che questo cantare sia dei primi ch'io mai mettessi in rima, però vo' far perfetto incominciare, e ritornare al buon detto di prima, sicch'a costor, che mi stanno a ascoltare, piaccia e diletti dal piede alla cima: però averete ad ascoltar memoria ch'io vi farò d'una romana storia.

3

Nella cittá di Roma anticamente aveva una colonna in Campidoglio, che v'era scritto ogni uom prode e valente, saggio e cortese, come legger soglio; sicché, tornando brieve a convenente, d'un franco cavalier contar vi voglio, che fu figliolo di messer Lione, signor del Patrimonio per ragione.

4

Quando messer Lion venne alla morte, chiamò i suo' tre figliuoli a capo chino, e al maggior, che dovea regger la corte, raccomandò quel ch'era piú fantino, e questo fu che poi fu tanto forte, che si chiamava "lo bel Gherardino": dicendo:—Gherardin ti raccomando,— passò di questa vita lagrimando.

5

Dopo la morte di questo signore rimason tre fratei co' molto avere, e il piú cortese di lor fu il minore, che sempre corte volle mantenere; e gli fratelli n'avien gran dolore, perché facealo contra al lor volere; e' gli assegnaron parte del tesoro. E' fu contento, e partissi da loro.

6

Se prima tenne corte co' fratelli, poi la tenne maggior sette cotanti, con bracchi e veltri e virtudosi uccelli, palafreni e destrier co' molti fanti, sempre vestendo di molti donzelli, cavalier convitando e mercatanti; sicché per Roma e per ciascun cammino si ragionava del Bel Gherardino.

7

Oltra misura fu tanto cortese, che poco tempo la poté durare, e la sua povertá fu sí palese, che gli sergienti incominciò a cacciare; e, non avendo di che fa' le spese, senza cavallo non sapeva stare. E gli frategli né nissun parente di lui non ne voleano udir niente.

8

Bel Gherardin, che suo vita procura, di doglia e di vergogna si moria; ma pensossi d'andare alla ventura sol per escir di tal malinconia. Ed un donzel, ch'amava oltra misura, chiamò segretamente, e sí dicia: —Or vuo' tu venir meco, Marco Bello, ed io ti tratterò come fratello?—

9

E Marco Bello neente gli disdisse per la voglia ch'avíe di lui servire; ed al presente gli rispuose e disse: —Io vo' con teco vivere e morire.— E innanzi che di Roma e' si partisse a creatura nol fece a sentire: 'nsu n'un ronzino, ciascheduno armato, di Roma si partiron di celato.

10

E, cavalcando tutti traspensati, piú e piú giorni sanza dimorare, fûr una notte in un luogo arrivati, che non v'aveva casa ove albergare. E senza cena, la notte, affannati, non ristetton per ciò di cavalcare. E quando apparve l'alba de lo giorno, e Marco Bello si guardò d'intorno.

11

E, ragguardando per quella pianura, di lunga vide un nobile castello, ch'era cerchiato d'altissime mura. Al mondo non aveva un par di quello; non poria cantar lingua né scrittura d'esso, quant'era fortissimo e bello. E dentro sí vi aveva un bel palagio. E cavalcaron lá per prender agio.

12

Ma, quando furon giunti in quella parte, davanti a Gherardin venne un serpente; e uno grande orso (ciò dicon le carte) assalí Marco Bel subitamente: tali eran fatti star solo per arte, uomini solean esser primamente; e cosí gli assaliron su la strada, onde ciascun cacciò mano alla spada.

13

E lo serpente, per l'aria volando, davanti a Gherardin trasse a ferire; e Gherardin si difendea col brando, però che sapea ben dello schermire; dicendo:—Iddio, a te mi raccomando: non mi lasciar cosí impedimentire!— però che unque 'l serpente lo toccava coll'ale, tutte l'arme gli tagliava.

14

A Gherardin ne paria molto male che lo serpente gli facia tal guerra: ficcò la spada nel mezzo dell'ale, davagli un colpo, se 'l cantar non erra, che fu per lui sí pessimo e mortale, che di presente cadde morto in terra; e, nel cader che fe', misse gran guai, e disparí che non si vidde mai.

15

Morto il serpente, e Gherardin provide a Marco Bel, che combattea coll'orso, gridando a voce:—L'orso mi conquide, se da te, Gherardin, non hoe soccorso.— E Gherardin, che suo fatto ben vide, sprona il ronzino e inver' di lui fu corso; e, come l'orso lo vidde venire, Marco lascioe, e lui trasse a ferire.

16

Uno animal cosí feroce e visto, che non si vidde mai tra l'altre fiere, che colla branca quel ronzin fe' tristo, che morto cadde sotto al cavaliere. Gherardin chiama forte:—Iesú Cristo, ora m'aiuta, che mi fae mestiere!— E da Marco non potea avere aiuto, però che avea ogni valor perduto.

17

E Gherardin si levò prestamente: colla sua spada giá non fece resta, e ferí l'orso nequitosamente: davali un colpo di sopra la testa, che lo fendeva infino al bianco dente; e Marco Bel di ciò facea gran festa! E, nel cader, disse l'orso:—Donzello, tu hai morto il signor d'esto castello!—

18

E Gherardin, ch'avea la bestia morta, maravigliossi che l'udí parlare: nella sua mente tutto si conforta. A quel palagio presono ad andare; e, quando fûrno giunti a quella porta, e Marco Bello incominciò a picchiare, la porta fue aperta immantanente: ma chi l'aperse non videro neente.

19

Dismontarono e fûr sopra alla scala que' che l'un l'altro ma' non abandona. E, quando fûrno giunti in su la sala, non vi trovâr né bestia né persona. In quello tempo lo freddo non cala. Uno con l'altro insieme si ragiona. Per tal maniera dimorando un poco, ad un cammin vidon racceso un fuoco.

20

Sicché ciascun si facea maraviglia; ché chi 'l facesse non potien vedere. Guardandosi d'intorno a basse ciglia, per iscaldarsi andarono a sedere. Fra loro insieme ciaschedun pispiglia: —Se da mangiare avessimo e da bere, avventurati sarem sette tanti piú che non fûrno i cavalieri erranti!—

21

Benché persona non vi si vedesse, ciò che dicien fra lor erano intesi; e tavole imbastite furon messe, fornite ben di molti belli arnesi: ceri e lumiere v'eran molte e spesse; e que' baroni per le man fûr presi. Quando a tavola furono i baroni, recate fûr di molte imbandigioni.

22

Molto fûr ben serviti a quella cena, ma non vedien sergenti né scudieri; e poi, istando in cosí fatta mena, avevan sopra ciò molti pensieri; onde ciascun di lor ne stava in pena, e quasi non mangiavan volentieri. E, quando ebben cenato, e' ritornarono al fuoco, donde prima si levarono.

23

Quando fu tempo d'andare a dormire, in bella zambra ciascun fu menato, e a uno bel letto, ch'io nol potrei dire. Bel Gherardin vi si fu coricato, ed una damigella, a lo ver dire, si fue spogliata di presente a lato, dicendo:—Non aver di me spavento, ch'io son colei che ti farò contento.—

24

E Gherardin, che le parole intese, rassicurato fu co' lei nel letto; e la donzella fra le braccia prese, che di bellezze non avea difetto; e sopra il bianco petto si distese, baciando l'un l'altro con gran diletto. E, s'egli è vero quel che il cantar mostra, piú e piú volte d'amor feciono giostra.

25

Signor', sacciate che questa donzella si faceva chiamar la "Fata bianca", e mantenea cittadi e castella con molta quantitá, se il dir non manca. Del serpente e dell'orso era sorella: delle sette arti vertudiosa e franca, contrafatti per arte gli fea stare, per poter meglio il suo signoreggiare.

26

Quando ebbono assaggiato il dolce pome, avendo l'uno l'altro al suo dimino, la Fata bianca il domandò del nome, e egli rispuose:—Lo Bel Gherardino.— E po' sí le contò il perché e il come della cittá di Roma e' si partîno, e come ciò che in questo mondo avía, tutto l'avea dispeso in cortesia.

27

E, quando quella damigella intese come cortese e largo egli era istato, d'una amorosa fiamma il cor l'accese, che non trovava posa in nessun lato; e Gherardino fra le braccia prese, e con bramosa voglia l'ha baciato. Ed e', veggendo la sua innamoranza, come da prima incominciò la danza.

28

Come del giorno apparve alcuno albore, la Fata bianca in piè si fu levata, ed una roba d'un ricco colore a lo Bel Gherardin ebbe recata. E poi a Marco Bel, suo servidore, un'altra bella n'ebbe rapportata. E quando tempo fu, sí si levarono; vestirsi quegli, e li lor non trovarono.

29

Se Gherardin parea prima giocondo ch'avesse roba di si gran valenza, ben parea poi signor di questo mondo, tanto era bella la sua appariscenza! Di zambra uscí, e Marco Bello secondo, che non v'era persona di presenza, se non quella donzella che gli guata, che nolla veggon, perché sta celata.

30

Disse Bel Gherardino allo scudiere: —Andiamo un poco di fuori a sollazzo,— e uno bel palafreno ed un destriere trovâr sellati, e non v'avea ragazzo! montârvi suso, e non v'avien ostiere! Gherardin corre il destriere a sollazzo, e be' lo mena a sinistra ed a destra, e la donzella stava alla finestra.

31

Quando a lor parve tanto essere stati, e' tornâro al palagio a disinare: ed ogni giorno s'erano avezzati d'uscir di fuori un poco a sollazzare; e ogni volta, quand'erano tornati, trovavan cotto per poter mangiare. Ed ogni notte, per diletto, avea Gherardin quella che il dí non vedea.

32

Tre mesi e piú cotal maniera tenne Bel Gherardin con allegrezza e strada; ed una notte sí gli risovenne della sua gente e della sua contrada. E quando quella pena sí sostenne, piú non vedea quella che sí l'agrada; e' con temenza alla donzella disse che le piacesse che si dipartisse.

33

E disse:—Dama, non vi sia pesanza, se contro a la tua voglia io ti parlassi; io t'adimando e cheggio perdonanza, s'alcuna cosa nel mio dir fallassi: d'andare a Roma i' ho grande disianza: di subito morrei, s'io non v'andassi. Però ti priego che tu mi contenti, ch'io veder possa gli amici e' parenti.

34

E la donzella al cor n'ebbe gran doglia, ch'a gran fatica gli fece risposta. Per Gherardin tremava come foglia, considerando che da lei si scosta. Ma pur, veggendo sua bramosa voglia, sí gli rispuose, quando ella ebbe sosta: —Ben ch'il mio cor del tuo partir tormenta, po' ch'a te piace, ed io ne son contenta.—

35

A la partita gli donava un guanto, e disse:—Ciò che vuogli, tu comanda; e tu l'avrai; non chiederesti tanto, cavalieri o danari over vivanda.— Queste parole gli disse con pianto; ma finalmente cosí gli comanda: —Non sia persona a cui lo manifesti, ché ciò che tu averai, sí perderesti.

36

E quella gente, che tu troverai, con teco mena, ch'e' ti ubidiranno. Di me sovente ti ricorderai; ma fa' che tu ci sia in capo all'anno: in tua presenza allor mi vederai con molte dame che mi serviranno; e sposera' mi a grandissimo onore: sarò tua donna e tu siei il mio signore.—

37

Perché a Roma torna volentieri, Bel Gherardin da lei prese commiato. E covertati trovò due destrieri, sí che ciascuno a cavallo è montato: e mille cinquecento cavalieri trovò fuor del castello insú in un prato; e sessanta vestiti ad una taglia, e molta salmeria, se Iddio mi vaglia.

38

Siccome valoroso capitano. Bel Gherardin disse lor:—Cavalcate.— Eglin gridâr:—Viva il baron sovrano!— con molte trombe innanzi apparecchiate; ed ogni gente fuggía per lo piano. E cosí cavalcâro piú giornate, tanto che fûr nel contado di Roma, e la novella a la cittá si noma.

39

Quando fûr pressi a Roma, a cinque miglia, tender vi fe' trabacche e padiglioni: e il padre santo se ne maraviglia, che non sapea di lor condizioni: montò a cavallo con la sua famiglia, con compagnia di molti altri baroni, ed altra gente molta e' suoi fratelli contra a costoro andâro per vedelli.

40

E il padre santo ben lo cognoscea, siccome egli era di grande legnaggio. e, co' fratelli insieme, gli dicea: —Donde avestú cotanto baronaggio?— Ed egli a tutti quanti rispondea: —Come Iddio volle, io ho tal signoraggio.— E tanto non poteron domandare, che volesse altro lor manifestare.

41

Ne la cittá con grande onore entrava Bel Gherardin e sua gente pregiata, ed ogni gente si maravigliava della gran baronia ch'avíe menata: e tutta gente di lor ragionava, facîendo festa della sua tornata. E co' fratelli in casa si ridusse con quella gente ch'a Roma condusse

42

Sí bella corte tenne quel barone, che dir non si potrebbe né contare. Se v'arrivava giullare o buffone, era vestito sanza addomandare; e non sapea neun suo condizione, come potesse sí corteseggiare. E ben tre mesi fe' corte bandita, che per vertú del guanto era fornita.

43

E una sera, quand'ebbono cenato, e la madre il chiamò segretamente, e disse:—Figliuol mio, dove se' stato, po' che del tuo partir fui sí dolente?— E poi appresso l'ebbe dimandato come potea tener cotanta gente; e finalmente tanto il dimandoe, che ciò ch'egli avíe fatto le contoe.

44

E disse siccome egli aveva avuta la Fata bianca, che l'era suo sposa. E, come la parola fu compiuta, dipartissi la gente ed ogni cosa, e la vertú del guanto fu perduta; onde suo madre fu molto crucciosa. E Gherardino e Marco, lagrimando, partirsi, e lei lasciaron sospirando.

45

Sol ha un ronzin ciaschedun, sbigottito. Gherardin mosse lo ronzin predetto, e cavalcando partesi smarrito, e ragionando andava il suo difetto. Siccome della fata fu marito, nel secondo cantar vi sará detto, e come del paese fu signore. Questo cantare è detto al vostro onore.

CANTARE SECONDO

1

O Padre, e Figlio, e Spirito Santo, che venir ci facesti in questo mondo, al vostro onor comincio questo canto. Benché 'n semplicitade ognora abondo, concedi grazia ne lo mio cor tanto, ch'assai piú bello sia, ch'è lo secondo; e, se a lo primo avessi a voi fallato, per lo secondo fie ben ristorato.

2

Signori e buona gente, voi sapete che in prima è l'uom discepol che maestro; e le vertú, ch'agli uomini vedete, procedon dal Signor, Padre cilestro. Però s'i' fallo, non mi riprendete, che di tal arte non son ben maestro: che vi vo' dire, col piacer divino, ciò che intervenne a Marco e a Gherardino.

3

Nell'altro cantar sapete ch'io dissi come a la madre manifestò il guanto, e come la suo gente dipartissi, e rimasono in tormento ed in pianto; or vi dirò che, seguitando, addissi. Pognendo ogni pensiero da l'un canto, ascoltate, signori, in cortesia, ch'io intendo trarvi di malinconia.

4

Bel Gherardino e Marco si partiéno, addolorati nel core amendue, e come fuori della cittá usciéno, Gherardin disse il fatto come fue, dicendo:—Marco mio, come faremo, che danar né derrate non ci ha piue?— E Marco disse:—Non ci sgomentiamo: a quella dama ancor ci ritorniamo.—

5

E, cavalcando insieme per costume, arrivarno una sera lungo il mare ad una fonte dove mette un fiume, che 'l conveniva loro pur passare; ed era notte e non si vedea lume, ma pure incominciarono a passare. E come furon nel mezzo del varco, dentro vi cadde Gherardino e Marco.

6

Ciascun ronzino pel fiume fuggiva, e' cavalier' l'un l'altro non vedea. Cosí ciascun tornando inver' la riva, la sua disaventura ognun piangea. Ed in quel tanto una donna appariva in una navicella, e si dicea: —Deh, come ti sta bene ogni mal c'hai, Bel Gherardin, po' che voluto l'hai!—

7

E nella nave Bel Gherardin chiama, e medicollo, ch'avea sconcio il braccio, e disse:—Io son scrocchia della dama; per lo suo amor ti fo quel ch'io ti faccio: però che soe ch'ella cotanto t'ama, sí ti volli cavar di questo laccio.— Ad una ròcca, che era in mar, menolli; dentro v'entrâr cosí fangosi e molli.

8

La dama si partie; e quel valletto riman con Marco Bel malinconoso; e riguardandosi l'un l'altro il petto, e Gherardin veggendosi fangoso, uscí fuori ed entrò in uno barchetto sol per lavarsi dov'era terroso. E come la nave fue di lui carca, una fortuna menò via la barca.

9

E la donzella fu tanto maestra, che gli fe' pace far colla scrocchia; poi si partine valorosa e destra, ed entrò in mare e fu presso alla ròcca e chiamò Marco, ch'era alla finestra, a maggior boce che l'uscíe di bocca: perché Bel Gherardin non v'avea scorto, fra suo cuor disse:—Questi fia morto!—

10

Quando ella ne la ròcca fue entrata, trovoe Marco far sí gran lamento. Ella diceva:—Oh lassa isventurata! ov'è lo mio signor, che io nollo sento? Or ben si crederá la Bianca Fata, ch'io l'abbia fatto questo a tradimento! Dimmi che n'è, o io m'uccideraggio.— Ed e' rispuose:—Ed io vel conteraggio.

11

Vedendosi fangoso, come adviso —disse il donzel, battendosi la gota,— e' si volea lavar suo' mani e viso, che si n'era cotanto pien di mota. Guardandol io da la finestra a fiso, entrar lo vidi in una barca vota; e come vi fu dentro, in fede mia, una fortuna venne, e menòl via.—

12

Disse la dama:—Non ci diam piú ira, e mise Marco Bello entro la nave; e, navicando, tanto fiso il mira, ch'Amor nel cor ne le mise una chiave; sicché, parlando, per amor sospira. E, ragionando, per lo mar soave, la barchetta in una isola percosse, sicché la dama tutta si riscosse.

13

E Marco Bello, che di ciò s'avvide, che la donzella avíe avuta paura, co' lei insieme forte se ne ride, e dice:—Or, donna mia, te rassicura, ch'io t'imprometto, ch'amor mi conquide, se io non godo tuo gentil figura.— E poi discese in terra quel donzello, ed appiccò la nave a un albuscello.

14

E la donzella del legno discese, che forse voglia di lui n'hae maggiore, e contra a lui niente si contese: in su l'erbette sopra al bianco fiore Marco Bello di lei diletto prese molte volte, baciandola d'amore. E poi andaron nella navicella per ritornare alla Bianca donzella.

15

La fata, che gli aspetta con letizia, e lo Bel Gherardin co' lor non vede, nello suo cuor sí n'ebbe gran tristizia, e che fie morto veramente crede: ma, pur udendo che sanza malizia l'aqua sí 'l n'ha menato, si die' fede che fosse vivo, cosí fatto stando; e stette insin che fu compiuto l'anno.

16

E lo Bel Gherardin, per la fortuna, al porto d'Allessandria fu arrivato, lá dove molta gente si raguna. In quella notte il mare fue crucciato: non si vedea, tanto era l'aria bruna. In quella terra cosí era usato, che, se v'arriva niuno cristiano, si egl'era imprigionato dal Soldano.

17

In quella notte fûr presi e legati, e fûr menati davanti al signore, e comandò che sieno imprigionati tutti i cristian per maggior disinore. Cosí ne fur nella prigion serrati tutti i cristian ciaschedun a furore. Gherardino dall'un canto si stava, e mai nel viso non si rallegrava.

18

E quando venne terza, la mattina, una che dava mangiare a' prigioni, che per usanza mandava la Reina di quel che mangiava ella e i suoi baroni, e lo Bel Gherardin per cenno inchina: —Dimmi chi se', e vo' che mi perdoni.— Et e' rispuose molto volentieri: —Io sono un damicel che fu pres'ieri.—

19

E la donzella a casa fu redita, e disse a la reina di costui: —Madonna mia, in tempo di mie vita non viddi un bel donzel come colui!— E come ella ebbe la parola udita, subitamente innamoròe di lui, e fecelo venire a sé davanti, ed e' s'inginocchiò con be' sembianti.

20

Ed ella, raguardandol nel visaggio, sí 'l domandò:—Sapresti tu servire?— et e' rispuose:—Molto di vantaggio, di coppa e di coltel me' ch'altro sire.— Ed ella, lo veggendo tanto saggio, si 'l dimandòe, se vuole ubbidire. Ed e' rispuose:—Molto volontiere farò, madonna, ciò che v'è in piacere.—

21

Cosí fu Gherardin suo servidore, che di tale arte era molto sottile: e quel signor gli puose molto amore, che quasi tutti gli altri tenne a vile. E la reina ne 'nfiammò nel core, perché ella il vedea tanto gentile. Ella li disse:—Il tuo amor mi bisogna!— Egli rispuose con molta vergogna:

22

—Io v'addomando e cheggio perdonanza, ch'i' non farei tal fallo al signor mio.— Ed ella il prese con molta baldanza, dicendo:—Se non fai quel ch'io disio, io griderò, che non è mia usanza, e farotti morire, in fé di Dio.— E in quel punto gli gittò il braccio in collo; e cosí il prese per forza e baciollo.

23

Ed e', veggendo che non può stornare che egli non faccia il suo comandamento, fra suo cuor disse:—E' mi convien pur fare, ed io ne vo' fornire il suo talento.— E sí la prese sanza piú indugiare; del gran disio, ch'è pieno d'alimento, al suo voler di quelle rose colse, e poscia per piú volte se ne tolse.

24

Istando Gherardino in tale stato, la Fata bianca fa di lui cercare. Quando ella vede che non l'ha trovato, disse:—Al postutto io mi vo' maritare, perch'ella vede che l'anno è passato, che per sua donna la dovíe sposare. Allor per tutto il mondo il bando manda; gli amici priega ed i servi comanda,

25

da parte de la Fata, che si mostra, ch'ogni prode uomo e di grande ardimento de l'arme s'apparecchie e facci giostra, e per combatter vada al torniamento. E chi avrae l'onor di quella giostra, la sposerae con grande adornamento; siccome "re signore" fia chiamato, a la donzella insieme incoronato.

26

Quando il soldano udí quel bando andare per Alessandria, mosse con sua gente, e lo Bel Gherardin volle menare. E' non volea, per essere ubidente. Quando fu ito, incominciò a parlare a la reina molto umilemente: —Datemi la parola, alta reina, ch'io vada a quello stormo domattina.—

27

Disse la dama:—Avresti tanto ardire che tu ti dipartissi e me lasciassi? Ma volentier vi ti lascerei ire, se io ne credessi che tu a me tornassi.— Ed e' rispuose:—Dama, a lo ver dire, non potrebbe stornar ch'io non v'andassi, che io credo sposar quella fanciulla: di ritornar non v'imprometto nulla.—

28

Quando ella vide ch'elli n'era acconcio d'andare a quello stormo sanza fallo, sí gli rispuose, portandoli broncio: —Sanza te, mai non avrò buono stallo. Ma ben che la tua andata mi sia sconcio, io pur ti donerò arme e cavallo; ma tu mi giurerai, se Dio ti vaglia, d'uccidere il soldan nella battaglia.

29

Però che mi pare tanto invecchiato, che non val nulla a la mia giovanezza; non posso sofferir di stargli a lato, pensando che ha a goder la mia bellezza! Prenditi cura a provveder mio stato: se ti vien fatto per me tal prodezza, a lo tuo senno mi mariterai; saroe contenta piú che fossi mai.—

30

Poi gli donòe tre veste di zendado, una verde, una bianca, una vermiglia, e tre destrier, che si veggon di rado piú begli intorno a cinquecento miglia. De l'aver tolse quanto li fu a grado, donzelli e fanti con molta famiglia, trabacche e padiglion: poi si partío da la donzella e accomandossi a Dio.

31

E tanto cavalcò per piú giornate, che giunse presso a lo stormo predetto, ed allungossi ben due balestrate per istar piú celato in un boschetto. E disse a la sua gente;—Or m'aspettate, ch'io vo' veder come il campo è corretto.— E vidde il soldano ch'era campione, e ritornòe inverso il padiglione.

32

E la mattina, come apparve il giorno, la Fata bianca vae agli balconi con molte dame e damigelle intorno, per veder que' che votasse gli arcioni. Come la gente udí sonare il corno per la battaglia, parevan leoni. Quale era proe e quale era codardo; il soldan sopra tutti era gagliardo.

33

E lo Bel Gherardin, veggendo questo, che quel soldan sí malamente lancia, in sul destriere cosí armato e destro, pigliò lo scudo ed imbracciò la lancia. Veggendo che 'l soldan fa tal molesto di questa gente, non gli paríe ciancia. Veggendo che ciascun contro a lui perde, andògli incontro colla vesta verde.

34

E tal colpo gli diè sopra lo scudo, che 'l fece a terra del destrier cascare. Agli altri si volgea col brando ignudo; beato chi meglio lo può levare! Però ch'ogni suo colpo è tanto crudo, chi ne pruova uno, non ne può scampare; sicché il campo fu suo per questa volta, poi ritornava nella selva folta.

35

Disse la dama, ch'è stata a vedere: —Dove andò il cavalier di verde tinto?— E da la gente nol poté sapere chi fosse que' ch'avie lo stormo vinto. Altri dicea:—Egli è uno cavaliere, egli e il cavallo di verde dipinto!— E di lui non è altri che risponda; sicché vedremlo alla volta seconda.

36

Al secondo sonar l'altro mattino, el soldan d'Alessandria die' per costa; e quale iscontra al dubbioso cammino, la suo venuta molto cara costa: e, combattendo come paladino, rimase il campo a lui in poca sosta, gli altri fuggendo, il soldan seguitando, mettendogli per terra, scavalcando.

37

E lo Bel Gherardin molto sdegnosse, veggendo che 'l soldano era vincente. Dal padiglion di subito si mosse, inver' di lui cavalca arditamente, e per sí gran possanza lo percosse, che morir crede quando il colpo sente, e sbalordito fugge e non soggiorna: e Gherardino al padiglion ritorna.

38

Tutta la gente, che d'intorno stava, cridavan:—Viva il cavalier vermiglio!—e la donzella si maravigliava, e colle dame faceva consiglio: ed in quel punto nel suo cuor pensava: —Sed e' ci torna, io gli darò di piglio!— E dice a l'altre:—Deh! guatate donde dello stormo esce e dove si nasconde.—

39

La Fata bianca, al cavalier pensando, addormentar non si puote la notte, e nel suo cuore giva immaginando: —Chi sare' que' che vien pure a sodotte? Quando lo stormo ha vinto, tal domando, par che nascoso sia sotto le grotte! Il cuore in corpo tutto mi si strugge di voglia di saper perché si fugge.

40

E uno pensier nel core levo adesso: sarebbe questi il mio antico sposo? Io lo 'nprometto a Dio, che, se fosse esso, altro marito che lui i' tôr non oso, conciosacosa ch'io gliel'ho inpromesso: senza lui ma' non credo aver riposo.— E disse:—Signor mio, datemi grazia, ch'io abbia del suo amor la mente sazia!—

41

E, quando il giorno chiaro fu apparito, fece sonar le trombe e li stormenti. I cavalieri furno al cerchiovito, e molti fan pensier d'esser vincenti. A tanto giunge il cavaliere ardito, ciò fu il soldan, con altri sofficienti, che per un suo nipote combattea, che per marito a lei darlo credea.

42

Quando le schiere furon tutte fatte, presente quella ch'è cotanta chiara, il soldan, che in sul campo combatte, fa tristo quel che innanzi gli si para, però che del destrier morto l'abatte, e tal ventura a molti costa cara. E molta gente gli fuggiva innanzi, sicché è mestier che tutti gli altri avanzi.

43

Veggendo la donzella che il soldano gli altri baron di prodezza avanzava, pensando aver per marito un pagano, nella sua mente forte dubitava, e spesse volte a l'alto Iddio sovrano nella suo mente si raccomandava, e dicea:—Signor mio, se t'è in piacere, fa' ritornare il franco cavaliere!—

44

E lo Bel Gherardino niente tarda; coll'arme bianca uscíe della trabacca. E la donzella, che da lunge il guarda, che correndo il cavallo venne in stracca, fra l'altre dice, di color gagliarda: —Questo soldano ci è omai per acca, ch'io veggio il cavalier, ch'è cosí franco, a lo stormo tornar vestito a bianco.—

45

Come a lo stormo il Bel Gherardin giunse, riconobbe il soldano a l'armadura, e 'l buon destriero degli sproni punse: abbassa l'asta e inver' di lui procura, e co' la lancia in tal modo l'aggiunse, che il fe' cadere in su la terra dura. E, qui ismontando, di franchezza giusto, e' tagliolli la testa da lo 'nbusto.

46

E rimontò a cavallo arditamente; piú presto che non fu giammai levriere, innanzi li fuggia tutta la gente, gridando:—Viva il franco cavaliere!— Cosí del campo rimase vincente, come il lion, signor de l'altre fiere. Incoronato insieme fue co' lei, con tal onor che contar nol potrei.

47

Po' ch'a la Fata ebbe dato l'anello, gran festa fae che l'hae ricognosciuto. E la serocchia diede a Marco Bello, ed hallo sempre con seco tenuto. E quella del soldan diede a un donzello di gran legnaggio, cortese e saputo; e novanta anni vivette signore. Questo canto è compiuto al vostro onore.

II

PULZELLA GAIA

CANTARE PRIMO

1

Intendete me ora tutti quanti in cortesia ed in buona ventura: dire vi vo' de' cavalieri erranti, ch'al tempo antico andava all'avventura. In corte allo re Artú sedean davanti, secondo come parla la scrittura, incominciando di messer Troiano, che fece un vanto con messer Galvano.

2

Messer Troiano disse:—O compagnone con teco i' voglio impegnare la testa, chi addurrá piú bella cacciagione di nullo cavalier di nostra gesta.— Quando elli fecion la impromissione, al re e alla reina fe' richiesta; e ciaschedun la lesta sí impegnava, chi cacciagion piú bella appresentava.

3

Entrati i cavalieri a quelle imprese, inverso 'l bosco preson lor cammino. Messer Troiano una cerva sí prese, ch'era piú bianca di un armellino. E tuttavia la menava palese: veder la potea grande e piccolino. Davanti lo re Artú saluta e inchina; poi presentolla a Ginevra regina.

4

Messer Galvan cavalca alla boscaglia: allo levar del sole ebbe trovato una serpe, che 'l chiese di battaglia; sopra lo scudo ella li s'ha gittato. Messe mano alla spada, che ben taglia, credélla aver ferita nel costato: la serpe, che sapeva ben scremire, messer Galvan non la puote ferire.

5

Infin a mezzogiorno ha contrastato messer Galvan con quella sozza cosa; un solo colpo non li può aver dato, tant'era quella serpe poderosa. L'elmo e lo scudo aveva infiammato; messer Galvano non trovava posa. Messer Galvano disse:—Aimè lasso! che sozza cosa m'ha condotto al basso!—

6

Messer Galvano a terra si smontava, e disse:—Lasso! ch'io mi rendo morto. La serpe andava a lui e sí parlava, e disse:—O cavalier, prendi conforto.— E dolcemente lei lo addimandava: —Dimmi la veritade, o giglio d'orto, per cortesia e per amor di donna: saresti della Tavola ritonda?—

7

Messer Galvano allor li rispondía, e nello cuore avea fuoco ed ardura; delle man per lo viso e' si fería, vedendo quella sí sozza figura: —Della Tavola esser mi credía; or non son piú, per la disavventura, a dir ch'io sia, e non avere ardire sí sozza cosa conduca al morire!—

8

La serpe disse:—Deh! non ti sdegnare, o cavaliero, se tu non m'hai morta. Quanti n'è qui e n'è di lá dal mare de' piú pro' cavalieri che arme porta, un solo colpo non mi potria dare, tanto io sono poderosa e accorta. Giá piú di mille aggio discavalcati: tu se' lo fior di quanti n'ho trovati.—

9

Disse messer Galvano:—Io non mi sdegno se non per tanto ch'io non ho la morte, da poi che piace all'alto Dio del regno che la sventura mia sia tanto forte, che cosí sozza cosa con suo ingegno m'abbia condotto a cosí mala sorte. Dammi la morte e piú non indugiare, ch'io non ti vo' veder piú, né parlare.—

10

La serpe disse:—O sire, in cortesia, dimmi 'l tuo nome e non me lo celare; ch'è un gentil cavaliere in fede mia, che lungo tempo l'ho avuto a amare. Se tu se' desso, o dolce anima mia, di ricche gioglie t'averò a donare; che mai piú ricca gioglia né piú bella non ebbe cavalier che monti in sella.—

11

Messer Galvan rispose:—Altri che Dio di te non poría fare cosa bella; ma, poi che vuoi saver lo nome mio, lo sire Lancilotto ogn'uom m'appella.— La serpe li pon mente con disio, e disse:—Tu m'inganni alla favella. Di arme ho avuto a far con Lancilotto: tu se' di lui molto piú saggio e dotto.—

12

Messer Galvano sí prese a parlare, e sí li disse molto umile e piano: —Ora m'intendi, pessima mortale— e l'elmo si cavòne con la mano, —vegno appellato da tutti 'l liale e avventuroso cavalier Galvano. Se da te scampo ch'io non sia morto, i' prenderò allegrezza e gran conforto.—

13

La serpe l'udía molto volentieri; di quella forma s'ha strafigurata: piú bella che una rosa di verzieri si fece una donzella dilicata; e disse:—Ora m'abbraccia, o cavalieri, ch'io sono la tu' amanza a sta fiata.— Puoseli 'l braccio al collo e l'ha abbracciato, dicendo:—Tu se' quel c'ho disiato.—

14

Messer Galvano allor ne fu gioioso, e di buon cuore abbracciò la donzella. Ed ella:—O cavaliero avventuroso piú che nullo che mai montasse in sella!— E lui li disse:—O bel viso amoroso, voi che parete in tutto un'angiolella, dite chi sète e di cui sète nata, voi che parete un'angiola informata.—

15

La donzella rispose umile e piana: —Io tel dirò, da poi che 'l vuoi sapere. Figliuola i' son della fata Morgana, di quella donna che guarda l'avere. Molto gran tempo i' son stata lontana, e sí t'ho disiato pur vedere. Pulzella Gaia m'appella la gente: or di me prendi gioia allegramente.—

16

Messer Galvan non fece piú dimore, abbracciò la donzella, a quel ch'io sento, e della rama ben ricolse il fiore della donzella piena d'olimento. E disse:—Ogni bellezza, o dio d'amore, m'avete data qui a compimento!— E cosí stetton fin nona passata Galvano con la rosa imbalconata.

17

Messer Galvano allor s'arricordava della testa ch'avea messa al paraggio; forte cominciò a pianger, lagrimava, perduto ebbe 'l colore del visaggio. La damigella allora li parlava, dicendo:—Cavaliero pro' e saggio, la veritá mi di' senza tardanza: forse non t'è 'n piacer ch'io sia tu' amanza?—

18

Messer Galvano disse:—Anima mia, di te mi tegno ricco e piú pagato che se lo mondo avessi in mia balía e 'l paradiso poi mi fosse dato. Ma da te mi part'or con gran dolía, mai non credo vederti in nessun lato. A corte e' mi conviene andar morire, c'ho fatto un vanto, e nol posso fornire.—

19

E la Pulzella disse:—O amor mio, to' questo anello e teco il porterai. Quante cose che son di sotto a Dio, se tu gliele addimandi, tu le avrai. E, quando mi vorrai al tuo desio, a questo anello m'addomanderai. Ma non manifestar la gioia avuta, ché l'anel la vertú avria perduta.—

20

Messer Galvano alla Pulzella giura di quella gioi' mai non manifestare, e infin la sera, appresso a notte scura, di lei e' non potevasi saziare. La serpe ritornò in sua figura; messer Galvano prese a cavalcare; e 'l primo don, che dimandò all'anello, si fu un destriero poderoso e bello.

21

E lo destrier li si fu appresentato; davanti gliel menava uno scudieri. Messer Galvano suso fu montato, e gioioso cavalca pel sentieri. Poi dimandò che presto li sia allato immantinente cento cavalieri, e dodici baron feriti a morte, che per prigioni andassono alla corte.

22

Poi dimandò una nuova cacciagione, che piedi di caval di drieto avesse, e quei davanti piedi di grifone, la coda d'uno pesce fatta avesse, e le ali con le penne di pavone, lo viso d'una femmina paresse, e un occhio avesse negro e l'altro bianco: sí nuova fiera non fu vista unquanco.

23

Li baroni sí giunsono alla corte e di messer Galvan fecion richiamo, che lui li avea feriti tutti a morte, —E noi per suo' prigioni ci rendiamo.— Poi con letizia giunse il baron forte, e i cavalier tutti incontra li andârno. Per vedere la caccia ch'ei menava molti baroni incontra si li andava.

24

Messer Galvan con cento cavalieri molto gioioso venía cavalcando; ciascuno aveva accanto 'l suo scudieri, con due poi drieto, in mezzo lor menando la nuova fiera sopra d'un destrieri: intorno tutti l'andavan guardando; giá non aspetta la madre la figlia per andar a veder tal meraviglia.

25

Piccoli e grandi, ognun sí l'inchinava; tutti dicevan:—Ben vegna 'l barone!— e quella nuova fiera, ch'ei menava, alla reina sí l'appresentòne. E la reina quella sí accettava, e in una zambra la messe al balcone; e tutti quei che quella sí vedeva molta gran meraviglia sen faceva.

26

Troiano avea paura di morire, e della corte tosto si partía. Messer Galvano si puose a dormire, e fu svegliato all'alba della dia. Ed all'anello tosto prese a dire: —Ora ti priego, non fare indugía! e tosto e di presente fa' che appaia nelle mie braccia la Pulzella Gaia.—

27

Dappoi li fu in piacer ch'ella venisse, e la Pulzella fu nelle suo bracce; entrambi duo pareva che morisse; piú si distendon che non fanno l'acce. E la Pulzella a lui quivi sí disse: —Fa' che lo nostro amor non si discacce! non lo manifestare e non lo dire, se questa gioglia tu non vuoi fornire.—

28

Messer Galvan rispose:—Non dottare! Or per la terra ogni dí egli armeggiava; tutta la gente fea meravigliare per la grande allegrezza ch'ei menava. E la reina lo fece chiamare, e in una zambra lei sí lo guidava. Di ricche gioglie li mostrò per certo: di sua persona li parlò scoverto.

29

Messer Galvan non ne vòlse far niente della regina suo vil piacimento. E la regina fe' venir presente donne e donzelle, e fece un torniamento. Li cavalieri, armati immantinente, fûr sul palazzo senza restamento. —Ciascun si vanti—disse la reina, —ch'io vo' sapere chi ha gioia piú fina.

30

Tutte le donne e tutte le donzelle e i cavalier si presono a vantare ciascuno delle gioie le piú belle, e quelle poi li convenía provare. Messer Galvano stava in mezzo d'elle, e poi e' cominciò cosí a parlare: —Dappoi che ciascheduno s'è vantato, io sopra ciò non voglio aver parlato.—

31

La regina chiamò messer Galvano, e li disse:—O malvagio iscognoscente, di questa corte tu se' 'l piú villano: tu non ti vanti di nulla al presente, ora ti dái un vanto piú sovrano di nullo cavaliero immantinente. Se tu se' cotal uom come ti fai, sovr'ogni cavalier ti vanterai.—

32

Allor messer Galvan disse:—Io mi vanto, e d'està cosa i' mostrerò certanza: io son avventuroso di cotanto piú d'ogni cavalier che porti lanza; e chi cercasse il mondo tutto quanto, non troveria una sí bella amanza come è la mia gentile damigella; e quella è il fiore d'ogni donna bella.—

33

E la reina disse a tutti quanti: —Lo bando della corte ora intendete, conti e baroni e cavalieri erranti, piccoli e grandi, quanti voi qui sète. Ciascheduno che s'hanno dato vanti, il terzo giorno a me ritornerete. Chi s'è vantato, e nol possa provare, tosto la testa li farò tagliare.—

34

La baronia di corte fu partuta; messer Galvano in suo zambra fu ito, ed all'anello disse:—Ora m'aiuta! tosto ti muovi, o messaggiero ardito, e la Pulzella Gaia mi saluta: di' ch'ella vegna col viso chiarito.— La vertú dell'anello era mancata, per quella gioia c'ha manifestata.

35

Messer Galvano forte lagrimava, e disse:—Lasso! ch'io mi rendo morto.— E a quell'anello pur si richiamava: —Di quel ch'io dissi i' non mi fui accorto!— e fortemente lui lo scongiurava: —Or mi soccorri, ch'io son a mal porto!— All'anel non valea lo scongiurare, ché piú vertude e' non poteva fare.

36

E 'l terzo giorno disse la regina: —Ciascuno del suo vanto sia fornito.— Messer Galvan di pianger non rifina, e nello viso tutto era smarrito. E sí chiamava:—O giovane fantina, Pulzella Gaia dal viso chiarito: se a te pur piace ch'io non sia morto, ora mi scampa, ch'io son a mal porto!—

37

Del terzo giorno fu il termin passato, all'anel non valea lo scongiurare; e per Galvano allora fu mandato, che tosto ei si dovesse apparecchiare venire a corte, dove è giudicato che a lui bisogna la testa tagliare. Drappi di seta nera ei s'è vestito: messer Galvano alla corte fu ito.

38

Disse lo re Artú:—Vegnami avanti lo ciocco, e la mannaia, e la mazza, con i baroni e cavalieri erranti, e tosto tutti vadan ver' la piazza.— Piangendo se ne andavan tutti quanti; messer Galvano ciascuno sí abbraccia. Donne e donzelle, tutte allor piangea d'un sí pro' cavalier ch'elli perdea.

39

Messer Galvan, lo nobile barone, lo ciocco e la mannaia lui portava; e questo fea perch'elli era ragione; ed aveal tolto a colui che 'l guidava, dicendo:—Poi ch'i'ho fatto tradigione alla Pulzella, che tanto mi amava, dappoi ch'i'ho fallato allo mio amore, ben è ragion ch'io muora con dolore.—

40

Messer Galvano alla piazza ne andava: di seta un drappo li fu appresentato. Messer Galvano suso si montava, lo ciocco e la mannaia have posato. Tutti li cavalier gran duol menava del buon Galvano, cavalier pregiato; e poi ciascuno indrieto torna presto: sua cruda morte non vuol aver visto.

41

Messer Galvano sí prese a parlare, e disse allo re Artú:—Or m'intendete: la baronia fate presto tornare; questa grazia, per Dio, mi concedete! Da tutti quanti mi vo' accombiatare; sarò contento, se 'l don mi farete. Tutti i baroni che son scritti in corte sí vegnano a vedere la mia morte.—

42

Lo re Artú sí li fece tornare; tutti a messer Galvan furono intorno; e tutti quanti aveano a lagrimare, e da messer Galvan s'accombiatôrno. Messer Galvano si prese a parlare: —Della mia morte non sono musorno. L'anima mia ne raccomando a Dio: morir vo', giacché piace all'amor mio.—

43

Galvano al ciocco allor s'inginocchiava, e sí chiamava:—O rosa imbalconata, poi che t'è a grado, morir non mi grava, la mia morte si fu ben meritata. Merta morire mia persona prava. Dove sei tu, o donna delicata? Pure una volta veder ti vorria; poi di morir non mi rincresceria.

44

Allora la Pulzella con pietade, per camparlo da morte e darli vita, tosto sí corse inver' quelle contrade; drappi di seta nera fu vestita. Molto gioiosa per quei sentier vade; mai non fu vista donzella sí ardita. E, per camparlo, lei si messe in via con molta gente e gran cavalleria.

45

E la Pulzella fece suo' richieste, ben trentamila giovani donzelle; tutte di seta nera fûr suo' veste, e quelle eran lucenti piú che stelle; e via cavalcan per ogni foreste. Ben eran venti schiere tutte belle; ciascuna aveva mille cavalieri, e buone arme e correnti destrieri.

46

Allora la Pulzella molto presta tostamente cavalca in quella parte, appresso a Camellotto senza resta, secondo come dicono le carte; tamburi e trombe, che parea tempesta; e queste gente fea venir per arte. Lo re Artú, quando questo ascoltava, al buon Galvano la morte indugiava.

47

Tutti li cavalier della ventura vedere andavan quella turba magna. Tosto elli corson, preson l'armadura, e cavalcâro verso la campagna. Di quella gente avevan gran paura, che coverto era 'l piano e la montagna. Messer Galvan davanti dalle schiere feridor lui vuoi esser lo primiere.

48

Pulzella Gaia sua magna bandiera in questa ora lá fece fermare. Quando lá apparve la chiarita spera, tutta la gente fe' meravigliare. E lei si trasse fuori d'ogni schiera, e fortemente prese a biastemare: —O cavalier, cattivo e disliale, che l'alto Iddio si ti metta in male!

49

O dislial, perché m'hai palesata? Mala ventura a chi ti cinse spada! La piú gentil donzella hai ingannata che si trovasse per ogni contrada; onde per te io sono imprigionata; ben vo' morir, dappoi ch'ella t'aggrada. Mia madre mi dará prigion sí forte, che meglio mi saría aver la morte.—

50

E l'uno e l'altro sí forte piangía, e intrambi duo sí si abbracciava. Lo re, tutta la corte li vedia, di suo' bellezze si meravigliava. E la Pulzella Gaia in quella dia dal buon Galvano sí s'accombiatava. E disse:—Amanza ti convien trovare: piú non potra'mi veder né parlare.—

51

Pulzella Gaia di qui fu partuta, e ritornò alla savia Morgana. Quando la madre allora l'ha veduta, sí li disse:—Or donde vieni, puttana?— E po' in prigione lei l'ebbe mettuta in una torre, ch'è tanto sottana; non vedea luce, sol, luna né stelle, e stava in acqua fino alle mammelle.

CANTARE SECONDO

52

Lo re Artú al cavalier parloe, e disse:—Ahi, messer Galvan giocondo! piú bella amanza tu ingannasti mòe, ch'avesse cavalier di questo mondo. Piú lucente che stella questa foe, le suo' bellezze non trovavan fondo. Tapino te! come fallato hai, ch'alla tua vita piú non la vedrai!

53

Messer Galvano allor prese a parlare. Disse:—Signor, se Cristo mi perdona, non so in che parte me ne deggia andare per ritrovar quella gentil persona. Mai barba né capelli vo' tagliare, né su tovaglia non mangerò adorna, se non racquisto la speranza mia; né tornerá qui la persona mia.—

54

E, detto questo, elli s'accombiatava. Di presente partí da Camellotto, ed in lontane parte cavalcava; dove andare, non sa lo baron dotto; a molti di Morgana addomandava, dov'ella stava a niuno era noto; e chi in qua, e chi in lá dicia: niuno sapeva qual'era la via.

55

Un giorno, cavalcando alla boscaglia, messer Galvan fu arrivato a una fonte, lá dove un cavaliero armato a maglia stava appoggiato, la mano alla fronte; quale a Galvano domandò bersaglia: combatter vuol con lui e darli onte. Messer Galvan lo addimandò del nome. —Breus mi chiamo. Or hai saputo il come.

56

Io vo cercando Tristan, Lancilotto, messer Galvano e 'l buon Astor di Mare, Palamidès, Galasso tanto dotto, Troiano e Lionel vorria trovare; messer Ivano e Artú di Camellotto, e Lionbordo ancor per tale affare; e tutti li altri cavalieri erranti, ché impiccar li vorria tutti quanti.

57

Per forza o inganno li vorria tradire.— Messer Galvan li disse:—I' ti disfido!— Al primo colpo lo fece giú ire, questo Breusse, nato di mal nido. E poi li disse:—Ora t'abbi a pentire; del mal volere i' per ora t'affido.— E in quel luogo abbattuto lo lasciava; poi 'l buon Galvano al suo cammino andava.

58

Sei mesi e piú elli ebbe cavalcato, e di cercare non fa restagione; e ad un castello lui fúne arrivato; giú da cavallo dismontò il barone. Su per la scala lui fúne montato, e in quello luogo non vedea persone. La tavola imbandita di vivanda v'era, e di tutto che ragion comanda.

59

Galvano a quella tavola s'ha posto: quattro donzelle venner di presente, e avanti a lui apparir molto tosto, e sí 'l servir molto onoratamente. Cento donzelle stavano in un chiostro; piangevan tutte molto duramente. Messer Galvan cominciò a dimandare perché facevan sí gran lamentare.

60

Onde le donne disson la cagione; non si potean tener di lagrimare: —Per la Pulzella Gaia ch'è in prigione, e noi non la potemo giá aiutare. Uno malvagio cavalier fellone della sua gioi' l'have a manifestare. Quei si noma Galvan, lo desliale; che l'alto Dio lo metta sempre in male!—

61

Messer Galvan li disse:—O damigella, per quella cortesia fatto m'avete, sapessi ov'è la sua persona bella, e chi è quei che in prigion la vi tiene, per vostro amore, o gentil donna snella, io andria in qual parte mi direte.— Rispose la donzella:—Or te ne andrai per tal cammino, e sí la troverai.—

62

Allor messer Galvan montò a destriero, e infin a mezzogiorno ha cavalcato; ad una ròcca c'ha intorno un verziero, e dove è una fontana, fu arrivato. Una dama cavalca pel sentiero, cento donzelle li andavano a lato. Messer Galvano, quando l'ha veduta, la dama e le donzelle sí saluta.

63

E quella dama, ch'era molto irata, rispose a lui:—Deh, mal pos' tu stare! per la Pulzella, ch'è stata ingannata, a' cavalier vo' mal, a non fallare; onde per voi ella è imprigionata. Mai cavalier non voglio salutare, per amor di Galvan, lo misliale, che l'alto Dio li dia prigion mortale.—

64

Disse messer Galvan:—Che colpa aggio io, se altri cavalier villania fanno?— Rispose:—Ciascun è malvagio e rio; per lo suo amore, quanti ne troviamo, io giuro lialmente all'alto Iddio che a tutti i cavalier farò gran danno. Per lo gran fallo di quel miscredente ciascun di loro i' mangeria col dente.—

65

Messer Galvan rispose:—Che diraggio a quello cavalier, s'io lo trovasse? Alcuno male io non li mostreraggio: vorria che la su' amanza racquistasse. I' l'ho amato e amo ancor di buon coraggio; gran villania saria se non l'aitasse. Per poterli acquistare la su' amanza combatterria con tutta mia possanza.—

66

E quella donna disse:—O traditore, dunqu'è messer Galvan tuo conoscente? In questo giorno per lo suo amore io ti farò dar morte di presente. E cento cavalier di gran valore tosto li farò armare immantinente.— E questa dama sí ha comandato che tosto sia messer Galvan pigliato.

67

Que' cavalier non fêr dimoragione; al buon Galvano egli funno dintorno, e sí li dissono:—Andate in prigione; se no, che voi morrete in questo giorno.— Messer Galvano a Dio s'accomandòne, e poi si mosse il cavaliero adorno. La lancia in mano e lo scudo imbracciava; di cento cavalieri e' non curava.

68

Tre cavalier di schiera si partía, messer Galvano trassono a ferire; primo, secondo, terzo lo fería; con mortal pena lui li fe' morire. A chi un colpo di buon cuor ei dia non bisognava medico al guarire. Messer Galvan molti n'have abbattuti; li altri fuggían, gridando:—Dio ci aiuti!—

69

Messer Galvano, uomo di gran vaglia, drieto seguía, e giá non ha paura. Li cavalier fugginno alla boscaglia; alla sua spada non vale armadura; a chi un colpo di buon cuor e' baglia, veracemente di morte il secura. Avanti sera, allo calar del sole, tutti li cavalier messe a furore.

70

E quella donna, ch'era tanto bella, avanti di messer Galvan fu gita; e dolcemente lei sí li favella: —O cavalier, Dio ti dia buona vita! tu se' lo piú prod'uom che monti in sella; ed al suo albergo lei sí lo convita. Messer Galvano ben tenne lo invito, e al castel colla donna lui fu ito.

71

In una zambra sí 'l menava ratto, e prestamente lo fe' disarmare. E in piú parte ch'elli è innaverato dolcemente lo fece medicare. E poi li disse:—O cavalier pregiato, dimmi 'l tuo nome, e non me lo celare.— Messer Galvan rispose:—Volentieri. Sono appellato il Pover Cavalieri.—

72

E quella dama disse in quella fiata: —Se tu se' pover, non aver dottanza; ed io son una dama ricca e agiata: darotti questa ròcca per certanza, e ogni altra cosa che ben ti sia grata; ed ho moneta assai, che me n'avanza. Ma priego, cavalier, che di tuo' voglia, avanti i' mora, di me prenda gioglia.—

73

Disse messer Galvan:—Ora mi udite. Di voi gioglia mai non prenderia, ch'io peggiorrei le mie crude ferite. Ma una cosa ben prometteria in buona lianza, se voi consentite; e questo giuro per santa Maria. Se la Pulzella m'arete insegnare, per cara donna i' v'averò a pigliare.—

74

Ella rispose:—I' te la insegneraggio. Ell'è in una cittade molto forte; e giorno e notte, per ogni rivaggio, fortemente si guardan quelle porte. E quella donna dal chiaro visaggio ben credo sia con pene di morte. Ed è in una prigione forte oscura, e sta in acqua fino alla cintura.

75

Dentro a quella cittá si è un castello, ch'è di marmore, bello e rilucente, con duo mila finestre di cristallo, li muri di diamante veramente; de' quai non può levar picchio o martello: per arte è fabbricato certamente. Quella cittade ha nome Pela Orso: tu non potresti darli alcun soccorso.—

76

Messer Galvan rispose:—I' voglio andare. Se posso atare la dama lucente, certo grande servigio avrò a fare al buon Galvano, ch'è tanto valente. E a voi, madonna, avrò a ritornare per prender di voi gioia allegramente.— E quattro giorni e piú si riposava; poi contra Pela Orso cavalcava.

77

Messer Galvano gia non dimoròe, cavalcò a Pela Orso, la cittate; e tardi a quelle porte elli arrivòe, che tutte quante le trovò serrate. E in quella notte di fuora abitòe, infino alla mattina, in su le strate. Poi lo mattina cavalcò alla porta: la guardia immantinente sen fu accorta.

78

Le porte fûr serrate tutte quante quando vider venir quel cavaliero. La guardia disse:—Non venire avante, se lo tuo nome non mi di' in primiero.— Messer Galvano disse:—Io son mercante, ch'io voglio guadagnar del mio mestiero.— La guardia disse:—Tu non entrerai: vista di mercadante tu non hai.—

79

Messer Galvan molto si corrucciava, intorno alla cittade ha cavalcato; piccoli e grandi, quanti ne trovava, a tutti quanti la morte ha donato. E' con la spada tutti li tagliava, e non lasciava campar uomo nato. Alla cittade facea guerra forte; dí e notte stavan serrate le porte.

80

Messer Galvano per quelle contrade castelli e torri, tutte a lui s'han dare; e poi fece grand'oste alla cittade; quattr'anni e piú li fece dimorare. Quelli di fuora e quei della cittade gran falsitade s'ebbono a impensare, dicendo:—Usciamo. Le porte apriremo, e immantinente lui sí uccideremo.—

81

E la fata Morgana have ordinato con que' di fuora lo gran tradimento; ed una delle porte ha disserrato, e dentro aveva grande afforzamento. E gran battaglia tosto li have dato; venneli sopra senza restamento. Chi lo fería di dietro e chi davanti: ora l'aiuti Cristo e li suo' santi!

82

Lo Pover Cavalier venía chiamato messer Galvano; a Dio s'accomandava. Chi li ha di spada e chi di lancia dato; Galvan de' sproni lo destrier toccava, tra sé dicendo:—Questo è mal mercato! e nella prima schiera lui sí entrava; e con suo brando cominciò a menare, e tutti quanti li facea scampare.

83

E per tal modo prese a cavalcare dentro da quella gente molto forte. Con quelli alla cittade ebbe arrivare: gran battaglia faceva a cotal sorte. A chi un colpo lui aveva a dare, veracemente il conduceva a morte. Quei della terra allora si rendea; messer Galvano ben la ricevea.

84

E poi alfin quella gente chiamava questo barone, ch'è molto pregiato. Allor tutta la gente che scampava a Galvano ciascun fu ritornato. E tutti quanti a lui s'inginocchiava, e dolcemente l'ebbon salutato: —Povero Cavalier, nobil, verace, a noi comanda quello che ti piace.—

85

Disse messer Galvano:—Io vel diraggio, e fatto sia senza dimoragione: fate la dama dal chiaro visaggio che tosto sia cavata di prigione; se no, che la testa io vi taglieraggio, e tutti perderete le persone. Per trarla di prigione state accorti; se no, che tutti quanti siete morti.—

86

E quella gente allor di gran bontade della Pulzella arricordò il tormento; e di lei loro aveano gran pietade. —Nol sapevamo nel cominciamento, che certo data vi avriam la cittade, e fatto avriam tutto il vostro talento.— Con gran romore i cavalieri andava alla cittá real dov'ella stava.

87

Ma quel castel sí era ben armato, e dentro v'era molta buona gente. Non li valea 'l combatter d'alcun lato; quella battaglia non curava niente. Lo romore era sí grande levato, che la Pulzella Gaia ben lo sente. Nella prigione tutta si smarría di tal romore com'ella sí udía.

88

Una donzella della savia fata, che tuttavia li porta la minestra, andò alla prigione in quella fiata. Disse:—Pulzella Gaia, ora stai destra. Io sí ti dico, e faccioti avvisata che l'angiolo di Dio di te fa inchiesta. Or stai allegra, e non temer ad ora, ché di prigione tosto uscirai fuora.—

89

E la Pulzella sí prese a parlare, e sí li disse:—O compagna mia cara, io ti priego per Dio, non mi gabbare. Era Gaia: mò son di gioia avara. Cosí non va; di ciò falla mia madre, che mi fa star in pena tanto amara. Non mi gabbare piú, ch'e' mi rincresce: io prima era Pulzella, e mò son pesce.—

90

Quella rispose:—Io non ti gabberaggio; di te ne porto doglia dolorosa, e sempre sarò grama nel visaggio, s'io non ti vedo, dolce amor, gioiosa, come solea veder lo tuo visaggio. Ma t'imprometto, donna dilettosa, ch'i' ho veduto di fuor del castello quel cavaliero poderoso e bello.—

91

E la Pulzella Gaia prese a dire: —Compagna mia, s'elli t'è in piacimento, e se tu vo' mi del tutto servire, da scriver mi dái tutto 'l fornimento— Ella disse:—Di ciò ti vo' fornire:— ed halli addotto tutto 'l guarnimento. E dièlli un lume, poi ch'ella vedesse a scriver quanto che a lei piacesse.

92

E la Pulzella una lettra ebbe fatta; e, quella scritta e poi ben suggellata, disse:—Compagna mia cara ed adatta, compi di farmi ad or questa imbasciata; e, se di qua dentro io ne sarò tratta, tu ne sarai da me la ben mertata. Dentro dall'oste al mio signor fa' dare questa lettra, se tu mi vuoi scampare.—

93

Quella rispose a lei:—Signora mia, comanda pure, ch'io ti serviraggio infin che durerá la vita mia; e, se tu scampi, allegra ne saraggio.— Immantinente sul muro venía; la lettra buttò fuora col messaggio. Un cavalier la prese con sua mano, e poi l'appresentò a messer Galvano.

94

Galvan la lettra ebbe dissuggellata, la qual dicea:—Salute con amore. Se scampar vo' mi, parti alla celata, e stai quindici giorni ascoso fuore. E poi tu troverai di tua masnata cento a cavallo, e non aver timore. Vestili a verde a modo di donzelle, e tu a vermiglio fa' che sii con elle.

95

Sappi ti faccio a tal modo vestire perché la Dama del Lago è mia zia. Alla mia madre ella sí suol venire, né piú né men, con tanta compagnia. Allor si ti fará la porta aprire, ché ben la crederá che dessa sia. E, se passi pur l'una delle porte, l'altra tu spezzerai, non cosí forte.—

96 (100)

Messer Galvano presto ha cavalcato immantinente con que' cavalieri; quindici giorni lui stette celato; come donzelle vestí quei guerrieri, ed al castel con lor si fu inviato. La guarda lungi 'l conobbe manieri. Tosto alla fata Morgana favella; disse:—Madonna, e' vien vostra sorella.—

97 (101)

Allor Morgana tosto comandava che le porte s'aprisson di presente; e molto presto ciaschedun ne andava, perché tutti vedeanla allegramente. La guardia aperse, e a Morgana parlava la cameriera, che sa il convenente. Disse:—Madonna, voi sète ingannata: questa è altra gente: siatene avvisata.—

98 (102)

Allor Morgana molto fu adirata, e tosto corse e si prese a gridare che la porta in presente sia serrata; suoi gridi poco li have a giovare. Messer Galvano dentro fa l'entrata, e sua bandiera qui fece fermare; ma, avanti che spezzasson l'altra porta, tutta suo' gente quivi si fu morta.

99 (103)

Ma pur alfine la porta spezzava; messer Galvano dentro ne fu entrato; piccoli e grandi, quanti ne trovava, a tutti quanti lui la morte ha dato. E la fata Morgana poi trovava, quale di morte l'have minacciato. Galvan li disse:—O tu, malvagia e ria, menami alla prigion della tua fia.—

100 (104)

Morgana per paura lo menava alla prigion dov'era incarcerata. Messer Galvano fuor sí la cavava, ch'ella era come pesce diventata. Messer Galvano allor sí l'abbracciava, e d'allegrezza in terra è strangosciata. Quando rinvenne, prese a sospirare, e d'allegrezza aveva a lagrimare.

101 (105)

Messer Galvan li disse:—Anima mia, che morte alla tua madre vuoi far fare?— Ed ella disse:—O dolce speme mia, questa prigion fatela mò provare. I' voglio che in prigione lei si stia, che la figliuola sua fatto ha stentare.— Galvano di presente l'ha menata alla prigione ed ebbela serrata.

102 (106)

Messer Galvan con lei senza fallanza similemente in prigione ha serrata la cameriera ch'io dissi in certanza che al castello la guardia aveva fatta, onde cavato avia la sua amanza. Con lei a Camellotto fe' tornata; ma 'l primo luogo che lui dismontòe si fu il castello che prima arrivòe.

103 (107)

Della Pulzella Gaia era 'l castello, e la dama sua cara cameriera. E quel castello era cotanto bello, dove Galvan cavalcò alla primiera. Grande allegrezza fu fatta per ello e la Pulzella, la qual scampata era. Sí grande fue l'allegrezza e lo canto, che mai non si potria dire cotanto.

104 (108)

Messer Galvan si ritornò alla corte, con seco lui menando la Pulzella. Gran allegrezza fêr le genti accorte, quando sí inteson cotale novella. Tutti li cavalier sí preson forte ad armeggiar per la cittade in quella. Piú dí duròne ivi la gran festa: al vostro onor compiuta ho questa inchiesta.

III

LIOMBRUNO

CANTARE PRIMO

1

Onnipotente Dio che nel ciel stai, Padre celeste, Salvator beato, che tutt'il mondo con tua man fatt'hai, e regge il tuo saper in ogni lato, e re di ciascun re chiamar ti fai, tanto favor da te mi sia donato che possa dire un bel cantar per rima ch'a ciascun piaccia, dal piede alla cima.

2

Signori, intendo che per povertade molti nel mondo son mal arrivati, hanno perduto la lor libertade, la povertá sí forte gli ha cacciati; ed io vi conterò con veritade d'un pover'uomo gli anni mal menati, come per povertá venne in periglio, convenne dar al diavolo un suo figlio.

3

Il pover'uom si era pescatore, ed ogni giorno n'andava a pescare, per sua disavventura a tutte l'ore, che poco pesce gli venía pigliare. Terra né vigna non avea di fuore; ben tre figliuoli aveva a nutricare. La donna sua, fresca come rosa, viveva del pescar, non d'altra cosa.

4

Una mattina il buon uom si levòe, con la barchetta a pescar ne fu andato, niente di pesce il giorno non pigliòe, onde l'uom si fu forte corrucciato. A un'isoletta del mare arrivòe e quivi un grande diavolo ha trovato. E' sí gli disse:—Che mi vuo' tu dare, se ti dono del pesce da mangiare?—

5

Ed ei rispose:—Da poi che tu puoi, a me comanda ciò che posso fare.— Parlò il demonio co' sembianti suoi e sí gli disse:—Se mi vuoi menare su l'isoletta un de' figliuoli tuoi, e mi prometti di non m'ingannare, io ti darò del pesce per ristoro, moneta assai e con argento ed oro.—

6

E quel buon uomo n'ebbe gran dolore; per povertá convien che lo prometta. Cosí gli disse:—Io ti darò il minore e menerollo su questa isoletta.— E 'l mal diavol non fece altro romore; pigliò del pesce ed empiè la barchetta, moneta gli die' assai, se lo portasse, e disse:—Io t'annegherei, se m'ingannasse!

7

E quel buon uomo gli rispose ardito: —E' certamente non t'inganneròe— e poi inverso casa ne fu gito; con tutto il pesce assai dinar portòe e di buon vestimenti fu vestito. La madre ed i figliuo' ben addobòe, di vettovaglia la casa ha fornita; ma del figliuol aveva gran ferita.

8

E poi chiamò il suo figliuol minore nella barchetta e con seco il menòe; dentro del cuor n'aveva gran dolore, e, navigando, a l'isola arrivòe, della barchetta si lo trasse fuore, dicendo:—Aspetta sin ch'io torneròe.— Cosí lasciò il figliuol con tale inganno, che non avea passato l'ottavo anno.

9

Quel buon uomo di quivi fu partito, ché del figliuol non vuol veder la morte. Il grande diavol quivi parse, ardito, e via lo vuol portar per cotal sorte. E quel fanciullo forte fu smarrito, ché non avea nessuno che 'l conforte; ma per virtú di Cristo si facia il segno della croce, e quel fuggia.

10

Rimase quel fanciul con gran paura, solo soletto su quella isoletta. Guarda e vi vide sopra nell'altura una donna, ch'è in forma di donzella, e un'aquila pareva in sua figura. Ed al fanciullo se ne venne quella e sí gli disse:—Non ti dubitare, ché di questa isoletta ti vo' trare.—

11

Disse il fanciullo:—Non mi vo' partire, perché mio padre qui debbo aspettare.— L'aquila allora sí gli prese a dire: —Dov'è tuo padre, ti vuo' ben portare.— E prese quel fanciul, senza mentire, sopra nell'aria cominciò a volare, e tanto in alto l'aquila il portòe, sí che e' capegli al fanciullo abbruciòe.

12

Poi gli mostrò il paese soprano e 'l suo castello, ch'era in lunghe parte: quattrocento giornate era lontano e piú ancor, fanno menzion le carte. Quell'aquila con quel fanciullo altano in una notte sí v'andò per arte, che la sera dall'isola il traeva, e la mattina al suo castel giungeva.

13

E poscia in una sala molto bella: —Ora m'aspetta fin ch'io torno—disse; entròe in zambra e diventò donzella, pareva che del paradiso uscisse, che riluceva piú che non fa stella; assimigliava il sol che in ciel venisse! Era vestita di molti bei panni e non avea passato ancor diec'anni.

14

Questa fanciulla, la quale io vi dico, sí si chiamava madonna Aquilina, che scampò quel fanciullo del nimico, quando lá il trasse, fuor dalla marina. Andò da lui e disse:—Bello amico, Iddio ti doni la bella mattina! Io son colei che sí alto ti portai, quando da quel diavolo ti scampai.—

15

E quel fanciullo con buon argomento cortesemente assai la ringraziòe, e dissegli:—Madonna, io son contento, e vostro servitor sempre saròe.— Ella rispose:—Non ti dar spavento, ché ancora piú contento ti faròe.— Ella aveva dieci anni ed egli sette e vergin piú d'otto anni ancora stette.

16

Infra quel tempo lo misse a studiare con un maestro, e da lui bene imprese, ed imparò a scrivere ed a giostrare, e venne in arme prodo uom palese. Ai suoi colpi niun potea durare, e ben dicea ciascun di quel paese: —Quest'è figliuol di conte e di barone!— tanto era adatto e di bella fazzione.

17

Quando cresciuti furono in etade, egli pareva un giglio, ella una rosa, e quella donna piena di beltade disse:—Il mio cuore non ará mai posa, se non adempio la mia voluntade: piacciati al tutto che io sia tua sposa: poiché allevato t'ho, donzel gradito, ora ti piaccia d'esser mio marito.—

18

E quel fanciullo con buona dottrina cosí cortesemente ebbe parlato, e sí gli disse:—Madonna Aquilina, con gran fatica m'avete allevato. Voi mi campaste fuor della marina; ciò che a voi piace sono apparecchiato.— Ed il suo nome disse a ciascheduno; la gente sí lo chiama Leombruno.

19

Egli sposò la donna in cotal sorte, ella sua sposa ed ei per suo marito. Il suo castello gli era tanto forte, di ciò che bisognava era fornito, fino nell'aria aveva ben due porte fatte per arte, e molto ben guernito. Persona alcuna entrar non vi potea, se madonna Aquilina non volea.

20

Liombruno sapea l'incantamento, a suo diletto n'usciva ed entrava e spesso vi facea torniamento di belle giostre al tutto s'approvava. E quella donna, piena di contento, di giorno in giorno sempre piú l'amava, perch'era bello e pien di leggiadria, sí che la donna gran ben gli volia.

21

Standosi un giorno tutto nequitoso, la bella donna sí gli ebbe parlato, e sí gli disse:—Viso mio amoroso, perché mi sta' tu tanto corrucciato?— A lei rispose Liombruno sposo: —Madonna, un gran pensier si m'è levato: i miei fratelli vedere io vorria ed il mio padre e madre in compagnia.—

22

Disse la donna:—Se tu vuoi andare, io vo' che m'imprometta, senza inganno, al termin ti darò, di ritornare. Voglio che torni avanti che sia l'anno.— E Liombruno sí prese a parlare: —Madonna, e' sará fatto senza affanno.— Ed ella allora gli donò un anello, che da disagio scampasse il donzello.

23

—Ciò ch'arai—disse—a l'anel domandare tu l'averai tutto al tuo piacere; danari e robba, senza dimorare, ti sará dato a tutto tuo volere: ma guarda di non mi manifestare, ché mai piú grazia non potresti avere; e fa' che fino a un anno tu ritorni e, se piú stai, non varchi quattro giorni.—

24

E Liombruno disse:—Volentieri!— E quella donna, sí bella e gradita, innanzi ch'ei partisse a tal mestieri, ben quattro dí fe' far corte bandita, e 'l fece fare ancora cavalieri: fecegli cinger la spada forbita. E, fatto questo, si prese commiato; e "messer" Liombruno era chiamato.

25

Avea d'andar giornate quattrocento innanzi che in suo paese arrivasse; ma quella donna per incantamento sí ordinò ch'egli s'addormentasse; a l'arte fe' da poi comandamento che in suo paese tosto lo portasse. La sera Liombrun s'addormentòe, la mattina al paese suo arrivòe.

26

E, quando venne su l'alba del giorno, si fu allor Liombruno risvegliato, rizzossi in piedi e guardossi da torno e 'l bel paese ha ben raffigurato. E Liombrun, quel cavalier adorno, umilemente Dio n'ha ringraziato ed a l'anello grazia egli chiedía: ciò che 'l comanda, tutto gli venía.

27

Per la virtú ch'aveva quel anello, in prima sí ei richiese un buon destrieri; di vestimenta poi 'dobbato e bello, come bisogna a ciascun cavalieri; una valigia poi appresso a quello, fornita di fiorini a tal mestieri; e gente gli chiedeva senza fallo: assai ci venne a piedi ed a cavallo.

28

Con questa gente e con quei suo' danari andò a la casa e ritrovò suo padre e' suoi fratelli e' suoi parenti cari, e quella robba presentò alla madre. Non si mostrorno i suoi parenti avari verso di lui e tutte le sue squadre, ma, visitandol, diceva ciascuno: —Ben sia venuto messer Liombruno!—

29

I suoi parenti dicean tutti quanti: —O Liombruno, dove sei tu stato?— E Liombruno a lor rispose avanti: —In veritade io ho ben guadagnato e sono stato con ricchi mercanti, che m'han cosí vestito ed addobbato, pel ben servire ched io ho fatto loro m'han fatto cavalier a speron d'oro.—

30

Ben nove mesi stette con presenti, che li facevan ciascuno d'onore. Li si provava amici con parenti; in quelle giostre, pien di gran valore, spesso facea di ricchi torniamenti. E Liombrun di tutti avea l'onore. Passati nove mesi, e' prese a dire a' suo' parenti:—E' mi convien partire,

31

ché a quelli mercatanti io n'ho promesso innanzi passi un anno di tornare.— Que' suoi parenti sí dissono:—Adesso, o Liombruno, dove vuoi tu andare? Sappi, il re di Granata sta qui appresso, una sua figlia si vuol maritare; e 'l torniamento ha giá fatto bandire che chi la vince, seco de' venire.—

32

E Liombruno questo dire udía, li venne in cuor di provar sua ventura, ed a l'anello subito chiedía un bel destriero con buona armadura. E ciò ch'ei domandò, tutto venía. Liombruno d'armarsi allor procura; da suoi parenti comiato pigliava, e ciaschedun di loro lagrimava.

33

E Liombruno si prese comiato, tanto cavalca che giunse in Granata, lá dove torniamento era ordinato e la gran giostra era cominciata. E l'altro giorno se n'andò sul prato, dove la gente era giá ragunata. Ivi era un saracin tanto possente, che della giostra quasi era vincente.

34

Quel saracin avea tanta fortezza, che niun a lui si gli volea accostare però ch'egli era prode e pien d'asprezza; a suoi colpi nessun potea durare. E Liombruno, pien di gentilezza, a lui davanti s'andò a presentare. E disse il saracin:—O a me ti rendi, o, se tu vuoi giostrar, del campo prendi.—

35

E Liombruno disse:—Volentieri!— Arditamente del campo pigliava. E 'l saracin, che si tenea de' fieri sul buon destrier allora s'affermava; e rivoltossi il nobil cavalieri: l'un verso l'altro forte speronava. I cavalieri furon riscontrati: or udirete i colpi smisurati!

36

Il saracino e messer Liombruno si vennero a ferir arditamente; due gravi colpi si dette ciascuno; ma pur il saracin si fu perdente; arme ch'avesse non gli valse un pruno ché Liombruno, nobile e possente, il ferro e l'asta nel cuor gli cacciòe, giú del destriero morto lo gittòe.

37

Caduto in terra morto il saracino, Liombruno nel campo si feria, quanti ne giugne mette a capo chino e ciaschedun gli donava la via, e ben pareva un franco paladino. Con alta voce ciaschedun dicía: —Non combattete piú, franco signore, del torniamento è giá vostro l'onore!—

38

Il re si fe' venire il cavaliere e sí gli disse:—Baron valoroso, la mia figliuola sará tua mogliere, e tu sarai mio genero e suo sposo.— E Liombruno disse:—Volentiere, se ciò vi piace, alto re valoroso.— Ma, innanzi che quel re gliel'abbia a dare, co' suoi baroni si vuol consigliare.

39

Il re i suoi baroni ha domandato, disse:—Che ve ne par del cavaliere? Voi 'l dovete saper—ebbe parlato— forse che in suo paese egli ha mogliere, e non mi par di cosí gentil stato, ched a noi si confaccia tal mestiere, benché sia prode e pien di gagliardia, a noi non par che convenente sia.

40

Ma, se per nostro senno si dee fare, ordinarete che ciascun si vanti, e dopo il vanto, senza dimorare, ognun il suo ne provi a noi davanti.— E l'altro dí si fece ritornare in su la sala i baron tutti quanti, ed ordinò che ciascun si vantasse, e poscia il vanto innanzi lui provasse.

41

Chi si vantava di bella mogliere, chi si vantava di bella magione, chi di caval corrente e buon destriere, chi di gentil sparviero o di falcone, chi di palazzi o di gran torri altiere, chi si vantava di tal condizione; e, quando ciaschedun si fu vantato, messere Liombrun fu domandato.

42

Dissegli il re:—Perché non vi vantate?—
E Liombruno sí gli respondia:
—Sacra corona, ora mi perdonate.—
Ed ei rispose:—Perdonato sia.—
E Liombruno disse, in veritade:
—Ed io mi vanto della donna mia;
piú bella donna non si può trovare,
ed infra venti giorni il vo' provare!—

43

—Termine mi domandi venti die— rispose il re—ed io te ne vo' dar trenta.— Liombruno all'anello disse lie: —Donna Aquilina presto m'appresenta!— E quella donna, perché a lei fallie, non vuol venire, acciò ch'egli si penta. E passò trenta giorni senza resta, alli trentun dovea perder la testa.

44

A trentun dí la donna fu venuta, e fuor della cittá si ritenía: una donzella suo vestir aiuta, mandolla al re e a la sua baronia. E, quando il Re costei ebbe veduta, ch'era piena di tanta leggiadria, disse a Liombruno:—È questa tua mogliere?— Ei rispondea:—No, dolce messere.—

45

Poi una cameriera gli arrivava davanti al re e gli altri suoi baroni; e, quando il re costei si riguardava, che l'era tanto bella di fazzione, inverso Liombruno egli parlava: —È questa moglie tua, gentil campione?— Liombrun disse con dolce favelle: —Signor mio no, ma ambedue son donzelle.—

46

E madonna Aquilina fu arrivata col suo bel viso, che rendea splendore: davanti al re si fu appresentata, poi di lí si partí senza tenore. E, quando il re costei ebbe guardata —Liombrun—disse,—nobile signore, or mi perdona per tua cortesia! —Perdonate a me voi!—Liombrun dicea.

47

E Liombrun da lui prese commiato, e dietro la sua donna se ne gia. Ella l'aspettò suso in un bel prato; Liombrun perdonanza gli chiedia. Ed ella disse:—Falso rinnegato, della tua morte non m'incresceria!— Per altra via la donna se n'andava, né arme né caval non gli lasciava.

48

Né arme né caval non gli lasciòe. Liombruno in un bosco ne fu entrato: tre malandrini dentro vi trovòe, che ciaschedun pareva disperato. Nel secondo cantare i' vel diròe, ciò che al cavalier gli fu incontrato. Di Liombruno è giá detto un cantare. Darem principio l'altro, a cominciare.

CANTARE SECONDO

1

Imperador de' regni sempiterni, luce del mondo e bontade infinita, che tutto il mondo mantieni e governi ed incarnasti in la Madre gradita, donami grazia, Dio, tal ch' i' discerni la bella istoria con rima fiorita. Al nome di Dio voglio cominciare di Liombruno il secondo cantare.

2

Signori, io dissi giá nell'altra rima come Liombrun del demonio scampòe; di punto in punto vi contai da prima, con grande onore al padre ritornòe; e sí vi dissi, come il libro stima, come madonna Aquilina il lasciòe, e non gli lasciò arme né cavallo, e come si scontrò in un gran fallo.

3

Tre malandrini avevano rubato due mercatanti e morti a gran furore, e' lor denari avevano in un prato sopra una pietra, a partirli in quell'ore; e ciascuno pareva disperato, insieme si facevan gran rumore; per darsi morte avean tratti i pugnali, per un mantello ed un par di stivali.

4

Perché il mantello lo voleva l'uno, l'altro gli usatti non potea accordare, il terzo, disse, rimaneva al bruno; e tutti se n'avevano a crucciare. Intanto li passava Liombruno. Quando lo vidder, tutti hanno a gridare, e il piú antico di loro lo chiamòe, e Liombruno prestamente andòe.

5

E sí gli disse:—Amico valoroso, in queste cose ponci providenza. Questo mantello è tanto grazioso; di questi usatti sappi la credenza.— E Liombruno a lor ebbe risposto: —Acciò che possa dar giusta sentenza, la virtú del mantel voi mi direte e degli usatti, poi che lo sapete.—

6

Un di lor due, ch'era il piú saputo, a Liombruno sí prese a parlare, e sí gli disse:—Tu sei proveduto: chi lo mantello adosso avrá a portare da uom del mondo non sará veduto; di questi usatti ti voglio contare: e chi gli ha in piè, cammina come il vento, perché son fatti per incantamento.

7

Liombrun disse:—Giá nol crederia, se primamente non gli ho a provare.— Il piú antico sí gli rispondia: —Or te gli metti, e sí comincia andare, alquanti passi fa' per questa via.— Ei se gli messe senza dimorare. Da poi che fu calzato Liombruno, ei del mantello domandava ad uno.

8

—Sed egli è ver quel che voi detto avete, un gran tesoro vale, in fede mia.— Ed il piú antico disse:—Or vel mettete, voi vederete s'ella cosí sia.— Ed ei sel misse e disse:—Or mi vedete?— —Non ti vediamo—il malandrin dicía. Prese di quei fiorini a suo piacere, di niuna parte lo potean vedere.

9

E Liombruno non tardò niente, el mantello e gli usatti n'ha portati. Ciascun de' malandrin restò dolente: sopra el piú antico si fûrno crucciati, dicendo:—Gli è tuo amico o tuo parente, che per tal modo via ne l'hai cacciato.— Il piú antico disse:—Nol conosco, nol viddi mai, se non in questo bosco.—

10

E non gli valse scusa ch'e' facía, che pur al tutto non volson udire, dicendo:—Pur tu l'hai mandato via, per ritrovarlo poi al tuo desire!— Forte infiammato, ciascuno venía, con le spade il cominciono a ferire, in cotal modo che costui moríe suso quel prato e sua vita finíe.

11

E, fatto questo, si furon voltati suso la pietra, ov'erano i danari, e, vedendo com'erano scemati, tutti a due se n'ebbono a crucciare, dicendo l'uno a l'altro:—Gli hai rubati!— e con le spade comincionsi a dare. Li colpi furon valorosi e forti ché in quel prato ambidue restaron morti.

12

E Liombruno udiva il gran rumore, voltossi indietro e stavasi a vedere, e vidde i crudi colpi di valore che ciaschedun si dá di mal volere; indietro ritornò, senza timore, e prese quei fiorini a suo piacere, ch'eran piú di tremila settecento, poi camminava piú che non fa il vento.

13

E Liombruno tanto camminòe, che presso a un'osteria ne fu arrivato e dentro quella prestamente entròe; tre mercatanti v'ebbe ritrovato, e messer Liombrun gli salutòe. Ed il saluto a quello han raddoppiato; per lo saluto fece Liombruno, in piedi fu levato ciascheduno.

14

Vedendo Liombruno i mercatanti che ciaschedun gli facea grand'onore, a lor parlava con dolci sembianti: —Sedete giuso, o caro mio signore!— E Liombruno disse a l'oste:—Avanti, reca del vino e togli del migliore, a questi mercatanti date bere, chè voglio star con lor di buon volere.—

15

E, cosí stando, il vino fu recato. Poiché ebbono bevuto lí davanti, Liombruno allora si ebbe parlato, ed a lor disse:—O degni mercatanti, voi che cercate il mondo in ogni lato, li regni e li paesi tutti quanti, deh, ditemi la terra oltramarina, ov'è signora madonna Aquilina!—

16

Niun di lor non gliel seppe insegnare e ciascun gli rispose assai cortese: —Mai a mia vita l'udi' menzionare, in veritade, mai cotal paese.— Disse il piú antico:—Tu potresti andare, molt'anni e molti, piú che qualche mese, non troveresti sí fatto argomento, non tel potria insegnar se non il vento.—

17

Liombrun disse:—V'è nissun che sapesse come il vento io potesse ritrovare?— Ed il piú antico par che rispondesse: —Se su quel monte tu potessi andare ed aspettassi vento che traesse, che da un romito vengono albergare piú di sessanta venti di certano; quando vi sono, ognun par corpo umano.

18

Ma dell'andar non ti metter in prova, che non fu giamai uomo alcuno nato; sol un romito, e questo si ritrova, perché da' venti si vi vien portato, ed ogni capo d'anno si rinnova, siccome l'alto Dio ne gli ha ordinato; e cosí viene portato dal vento, siccome a Dio Signor è in piacimento.

19

Questa montagna è di sí grande altura, cosí pendente da montar là suso, ma, se nessun vi monta per sciagura, mezzo miglia non va, che cade in giuso, morto si trova giú, in quella pianura. Però d'andarvi nessun mai fu uso. Deh, non andar, se tu non vuoi morire!—Disse Liombruno:—E' mi convien pur gire.—

20

Ancor non era il sole tramontato, e da costor Liombruno si partía. Il mercatante sí gli ebbe insegnato della montagna il cammino e la via, e Liombruno l'ebbe ringraziato. Di lí si parte, il mantel si mettía e que' stivali pigliò a tal partito, che innanzi sera giunse dal romito.

21

Per la virtú che avean quegli usatti, allegramente Liombrun camminava, alla montagna giunse a tali patti, senza paura suso alto mirava. Arrivato alla cella, batti, batti! e quel romito si maravigliava, e 'l segno della croce si facea, lo sportell'apre e nessun si vedea.

22

E quel romito gran paura avía, credendosi che fusse il diavol fello. E Liombruno indietro si traía, tosto di dosso si cavò il mantello, chiamando Cristo con Santa Maria, e si fece davanti allo sportello. E quel romito forte si assicura, chiamar sentendo la Vergine pura.

23

Ancor non era il sol bene al tramonto, che Liombruno è al romito arrivato, secondo che l'istoria ne fa conto. Quel romito sí l'ebbe domandato, e disse:—Amico, a che se' tu qua gionto? Or da qual parte se' quassú montato? Uomo non fu giamai che ci arrivasse salvo se 'l vento non ce lo portasse.—

24

E Liombruno sí gli respondía, e disse a quel romito con desio: —Mi ha portato la ventura mia, e gli stivali che portato ho io, sol per amore della donna mia, la quale tien legato lo cuor mio. Donna Aquilina si chiama palese, che signoreggia questo stran paese.—

25

E quel romito, ch'è da Dio ispirato, a Liombruno sí prese a parlare: —A la mia vita mai, a nessun lato, cotal paese non odii nomare.— Disse Liombruno:—E' m'è stato insegnato che quassú i venti vengono albergare. Per lo mio amor, quando saran tornati, per vostra cortesia, gli domandati.

26

—Or entra dentro—quel romito disse— infin ch'e' venti tornan uno ad uno, e intenderò s'alcun ve ne venisse.— E nella cella entrava Liombruno nel luogo del romito, e lí s'affisse, perfin che i venti tornasse ciascuno. E quel romito sí gli scongiurava, e di monna Aquilina domandava.

27

In prima venne il vento di Ponente, e dopo lui il gagliardo Garbino, vento Levante poi subitamente, e 'l vento Greco e 'l buon vento Marino, vento Maestro venne similmente, che face 'l mondo al suo furor tapino, vent'Ostro, Borea e vento Tramontana, molti venti del mare e della Tana.

28

E quel romito, ch'è da Dio ispirato, tutti gli scongiurava arditamente che quel paese gli fusse insegnato, dalla parte di Cristo onnipotente. Ciascun diceva:—Io non vi son mai stato.— Ed un di loro parlò immantinente, disse:—Sirocco ancor ha da tornare, forse ch'ei lo saprá tosto insegnare.—

29

E, cosí stando, Sirocco è arrivato e quel romito per virtú divina di quel paese l'ebbe domandato che signoreggia madonna Aquilina. E Sirocco rispose:—Io vi son stato, e tornare io vi voglio domattina.— E Liombruno sí gli prese a dire: —Se ti piace, con teco vo' venire.—

30

E 'l vento disse:—Vuoi venir con mene a quel paese, ch'è cosí lontano? Ed aspettare io non potre' giá tene, amico; sicché tu ragioni invano!— Disse Liombruno:—Io vo molto bene e seguirotti per monte e per piano; se domattina tu mi vuoi chiamare, quando vorrai 'l cammin incominciare.

31

Disse Sirocco:—Ed io ti chiameròe, poiché con meco tu vuoi pur venire. In niuno patto non ti aspetteròe, questo ti dico e faccioti a sentire. La strada col cammin ti mostreròe e vederò se mi potrai seguire. —Io son contento—Liombrun rispondía— purché mi mostri 'l cammino e la via.—

32

E quel romito da cena gli dava di quelle cose che per lui avía. L'angiol del cielo sí lo visitava. E Liombrun col romito partía, ed a dormir poi subito n'andava: gli usatti di piè trar non si volía, per star in punto, se 'l vento 'l chiamasse, e seguitarlo dov'egli ne andasse.

33

E, quando il giorno si venne a schiarare, Sirocco Liombruno ebbe chiamato, e disse:—Amico, vuo' tu camminare?— Ed ei rispose:—Io sono apparecchiato.— Uscí di fuora senza dimorare; la strada ed il cammin gli ebbe mostrato, dicendo:—Ve' quella montagna, lungi? Lassú mi troverai, se tu mi aggiungi.—

34

Poi si partiva Sirocco fuggendo, e Liombruno da quel fraticello prese commiato, e vassen via correndo dietro del vento, e méssesi il mantello. Sirocco indietro s'andava volgendo, e Liombruno andava innanzi ad ello. E cosí alla montagna egli arrivò prima del vento, e qui lui aspettò.

35

—Or—disse il vento—che uomo sei tu, che non ti posso veder né sentire e quanto me cammini, ed ancor piú? Io non credea che potessi venire. Quella montagna, lungi, vedi tu? Lassú con meco ti conviene gire e sí ti mostrerò, amico bello, di madonna Aquilina il suo castello.—

36

Allor Sirocco innanzi si avviava, Liombruno il mantello si mettía, e innanzi al vento d'un gran pezzo entrava, Sirocco pur indietro si volgía, e spesse volte Liombrun chiamava; e Liombruno innanzi rispondeva. E cosí alla montagna fu arrivato innanzi al vento, e 'l mantel s'ha cavato.

37

Cosí cavato che s'ebbe 'l mantello, il vento giunse e tal parole disse: —Io ti prometto, caro amico bello, che sei 'l miglior corrier che mai sentisse! Or leva suso e lá vedi il castello.— E poscia il vento da lui dipartisse, e per un'altra strada se n'andava, e Liombruno al castel camminava.

38

E Liombruno niente ha dimorato per infin ch'al castel ebbe arrivare; con allegrezza subito fu entrato e nel palazzo entrò senza tardare. E nella sala trovò apparecchiato, che madonna Aquilina è a desinare. Egli si affetta e mangiava al tagliero; la donna non vedeva il cavaliero!

39

Una donzella di cortel tagliava, l'altra donzella di coppa servía, e Liombruno di buon cuor mangiava, ciò gli bisogna, e nessun non vedía. Ma quella dama si meravigliava che quella robba, che innanzi venía, la quarta parte non gli par mangiare di quel che innanzi si facea recare!

40

E quella donna nobile e reale subitamente si s'ebbe pensato, infra 'l suo cuore disse:—Gli è segnale che Liombruno si è mal arrivato: o ch'egli è morto, o ver ch'egli ha gran male! Tapina me, ch'io feci gran peccato! Io non dovevo guardar al suo fallo, che non gli lasciai arme né cavallo!—

41

Per la virtú che aveva quel mantello, le donne non vedevano l'ardito; e Liombruno aveva ancor l'anello ch'ella gli die', quando si fu partito. Ed egli allor si ricordò di quello, e Liombruno, quel signor gradito, sopra il taglier se lo lasciò cascare. La donna il vide, e presto ebbe a parlare:

42

—Questo è l'anello cosí grazioso, ch'a Liombruno diedi quella volta ch'egli da me partí tanto gioioso, e verso la sua patria diede vòlta. Sempre il mio cuor ne resterá doglioso, e l'alma mia sará fra pene involta fin che 'l mio cor non veggio e la mia vita!— E cadde in su la panca, tramortita.

43

Le donne la portorno suso a letto, fregandole le mani e 'l chiar visaggio. Ella rivenne e disse con affetto: —Lassa! tapina me! come faraggio? Di Liombruno, il mio sposo diletto, in questa notte saper io vorraggio, lá dove gli è andato ed in qual parte! In questa notte lo saprò per arte.—

44

Allor le donne di camera uscía, come la donna gli aveva ordinato presto Liombrun dentro se ne gía, alla sua sposa egli si fu accostato; e quella donna di dolor dormía; presso di lei egli si fu appoggiato, il chiaro viso e la bocca ha baciata di quella donna, che si fu svegliata.

45

E Liombruno il mantel si mettía e la sua donna nol vedea per niente. Subitamente questa si dicía infra 'l suo cuor:—Lassa, o me dolente! che Liombruno fussi mi credía, io bene l'ho sognato certamente. Tapina me, ch'io non ho piú conforto! Questo segno è che Liombruno è morto!

46

Cosí la donna, non vedendo niente, un'altra volta si mise a dormire. E Liombrun si fece similmente. Piú che di prima la fece smarrire; ma ella si voltò sí prestamente, che del mantel non si puoté coprire, che pur alquanto lo vidde per certo prima che del mantel fusse coperto.

47

Ed Aquilina di dormir si finse. Liombruno il mantello si ha cavato; ella fu presta e con la mano il cinse, 'nanzi che del mantel sia covertato, sí fortemente allora ella lo strinse, dicendo:—Liombrun, chi t'ha insegnato lo incantamento adoperi per arte? Chi t'insegnò venire in questa parte?—

48

E Liombrun gli disse tutti i fatti, de' malandrini che trovato avía e del mantello ancora e degli usatti, e di quel vento gli insegnò la via. Infra lor due non bisognò altri patti; le braccia al collo ciascun si ponía, e poi intramendue si fêr la pace, annullando ciascun ciò che dispiace.

49

E cosí stêrno insieme allegramente, infin che visson, con perfetto amore. I' priego Gesú Cristo onnipotente e la sua Madre, piena di valore che salvi e guardi tutta buona gente, che si mantenga in pace e buon amore. Al nostro fine Dio ci dia la gloria. Al vostro onor, finita è questa storia!

IV

ISTORIA DI TRE GIOVANI DISPERATI E DI TRE FATE

CANTARE PRIMO

1

Colui che da Giovanni ebbe il battesmo in nel fiume Giordano, ignudo nato, il qual principio fu del cristianesmo, che dei nostri peccati ci ha lavato, prestimi aiuto lui, ché io medesmo so ch'io non sono a tal mestier usato; pertanto presti grazia a mia memoria ch'i' possa raccontar la bella istoria.

2

Dapoi che siete venuti a ascoltare, io vi vo' dire una bella novella; istate tutti attenti al mio parlare, ché so ch'a tutti la vi parrá bella. In ogni luogo sí vorre' cercare, pel mondo tutto, per cittá e castella: "perché gli è dato ad ogni creatura, come gli è nato, a ciascun sua ventura";

3

ma vuolsi se non è nella sua terra cercarne un'altra, tanto che la trovi, e non temer fatica, affanno o guerra. Rado s'ha il ben, se prima il mal non provi, e vuolsi passar monti ed ogni terra, ché, se se' pigro e sempre un luogo covi, tu non la troverai, questo ti provo, se tu stai saldo e mai esci dal covo.

4

Perché talvolta si truova in un prato, e' si vuol sempre ogni cosa cercare. E' furon tre che ciascun disperato erano, e non sapean come si fare, tanto ch'ognun di lor si fu accordato, ciascuno insieme cominciò a parlare: —Dove vai tu?—E tu che vai cercando?— —E' tel dirò, stu mi verrai 'scoltando.

5

I' ho cercato di molto cammino, e son disposto tanto camminare, e tanto andrò portando il capo chino, ch'i' porrò fine a tanto sospirare.— Rispose l'altro:—Ed io son sí meschino, sí, mi dovessi un dí gettar nel mare, ch'io son disposto con pene o con danni veder s'i' posso uscir di tanti affanni.

6

—Veggio ch'ognun di noi è disperato; se ci vogliamo insieme accompagnare, arèn pel mondo poi tanto cercato, qualche ventura ci potrebbe aitare.— E fussi insieme ciascuno accordato; cosí presono insieme a camminare e stettono una sera all'osteria, e la mattina poi ritornò via.

7

Eran tutti vestiti alla leggiera; ma, perché n'era lontano il cammino, tolsen del pan dall'oste quella sera, e ciascheduno aveva un fiaschettino, e perché l'oste disse che lungi era, ciascun la sera se l'empiè di vino. E camminorno insino al sol passato, tal che la sera alloggiorno in un prato.

8

Diceva l'uno:—E' sará me' cenare, e poi cenato porrènci a dormire.— Mentre che stanno cosí a ragionare, ecco tre belle giovane apparire, tal che fanno costor maravigliare; e, giunte quivi, cominciorno a dire: —Voi siate tutti quanti e' ben trovati, da poi che siete nel prato alloggiati.—

9

Disse un di lor:—Le ben venute siate! Dove n'andate adesso, ch'è giá notte? Se volete, con noi quivi posate, e non andate errando per le grotte; da poi che noi tre siamo e voi tre siate, ognun ne torrá una questa notte, e ciascuna di voi piacer arete; dove vi piace, domattina andrete.—

10

Una rispose:—Non ne fare istima, ch'a nessun modo non mi toccherai, se giá per donna non mi pigli prima; per altro modo me tu non arai; ma, se mi vuoi sposar, odi mia rima: farò tal cosa che tu riderai, e darotti per dota tanto avere ch'alla tua vita tu potrai godere.

11

—Sappi—rispose alla donna colui— ch'i' non son ora per donna pigliare, se giá non fosse, come dite voi, che quella, a chi m'avesse a maritare, mi desse tanto aver, ch'avesse poi per la mia vita sempre a trionfare. A questo modo forse lo farei; per altro modo mai non ne torrei!—

12

Disse la donna:—Sappi domandare e chiedi quel che vuoi, ché l'averai.— Colui rispose:—Se tu mi puoi dare questo che chieggo, tu sempre m'arai: una borsa che sia di tal affare, che fusse piena di denari assai, e s'io aprissi quella borsa ogn'ora cento ducati ne balzasser fuora.

13

—Ecco la borsa la qual tu mi chiedi.— Disse colui:—I' vo veder la prova. —Guarda qui ben, se cosa alcuna vedi.— Colei la borsa dalla bocca snoda e fe' balzar cento ducati a' piedi. Colui, che di tal cosa ben gli proda, tolse costei, ch'aveva il viso bello, come sua donna e dettegli l'anello.

14

Disse quell'altra al secondo di loro: —E tu che cosa pensi nel tuo cuore? Disse colui:—Non chieggio argento od oro, ma sí un tappeto di fino colore, che mi portasse senza far dimoro, senza esser visto, in ogni concistore.— Detto tappeto la donna lo trova, e poi gli disse:—Faranne la prova.—

15

Colui sel mise addosso ed ha parlato con quel tappeto ravvolto alle rene, e fecesi portare in capo al prato, e prestamente indrieto se ne viene; ed ha la donna subito sposato, ché gli pare la cosa andasse bene. E poi quell'altra disse senza lagno: —C'hai tu pensato? Dimmelo, compagno!

16

—Se tu sapessi quello c'ho pensato e potessimel dare, o viso adorno, i' t'arei come gli altri anch'io sposato e servireiti sempre senza scorno. —Abbi pur quel che tu m'hai domandato!— E colui disse che voleva un corno, ched ogni volta che l'abbi sonato sian dieci squadre quivi, ognun armato.

17

—Perché, quando io volessi assai denari, io metterei l'assedio ad una terra, che per paura, senza alcun divari, mi dien l'argento per levar la guerra, che contra me non arén poi ripari, tanta metterei gente in quella terra.— Disse la donna, che con lui ragiona: —Ecco lo corno. Fa' la prova e suona.—

18

E' si pigliò quel corno e l'ha sonato: ecco la gente d'arme comparire; son dieci squadre, ciaschedun armato, dimostran d'aver forza e grand'ardire. Un'altra volta e' l'ebbe risonato; eccotene altrettanti li venire. Dieci volte il sonò di valimento, tanto che venner delle squadre cento.

19

Fecer la prova e furon consolati, e ciaschedun quel ch'avien chiesto l'ebbe, e tutt'e tre si furon maritati a quelle tre, che a nissun non l'increbbe. E tutt'e tre si fûrno addormentati infin che l'altro giorno arriverebbe; ma la mattina, quando si destorno, ignuna delle donne e' non trovorno.

20

E disse:—Ove son io stanotte stato?— e viene il sogno suo imaginando; e diceva a' compagni:—I' ho sognato un sogno ch'io verrò poi ragionando: e' mi pareva moglie aver pigliato, e stavomi con essa sollazzando. Arebbela nessun di voi veduta, che non so giá quel che se ne sie suta?—

21

L'altro rispose:—A me parve iersera, quando eravamo a cenare nel prato, venner tre donne con bella maniera e dolcemente ci ebbon salutato.— Quell'altro lor compagno si dispera, e non sa come il fatto sia passato, dicendo:—Una ne presi per mia sposa: or non so come vada questa cosa.—

22

Quell'altro disse:—Anch'io ne presi una e donommi un tappeto molto bello e, perché fusse ben di notte bruna, mi portava, dov'io voleva, quello.— E 'l primo disse che di seta bruna la sua una borsa gli donò per ello, che, come quella borsa ella s'apriva, cento ducati fuor di quella usciva.

23

Il minor disse:—A me donò la mia un corno lavorato gentilmente, ch'a sonarlo, ogni volta quel facía ben dieci squadre di pulita gente.— Guardando intorno, ciaschedun vedía quelle cose ciascuna di presente; viden la borsa e quel tappeto adorno, e similmente il lavorato corno.

24

—Questo sarà un sogno da dovero? —Facciàn la prova?—E poi qual cosa fia?— Fecion la prova e viddon ch'era vero; e inverso Roma pigliaron la via. Quel della borsa pagava l'ostiero, quando avevan mangiato all'osteria. Stettono a Roma circa quattro mesi, poi terminoron di mutar paesi.

25

Partissi prima quel ch'avea la borsa, e prese il suo cammin verso la Spagna, e molto bene all'oste il becco intorsa, e facea scotti, che non ne sparagna; ed avea giá di molta via trascorsa, e molto spende perc'ha chi guadagna, ed are' fatto di denar duo sacchi, giocar sapendo a' tavolier e a scacchi.

26

Giocava a tavole e era buon maestro, tal che venne agli orecchi alla regina; e fu mandato per lui molto presto che venga in corte; e lui tosto cammina avanti alla regina molto destro; con riverenza la saluta e inchina e diceva:—Madama, in cortesia, che mi comanda Vostra Signoria?

27

—Detto m'è stato di tua gentilezza, e come a scacchi giuochi cosí bene, ed a tavole—disse—con destrezza ne sanno giocar pochi come tene. I' ho di giocar teco gran vaghezza poi che cosí gentil maestro sene.— Ed ei rispose che gli era contento di far ciò che gli fosse in piacimento.

28

E cominciorno il giuoco al tavolieri, e piaceva alla donna il suo giocare, ed anche lui la vedea volentieri, tal che se n'ebbe mezzo a innamorare. Lassôr le tole e preson lo schacchieri, e lei, ch'era maestra di giocare all'uno e all'altro giuoco gli ha tirati, se non son piú, cinquecento ducati.

29

Finito il giuoco, quel giorno presente, diss'ella:—Poi ch'abbiam tanto giocato, i' vo' che mi prometta veramente che con meco stasera abbi cenato.— E lui, che giá sentía le fiamme ardente, ebbe l'invito suo tosto accettato; e disse:—Poi che vi faccia piacere, io son contento far vostro volere.—

30

Cenato c'hanno, senza uscir da mensa, sul tavolieri incominciorno il giuoco, perché colei nell'animo suo pensa come potesse far ardere il fuoco; e talvolta sospira, e poi ripensa com'ella possa fare a poco a poco; e la sua fantasia avea trascorsa com'ella possa tôrgli quella borsa.

31

E finge, e dice:—O traditor d'amore!— E con queste parole poi sospira. Costui, ch'aveva giá ferito il cuore, alle parole sue pose la mira: —Costei non ha marito né signore,— tanto che questo alle sue voglie tira; e diceva a costui nel sospirare che gli voleva in secreto parlare.

32

Tanto che disse:—Poi ch'amor m'ha giunto e forzami a seguir tutte tue voglie, io son regina, com'io t'ho riconto; se ti piacessi di tôrmi per moglie, di te come di me sia fatto conto. Cosí fortuna adempie le sue voglie. Ma non fare' cotal cosa altrimente, se non mi fai della borsa un presente.

33

E vo' che, come sai, anche a me insegni. Veggo che fai de' fiorini a tua posta; e di tal cosa non vo' che ti sdegni; non so come tal cosa sia composta.— Costui gli disse:—Guarda questi segni, che, se pigli la borsa senza sosta e che la scuota per li pellicini, n'uscirá sempre fuor cento fiorini.

34

—Questo è per certo una mirabil cosa! I' ti farò signor di questo regno, e sarò, com'io dissi, poi tua sposa, se di tal grazia fai l'animo degno!— Costui, che 'l cuor in corpo non gli posa e vede riuscir il suo disegno, gli disse:—Io son contento: io te la dono, se farai prima quel ch'io ti ragiono.

35

—Ista' cosí un poco e lá verrai, ed io m'avvierò, ma vien' lá solo. Quivi soletta tu mi troverai.— E cosí seppe ben tirar l'aiuolo, diègli la borsa, e non credette mai esser piantato cosí a piuolo. Costei n'andò ed in zambra si misse. Prima avea detto che Biagio venisse,

36

ed avvisato i servi di tal fatto: —State qui fermi, che non vi partiate; se Biagio d'entrar qui fa alcun atto, fate che dentro entrar non lo lasciate e fategli, oltre a questo, miglior patto: dategli a conto dieci bastonate. Dite che non sappiate chi si sia e, scossogli il mantel, cacciatel via!—

37

Ecco che Biagio s'accostava a l'uscio, onde un gli disse:—Che vai tu cercando? Biagio, ch'aveva il cervello nel guscio, disse a colui:—Io ti farò dar bando! Benché tu porti il piede nel camoscio, ascolta quel che ti vo ragionando: io non istimo nulla il tuo parlare, e voglio alla regina dentro entrare.—

38

Eccoti giunti quattro mascalzoni e cominciôrgli a scardassar la lana. Trovossi in mezzo di quattro bastoni, ch'ogni volta cascava in terra piana; ed ebbe frutti di molte ragioni, che rimbombava come buca e tana. E fêrno uscire il mostro fuor del guscio, ed a quel suon si trovò fuor dell'uscio.

39

Non sa costui che fare, il meschinello; ma dipartissi, solitario e cheto, tornando inverso Roma, il poverello; e ritrovò i compagni, ciascun lieto; e disse ad un di lor:—O car fratello, bisogna che mi presti il tuo tappeto, perch'una donna m'ha gabbato a forza e con inganni m'ha tolta la borza.

40

—Il mio tappeto non ti vo' prestare, che ho paura che lo perderesti. —Io voglio nella zambra sua entrare, sí che bisogna che tu me lo presti; io voglio la mia borsa ripigliare.— Tanto che pur sono d'accordo questi; e misseselo addosso e tirò via ed al palazzo di costei giugnía.

41

Giunto che fu di costei al palagio, subito in zambra entrò per la finestra, e vide la regina star ad agio; ma ella se ne accorse molto destra. però che giá invisibil non va Biagio. Lei, che di simulare era maestra, e disse:—Molto m'hai fatta stupire, perché tardato hai tanto il tuo venire.

42

Io non so la cagion del tuo tardare. Hammi tu forse al tutto rifiutata? —Adesso, che m'hai fatto bastonare, tu vuoi mostrare di non esser stata? —Biagio, tu mi fai ben maravigliare di questa cosa che tu m'hai parlata.— E lui sí li contava la cagione, e lei fingeva d'averne passione.

43

—Vo' che mi cavi un dubbio della testa, ch'i' son del caso impallidita e smorta: perché io ti vidi entrar per la finestra? perché non sei venuto per la porta? —Sí ho questo tappeto in mia podésta, mi porta dove voglio senza scorta. —Cotesto mai non crederei giá io, se non provassi cotal cosa anch'io,

44

ché questa pare pur cosa incredibile; io mi stupisco e non lo posso credere!— Rispose Biagio:—Io so che gli è possibile— e che provasse cominciò a credere. —Dimmi—diss'ella—se si va invisibile con quest'addosso, se mel vuoi concedere. —Invisibile vassi—disse Biagio:— tu lo puoi qui provar per lo palagio.

45

Tu gli puoi comandar quel che tu vuoi,
che in ogni lato ti fará la scorta.
Non puoi esser veduta, stu non vuoi,
e contra lui non val finestra o porta.—
Costei sel mise addosso, e disse poi:
—Vedimi tu? Son io diritta o torta?—
Biagio rispose:—Io non veggio niente.—
E lei trovava l'uscio prestamente.

46

Biagio restossi in camera soletto. Costei si fece a' suoi servi vedere, e contò lor del tappeto l'effetto, e poi diceva alle sue cameriere ch'andassen due di loro a fare il letto, s'alcun vi trovan ritto od a sedere: —Fate che presto leviate il rumore, e i servi correran lá con furore.—

47

E come giunti son, ebbon veduto costui che sta la regina a aspettare, e, senza dargli le donne saluto, incominciorno subito a gridare. E' servi, come questo hanno sentuto, addosso a Biagio s'ebbono a cacciare, e diceva ciascun:—Se ben ti squadro, tu debbi esser per certo qualche ladro!—

48

E cominciorno a scuotergli il mantello. Biagio diceva:—Io non son rubatore! Costor pur gli imbottíano il giubberello, tal che di zambra si fuggiva fuore, e fuggí per paura, il meschinello, che per istizza gli crepava il core; e disse:—Lasso! che debbo piú fare?— E prese verso Roma a camminare,

49

tanto che giunse a' suoi compagni un giorno; e disse, malcontento e corrucciato, com'avea ricevuto grande scorno, come il tappeto gli è stato rubato. —Prestami—disse a quell'altro—il tuo corno, e voglio esser in Spagna ritornato, e voglio a quella mover tanta guerra, piglierò lei e abbrucierò la terra!—

50

Disse il compagno:—Non ne ragionare, perché so certo che lo perderesti, e mai non si potrebbe racquistare. Faresti a me come all'altro facesti.— Biagio lo seppe tanto predicare ch'al tutto bisognò che glielo presti; ed halli dato il corno in sua balía. Biagio lo prese e poi tirava via.

51

E come giunse nel pian, s'accamporno presso alla terra dove egli ha pensato; e cominciava a sonar questo corno, ed ha di molta gente ragunato. Intanto le novelle via n'andorno alla regina, come il fatto è andato, e con questo facea gran minacciare, tanto che alfin gli dava che pensare.

52

Costei mandava spioni per intendere chi sia costui; e, quando l'ha saputo, diceva:—Il placherò senza contendere, s'io ho tant'agio ch'io gli abbi parlato.— E fe' pensier fin giú nel prato scendere, ed aveva ogni cosa pur pensato. Montò a cavallo con sua compagnia e 'nverso il campo pigliava la via.

53

E, giunta al campo, ne va al padiglione, e domandava chi era il signore; e scese prestamente da l'arcione, e fece a questo singolare onore. E disse:—Io vorrei intender la cagione perché sei mosso in cosí gran furore.— Biagio gli disse:—Tu l'intenderai, ed ogni frode adesso pagherai!

54

—Se mai t'è stato fatto alcun oltraggio, io non lo so, che non ci ho colpa niuna e n'è stato cagion mio baronaggio, se ti fu fatta villania nessuna. Ma so che sei sí savio e tanto saggio, ed hai da ringraziar ben la fortuna, che t'ha donato tanta forza e ingegno, che t'ha fatto signor di questo regno.

55

E dotti la mia fé che 'l tuo venire io l'ho sí caro, che contar nol posso, e molto mi fu duolo il tuo partire, ch'ancor pensarlo trema tutto il dosso. Disposta son di sempre te ubbidire in ogni caso ched io so e ch'io posso. S'io t'ho per il passato nulla offeso, me ne sa male, ed honne al cor gran peso!

56

Liberamente ti vo' dar la terra e ciò, ch'io ho, in balía t'offro e dono, purché si ponga fine a tanta guerra. E nella mente stupita mi sono, ché certo nel mio regno, in ogni terra, e tutti i gran signori che ci sono, e' non han tanta forza veramente che faccin la metá di questa gente.

57

Tu mi trarresti di gran fantasia, raccontarmi tal cosa veramente, se fai per arte di negromanzia, ched e' ti venga drieto tanta gente.— Rispose Biagio:—La possanza mia non te la voglio raccontar per niente, acciò che non m'inganni, come fai; ma d'ogni cosa te ne pentirai.

58

—Adunque sarai tu cotanto strano, che tu mi voglia far tal villania? Da poi che inver' di me sei sí villano, io son condotta in tutta tua balía, prendi questo coltel nella tua mano, dammi nel petto e passa l'alma mia, e dirassi di te che sei crudele dapo' ch'uccidi chi t'è sí fedele!—

59

Udito ch'ebbe di lei le parole, sagline male, e volse il suo pensiero, e nell'animo suo seco si duole; e diceva fra sé:—Egli è pur vero ched una donna possa quel che vuole e faccia altrui parer bianco per nero!— Ed è sí rimutato nella mente, e sí diceva alla donna in presente:

60

—Io ti dono la vita e la tua terra; rendimi la mia borsa e 'l mio tappeto ed io ti leverò cotanta guerra e poi ti conterò questo secreto.— Costei che gli lo dica pur lo serra; ma Biagio alle parole stava cheto. Lei disse:—Fammi questo manifesto, e donarotti assai, oltra di questo.—

61

E disse:—Se tu m'ami, o sire adorno, trammi del capo, deh, questa oppinione!— Biagio gli disse:—Vedi questo corno? Vo' che tu sappi questa condizione: ogni volta che 'l suono, notte o giorno, vien dieci squadre armate a tua intenzione.— Disse la donna:—È cotesto possibile? —Sí—disse Biagio—lo vedrai visibile.—

62

Disse la donna:—Fammi di ciò sazia: io mi voglio recar quivi da parte; e se mi dái, barone, tanta grazia, io ti darò del mio reame parte.— Seppe costei sí ben far con sua audacia, come colei che di ciò sapea l'arte, Biagio gli ha il corno nelle sue man dato; costei con gran vaghezza l'ha accettato.

63

Montò sul suo cavallo per ragione e, come s'ebbe alquanto a discostare, conobbe come quella è fatagione; comincia el suo cavallo speronare. —Mio danno!—disse Biagio—Io n'ho cagione, ch'i' m'ho lassato di nuovo gabbare!— Come non ebbe il corno in sua balía, tutta la gente fu sparita via.

64

Costei se ne tornava inverso casa e lasciò Biagio, che s'ha a disperare, e diceva di lui:—Bestia di vasa! Cosí intervien, chi non si sa guidare!— Vide che gente non gli era rimasa, e diceva tra sé:—Lasciamlo andare!— Lassollo andare, il povero meschino; ché cosí n'ha voluto il suo destino.

CANTARE SECONDO

1

Biagio diceva:—Che debbo piú fare? lasso me, che fatt'ho tristi guadagni! In che modo poss'io piú ritornare a rivedere i lassati compagni?— E si voleva al tutto disperare; nulla gli val, invan par che si lagni; e dicea come fa chi mal si guida: —Cosí ne avvien a chi troppo si fida.—

2

Biagio si trova in maggior laberinto che fusse mai e non ne puote uscire, perché la fede sua sí l'ha sospinto a questi casi che gli hanno avvenire, e si ritrova come un corpo estinto, e piú non sa dove si debba gire. E, trovandosi in tanto duro assedio, e' sempre prega il ciel trovar rimedio.

3

Ma quella fata, che die' loro il corno, non lo vòlse però abbandonare, e fece che trovasse in quel contorno un piè di fico, che possa mangiare, e fece che quei fichi in tal soggiorno avean tal virtú ch'i' vo' contare: si facean certi fichi a cotal guisa, che tutti ne farete grasse risa.

4

Ogni volta che Biagio ne mangiava, e gli venía come a l'asin la coda; per ogni fico che lui masticava, un palmo gli crescea la detta coda. Egli aveva gran fame e pur mangiava, tanto ch'attorno molto se n'annoda, e diceva:—Io non so piú che mi fare; i' ho gran fame e non vo' piú mangiare.—

5

Ed ha lassato quel fico, e cammina e la coda gli dava ben sei volte. Egli era di gennaio in su la china, ch'eran riposte tutte le ricolte; come egli ebbe passato una collina, gli venne le sue luci intorno vòlte e vide un altro fico in quella costa carco di fichi, ed a quel piè s'accosta.

6

Egli eran belli e fuor d'ogni misura. A Biagio alla memoria gli ritorna dell'altro fico e della sua sciagura, fermossi alquanto ed un poco soggiorna. Poi disse:—Io vo' mangiare alla ventura, se mi dovesse ben nascer le corna!—Un di quei fichi in bocca si mettía, tal che un palmo di coda gli andò via.

7

Biagio si cominciava a rallegrare: —E' sará forse la ventura mia:— E cominciò di quei fichi a mangiare, tal che tutta la coda gli andò via. Biagio fra sé cominciava a pensare, e fra sé stesso pensando dicía; diceva:—Io son disposto di vedere s'io posso le mie cose riavere.—

8

Tanto che trovò questo un canestrello, ed andava a quel fico che fu il primo; otto ne colse e sí li messe in quello. Disse:—Sí mi riesce com'io stimo!— E tolsen otto da quel ficarello, perché di que' faceva grande stimo. Andonne alla cittá, una mattina, sol per vender quei fichi alla regina,

9

e posesi a seder sotto il palagio. Erasi de' suoi panni travestito; egli era freddo e stava con disagio. Ed uno alla regina ne fu ito, la quale stava a iscaldarsi con agio; disse:—Madonna, giú, nel vostro sito, sotto la loggia io ho veduta cosa, che a vederla mi par maravigliosa!

10

Un villano c'ha un bel panier di fichi, che di settembre non sarian sí belli: e' vuol quattro ducati d'otto fichi.— —Va' via!—disse colei—va' via per elli, e che lui me gli dia fa' che gli dichi, e prestamente porterammi quelli.— Colui n'andò per essi, e sí gli porta quattro ducati; e lui trovò la porta.

11

L'ora ne venne poi del desinare; aveva la regina due donzelle, che le faceva seco a mensa stare, e tutte due eran pulite e belle. Quando si furon poi poste a mangiare, fu l'acqua alle man data a tutte quelle; e, postasi a seder, senza ch'il dichi, fe' la regina portarsi que' fichi.

12

Tolse que' fichi, e sí n'ha dati dua ad una di color ch'eran con seco, e disse:—Mangia questi, che son tua, e dua ne do a quest'altra ch'è teco.— Quegli altri quattro volle che sien sua. —E' per gran dono—disser—me lo reco.— Tal che per gran vaghezza gli mangiorno, e che sien vaga cosa ragionorno.

13

Ell'avien quasi mezzo desinato, e ancor tra lor questi fichi si loda; una delle donzelle avea parlato e tal parlare alla regina isnoda, e disse:—Un tristo caso mi è incontrato! Oh trista a me! Che mi è nato la coda!— Cosí disse quell'altra:—Anche a me pare.— Tanto ch'elle restâr di desinare.

14

E la regina in zambra se n'andò, e chiama poi con seco le donzelle. Alzonsi i panni, e la coda guardò, e tutt'e tre l'avean, le meschinelle, quelle n'avean due palmi, misurò, e la regina n'ebbe quattro anch'elle; e, ragguagliando che dua e dua fa quattro, le non sapean comprender questo fatto,

15

E venne quella cosa immaginando, siccome aveva lor dato due fichi, se ne venivan due palmi trovando, e lei, che n'ebbe quattro, si replichi; e tanto sopra questo vien pensando, che infine disse:—E' sono stati i fichi.— E fe' per molti medici mandare che di tal mal la venghin medicare.

16

E fur di molti medici trovati, ed a ciascun gran cosa gli pareva; e infine tutti s'erano accordati: rimedio a questa cosa non s'aveva; tanto che molti n'è mal capitati, perché cosí la regina volea; e comandò che cosí si facesse, perché tal cosa non si risapesse.

17

Nientedimeno tal cosa si sa. Biagio, che nella terra è ritornato, ad un medico a casa se ne va e a questo modo a lui n'ebbe parlato: —Maestro, Dio ti doni sanitá!— Disse il maestro:—Denar ci abbi dato!— Biagio gli disse:—Danari anco arai, sed a mio modo, maestro, tu farai.—

18

Biagio era stato piú volte in Turchia e sapeva il linguaggio molto bene. Disse al maestro:—La disgrazia mia m'ha fatto sopportare affanni e pene: io vengo dalle parti di Rossía; Fortuna mi rivolse le sue rene. Tutta la robba mia rimase in mare ed ho avuto fatica di campare.

19

L'arte mia era della medicina, e son venuto a caso in questa terra; e' parmi intender come la regina cattiva infermitá suo corpo serra. Se mi presti una vesta purpurina con un cavallo usato nella guerra e due famigli, molto car l'arei e del guadagno mio te ne darei.

20

Ma piglia duo famigli forestieri, e tu te n'anderai alla signora, e dirai alla regina come ieri io capitai qui, circa ventun'ora, e di trovarmi a Roma avea pensieri, e come, sendo tu all'uscio di fuora, ti salutai e che, parlando meco, volesti che la sera stessi teco.

21

E, perché ero maestro di tua arte, tu m'alloggiasti e che poi, ragionando "del medicar n'ho avuto buona parte", ogni cosa venisti domandando, ogni cosa ti dissi, a parte a parte, com'ogni infermitá vengo sanando. Se queste cose, ch'io dico, farai, cinquecento ducati da me avrai.—

22

Come il medico intese del denaio, trovolli un bel cavallo e dua garzoni, una vesta con fodera di vaio. Lasciollo in casa, senza piú sermoni; andonne alla regina col cuor gaio e, ragionando di lor salvazioni, come egli ha in casa un medico saputo, che per andare a Roma era venuto,

23

che va l'imperadore a medicare; ad ogni malattia egli ha rimedio. —Incominciai di voi a ragionare, ché, per non tenerti troppo a tedio, cotal infermitá sa ben sanare, e leveratti infin da questo assedio.— Disse colei:—S'egli è quel che tu spandi, subitamente fa' per lui si mandi.—

24

Venne maestro Biagio prestamente, e diede alla regina un bel saluto: —Colui che fe' la luna e 'l dí lucente ti salvi e guardi e sia sempre in aiuto!— E la regina a lui similemente disse:—Maestro, siate il benvenuto! Se per guarirmi venuto sarete, da me denar, quanti volete, arete.—

25

Disse maestro Biagio:—Alla buon'ora! io credo in ogni modo voi guarire.— E cominciò la sua disgrazia allora a raccontare e donde egli ha a venire, e come fu del suo paese fuora, e quel che in mare gli ebbe a intervenire che perse ciò ch'aveva dentro in mare, —come il maestro giá v'ebbe a raccontare.

26

—Orsú, poi che tu sei sí buon maestro, come m'ha detto dianzi qui costui…— E lui col suo parlar rispose destro: —Sempre mai, in ogni lato dov'i' fui, ho voluto veder senza sinestro e la mattina; cosí dico a vui. Ma mi bisogna, a volervi sanare, veder con l'occhio e con la man toccare.—

27

Fu data in cura a Biagio ogni donzella. e 'n camera n'andò, dov'eran quelle. A Biagio gli parea ciascuna bella, che rilucevan come fan le stelle. Biagio a ciascuna di quelle favella: —Cavatevi ciascuna le gonnelle, ché mi bisogna, per la fede mia, vedere a tutte vostra malattia.—

28

Tal che le fece tutta dua spogliare, e vide tutto e toccò con la mano, tanto che lo facevan sospirare e feciongli arricciar tutta la lana; ed aveva ciascuna a confortare: —La vostra malattia fie tosto sana, e prestamente senza alcun divaro.— Fa vista di pigliare un lattovaro.

29

E tolse un di quei fichi prestamente, lo mise in bocca ad una di coloro; e poi a l'altra fece similmente, e destramente nettò com'un oro: ne dette dua per una lí presente; e, stando un poco, ciascuna di loro cominciarono a dir:—Maestro tale, noi siam guarite d'ogni nostro male!—

30

Andò la nuova tosto alla regina come è guarita ciascuna donzella, e prestamente alla zambra cammina, e trovò come è vera la novella; e disse a Biagio:—La tua medicina rider faratti ben la tua scarsella.— Rispose Biagio:—I' vo' mezzi e' danari, ché cosí fanno sempre e' nostri pari.—

31

E félli dare seicento ducati: —E 'l resto arai, come m'arai guarita, e tutti ti saranno annoverati innanzi che da me facci partita. —Per questo giorno ci sarem posati; domani arém la cosa me' chiarita, sí che per ora datemi licenza, e domani farem l'altra esperienza.—

32

Quattrocento ducati dette al medico che gli prestò la veste col cavallo; costui gli prese, che non ha il parletico. Biagio gli disse:—Ascolta, senza fallo; perch'io non paia questa volta eretico tòi questo pizzicotto e dipoi dállo a quel che mi prestò cotesta vesta, e doman poi ti sará resa questa;

33

ch'i' vo che me la lasci tanto ch'io guarisca la regina del suo male, e poi verrò a casa tua anch'io, e vedrai poi ch'io ti sarò leale.— Disse colui fra sé:—Vatti con Dio, ché con questi farem buon carnevale. —Questi cinquanta ancor vo' che ti pigli e che con essi tu paghi i famigli.—

34

Biagio fe' buono scotto per la sera, e, venuta che fu poi la mattina, come del letto Biagio levato era, e' se n'andò dinanzi alla regina, e vidde ancora a lei la sua matèra, dove fece a quell'altre medicina, e dègli in lattovar duo di que' fichi, e che sia dolce cosa par che dichi.

35

Alla regina parve dolce cosa e disse:—Questo è un buono lattovaro.— Rispose Biagio:—Sopra d'ogni cosa è questo molto da tenerlo caro.— Mentre che la regina si riposa, dall'uno all'altro fu poco divaro; e, detto questa cosa ch'ognun loda, che gli cascò duo palmi della coda.

36

Fu la regina assai di ciò contenta e voleva che Biagio seguitasse. Biagio non ebbe la parola lenta, e gli diceva che non s'affrettasse, e risposegli:—Mai non mi rammenta che fusse alcuno che mi ragionasse di fare in fretta questa medicina. ch'ell'è di troppo noia e troppo fina.

37

E basta ben che domane a buon'ora i' farò sí che sarete contenta; ma io voglio una grazia da voi ora e voglio che di ciò siate contenta. —Io son contenta di piacerti ognora, né a ciò io non sarò pigra né lenta; e pensa s'io ti possa far servizio che ti ristori d'un tal benefizio.

38

—Io ho sentito di voi ragionare ch'avete assai tesoro e cosí bello, e tante belle cose a tal affare, sí che, se v'è in piacer, vorria vedello.— Disse la donna:—Dopo desinare tel mostrerò, se t'è in piacere quello; vorrei sognar volentier di sapere far cosa ched io possa a te piacere.—

39

Biagio sí se n'andò a desinare, e disse:—Forse anche potrei godere.— E pensa nel suo cor quel ch'abbi a fare, che possa le sue cose riavere. Com'ebbe desinato, a tal affare, e la regina, per farli piacere, mandò per lui e 'n zambra si lo mena, la quale è tutta di tesoro piena.

40

La prima cosa, distese il tappeto, che tolse a Biagio, in mezzo del solaio. Biagio stava a veder e stava cheto. Prima n'avea sottomesso un vaio e molte gioie, auditor mio discreto, che valean quelle cose un gran denaio;— e poi vi misse, senza far soggiorno, quella borsa di Biagio ed anco il corno.

41

Molt'altre belle gioie e belle cose, che sarebbe a contare un lungo dire, che le molte parole son tediose. E cominciò la donna a Biagio a dire: —Non son queste mie gioie graziose? —Sí—disse Biagio—invero, a non mentire.— Disse la donna:—Stu mi guarirai, quanto tu vuoi di questo piglierai.

42

Disse Biagio:—S'i' torno in mie contrade, non mi manca né gioie né danari; non istimo castella né cittade, che non si trova al mondo uno a me pari. I' fo per poter dir la veritade di questa cosa, e di far tutti chiari chi mi domanderá del tuo tesoro; com'ho veduto cosí dirò loro.—

43

—Perché tu possa meglio raccontare, io ti vo' dir di tre cose, in segreto: codesta borsa per cotal affare, e questo corno con questo tappeto, il lor valor non si potria contare. E, perché tu ti parta da me lieto, i' ti vo' la virtú di tutte dire, acciò che 'n tuo paese il possi dire.

44

La borsa (nota, perché dir lo possa a chi tal fatti avesse domandati), per ogni volta che gli do una scossa, e' casca quivi ben cento ducati. Ogni volta che 'l corno sonar possa, vien dieci squadre qui d'uomini armati. —Questo è gran caso—Biagio allor rispose. Disse la donna:—E c'è piú belle cose.

45

Questo tappeto, chi l'ha sulle spalle, se colui che l'ha addosso vuol che porti, lo porterá persino in Roncisvalle, e contra lui non val mura né porti, e passa monti e ciascheduna valle; e' venti come lui non van sí forti. Non è questa gran cosa? Dimmi tue di queste cose ch'abbia tal virtue.—

46

Biagio prese la borsa con la mano e 'l corno ancora, e disse alla regina: —Se fusse quel che dici, intendi sano, al mondo non fu mai cosa sí fina.— E poi prese il tappeto di tostano, misse alle spalle e poi disse:—Cammina!— E lassò quivi le gioie cascare, E la regina incominciò a gridare.

47

Corsero i servi sua a quelle grida, e dissen tutti quelli:—Che vuol dire? Rispose la regina:—A chi si fida, come a me, suole sempre intervenire; ora e' convien che di me ben si rida, tal che per questo credo di morire.— E disse a' servi sua questa ragione, e quel maestro n'è tutta cagione.

48

Biagio fu in poco spazio a' suoi compagni, e contò di ogni cosa il fatto appieno, e com'egli avea fatto buon guadagni, che un'altra volta sia di senno pieno; e, perché di color nessun si lagni, e' si cavò la sua borsa di seno e, perché ben da lui sien ristorati, donò per un cinquecento ducati.

49

Però non si vorrebbe alcun gabbare. Costei ingannò Biagio, com'è detto; ma Biagio seppe ivi sí ben fare, che gabbò lei, come fosse un valletto. E' però non si vuol d'alcun fidare, come si vede di molti l'effetto, che si son molti di qualcun fidati, sí che dipoi son rimasti ingannati.

50

Se costei tolse a Biagio quel suo corno, prima gli tolse la borsa e 'l tappeto, e fecel disperato andare a torno. Ma quella fata gli die' quel segreto, gli fe' trovar que' fichi a tal soggiorno; intese il fatto ben, come discreto. A dir la veritá qui, ch'ognun loda, a lei rimase duo palmi di coda!

V

LA DONNA DEL VERGIÚ

1

O gloriosa, o vergine pulzella, i' vo' la grazia tua adimandare e dir per rima una storia novella, per dare essemplo a chi intende d'amare, d'un cavaliere e d'una damigella d'un nobile legnaggio e d'alto affare, sí come per amore ognun moríe, e 'l gran dannaggio che poi ne seguíe.

2

E' non è ancora gran tempo passato che di Borgogna avea la signoria un duca, che Guernieri era chiamato, uom valoroso e pien di cortesia, del corpo bello e di costumi ornato e di virtú, quanto piú si potía, e molto amava gli uomin virtudiosi, massimamente d'arme valorosi.

3

Tra gli altri ch'egli amava del paese, si era un molto nobil cavaliere, giovane, gentilissimo e cortese, ben costumato di tutte maniere, ricco d'argento e di terre e d'arnese, dell'arme forte e franco cavaliere piú ch'altri allora si mettesse l'elmo, e faceasi chiamar messer Guglielmo.

4

Dico che quel baron sí valoroso amava per amore un'alta dama del legnaggio del duca poderoso, ch'era piú bella ch'alcun fior di rama. E 'l loro amore era tanto nascoso, che fra la gente non ne corre' fama: per non dirlo a sergente o a camariera, una cúcciola facíen messaggera.

5

Nulla sí bella zita era, né piú, allora né cristiana o saracina, e nome avea la Donna del vergiú, che piú splendea che stella mattutina. El padre suo nobil barone fu, sua madre era figliuola di regina, e, quando essi del secol trapassôro, sí gli lasciâro un ricco tenitòro.

6

Ella l'amava con sí grande affetto, messer Guglielmo, che d'altro marito non si curava né volea diletto, e sí co' lui si stava a tal partito, a ciascuno ponea qualche difetto, tosto che ragionar n'aveva udito; e piú baron di Francia e della Magna avea schifati e posto lor magagna.

7

E cosí stavan que' perfetti amanti col lor secreto amor chiuso e celato cotanto, che né in vista né in sembianti accorto non se ne sarebbe uom nato; e renegato arebbe Iddio co' santi ciascun, pria che l'avessi appalesato; e, quando per amor si congiungevano, udite e' sottil modi che tenevano.

8

Il palazzo dove ella dimorava avea dintorno un nobile vergiero ed una cucciolina che 'l guardava per me' la porta stava in sul sentiero; quando messer Guglielmo v'arrivava, ed ella conosceva il cavaliero, sed esso ave' compagno, ella lativa tanto che del giardin e' si partiva.

9

Se sanza compagnia era venuto, e la cagnuola gli facea carezza, e poi di botto cercava col fiuto tutto il giardino per ogni larghezza; e se alcun trova nel giardin fronzuto nascoso, o che 'l mirasse per vaghezza, ella latrava, veggendo il barone, tanto ch'e' si tornava a sua magione.

10

E, se alcun non trovava (e' si ragiona), alla donna ne gía la catellina, come spirito avessi di persona; cosí, per cenni mostrando, s'inchina. La donna, com' sovente Amore sprona, pell'uso suo intende' la cucciolina e levasi di subito e in istante al verzúe giva e la cúcciola avante.

11

E quivi gli amador, pien di letizia, si congiungean con tutto el lor disio; la disiosa e celata amicizia facíe chiamar l'un l'altro:—Amore mio!— di baci e d'abbracciar facean dovizia; ciascun dicendo:—Ben, preghiamo Iddio che questo dilettoso tempo basti che caso non avenga che ce 'l guasti.—

12

Quando s'eran gran pezzo sollazzati, la donna se ne gía e sí 'l barone, per temenza di non esser trovati, ciascuno si tornava a sua magione; ma la mattina, po' ch'eran levati, veníano in corte, coll'altre persone, non faccendo né segno né sguardare ch'altrui non sen potesse mal pensare.

13

E 'l disio dolce che nel cor spirava facea quei due amador pien d'allegrezza; e quella dama tanto allegra stava, che nel viso fioriva sua bellezza. Messer Guglielmo ogni giorno armeggiava e facea gra' conviti e gran larghezza; mostrava ben com'era innamorato, ma di chi fusse nol sapeva uom nato.

14

Or segue qui la leggenda e la storia della donna del gran duca Guernieri. L'alta duchessa credea in sua memoria che 'l buon Guglielmo, nobil cavalieri, per lei facessi cotal festa e gloria, ed armeggiando montasse a destrieri, e ch'egli fusse al suo bello piacere preso d'amore tutto al suo potere.

15

Ella, che ha messo in lui ogni sua speme e celato l'amore oltra misura, sí che il disio d'amor nel core prieme, in gelosia ne vive ed in paura; e lagrime degli occhi il viso geme. Presente quella nobil creatura, diceva:—Amor, perché m'hai cosí arso di costui, che d'amor m'è cosí scarso?—

16

E volgeva sí spesso gli occhi sui come fa chi d'amor forte si duole, e, quando si trovava a sol con lui, sí gli diceva amorose parole. Messer Guglielmo, ch'era dato altrui, vedendo ciò che la duchessa vuole, no gliel negava e no l'acconsentía per celar quella che l'avea in balía.

17

Un giorno er'ito el duca a suo diletto fuor della terra a un suo ricco palazzo, e la duchessa sanza ignun sospetto prese messer Guglielmo per lo brazzo e menosselo in zambra a lato al letto, ragionandosi insieme con sollazzo; e, per giuocar, la donna e 'l cavaliere fece venir gli scacchi e lo scacchiere.

18

Da poi ch'egli ebbon tre giuochi giuocato, la duchessa, ch'Amor sovente sprona, disse:—Messere, avete disiato giá gran tempo d'avere mia persona; or prendete di me ciò che v'è a grato.— Ed abbracciandol gli baciò la gola, poi gli baciò ben cento volte il viso, prima che 'l suo dal suo fosse diviso.

19

Ed abbracciandol gli dicea:—Amor mio, perché mi fate d'amor tanta noia? Deh, contentate 'l vostro e mio disio! prendiamo insieme dilettosa gioia, io ve ne prego pell'amor di Dio, o dolce amico, prima ch'io mi muoia! Se mi lasciate cosí innamorata, oimè, lassa, in mal punto fui nata!

20

Messer Guglielmo disse con rampogna vedendo alla duchessa tanto ardire: —Chi mi donasse tutta la Borgogna, tal fallo io non farei a lo mio sire. Prima che gli facessi tal vergogna, certo mi lascere' prima morire. E voi, madonna, prego in cortesia che giammai non pensiate tal follia.—

21

E la duchessa si tenne schernita, e disse a lui:—Malvagio traditore, dunque m'avete voi d'amor tradita e fattomi cosí gran disonore? Per certo io vi farò tôrre la vita e farovvi morir con gran dolore! E a destrieri persona mai non monta, se vendetta non fo di cotal onta!—

22

Partissi il cavalier doglioso e gramo, veggendo la duchessa piena d'ira, e quasi di pazzia menava ramo, sí dolorosamente ne sospira; e di partirsi quindi egli era bramo. E la duchessa ta' parole spira che giammai non l'amò per tal follia; uscí di zambra ed andossene via.

23

Come 'l barone uscí dalla duchessa andossene alla Dama del verzúe, in cui avea la sua speranza messa, e raccontògli 'l fatto come fue, e tutto ciò che 'nteso avea da essa, e come pose ogni vergogna giúe, e siccome nolla volle servire, e come disse di farlo morire.

24

Di ciò la donna si facea gran riso, e disse:—La duchessa è forte errata, che pensa nostra fede aver divisa; e voi, messer, se m'avessi ingannata, sí retrovata m'aresti conquisa di mala morte, in terra trangosciata. Ma 'l nostro amor celato ha tanto effetto, che dura e durerà sempre perfetto.—

25

Parlando el cavaliere alla donzella, tornò in quel punto il duca dalla caccia con la sua compagnia chiarita e bella, e smontò dal cavallo con bonaccia. In quello venne la duchessa fella, piangendo fece croce delle braccia; graffiata el volto con molta malizia, gli disse:—Signor mio, fammi giustizia!—

26

Turbossi el duca con maninconia, udendo la duchessa sí parlare, e sí le disse:—Dolce vita mia, perché vi fate sí gran lamentare? Fecevi oltraggio niun uomo che sia? Dimmelo, ché non è di qua dal mare re né baron, che se v'ha fatto oltraggio, ch'io non faccia mia 'l onta e mio 'l dannaggio.

27

Allora la duchessa fraudolente, per dare alla malizia piú colore, trasse el duca da parte della gente, e cominciògli a dir questo tinore: —Messer Guglielmo, falso e sconoscente, mi richiese oggi del villano amore; ond'io ti priego, Maestá gradita, che a tale offesa non campi la vita.

28

Ancor m'ha fatto piú oltraggio assai: contra mia voglia mi volle sforzare; egli straciommi e' drappi e' fregi e i vai, e poco mi valea merzé chiamare: ond'io per questo non sarò giammai allegra, sed io nol veggio squartare, farne far quattro parti a' palafreni dall'inforcatura insino alle reni.—

29

Ma 'l duca savio chiaramente vede, come si vede chiaro el bianco e 'l nero, che la duchessa mente, e non le crede e ben conosce che non dice il vero; ma pur le disse:—Donna, in buona fede a voi prometto, come sire intero, che d'esta offesa fia alta vendetta; ma non v'incresca s'io non la fo in fretta.—

30

La duchessa rispuose con superbia, e disse:—Fate ciò che vi diletta; l'offesa è mia, e pure a voi si serba di chi m'oltraggia di farne vendetta. Lo 'ndugiar sí mi induce pena acerba; ma giurovi alla croce benedetta di giammai non parlarvi di buon cuore, se primamente el traditor non muore.—

31

Partissi el duca da quel parlamento, secondo che raccontan le leggende, col cor gravato con tanto tormento, che 'n veritá di Dio molto l'offende; e nella mente e nel proponimento el credere e 'l discredere contende, cioè che la duchessa gli mentisse o che messer Guglielmo lo tradisse.

32

Tórcessi el duca con sí caldo sangue, per ira avea rosso la faccia e gli occhi. Per temenza la sua famiglia langue. e que' che non languivano eran sciocchi; e di lui non sarebbe uscito sangue chi l'avessi tagliato tutto a rocchi; e sospirava come ferito orso dello dubievol caso ch'era occorso.

33

Allora disse el duca a un car sergente: —Va' per messer Guglielmo e di' ch'io il voglio.— E, come e' giunse a lui immantanente, disse:—Messer, di voi forte mi doglio;— e sí gli raccontò el convenente della duchessa e ancora el cordoglio, e siccome l'avea d'amor richiesta, e la persona oltregiata e molesta.

34

Messer Guglielmo disse al duca:—Sire, vostra duchessa parla gran follia, ched io mi lasceria prima morire ch'io vi facessi tanta villania; e non v'è cavalier con tanto ardire, che volessi dir mai che cosí sia, ch'io nol facci in sul campo mentitore e discredente come traditore.

35

E, quando non bastasse questa scusa, io vi farò chiaramente vedere che in altra donna el mio amore usa, gradita, nobile e di gran potere, che solo sua bellezza guarda e musa. L'anima mia e 'l corpo ha 'n suo potere quell'alta donna della mia persona, e è figlia di regina di corona.—

36

El duca disse allora:—E io vi comando, messer Guglielmo, che fra questo mese, a pena della vita esser in bando, che voi sgombriate tutto el mio paese; ma questo vo' che non s'intenda, quando voi mi facciate sí chiaro e palese di quella in cui avete speme messa, ch'io creda a voi e non alla duchessa.—

37

Partissi el duca allor di quel consiglio, ed era alquanto men maninconoso. Messer Guglielmo con crucciato ciglio sen gí col cuore afflitto e pensieroso; e nel suo cuor diceva:—-Fresco giglio, dama, lo nostro amor chiuso e nascoso convien ch'al duca tutto si riveli o ch'io dal tuo piacer mi fugga o celi.

38

Di star lontano da te non è aviso né di menar mia vita en tal costume; ché, s'io fussi co' santi in paradiso, al luogo ove di gloria ha largo fiume, non sofferria di star da te diviso. Dama, fontana d'ogni bel costume, or mi conviene, oh doloroso lasso! farti palese o girmene a gran passo.

39

E, s'io piglio el partito di fuggirmi e lasciare el paese en tal maniera, ben dirá el duca:—E' voleva tradirmi— e fare' la duchessa veritiera e l'altre genti, che potranno dirmi sí cogli traditori ch'io sia a schiera; s'io mi diparto e 'l vostro amor no' scopro, come di questo falso mi ricuopro?—

40

E, stando in tal maniera el cavaliere che giá pareva di dolor musorno per questo afflitto e doglioso pensiero, e giá era passato il nono giorno; e subito gli venne un messaggiero che immantinente, sanza ignun soggiorno, che di presente comparissi al duca nella gran sala ove el signor manduca.

41

El cavalier di subito fu mosso, con sei valletti gí su pella scala con un mantel di drappo bruno addosso, e lagrime degli occhi in viso cala, la pelle gli parea cucita addosso; e giunse al duca, ch'era suso in sala. Di questo el duca co' la sua famiglia, vedendolo, ciascun si maraviglia.

42

Ed in segreto dall'altrui presenza cosí gli disse:—Ora ti riconforta ched e' non ti bisogna aver temenza, se ben tu avessi la duchessa morta. Ma dimmi il vero, io ten terrò credenza per quella fede che l'anima porta: qual dama avete, che sí vi talenta, ch'io possa dir che la duchessa menta?—

43

Vedendo il cavalier che a tal partito el duca voleva esser fuor di dubbio, diventò dismagato e sbigottito, e 'l fresco viso suo divenne bubbio e poi si stava qual morto transíto, vòlto in trestizia, come panno in subbio. Quando ebbe e' denti della lingua sciolti: —Sire—disse,—vien' meco, e mostrerolti.—

44

Giá era sera e l'aria fatta bruna, quando si mosse el duca e 'l cavaliero: vero è che lucea el lume della luna. Ed amendue andarono al verzero, ove celato spesso si raguna la bella dama col baron sincero; ma di fuor del giardin rimase el duca dopo un gran cesto d'una marmeruca.

45

Messer Guglielmo entrava nel giardino, e 'ncontra sí gli venne la cagnuola, che si giacea tra' fior del gelsomino. El cavalier la chiamava:—Figliuola!— ella scherzava col cavalier fino, poi cercava el giardin per ogni scuola intorno intorno al verziero prezioso, se niun uomo si trovava nascoso.

46

Quando ebbe cerco ben, la catellina andonne nella zambra delettosa, ove dormía la stella mattutina, ch'era del cavalier desiderosa. Messer Guglielmo a quel punto non fina e misse dentro el duca alla nascosa; poselo dopo un cesto d'un rosaio, dopo la sponda d'un chiaro vivaio.

47

E, poi ch'ebbe la cúcciola sentuta, si fe' la damigella rivestire, e poco stante a lui ne fu venuta, a que' ch'a forza la dovea tradire. Ma non si pensava ella esser traduta da quegli in cui avea messo il suo disire, e non pensando del tradir l'effetto, e prese col suo drudo ogni diletto.

48

Ma il barone, ch'avea la mente trista, al tutto non potía tener celato, e quella, che lucíe piú ch'oro in lista, disse:—Ch'avete, cavalier pregiato? Mi parete turbato nella vista; poss'io far cosa che vi sia a grato? Egli vi mancherebbe oro od argento, od altra cosa aresti in piacimento?—

49

Disse il barone:—Io mi sento una doglia che mi tien conturbato il cuore mio, e sí mi fa tremar come una foglia, quando è percossa dallo vento rio; ond'io vi priego, s'è la vostra voglia, anima mia, che n'andiate con Dio!— E lagrimando allor s'accomiatarono, ma prima cento baci si donarono.

50

Cosí sen va la bella donna tosto, e la cúcciola sua sempre davanti. El duca, ch'era nel rosai' nascosto, tornò al cavalier con be' sembianti, e disse:—Il vostro amore è in dama posto, che io l'ho caro seimila bisanti.— Cosí parlando lo barone e 'l sire, tornò ciascuno in suo zambra a dormire.

51

Or vòlse il duca quella notte istesso colla duchessa, sua donna, dormire. Quand'ella el vidde, ella fuggí da esso, levossi suso e vollesi vestire; giurò di non dormir giammai con esso, e disse a lui:—Perché non fa' morire messer Guglielmo, che m'ha fatto oltraggio ed a voi vòlse far sí gran dannaggio?—

52

Disse 'l duca adirato:—Tu ne menti del cavalier, e sí fai gran peccato, e 'ncontro a lui falsamente argomenti ch'egli ha a tal donna el suo amor donato, ch'è piú bella di te per ognun venti; e io l'ho veduto, egli me l'ha mostrato, e come il modo tiene a gire a quella dama, che luce piú che sole o stella.—

53

Or, quando la duchessa lo duca ode dir che messer Guglielmo ha un'amica, iratamente gli parlò con frode, e disse:—Sir, se Dio vi benedica, chi è la donna che 'l cavalier gode, in cui bellezza non falla una mica?— El duca le rispuose:—Amore bello, certo non tel direi per un castello!—

54

Ma tanto la duchessa lo scongiura, che, innanzi ched e' fusse la mattina, disse el duca per lor mala ventura: —La Donna del verzú, che è mia cugina; e raccontolle el fatto per misura come messaggio era una catellina, e come e' vidde uscirgli del palazzo, e nel giardin tener l'un l'altro in brazzo.

55

A tanto si tacíe questa novella, e la duchessa campò dolorosa. Il giorno avía giá fatta l'aria bella, ch'ella uscí fuor della zambra amorosa vestita d'una porpora novella, ma non mostrava in sembiante dogliosa, e ginne in sala dove avea i baroni e donne e cavalier di piú ragioni.

56

E fece allor la duchessa appellare, giovani e donne e vaghi cavalieri, e disse a loro che volea danzare a guida della Donna del verzieri. Ed ella disse:—Dama d'alto affare, io nol so far, ch'io 'l farei volentieri.— E la duchessa gli rispuose presta: —Vo' sète di maggior fatto maestra.

57

Maggior fatt'è che menare una danza aver sí ben vostra cúcciola avezza, ch'al vostro drudo novelle e certanza porta, quando volete sua bellezza. El duca ne può far testimonianza, che co' suoi occhi el vide per certezza.— Udendo la donzella queste cose, partissi quindi e nulla le rispuose.

58

E ginne nella camera, tremando, siccome quella che di duol moriva, e di messer Guglielmo lamentando, pregandone la Vergine Maria, siccom'egli l'er'ita abbominando, che lo conduca a far la morte ria. —Come conduce me, che con mia mano morrò, come Bellicies per Tristano!—

59

Nella man destra ignuda avea la spada e la cúcciola nel sinistro braccio dicendo:—Traditor, poi che t'aggrada che io m'uccida, ecco ch'io men spaccio.— Poi dice:—Catellina mia leggiadra, oggi sarò in inferno, be' lo saccio, e tu sia di mia morte testimoni dinanzi al duca ed agli altri baroni.—

60

El pome della spada appoggiò al muro e per me' il cuore s'acconciò la punta dicendo:—Omè lassa! Com'è duro el partito dove io oggi sono giunta! Per te, Guglielmo, traditore scuro, con Dido di Cartagine congiunta oggi sarò in inferno, con dolore!— Poggiò la spada e misela nel cuore.

61

Ed una nana, ch'udí il gran lamento dentro alla zambra e 'l piatoso languire, volentieri sarebbe entrata drento, ma per temenza non ardiva gire. Udí el mortal sospiro col lamento ch'ella gittò, quando venne al finire. Corse lá drento e trovolla transíta, onde stridendo si tolse la vita.

62

Corse messer Guglielmo e molta gente al pianto della nana dolorosa, e vidde morta in terra la innocente, pallida e fredda di morte angosciosa; onde trasse la spada inmantinente del tristo petto, tutta sanguinosa, e disse:—Spada, anzi che sia forbita, a me, lasso! a me torrai la vita!—

63

E col viso in sul suo facea gran pianto dicendo:—Traditor mi ti confesso, e chiamo al mondo testimoni intanto ch'io con teco morrò per tale eccesso, e chi è in questa zambra da ogni canto vedrá la morte mia simil dapresso.— E misesi la spada con quel sangue per mezzo el cuore, onde di morte langue.

64

Quivi chi v'era grande strida mise, vedendo morti damendue costoro, salvo che la duchessa, che sen rise. El duca sí mugghiava com'un toro, e raccontava sí come s'uccise Piramo e Tisbe alla fonte del moro; e dicen tutti:—Per simile crimine ne morí giá pur Francesca da Rimine.—

65

E, stando el duca in dolore e in tempesta, e nella pena ch'io ho di sopra detta, prese la dolorosa spada presta e ferí la duchessa maledetta e dallo 'mbusto gli tagliò la testa, per far dei corpi nobile vendetta, che s'eran morti per la sua malizia; ben fece il duca diritta giustizia.

66

Ma, quando el duca die' quella ferita alla duchessa, che di gioi' gallava, ell'era giá della camera uscita con altre donne, ed in sala danzava. Cosí danzando, le tolse la vita purgando el vizio in che ella fallava; e partille la testa dallo 'mbusto el magnanimo duca, dritto e giusto.

67

Morta quella duchessa fraudolente, soppellir fece e' corpi a grande onore. Dir non si può el lamento, che la gente faceva tutta, e il gravoso dolore. E poi il duca non dimorò niente, per voler ramendare el suo errore: chiamò un suo nipote over cugino, e dettegli il ducato a suo domino.

68

Fatto che l'ebbe sir del suo paese e da sua gente avuto il sacramento, cavalier tolse, tesoro ed arnese, e cavalcò senza dimoramento inver' di Rodi, a stare alle difese de' saracini, ed ivi con tormento finí la vita sua con gran travaglia, restando sempre in zuffa ed in battaglia.

69

Signori, avete udito il gran dannaggio, ch'avvenne a' due amanti per malizia della duchessa, ben che 'l duca saggio, com'io v'ho detto, ne fe' gran giustizia, onde poi si dispuose a far passaggio sopra de' saracin, per gran niquizia; lá ne morí poi in servizio di Dio. Al vostro onor compiuto è 'l cantar mio!

VI

GIBELLO

CANTARE PRIMO

1

O gloriosa Vergine pulcella, umile e santa, pura e salva nave, del paradiso relucente stella, gloria de' santi e delle sante chiave, concedi grazia a me e a mia favella che co' memoria ti possa dire:— Ave Maria, gratia piena, Deminus teco, — e del tuo frutto non mi metti nego.

2

Dirò un cantare antico con 'legrezza dello re Tarsiano di Bravisse, com'alle donne facea gran gravezza, e guerra a torto mantenea con esse, e non voleva, in nessuna grandezza, veruna due figliuoli partorisse. Quale gli partoría fa giudicare e per sentenza ad ardere menare.

3

E nel suo tempo giustiziar ne fece e disformare al fuoco, sanza conto; egli apponea lor ch'era meretrice qual duo figliuo' partoriva in un corpo, secondo che la storia parla e dice. E la reina in su quel punto gionse, che due figli una notte ingeneròe, dall'un de' quali il re sconfitto fòe.

4

Essendo la reina ingravidata, venne lo tempo dello partorire; ella si stava in camera celata, perché due figli le parea sentire, con una balia secreta e giurata, facendosi onorare e ben servire. Con questa balia sola partoríe, ch'altra donna né balia non sentíe.

5

Abbiendo la reina partorito, presi i fantini fûr senza dimoro; da quella balia ciascuno è nudrito ed amantati in un bel drappo ad oro. Perché non fosse dallo re sentito, coll'un la balia si partí da loro, e l'altro lasciò star colla reina, e quel portò a gittar alla marina.

6

Rimase la reina dolorosa con altre donne e balie accompagnata, e questa balia, secreta e nascosa, della cittá usciva sconsolata con quel fantino, ch'è sí bella cosa. Cosí andando, ella si fu inviata e al mare per gittarnelo portollo. Lá trovò mercatanti, e a lor donollo.

7

Tornossi indietro e disse ch'era morto; e la reina se ne fu credente. Gli mercatanti furon tosto a un porto, trovarongli una balia imantenente, facevanlo nudrire e dar conforto, che ciascun lo vedeva allegramente; cavârlo del reame di Bravisse, portârlo alla città di Gienudrisse.

8

Giugnendo a Gienudrisse la cittade la balia col fantino e' mercatanti, le donne e gli signor di gran biltade per vederlo si fûro lor davanti, ch'a' piú parea che l'alta Maestade vi fosse stato a farlo e gli altri santi. Parea che fosse nato in paradiso, tant'era di bellezze nuove affiso.

9

Questa cittade vi si mantenea, cioè Gienudris', per una pulcella, che Argogliosa appellare si facea ed era di nov'anni, molto bella. Vide la gente ch'al fantin traea: dimandò ch'era e seppe la novella. Disse a' suoi bali':—Or mel fate venire che per mio servo il vo' fare a nudrire.—

10

I mercatanti fûr sanza soggiorno davanti alla pulcella col fantino. La pulcelletta collo viso adorno, veggendolo sí bel da piccolino e che la gente andava lor dintorno, ché rassembrava un angelo divino, chiesel a' mercatanti in dono caro, ed e' con allegrezza gliel donâro.

11

Molte balie fûr tolte a governarlo, che inamorata ciascuna parea, e di quel drappo ad oro dismantarlo, e la pulcella sí lo riponea, come persona ch'è di gran legnaggio. Gibel la dama nome gli ponea, tosto lo fece crescere e allevare con piú maestri a legger e a studiare.

12

Egli era veramente tanto destro, il gaio giovinetto, ad ogni cosa, che da ciascuno era tenuto maestro, e la sua fama cresce valorosa. Ed alle cose era maniero e presto vie me' che gli altri; e quella gentil cosa della pulcella n'avea tal piacere, ch'altro disio non ha che lui vedere.

13

Crescendo il giovinetto valoroso, alla schermaglia comincia ad usare, della qual vene tanto copioso, che a quel paese non trovava pare. Di costumi e di danze piú gioioso, piú che null'altro me' le sapea fare, di salti e di lanciare e di destrezza, e in belle cacce tuttora s'avvezza.

14

Usava molto Gibel il giostrare e di ciò ne prendea molto diletto, ancor cosí faceva il bigordare l'ardito, franco, gaio giovinetto. Fa a molti cavalier selle votare, che della piazza lor facea far letto. Cosí si mise un dí ad una giostra (per quel che 'l libro qui chiaro mi mostra),

15

ov'era molta gente di valore, conti, baroni e molti cavalieri. Ciascun procaccia di avere l'onore, e similmente fanno gli scudieri: quivi si mostra chi ha valenza o core, vitando forte ognuno i buon destrieri; qual va per terra e qual rompe la lancia, chi fier nell'elmo, non fier nella pancia.

16

Gibel giunse alla giostra ardito e franco, colla grossa asta in man, punge 'l destriere, in un scontrossi, che 'l ferí nel fianco per farli a terra votar le groppiere. Ma 'l buon Gibello non parve giá stanco, e fiere lui in tostane maniere: a terra il traboccò isconciamente, e videl ciaschedun ch'era presente.

17

Poi ferí un cavalier, ch'avea giá vinto la maggior parte del torniamento, e del ben far e' non s'era giá infinto, per quel che da ciascun per vero i' sento; diègli nel petto, ebbelo in terra pinto con grande sconcio, di ciò non vi mento. Pur si rizzò quel cavaliere, e disse queste parole pronte, aperte e fisse:

18

—Noi non sappiam di cui se' imparentato —diceva 'l cavalier falso ed astioso:— da' mercatanti qui fosti portato, però non esser contro a noi argoglioso.— Udendolo, Gibel sí fu cambiato, e 'l cor suo allegro divenne pensoso: féssi contar per punto e per ragione come non era della lor nazione.

19

Udendo la novella il donzelletto, dalla giostra si fu tosto partito, alla donzella se n'andò soletto, fulle davanti e dielle un bel saluto, contòlle come stato gli era detto che d'altri parti quivi era venuto co' mercatanti lontani e stranieri, sí come gli avea detto il cavalieri.

20

E la pulzella gran dolore avía, udendo le novelle di Gibello. Il braccio in collo quella gli ponía, piangendo dice:—Giglio mio novello, i' t'aggio amato alla mia signoria. Donde venissi, deh, lascia andar quello! Dolce 'l mio amor, no' languir né aver doglia, sia mio marito ed io sarò tua moglie.—

21

Allor Gibello, lo gentil garzone, disse:—Pulzella, moglie non torrei, se mio legnaggio in prima non soe; amor di donna mai non prenderei. Cercar vo' di mia gesta, s'io potròe.— E dove andasse, domandòne lei; ella gli disse come l'avea tolto e diègli il drappo d'oro, in che fu involto.

22

La pulzelletta, senza dimorare, innanzi che Gibello cavalcasse, chi 'l proverbiò, ella il fece pigliare, e la testa volea gli si tagliasse. Allor Gibello no' la lasciò fare, anzi pregolla che gli perdonasse. Ella gli perdonò, poi ch'a lui piacque; ma a tutta l'altra gente ne dispiacque.

23

Argogliosa pulcella di dolore en el suo cuore era tutta smarrita, e sí dicea:—Lassa! Dolce el mio amore, poi che ti parti, i' non vorre' piú vita. Ad altra donna donera' 'l tuo cuore, poi che da me cosí fai dipartita. Dogliosa a me, ch'io ho fatto nutricarti! Or quando ti vedrò? Perché ti parti?—

24

Disse Gibello:—Pulzella, amor mio, s'io truovo dond'io nacqui e di che gesta, i' giuro ed imprometto all'alto Iddio di tornar, se me n'andasse la testa. Ad altra donna non mi darò io, ch'io son donato alla vostra podèsta.— E la pulcella a Dio lo raccomanda; Gibel del drappo ad oro fece banda.

25

Nel torno avea Gibel di sedici anni, quando si mosse a cercar sua ventura. Entrò 'n cammin con angosciosi affanni, su 'n un destriere armato di misura, e Iddio pregando andava senza inganni che gli desse a trovar di sua natura. Arrivò, come dice il libro el vero, nella Val Bruna del cavalier Nero.

26

Nella Val Bruna Gibel fu arrivato, infino a mezzo giorno e' cavalcava, nel cavalier Nero si fu scontrato, che quello passo tuttavia guardava. Cavalier né baron da nessun lato, per lo fermo, passar non vi lasciava, e' sia chi vuol, vegna donde volesse, che vassallaggio giurar nol facesse.

27

Per forza d'arme acquistati n'avea dugento, che 'n sua corte gli fa stare, senza quegli altri che morti egli avea, qual vassallaggio non volea giurare. Quando Gibello da lunga vedea, fugli davanti e disse:—Non passare: tosto dismonta, se non vuoi la morte, e sta' cogli altri a servir la mia Corte.—

28

Allor Gibello, tutto pien di gioia, arditamente rispuose al barone: —Oggi è quel dí, che convien che tu muoia, over che tu qui sarai mio prigione. Veracemente che troppo m'è a noia star qui ad isforzar contra ragione!— Di mal talento a morte disfidârsi, presor del campo, ed a fedire andârsi.

29

Le lancia i' mano ed in braccia gli scudi vans'a fedir come dragon mortali, misero i ferri ai loro isberghi ignudi amendue gli baroni imperiali. Per gli gran colpi dispietati e crudi, e' destrier ruppon cinghie e pettorali. Ma lo garzon di tal voler l'afferra, che sconciamente l'abbatteva in terra.

30

Allor Gibello disse:—Cavalieri, or per prigion vo' che t'arrenda a me. Giurami fedeltá, e volentieri, come volevi ch'io facessi a te!— E 'l cavalier Nero non fu laniere, colla sua gente suo servo si fe'. E tutti quanti fedeltá giurârli. Egli stette tre dí a signoreggiarli.

31

Passati gli tre giorni, cavalcava. E 'l cavalier Nero, suo servidore, com'era in prima signor, l'ambasciava. Cosí Gibello il lasciò reggitore. Da lui si parte, ed oltre cavalcava e fu arrivato ad un altro signore, che si chiamava lo Vermiglio conte, che guardava una ròcca sotto u' monte.

32

Trecento cavalier di grande ardire ha sotto sé quello conte Vermiglio, tutti aquistati per forza, al ver dire, ciascun possente, gaio come giglio; e mille o piú n'avea fatti morire per forza d'arme, sanza alcun consiglio. La guardia in sul camin tenea per mostra, a chi passava facía chieder giostra.

33

La guardia vide il donzelletto gaio, gridò al conte; ed egli, udendo, armossi e della ròcca uscí su un destrier baio; in sul camin con Gibello scontrossi. Vedendo il conte Gibel tanto gaio, subitamente di lui innamorossi: cortesemente disse che ascendesse e vassallaggio cogli altri facesse.

34

Allor Gibello, pieno di valenza, arditamente al conte rispondía: —Fede non giurerei, se tua potenza imprima non si pruova colla mia. Veramente tu hai vana credenza a domandare ch'io tuo servo stia. Ma per prigion vo' che tu a me t'arrenda. S'altro vuo' dir, la spada mi difenda!—

35

Se prima il conte n'era innamorato, udendol, doppiamente innamoronne e disse:—Giovinetto ingraziato, di tua possanza un colpo aspetteronne, e, s'io da te saraggio iscavallato giurerò fedeltá, teco verronne. Ma, se tu non mi abbatti del cavallo, giurami fé che starai mio vassallo.—

36

Allor Gibello prendeva il partito, siccome lioncel pien d'arditanza, e nel suo core era tutto fiorito: bracciò lo scudo ed impugnò la lanza, e ritorna a fedire il conte, ardito, d'amor pensando alla sua dolce 'manza. Lui e 'l cavallo al campo fe' cadere 'nanzi alla gente, che stava a vedere.

37

Disse Gibel:—Baron, tu se' mio servo, sanza dimoro a me t'arrenderai!— E 'l conte rispondea co' latin verbo: —Or ben se' il fior di quanti mai trovai, e fedeltá volentieri t'osservo. Entra 'n tenuta e per signor sarai.— E tutti quanti l'ubbidiro a fiotta e miserlo in tenuta nella ròcca.

38

Quando e' si fu posato al suo volere, di questa ròcca a partir ch'e' si prese, il conte in signoria fe' rimanere, sí come egli era, quando quivi scese. Cercando di sua gesta a suo podere, funne arrivato in un altro paese, a una cittá d'un duca crudo e strano, il qual è sotto lo re Tarsiano.

39

Serpentina avea nome la cittade, drento Gibello sí vi fu entrato. Le donne e li signori, in veritade, di lui parea ciascuno innamorato. Vedendo il duca ben la sua biltade della duchessa si n'è impaurato; disse:—Egli è bello, e bella è la duchessa. Veramente venuto egli è per essa.—

40

Pensando, il duca no' gli parea giuoco. La notte 'l fe' pigliare in nel suo letto, e nel palagio suo, in uno loco imprigionar lo fe', senza difetto. E la duchessa d'amor prese fuoco, com'ella in prigion vide il donzelletto. E 'l duca, che sua morte avrá da esso, per gelosia lá si recò, da presso.

CANTARE SECONDO

41

Noi lascerem Gibello in Serpentina imprigionato, secondo la storia, e direm della madre sua reina e del re Tarsian, c'ha gran vettoria, ch'ebbor consiglio tale una mattina, dar moglie all'altro figlio con gran gloria. E per consiglio eletta fu in isposa, se 'n piacer gli è, la pulzella Argogliosa.

42

Il re fe' imbasciadori, e cavalcâro; sanza soggiorno a Gienudrisse fûro, la pulzella Argogliosa ivi trovâro, e l'ambasciata contâr di sicuro. Ed Argogliosa col suo viso chiaro, che per Gibello avea lo cor sí duro, non ne volle ascoltar l'ambasciaria, rispuose che marito non volía.

43

Da lei si dipartir gl'imbasciadori ed al re Tarsiano ritornârsi e disson ch'ella aveva gran dolori e non volea quel tempo maritarsi. E 'l re coi suoi baroni, ne' lor cuori, di tal risposta forte infiammârsi; gridâro a boce:—Oste le mandiamo sí che per forza, all'onta sua, l'abbiamo!—

44

Per tutto il suo reame immantanente re Tarsiano grand'oste bandíe; cavalieri e di popolo gran gente collo re Tarsiano al campo uscíe. Di Serpentina il duca, sorridente, andò in quell'oste, ma non piú redíe. Re Tarsiano sue insegne ebbe poste intorno a Gienutrisse co' grand'oste.

45

Il valoroso Gibel, ch'è in prigione, per nulla guisa sí si rallegrava, sentendo che lo re contra a ragione la pulzelletta sua 'manza assediava. La duchessa dicea:—Gentil garzone —davanti alla prigion sí gli parlava,— o donzel, c'hai d'ogni biltá corona, gioi' vo' che prendi della mia persona!—

46

Gibello a sue parole no' attendea, ché nel suo cuore giá era conquiso; e la duchessa parlava e dicea: —Or che ha' tu, angel di paradiso?— Allor Gibello sí le rispondea: —I' sento che la morte sí m'ha priso, perch'io a Gienutrisse andar non posso contro al re Tarsian, che a torto è mosso.—

47

E la duchessa, veggendo Gibello che a Gienutrisse avea voglia d'andare, disse:—Io ti lascerò, giglio novello, se mi prometti di qui ritornare.— Ed egli rispondea, chiarito e bello: —S'i' non son morto, i' giuro di tornare. Se mi lasciate andar, fate merzé, che la pulcella difenda dal re.—

48

E la duchessa pensò nel suo cuore: —Sed io a Gienutrisse andar lo lasso, forse al tornar mi donerá il suo amore, se 'l qual non ho, di questa vita passo. E s'io 'l potessi, 'l fare' imperadore, pur ch'allegrasse un poco il mio cor lasso! Doglioso a me, ch'io arei tutto bene, se mi traesse una volta di pene!—

49

Poi gli diceva:—Amor, po' che tu vuoi a Gienutrisse andar, cheggioti un dono: che 'l duca mio uccidi, se tu puoi, ed ogn'altra fallenza ti perdono.— Ed e' rispuose:—Lui e' baron suoi vorre' uccider, quanti ve ne sono, e quanti ve n'ha ancor d'altri paesi, vorrei che fosser tutti morti e presi.—

50

Allor Gibello di prigion fu tratto, l'arme e 'l destrier avanti sí gli gío; sanza dimoro in fretta s'armò ratto: non prese staffa, ch'a caval salío! Della cittá uscí e con quel patto ver' del conte Vermiglio se ne gío. Tosto 'l fe' adobbar co' sua compagna, e l'altro dí entrò per la campagna.

51

E nella Valle Bruna egli è arrivato, ov'era il cavalier Ner di gran vaglia. E 'l fatto e la maniera gli ha contato com'egli andavan per voler battaglia. I suo' dugento cavalier s'armâro tutti per punto e no' mancò lor maglia. I tre baroni a Gienutrisse gièno con cinquecento cavalier ch'avièno.

52

Fûro arrivati a Gienutrisse presso; d'in su la torre la guardia vede'li. Allor Gibello ne mandò il suo messo come colla sua gente soccorre'li. Le porte aperte gli furono adesso: egli entrò dentro con que' suo fedeli. Tutta la gente mena gioia a scorso, venir veggendo tanto bel soccorso.

53

Tant'allegrezza avea la giovinetta, che uom, che sia, contare nol potrebbe. Con sue compagne fu l'amorosetta; corse a Gibello ed abbracciato l'ebbe. Or si posò la gente, giulivetta, allegra piú che lingua nol direbbe. Gibello fece andar per l'oste il bando, e lo re Tarsian mandò sfidando.

54

Subitamente tutti i buon baroni, conti e marchesi della damigella trovar lor armi e correnti roncioni; ciascun s'armava e poi ne monta in sella. Similemente fanno i compagnoni; e' mercatanti sono a tal novella, per esser fuori alla battaglia, presti, ché del combatter sono arditi e destri.

55

Usciti fuori alla bella campagna, quivi si cominciâro a far le schiere de' buon baron sanza avere magagna. Riguardan selle e ferri al buon destriere, d'aver la zuffa verun se ne lagna. Ciascun vorrebbe pur esser primiere a cominciar lo stormo crudo ed aspro; ciascun di ciò se ne crede esser mastro.

56

Cosí re Tarsian fece guernire ciò che bisogna a tutta la sua gente, armati, presti a battaglia venire. Credendo della guerra piú possente essere degli altri, e per non fuggire, si fu piú innanzi e sí come valente, cominciaron lo stormo sanza fallo. Piacciavi, gente, udir come andò il ballo.

57

Or chi vedesse istormo cominciare, fedir di spade e di spunton tagliente, balestra grosse aprire e diserrare, lanciarsi come fa dragon mordente; ciascun si briga alle spade menare, quivi si vede qual è il piú possente. Qual taglia teste e quale gambe e braccia, ciascun del ben combatter vi si avaccia.

58

Un cavaliere de lo re Tarsiano si fece inanzi co' molto valore; una gross'asta e' si recò per mano, e ferí nello stormo con furore ed abatténe cinque giú nel piano. Allor si cominciò si gran romore, che parea che giú il secolo venisse e che lo 'nferno del tutto s'aprisse.

59

Subitamente uno gli viene manco: un baccellier di quel conte Vermiglio con una lancia grossa, il guerrier franco, scontrò quel cavalier con gran periglio. Tal colpo gli donò nel lato manco, che lo passò per tutto lo 'nteriglio. E morto cade nel crudele stormo, per quel ch'io sento e nel libro m'informo.

60

Ed il figliuol del re con gran barnaggio combatté con Gibel pien d'ardimento dando e togliendo colpi di vantaggio; ciascun mostrava suo gran valimento. Colla sua gente Gibel prode e saggio avea il fratello giá sconfitto e vinto; ma lo re Tarsian lo soccorría, e con due schiere allo stormo fería.

61

Il cavalier Nero di gran valore allo figliuol del re fería per costa, donando colpi di tanto vigore, che nessun può durare alla sua posta; sicché il figliuol del re è perditore, non poté piú durare alla proposta; e 'l buon conte Vermiglio di gran vaglia dall'altra parte die' al re la battaglia.

62

Gibel col popol suo di Gienutrisse viene le schiere tagliando e fedendo, e de' campion del regno di Bramisse, quanti ne scontra, egli ne va uccidendo; il cavalier Nero fería tra esse, cosí gran colpi dando e ricevendo, ov'egli andava, isgomberar facea coi suoi dugento cavalier, ch'avea.

63

Duca di Serpentina si scontròe col buon Gibello, combattendo a schiera, e l'uno e l'altro a fedire s'andòe infra la gente infiammata e fiera, e sí gran colpo Gibel gli donòe, morto l'abbatte sotto sua bandiera. Gli scudi e gli elmi vi facien ta' suoni, parea che fosse balenar e tuoni.

64

La battaglia era sí gravosa e dura, l'aria e la terra n'era intenebrata, ferro non vi valea né armadura contro a Gibel, ch'avea gente pregiata. Chi pruova un colpo suo, per sua sventura, vorre' tornarne a dirne l'ambasciata! Re Tarsian colla sua gente stolta, non potendo durar, misesi in volta.

65

Allor Gibel con suoi baron vedea che contra a lui non era chi durasse. Lo re e 'l figlio del campo si partéa Gibello fe' bandir che non cacciasse l'un contro all'altro, parlava e dicea: —Viltá saria a fedire chi n'andasse.— E fe' sonar le trombe a ringioiarsi e dentro la cittá a ritornarsi.

66

Le donne e li signor della cittade ciascun menava riso, gioia e canto; e la pulzella piena di biltade tant'era allegra, non si pò dir tanto. Allor Gibello, pien di lealtade, s'accommiatò, quando fu stato alquanto. E la pulcella, di lui innamorata, piú che prima rimase sconsolata.

67

Della pulcella egli si dipartía, Gibel da' suo' baron commiato prese, e in Serpentina prigion se reddía. Gli altri, ciascun tornârsi in lor paese. E la duchessa, quando lo vedía, pensossi di venir co' lui alle mani; d'amor cantava e davasi conforto, com'ella seppe che 'l duca era morto.

68

La duchessa d'amor chiede mercede, e sí dicea:—Giovane ingraziato, gentil valletto, gioi' prendi di mene, dammi il tuo amor, no' stare imprigionato. Migliore dama non puo' aver per tene. Sarai signor di tutto il mio ducato!— Ed e', ch'avea dato il suo amore altrui, stava com'ella non dicesse a lui.

69

Questa duchessa ogni dí il predicava che per amor gioia di lei pigliasse; ma lusingare niente le giovava, ché non parea che di lei si curasse. E 'n questo tempo il re Tarsian mandava alla duchessa che alla corte andasse, ch'ogni anno il duca andare vi solea per una festa, che lo re facea.

70

E, quando la duchessa fu richiesta, non avea con cui gire accompagnata; dicea:—Lassa! Come n'andrò io a festa, che la mia gente è tutta isbarrata?— E scapigliossi la sua bionda testa e piange come donna isconsolata. Allor face lamento del marito, che di sei mesi o piú era transíto.

71

Piangendo la duchessa a capo chino, Gibel piacevolmente le parlòe: —Gentil duchessa, rosa di giardino, se v'è in piacere, i' vi acompagneròe. Fate ch'andare possa a mio dimino e ch'io non torni piú vostro prigione— Ed ella si pensò:—S'io il merrò láe forse el re per marito mel daráe.—

72

Ella dicea:—Molto volentieri!— Trassel fuor di prigion sanza tornare, ed e' mandò per gli suoi cavalieri e in Serpentina egli i fe' apresentare. Quivi fûr giunti i nobili guerrieri, sanza dimoro brigan cavalcare, sotto la 'nsegna di Gibel sovrano fûr alla corte dello re Tarsiano.

73

Tutta la gente tra' per maraviglia, quando vidon sí bella baronia; ed, isguardando la gente vermiglia, ch'eran trecento in sua compagnia, e i neri dugento erano in famiglia, piú bella gente non si troveria. Colla duchessa nella cittá entrâro presso alla corte del re Tarsiano.

74

Sotto sua insegna il nobile Gibello per la cittá ognindí cavalcava; chi lo vede', l'assomiglia al fratello e alle fattezze, ch'egli in sé portava. E la reina un di mandò per ello, e dond'egli era sí lo dimandava. Ed e' rispuose e disse la novella ch'e' mercantanti il diêro alla pulzella.

75

E tutto il fatto a punto e' le contòe, di ritrovare sua gesta s'ingegna, e come a Gienitrisse egli arrivòe amantato di quella sua insegna, e come la pulzella lo allevòe, e come ell'era del suo amore degna, e come l'have cresciuto e allevato, come dal cavalier fu proverbiato.

76

La reina, che 'ntende il convenente, disse fra sé:—Questo è de' miei figliuoli.— La balia fe' venire imantanente; disse:—Di' 'l vero, se morir non voli, questi è mio figlio ben certanamente. No' lo uccidesti, come dir mi suoli!— La balia tutto il fatto le contòe, com'ella a' mercantanti lo donòe.

77

E la reina allor s'inginocchiava, piangendo disse:—Dolce figliuol mio!— davanti a lui umilmente parlava, merzé gli chiede per l'amor di Dio, e perché 'l face morir gli contava, dicendo:—Per te arsa or sarò io, ma allegra, figliuol mio, io sí morraggio poiché ricognosciuto hai 'l tuo lignaggio.—

78

Disse Gibello, lo garzo' reale: —Dolce mia madre, non aver paura ch'i'ho con meco gente imperiale, che da tre re vi terrebon sicura. Questa giustizia non è ragionale, e proverollo colla mia armatura. A Genitrisse lo re sconfiggemmo, si che voi ben, madonna, francheremmo.—

79

La novella si spande per la corte come Gibello era figliuol del rene. Tutta la gente se n'allegra forte, e 'l suo fratel gran feste sí ne féne. Lo re condanna la regina a morte, ched ella ne fosse arsa in fuoco e in pene. Armato fu Gibel, quando lo 'ntese, colla sua gente lo palazio prese.

80

E lo fratello ne fe' gran sollazzo, disse:—Io non vo' che la reina s'arda!— Imantanente montò in sul palazzo con quella gente ch'egli ha in sua guarda. E ciascun de' baron, se non fu pazzo, e' giovani ubidir niente tarda; e lo re Tarsian mena gran duolo, ch'a tal bisogno si ritruova solo.

81

Veggendosi cosí 'l re abbandonato da' suoi baroni, gran dolor n'avía. Allor Gibello, savio ed insegnato, co' molta gente al padre se ne gía. Davanti a lui e' si fu inginocchiato, umilemente parlava e dicía: —Padre mio, a ragion or m'intendete come dritta giustizia mi facete.—

82

E 'l padre rispondea con gran dolore: —Di' ciò che vuoi, ched io l'ascolteròe.— Allor Gibello rispuose e parlòne: —A onor di Dio i' si vel conteròe: come non fu 'mpossibile al Signore di fare Adamo, primo uom che formòe, cosí non gli è 'mpossibile di fare duo figliuol' in un'ora in generare.—

83

E 'l padre disse:—Dolce figliuol caro, tu m'hai mostrato il ver sí apertamente, ond'io cognosco e veggio puro e chiaro che uno e duo sono in Dio possente.— E gli baroni Iddio ringraziáro, veggendo il re del vero conoscente. Allora il re Gibel per man pigliòe, allato a sé a sedere l'assettòe.

84

Veggendo il re che non facea giustizia, in tutto fece van quello statuto. Franca fu la reina da malizia, perché Gibello le donava aiuto. Allor Gibello, pieno di letizia, per messo alla pulzella 'l fe' saputo. Come Argogliosa intese la novella, con sue compagne tosto montò in sella.

85

La pulzella Argogliosa ingraziata con cinquanta pulzelle in compagnia, da cento cavalieri accompagnata, sanza dimoro si fu messa in via. Alla corte del re fu dismontata, dov'era Gibel pien di cortesia. Tutta la gente trae per vedella, che 'n fra l'altre lucea com'una stella.

86

Il buon Gibello con allegro cuore isposò la pulzella innanzi al padre. Tutta la gente cantava d'amore, ma sopra tutte era allegra la madre. Le donne e le donzelle di valore gran festa ne facean in veritade; tutta la gente danzava per essa; morta d'amore cade la duchessa.

87

Sí grande è l'allegrezza e 'l giuoco e 'l riso, un anno e piú bastò corte bandita. Il buon Gibel con amoroso viso della pulzella prese gioi' fiorita; chiamato fu signor di tutto, assiso, poi che 'l padre passò di questa vita, e 'l fratel per signor d'altre contrade. E noi si salvi l'alta Maestade.

VII

GISMIRANTE

PRIMO CANTARE

1

I' prego Cristo, Padre onnipotente, che per gli peccator volle morire, che mi conceda grazia nella mente, ch'i' possa chiara mia voluntá dire; e prego voi, signori e buona gente, che con affetto mi dobiate udire. I' vi dirò d'una storia novella, forse che mai noll'udiste sí bella.

2

Ben voglio che saciate, buona gente, ch'un, ch'ebe nome il cavalier Cortese, si dipartí per alcuno accidente dal re Artúe e di tutto il paese, e tanto cavalcò continuamente, che giunse a Roma nel nobil paese, e quie ebe un figliuol, che nutricare lo fece e di vantaggio amaestrare.

3

Quando di quindici anni e' fue in etade, piú ch'altro in trenta era gagliardo e forte. Venendo il padre in grande infermitade, disse:—Figliuolo, i' dubito di morte: però, s'io muoio in questa contrada, none istar quie, e vattene alla corte, e racomándati a messer Tristano, a Lancelotto ed a messer Calliano.—

4

E poco istante che morí, avante al suo figliuol nulla non può piú dire. El damigel, c'ha nome Gismirante, a grande onore il fece sopellire, e po' si dipartí a poco istante: andonne in corte sanza ritenire, e come il padre gli aveva contato, a que' baron si fue raccomandato.

5

E per amor del suo padre ordinâro tanto che stette in corte per donzello; e serviva sí ben, che l'avíe caro il re Artúe sopr'ogni damigello, e tutti i cavalieri inamorâro, tanto egli era apariscente e bello; ed insegnârgli giostrare e schermire, sí che fu sopra ogn'altro pien d'ardire.

6

Cosí sett'anni fece dimoranza e fe' in tal tempo molte cose belle, avendo in quella corte per usanza che non vi si mangiava mai cavelle, né sera né mattina per certanza, se di fuor non venía fresche novelle; avvenne un dí che per cotal cagione non mangiò il re, né niuno suo barone.

7

E, quando fu venuto l'altro giorno, novelle fresche ancora non venía; e Gismirante, il damigello adorno, andonne a re Artúe, e sí dicía: —Fatemi cavalier sanza soggiorno.— E, po' che fatto fue ciò che volía, disse partendo:—Non ci torno mai che caverò la corte di ta' guai.—

8

E cavalcando gia pregando Iddio che gli mandasse ventura alle mani, per la qual cosa che di tanto rio possa cavare i cavalier sovrani. Tutto quel giorno cavalcò con disio, e po' la notte non trovò ch'il sani. Po' la mattina si ebe trovata, come Iddio volle, una saputa fata.

9

La qual lui salutava, e poi gli disse: —Di stran paese qua venuta sono, però ch'io non voleva che perisse cotanta buona gente in abandono: in prima che di lá mi dipartisse, i' procacciai di recarti un bel dono, che, se tu 'l porti in corte al re davanti, mangiar potrai co' cavalieri erranti.

10

Sapi che del reame, dond'i' vegno, è la piú bella pulzella del mondo, figliuola di uno re, che tiene a sdegno ogni prod'uomo, e sie qual vuol giocondo, e non si può veder che per ingegno se none un dí dell'anno sanza pondo, cioè la vilia di Santo Martino. Allor va il bando per questo latino:

11

che a quella vilia, ch'io t'ho manifesta, non si lasci veder persona, quando la figliuola del re ne va alla festa per suo diletto un poco solazzando. Chi sará fuor, gli fie mozza la testa a chi cadesse in cosí fatto bando, sí che in casa per téma ognun si serra, o se ne fuggon di fuor della terra.

12

Per questo San Martino, ch'è ora andato, la vidi, e 'l viso mio non fue veduto. Come il sogliar del Santo ebbe passato, del capo un suo capello fu caduto, ed io il ricolsi, ed hotelo recato: in questo bossoletto l'ho tenuto: pórtal davanti al re dalla mie parte.— Ed ella il ringraziò, e po' si parte.

13

E, cavalcando sanza prender lena, que' che portava novella sí buona si giunse in corte, dove sanza cena andato s'era a letto ogni persona. E, come que' ched allegrezza mena, gridò:—Suso a mangiar, santa corona!— E que', che avean tre giorni digiunato, con allegrezza ognun si fue levato.

14

Po' ch'ebono mangiato in questo tratto, e Gismirante il bossol fe' presente, il re lo prese, ed il capei n'ha tratto per contentarne sé e la suo gente; e Gismirante contò tutto il fatto, come avie detto la fata presente; e, riguardando il capello indovino, ch'era duo braccia e parea d'oro fino,

15

e' si dicieva alla gente l'han vista: —Questa dé' esser sopr'ogn'altra bella: e veramente qual uomo l'acquista, l'amor di cosí fatta damigella deb'avere di pregio al mondo lista, piú che altro cavalier che monti in sella; però che, imaginando suo bellezze, deb'avanzar tutte le gentilezze.—

16

E Gismirante, po' che fue passato alquanti giorni di cota' parole, in grazia al re Artúe chiese comiato, de la qual cosa il re forte si duqle. Infine molti arnesi gli ha donato, quando pur vede che partir si vuole, e po' gli disse:—Or va', e quie ritorna,— ed e' va per veder la dama adorna.

17

Ben otto mesi e piue ha cavalcato, sanza trovar ventura questa volta; ma pure una mattina fue arrivato in una selva ch'era molto folta; cosí guardando vide da l'un lato un drago ed un grifon con forza molta che s'azzufâro; ed e' si fé' campione, e liberollo, e uccise il dragone.

17

Po' cavalcava il damigel selvaggio, fuglisi innanzi un'aguiglia parata, incominciògli a fare grande oltraggio, però che fortemente era affamata. El damigel, come discreto e saggio, di groppa al suo cavallo ebbe levata un gran pezzo di carne, e si gliel diede. Ella si parte, e mai nolla rivede.

18

Po', cavalcando il damigel pregiato per quella selva dove dovea andare, trovò uno isparvier, ch'era allacciato ad una siepe, e non potie volare. Ed e', come gentile, fu smontato, e sviluppollo, e po' il lasciò andare. E l'aguiglia, e 'l grifone, e lo sparviere eran per arte posti in tal maniere.

20

Nel capo della strada per uscire fuor della selva, dove cavalcava, ed eccoti una fata a lui venire, e domandollo quel perch'egli andava. Egli le disse:—Dama, a non fallire i' vo' colá dove l'amor mi grava.— E raccontolle dal piede alla cima ciò ch'avíe detto la fata di prima.

21

Ed ella disse:—Quel per che tu vai ti fia molto impossibile acquistare, ma, se mi crederai, tu non andrai, ed istara'ti meco a sollazzare: i' ti prometto, se tue non vi vai, ch'i ti farò contento sanza pare.— Ed e' rispuose:—E' convien pur ch'i' veggia quella che fa murir chi la vagheggia.

22

Ma s'io nolla acquisto al mio volere, i' non ti lascerò per alta dama, e priegoti che col tuo gran sapere consigliami di quel che 'l mio cor brama.— Ed ella gli donò un gran destriere, dicendo:—Questo è di sí fatta fama, porteratti in tre giorni sanza inganni lá dove il tuo non andrebbe in dieci anni.

23

I' vo' che mi prometti di tornare, e le parole tue sien piú che carte.— Subito le rispose d'osservare i suo' comandamenti, e po' si parte: e tanto forte prese a cavalcare con quel caval ch'era fatto per arte, che in capo di tre giorni fue arrivato alla cittá del viso angelicato.

24

E tanto ad uno albergo prese stare, ch'alquanti giorni a San Martin fu presso; e, come i cittadin vide armeggiare, montò a cavallo, e fue con loro adesso, e tutta gente fa maravigliare, sí ben port'asta e tanto rompe ispesso. La damigella da' baron procura, ma veder lei non puote criatura.

25

Quando il dí della vilia fue venuto, e lo re fe' da sua parte bandire che qual dalla donzella fie veduto subitamente lo farà morire, e chi si stia in casa come muto, e chi di fuori si deba fugire. L'albergatore all'albergo n'andoe, e Gismirante con lui si posoe.

26

E, come damigello ardito e saggio, quando per la cittá non è cristiano, subitamente armato di vantaggio, uscí di casa con la spada in mano. Signor, pensate nel vostro coraggio che si dicea del cavalier sovrano, cosí armato in sul destrier corrente! E' nella chiesa entrò subitamente.

27

E, non trovando criatura in Santo, di testa s'ebe tratta la barbuta, perché di quella cui amava tanto la faccia sua potesse aver veduta, ed e' poi si nascose da l'un canto dietro a l'altare, e punto non si muta, dicendo:—Di mie morte fie memoria, o io acquisterò quie gran vittoria!—

28

Or eccoti venir quella donzella in compagnia ad un leone e un drago, ed adorando al crocifisso; ed ella vide colui ch'era cotanto vago, il qual parlò con ardita favella, che di suo morte non curava un dado. —Dama, merzé, bench'io serva la Morte, che per vederti vengo infin da corte!—

29

Ed ella, riguardando Gismirante, ch'era sí bel che contar nol potrei, e imaginando poi in sé davante le cose ch'egli avíe fatte per lei, ridendo disse:—I' ti vo' per amante, ma fuor di questa terra uscir vorrei: però, se mi vorrai al tuo dimíno, verrai per me istanotte a matutino.—

30

Quand'ella gli ebe ben tutto insegnato ciò ch'egli avesse a far nel suo venire, la donna del baron prese comiato dicendo:—Addio, addio!—nel suo partire. Quando fue tempo, il cavalier pregiato all'albergo tornò sanza fallire. L'albergator domandò onde venía. —Taci—diss'egli, e non gli rispondía.

31

Po' cavalcò a piè d'una finestra, ch'ella avíe detto che dovesse andare, e la donzella, sí come maestra, tutte le guardie fe' adormentare. Com'ella il vide, disse ardita e presta: —O cavalier, come voglián portare certe mie gioie?—Ed e' parlò giocondo: —Vienne pur tu, ch'i' non curo altro al mondo.—

32

Ed ella gli gittò di molte cose di gran valuta, e di piccol vilume, come fûr gemme e pietre preziose, che le teneva per cotal costume; ed una verga sotto si ripuose che faceva seccare ogni gran fiume: toccato da l'un lato, il fa seccare; po', ritoccando, lo fa ritornare.

33

E po' s'armava a guisa d'un scudiere, e per le scale iscende nella stalla, e si montava sopra un buon destriere sí di legier, che pare una farfalla, e giunse fuor dov'era il cavaliere. Veggendola, egli d'allegrezza galla; pugnendo degli isproni il destrier forte, giunsono ad una delle mastre porte.

34

Quando le guardie si fûr risentite, cominciaro a gridar con gran romore: —Che gente siete voi, ch'atorno gite la notte, prima che venga l'albore?— Rispose il cavalier:—Se non ci aprite, per Dio superno, fia il vostro pigiore: novelle noi abiam che i saracini hanno istanotte passato i confini.

35

—Veracemente che per questa istrada— disser le guardie—vo' non passerete.— Mise mano Gismirante alla spada, dicendo:—O vo' ci aprite, o vo' morrete!— Disson le guardie:—Messer, ciò che v'agrada fornito sia, s'un poco attenderete.— Trovâr le chiavi, e apersono la porta, ed oltre passâr via sanz'altra iscorta.

36

E 'nanzi giorno piú che dieci miglia fu dilungato la dama e 'l donzello; e, quando il re non ritrovò la figlia, fece suonar la campana a martello, e fece armar tutta la suo' famiglia, e molta gente sotto il suo penello: sí che con piú di mille cavalieri gli seguitò, spronando i buon destrieri.

37

E cavalcando sanza prender soste, di lungi ben tre miglia ebon veduti duo cavalier che salieno le coste, benché da lor non furon conosciuti, e lo re sopra ciò fecie proposte, sien seguitati quegli a spron battuti. Allor la giente sua non aspettava l'un altro, e forte ciascun cavalcava.

38

E volgendosi indietro la piacente, vide e conobbe que' che gli seguiéno, e disse a Gismirante:—Omè dolente, se siáno giunti quie, come fareno? Ma qua nel piano ha un'acqua corente, con questa bacchetta la paserano: se giugneranno, non potran passare: per altro modo non possián scampare.—

39

E, quando furo a quel fiume ch'io dico, toccò colla bacchetta, e disse:—Passa.— Quand'ella fue passato, al modo antico fece alzar l'acqua, dov'era piú bassa. Ella, piangendo, si diceva:—Amico, non gli aspettar, ché son troppo gran massa.— Ed e' rispose:—Amor, non te ne caglia, ché io non lascerò questa battaglia.—

40

E la donzella istava inginocchiata, pregava quel baron, forte piangendo; e que' percosse alla prima brigata, ch'eran dinanzi, che venian correndo, e, col destrier che gli donò la fata, quanti ne giugne tutti va abattendo, ond'e' in volta si gli mise tutti e dopo questi vennon di piú dotti.

41

E Gismirante, vedendo lor mossa, arditamente tra lor si mettea, e'l suo cavallo era di sí gran possa, che pur col petto tutti gli abattea; po' giunse il re colla sua gente grossa, e Gismirante, isgridandol, dicea: —Renditi per pregione, o cavaliere!— ed e' rispuose:—E' ti falla il pensiere.—

42

E 'nverso il re col buon destrier si serra, diègli un colpo, che cade istordito: e la sua gente, vedendolo in terra, misonsi in fuga per miglior partito. El franco cavalier, vinto la guerra, e' disse al re, po' che fu risentito: —Per me convien che sia la tua finita.— Ed e' rispuose:—La morte m'è vita.—

43

E Gismirante disse:—Per amore della tua figlia, i' ti vo' perdonare, e per suo amor i' ti farò onore; in corte del re Artúe la vo' menare.— Cosí rimase il re con gran dolore. E quel baron, volendo ritornare a quella giovinetta che l'aspetta, il fiume fe' seccar colla bacchetta.

44

E questo fiume non aveva ponte: oltre passò sanza niuno difetto, andando per un piano a piè d'un monte allegramente, fuor d'ogni sospetto. Cosí andando, videro una fonte, e dismontâro per pigliar diletto; ed e', perch'era istanco, a lei appoggiossi, col capo in grembo a lei adormentossi.

45

E, mentre che dormiva, un uom selvaggio, vedendol sí ansar, per ch'era lasso, la dama ne portò dal bel visaggio, e sotto il capo gli ebe messo un sasso. Nel secondo cantar vi conteraggio come si trovò solo in su quel passo, e po' come per forza e per amore racquistò la donzella, al vostro onore.

SECONDO CANTARE

1

Divina Maestá, superna Altezza, da cui le grazie vengon tutte quante, prestami grazia con tanta fortezza, ch'i' possa seguitar di Gismirante e della dama adorna di bellezza, che gli fue tolta per dormire avante da l'uom selvagio, che la porta via, com'io vi dissi nel cantar di pria.

2

Vo' sapete, signori e buona gente, che molte cose si facien per arte, ed io v'intendo nel cantar presente di raccontare quie alcuna parte, che per darvi diletto chiaramente di novitá, cercando vo le carte, e quel, che piace a me, vi manifesto; e torno a Gismirante, che s'è desto.

3

E, non trovandosi al capo colei per cui e' s'era afaticato molto, con gran sospiri piange e dice omei, dandosi spesso delle man nel volto; e dicea:—Iddio, ben saper vorrei, almen saper chi tanto ben m'ha tolto.— Afogato si saria veramente se non che la fata gli tornò a mente.

4

E, cavalcando verso quella fata, dove promesso avie di ritornare; ed e' trovò un'acqua ismisurata, che niuno uomo nolla può passare; ed e', come persona disperata, si voleva in quel fiume afogare. Ed eccoti venuto a lui il grifone, ch'egli avie liberato dal dragone.

5

E come que' che per arte parlava, diceva:—Cavalier, montami adosso;— ed egli, udendo ched e' favellava, meravigliossi, e tutto fu riscosso; per disperato adosso gli montava, pensando ch'egli il gittasse nel fosso; e 'l grifone il passò dall'altro lato, e puosel giú, e fussi dilungato.

6

Ed egli andò tanto cosí a piede, ch'a quella fata fu giunto presente; e quella fata volentier lo vede; po' lo domanda di quel convenente; ed e' rispuose:—Dama, in buona fede, che fo di ciò ch'io acquistai presente?— Ed ella, che sapea, disse:—Tu l'hai perduta sí che mai non la riavrai.

7

Ma, stu vuoi istar meco, amico mio, piú ch'altro al mondo ti farò contento.— Ed e' le disse:—Per l'amor di Dio, a racquistar la donna i' ho lo 'ntelletto.— Ella, vedendo il suo fermo disio, puose da lato ogni suo intendimento, e disse:—Sapi ch'ell'è in cotal parte con un selvagio, ch'è fatto per arte,

8

e'n un castello di metal dimora, ch'è sanza porta, entrata molto ha presta, con quarantatré dame, che di fuora ha conquistate per arte si destra; or te ne andrai in su la cotal ora, e' sará fuori, ed ella alla finestra, e di' che facci tanto per ingegni che l'uom selvagio dov'ha 'l cor le 'nsegni.—

9

E Gismirante con un buon cavallo entrò in cammino, e prese a cavalcare, tanto che giunse al castel del metallo. E l'uom selvagio er'ito a procacciare. A poco istante vide sanza fallo la damigella alla finestra istare, la qual parlava con parole iscorte: —Fúggiti tosto, se non vuo' la morte.—

10

E Gismirante con molto valore, come insegnato gli aveva la fata: —Fa' che tue sapi dove tiene il cuore questo malvagio, che mi t'ha furata.— Ed ella gli rispuose:—Tanto amore mi mostra piú ch'a l'altre ogni fiata, saperò bene il vero manifesto.— Ed imboscato esso si fue presto.

11

Tornando l'uom selvagio, e la donzella gli cominciò a mostrar grand'allegrezza, ed e', che la vedea cotanto bella, si dilettava della suo bellezza. E, cosí istando insieme in braccio d'ella, disse:—Amor mio, venuto m'è vaghezza di saper dove il tuo cuore si posa, per adorarlo sopr'ogn'altra cosa.—

12

Rispuose l'uom selvagio:—I' t'amo tanto, e lo mio amore a te ho dato intero, al tuo piacer son dato tutto quanto; e del mio cuor ti conterò lo vero.— Sí come un uom che di malizia ha vanto, le fe' vedere il bianco per lo nero, dicendo, e mostrando una colonna: —Qui dentro è il cuor di chi t'ha fatto donna.—

13

E la donzella savia ed insegnata alla risposta sua niente crede; ma tutta notte istette inginocchiata, mostrando d'adorarlo in buona fede, e l'uom selvagio ridendo la guata, e che l'adori veramente crede. Ma, quando assai durato ebe, dicía: —Deh! tue adori invano, anima mia.—

14

Ma, poi ch'io vegio il tuo animo puro, dov'e' il mio cuor saprai a questo tratto: —Sapi ch'egli è in luogo sí sicuro, ch'offender non si può in niuno atto, che 'l guarda un animale fiero e duro, per arte e per incantamenti è fatto, e quel si chiama il porco troncascino, ch'a Roma signoreggia ogni camino.

15

E, benché morto fusse l'animale, chi l'uccidesse arebbe fatto invano, perch'una lepre sopranaturale gli uscirebbe di corpo a mano a mano; e, benché morta fusse, ancor non vale, ch'un paserotto ha 'n corpo vivo e sano. il qual tiene il mio cuore alla sicura: or vedi ben s'i' debo aver paura.—

16

E, cosí ragionando, apparve il giorno, e l'uom selvaggio uscí fuori a cacciare, e Gismirante al castel fe' ritorno, in su quell'ora ch'egli il vide andare. La damigella col bel viso adorno dalla finestra li prese a parlare: —I' ho saputo ciò che vuo' sapere, ma tutto il mondo nol potrebbe avere.—

17

Ed ebegli contato a motto a motto de l'uom selvaggio come detto avea, e poi gli disse:—Pártiti di botto, e non ti dar di me malinconia.— E Gismirante face gran corrotto, non sapiendo pigliare alcuna via, sí ch'ella tornò dentro isconsolata e Gismirante ne tornò alla fata.

18

E disse, sí com'egli avíe sentito, del porco troncascin, dalla donzella. Disse la fata, quando l'ebe udito: —Non ragionar mai piú di tal novella, ché non potre' con lui, tant'è ardito, se' milia cavalieri armati in sella, che de' roman gran tempo s'è pasciuto, perché a forza gli dánno tal trebuto.—

19

Ed egli, udendo quel ch'ella dicea, piú volte sospirando disse:—Omei!— ma pel gran ben ch'a la donna volea, disse:—Io intendo di morir per lei.— E con sospiri molti le dicea: —Sievi raccomandato i fatti miei, perch'io credo ben provar co' l'armi: s'e' mi bisogna, piaciavi d'atarmi.—

20

Quella, vedendo suo perfetto amare, gli disse allora:—Va' sicuramente.— Ed e' si mosse sanza dimorare, sí come pellegrin subitamente, e tanto forte prese a caminare, che giunse a Roma il cavalier possente, e giunse in corte dello imperadore, per le iscale va verso il senatore.

21

Trovò a mezza iscala un cavaliere, e 'n carità, per Dio, gli fe' domando; ed e'gli disse:—Sozzo poltroniere! come va' tu in tal modo gaglioffando? Ma vuo' tu meco istar per iscudiere?— Ed e' gli disse:—Sie al tuo comando. Ed e' gli disse:—I' ti farò insegnare a servire innanzi e a cavalcare.—

22

E Gismirante disse:—In veritade, ch'i' so ben cavalcare e ben servire.— Ed e', vedendo ch'egli avie bontade, fégli trar la schiavina e fél vestire. Ed e' pareva pien di nobiltade e appariscente sopr'ogn'altro sire; e, po' che in ben far fu conosciuto, piú ch'altro in corte era caro tenuto.

23

E cosí istette dimorando alquanto. Un giorno ch'e' si stava per la corte, ed e' sentí levare uno gran pianto; onde dimanda di sí fatte sorte. Ed un gli disse:—Egli si piagne tanto, perché lo 'mperador manda alla morte al porco troncascino un suo figliuolo, di che tutta la corte n'ha gran duolo.—

24

Parlava Gismirante immantanente a quel barone, sí parlava iscorto: —Or ben vi dico che la piú vil gente che sia nel mondo hano averlo morto.— Disse il baron:—Tu erri fortemente, e dico io che tu ragioni il torto, ch'egli è per arte fatto in tal maniera, che come il diavol percuote la sera.—

25

Rispuose Gismirante:—S'i' avessi buon'arme e buon cavallo in mie podésta, vômi obrigare, s'io no l'ucidessi sanz'altro aiuto, di perder la testa.— Mostra che quel baron sí lo intendessi; andò all'imperadore, e non fe' resta, e disse come si era vantato. Lo 'mperadore ebe per lui mandato,

26

e sí gli disse:—Vedi che m'è detto che tue ti vanti della cotal cosa, se 'l vanto tuo vuo' mettere in effetto, i' ti darò mie figlia per isposa.— Allor rispuose il nobil giovinetto: —I' non vogli'altro ch'arme poderosa.— Disse lo 'mperador:—Arme e destriere ara' miglior che avesse cavaliere.—

27

E fe' venir quant'arme in corte avea, dicendo:—Prendi la qual piú ti piace;— ed e', provando, tutte le rompea dicendo:—I' vogli'arme piú verace.— Lo 'mperador vede quel che facea: disse:—In costui ha forza molto aldace.— E fe' venire un'arma molto antica, che quattro la portavan con fatica.

28

E Gismirante, dell'arme contento, disse:—Dov'è il caval ch'io debo avere?— In suo presenza venner piú di cento; ei li provava col suo gran potere, che montandovi su con valimento, pur colle cosce gli facie cadere; e disse:—Imperador, fate che venga, se ci ha miglior caval che mi sostenga.—

29

Disse lo 'mperadore:—I' n'ho ben uno, che mangia per condotto e sta in catene, che sopra gli altri è forte e di pel bruno. Fusse chi lo sellasse, arestil bene; ma ne la istalla none andrebbe niuno, perché gli ucide ch'inanzi gli viene.— E Gismirante vi si fe' menare, e giunse a lui, e cominciò a gridare.

30

Il cavallo diede una tale iscossa, perché non era usato a quelle istrida, che tutta ruppe la catena grossa; e Gismirante verso lui si fida, e diedegli col pugno tal percossa, che 'nginochione in terra si rannida, e lasciossi imbrigliare e por la sella, e menar fuor com'una pecorella.

31

Quando lo 'mperador l'ebe veduto in su quel fier cavallo, e tutto armato, disse:—Costui debe esser pro' e saputo, e 'l piú prod'uomo ch'al mondo sie nato.— Mandò per lui e disse:—I' son pentuto: i' non vo' che tue vadi a tal mercato; il mio figliuol vo' mandare a morire, anzi che perder te, c'ha' tanto ardire.—

32

E Gismirante gli disse:—Messere, questa battaglia non si può stornare.— Ed e', vedendo pure il suo volere, subito fe' tutta suo gente armare. Ed e' parlò:—Egli è contra 'l volere;— disse:—Signor, per Dio, lasciami fare: ché, se bisogna, fa' che sien con teco, socoreranti; ma non vo' sien meco.—

33

Lo 'mperador col populo romano con Gismirante uscir fuor della terra, e tanto caminâr che, di lontano vidon la fiera che facíe tal guerra, e Gismirante rimase nel piano tutto soletto, se 'l libro non erra, e gli altri tutti andâr su le montagne, e molta gente Gismirante piagne.

34

Mostra che 'l giorno era nivicato il cavallo e 'l baron coperto a bianco, ed il porco a guatare era abagliato, e giace in terra come fusse istanco; e Gismirante, il damigel pregiato, e come cavaliere ardito e franco, accomandossi a Dio, e colla lancia percosse il porco; e ferí 'l nella pancia.

35

E, quando il porco si sentí fedito, ruppe la lancia, e rizossi sú destro: inverso Gismirante ne fu ito, come demonio feroce ed alpestre; e Gismirante col brando forbito si difendea da lui, come maestro, e in sulla schena un tal colpo gli dava colla sua spada, ma nollo accarnava.

36

Onde pensò fargli fare una corsa, per sangue che gli uscía della fedita, dicendo:—In prima che da lui sie morso, il porco, credo, lascerá la vita.— Ma, come un cane ch'assalisce l'orso, correva il porco colla testa ardita; e quella gente, vedendol venire, per téma incominciâr tutti a fuggire.

37

Il porco giunse, e subito gli tolse a pezzi a pezzi tutta l'armadura: levando, quel cavallo i calci porse, tale che cade in su la terra dura. E Gismirante col caval si volse; il porco al petto del caval si tura e quantunque e' ne prese colla branca, menollo a terra della spalla manca.

38

E Gismirante incominciò a chiamare l'aiuto della fata a mano a mano, ed e' sentí una boce gridare: —Saltagli adosso col coltello in mano, conciosiacosaché non può scampare, dágli nel fianco lá dov'è piú sano.— Ed e' si rincorò, e molto isnello gli saltò adosso, e diègli del coltello.

39

E, come piacque alla fata gentile, che gli avíe tolto la forza e la lena, il porco cominciò a diventar vile, perché del sangue avíe vòto la vena, e Gismirante giá non gli era umíle, dandogli per lo fianco e per la schena, tanto che 'l porco cade in terra morto, onde a sparallo fue presto ed accorto.

40

E' non poté isparar sí pianamente, che non uscisse la lepre gioiosa, e none istette di correre niente insin ch'andò nella selva nascosa. Dicea Gismirante:—Omè dolente, or ho io fatto nulla d'ogni cosa! O gentil donna, che mi suo' atare, a questo punto non mi abandonare.—

41

E l'aguiglia ch'egli avíe pasciuta, com'io vi dissi nell'altro cantare, subitamente a lui fu venuta onde la lepre non poté campare; e, come negli artigli l'ha prenduta, a Gismirante l'ebe a presentare. Disse:—Il servigio non si perde mai tu mi pascesti, e or merito n'arai.—

42

Po' si partí, e Gismirante spara la lepre come savio, pro', e dotto, dicendo:—Tu mi gosti tanto cara, ch'i' non vo' che mi sfughi il passerotto, e parte che face la ragion chiara, per la bocca gli uscí l'uccel di botto. —Oimè lasso!—disse Gismirante— che 'l mio sapere non vale un bisante.—

43

La lepre gittò via il cavaliere, vedendo il passerotto volar via, e sí dicea:—Omè no' m'è mestiere pensar di riaverlo in vita mia.— Ed eccoti venir quello sparviere, che quel baron da' pruni isciolto avea, e prese il passerotto vivo e sano, a Gismirante sí lo mise in mano,

44

dicendo:—Cavalier, ben t'ho renduto buon guidardon di quel che mi facesti, quando tra' prun mi trovasti caduto, che come gentiluom tu mi sciogliesti: però il servigio e' non è perduto, che a me, cavalier, far mi volesti; e magiormente sarai meritato da piú possenti;—e fussi dileguato.

45

E Gismirante, i piè legato e l'ale al passerotto, e' miseselo allato, e tornò al suo caval, bench'avie male, e destramente su vi fu montato: e lo signor di Roma imperiale colla suo gente a Roma è ritornato, e 'l porco troncascin lasciò isparato, onde il barone a Roma fu tornato.

46

Lo imperadore e la suo gente, quando sentiron la cittá lor liberata, e po' tornando que' ch'avíe col brando la libertá di Roma racquistata, incontro gli si fêr tutti armeggiando, facendo festa della suo tornata, e racettârlo co' magiore onore, che si facesse mai a niun signore.

47

E Gismirante avía tanta allegrezza, perch'egli avea quel ch'er'ito caendo, e solo di partirsi avíe vaghezza, onde allo imperador parlò, dicendo: —Santa corona, non vi sia gravezza che al presente di partir m'intendo.— Della qual cosa assai si maraviglia, perché intendeva di dargli la figlia.

48

Ma pur, vedendo la suo volontade, di molte ricche gioie gli fe' dono, dicendo:—Quanti n'ha in queste contrade con esso meco al tuo servigio sono.— E sí gli vuole dar gran quantitade di cavalieri, ma e' chiese perdono, e po' si diparti, che mai non resta, e giunse a quella fata ardita e presta.

49

Come la vide, disse:—Il passerotto i' l'agio vivo, ed hollo quie al lato.— Ella rispuose:—Se' tu istato dotto, e' ti fie pro che l'uomo è infermato: se tu lo avessi morto, baron dotto, non potresti a tuo donna essere andato; perché conviene che alla suo vita del castel mostri l'entrata e l'uscita.

50

Ma, se a colei, cui hai dato il coraggio, potrai parlar da sera o da mattina, dirai che dica ch'un medico saggio gli vuol portar perfetta medicina, e fie nicissitá che l'uom selvaggio gli mostri dell'entrare la dotrina: come se' dentro, istrigni il passerotto, e l'uom selvagio si morrá di botto.—

51

E Gismirante andò né piú né meno, sí come detto gli avea la fata: trovò la donna col viso sereno alla finestra, e fégli l'ambasciata, ed ella andò, e disse tutto a pieno ch'egli l'ensegni l'uscita e l'entrata: —Perch'un medico, ch'è di grande affare. egli vi vuol venire a medicare.—

52

Ed e' le disse:—Dolce amor mio bello,— te' questo anello ch'io porto in dito, che per virtú di questo ricco anello vedrai l'entrata del castel gradito.— La damigella subito prendéllo, gittollo a Gismirante pro' e ardito: e Gismirante l'anello prendea: allor l'entrata del castel vedea.

53

E, come dentro e' fue Gismirante, uccise il passerotto; e quel fellone mise uno strido, e po' morí davante. E quelle dame, ch'egli avie prigione, ch'eran quarantatré, e tutte quante eran di gran legnaggio lor persone, come lo vider, tutte inginocchiâro; Iddio e lui molto ringraziâro.

54

E Gismirante molto bestiame caricò d'oro e di ciò c'ha voluto. Po' fêr partenza, e gir con quelle dame a quella fata che gli ha dato aiuto. Ed ella disse:—Tutte le tuo' brame potuto ha' sodisfar, se t'è piaciuto.— Ed e' si volse a lei:—La veritad'è ciò che dite; ma non per mie bontade,

55

ma per vostra virtú, non colla spada, ho acquistata la persona e l'avere. E pognamo ched io a corte vada, dama, per voi ho ciò ch'i'ho a tenere. Deh! datemi comiato, se v'agrada, conciosiacosach'i'ho gran volere di conducer davanti a re Artúe, questa mie donna con quarantadue.—

56

Ed ella disse:—Po' che in tuo paese vo' ritornare, una cosa t'impongo, che contro a ogni gente sie cortese, e spezialmente a que' c'hanno bisogno. Ch'io sono istato a tutte tuo' difese, benché di dirlo alquanto mi vergogno, per quel che tue facesti a' tre uccelli, conciosiecosaché son mie' fratelli.—

57

Ed e' con allegrezza fe' partita, considerando a cui l'avíe fatto, dicendo:—Mentre ch'io avrò vita, la ragione aterò ad ogni patto. Quando si sente in corte la redita, il re Artúe con tutti i baron ratto incontro gli si fêr piú di se' miglia, facendosi di lui gran maraviglia.

58

Po' che le donne si furon posate alquanti giorni dopo un gran mangiare, e Gismirante l'ebe dimandate s'elle volíeno a casa lor tornare; ed elle che n'avien gran voluntate, dicieno:—Messer sí, in quanto a voi pare.— Ed e' con gente assai in quantitade tutte mandolle nelle lor contrade.

59

E que' signor, di cui le dame sono, sentendo questo fatto com'è suto, tanto contenti e tanto allegri sono, ongnun fan festa, quando l'han saputo, e ciascheduno gli mandò gran dono per merito di quello gran trebuto. Il re Artú, c'ha Gismirante in casa, domandò della dama ch'è rimasa.

60

E Gismirante disse:—Quest'è quella, di cui vidi il capello tanto biondo, signore mio—contando la novella rispuose il cavalier tanto giocondo. Ed e' rispuose:—Mai non montò in sella contento cavaliere in questo mondo, come deb'esser tu di cotal dama.— E la reina e tutte genti chiama.

61

E fecela isposare in suo presenza, e puose lui in ricca e magna altura, facendo festa con magnificenza, come conviene a sí fatta misura. E sí regnaron con benevoglienza, quanto piacque a Dio di somma altura, moglie e marito sanza aver ma' crucci. Al vostro onor questo fe' Antonio Pucci.

VIII

BRUTO DI BRETTAGNA

1

I' priego Cristo padre onnipotente, che per li pecator volé morire, che mi conceda grazia ne la mente ch'i' possa chiara mia volontá dire. E' priego voi, signori e bona gente, che con efetto mi deggiate udire, ch'io vi dirò d'una canzon novella, che forse mai non l'odiste sí bella.

2

Leggendo un giorno del tempo passato un libro che mi par degli altri il fiore, trovai ch'un cavalier inamorato fe' molte belle cose per amore, ond'io, a ciò che sia amaestrato de la prodezza sua ogni amadore, dirò di quel baron senza magagna, che fu chiamato Bruto di Brettagna.

3

Questo barone essendo d'amor preso piú ch'altro mai d'una donna valente, ardeali il core come fuoco acceso, perché celava a lei tal convenente, e, non possendo piú sofrir tal peso, rechiesela d'amor celatamente, dicendo:—I' son per far vostro disio in ogni caso, se voi fate 'l mio.—

4

Ed ella li rispose:—Po' ch'io sento il tuo volere, or vo' che 'l mio tu saccia. Se tu vòi del mio amore esser contento, d'una cosa ch'i' ho voglia mi procaccia.— Disse 'l donzel:—Dite 'l vostro talento, ché 'l non fia cosa, ch'io per voi non faccia, e' sia ad acquistar, quanto vuol, forte, ch'i' no' mi metta per aver la morte.—

5

Disse la donna:—Or vedi, cavaliere, lá dove fa lo re Artú dimoro, ha nella sala un nobile sparviere che sta legato ad una stanga d'oro. Appresso quell'uccel, ch'è sí maniere, due bracchi stan che vaglion un tesoro, la carta de le regole d'amore, dove son scritte 'n dorato colore.

6

E, stu puoi far ch'i'abia quel c'ho detto, pognam che te sia greve ad acquistare, infino ad ora ti giuro e prometto ch'altri che te giammai non voglio amare. Ed el rispose:—Questo m'è diletto. Addio, madonna, ch'i' 'l vo a procacciare!— E tanto cavalcò dopo 'l comiato, che 'n la selva real si fu trovato.

7

E, cavalcando per la selva scura, pervenne a luoghi molt'aspri e crudeli e poi, pensando sopra sua ventura, ed una damigella senza veli l'apparve e disse:—Non aver paura, ch'i'so dove tu vai, benché tu 'l celi; ma tu seristi a troppo gran periglio, se tu da me non avessi consiglio.—

8

Ed egli, udendo ciò, guardava fiso la biondissima e vaga damigella: a li capelli ch'avea dietro al viso portava d'òr legata una cordella, dicendo:—Dama, angel di paradiso, che luci piú che la Diana stella, deh, dimmi perch'io vo, se tu lo sai, e poi ti crederò ciò che dirai!—

9

Ed ella, rispondendo al suo dimando, a motto a motto tutto gli contòne com'e perché n'andava, e come e quando e' s'era mosso per cotal cagione. E Bruto disse:—I' mi ti raccomando che m'aiuti fornire mia 'ntenzione. Oh, dimmi il modo che ti par ch'io pigli, ch'io no' mi partirò di tuo' consigli!—

10

Ed ella disse:—Ben t'aterò alquanto, se per mio senno portar ti vorrai. Sappi che quel che tu brami cotanto in nulla guisa acquistar non potrai, se primamente tu non ti dá' vanto d'avere amor di bella donna, s'hai, piú ch'alcun altro cavalier che truovi, e per battaglia poi convien che 'l pruovi.

11

Ma nel palazzo non potra' entrare, se 'l guanto de l'uccel non hai primieri, e tu quel guanto non potra' 'cquistare, se non combatti con duo cavalieri, i quali son posti 'l guanto guardare, e son gioganti molti arditi e fieri Se tu gli vinci, non toccar da loro, ma spicca tu da la colonna d'oro.—

12

E Bruto disse:—Dama, i' non potrei donna nomar di tanta appariscenza. Se non ti fosse grave, ben vorrei che tu di te mi dessi la licenza.— Ed ella disse:—Fa' ciò che tu déi, ch'i' son contenta per tal convenenza.— E con fermezza d'amore il baciòe, e un destriero fornito gli donòe.

13

E disse:—E' ti convien sanza pavento cavalcare e combatter con ardire; tu ha' caval che corre come vento e meneratti dove tu vogl're.— Ed e' vi montò su con ardimento, e ringraziolla molto in suo partire, e tanto degli sproni el destrier punse, ch'a la riva d'un gran fiume giunse.

14

E, non possendo quel fiume passare perch'era cupo e d'ogni lato monte, lungo la riva prese a cavalcare, tanto che d'oro ebbe trovato un ponte, ch'era sí basso, che per l'ondeggiare l'acqua sopr'esso ispesso facía fonte. Dal primo capo un cavalier avea, armato e fier quantunque si potea.

15

E Bruto, poscia che l'ebbe veduto, il salutò co' molta cortesia e quello gli rispuose a suo saluto, ma domandollo poi perché venía. E Bruto gli rispuose:—I' son venuto per passar qui, se tolto no' mi fia. —Per passar no—rispuose quel guardiano,— ma per aver la morte di mia mano!

16

Ma, perché se' di giovanezza tale, i' ti vo' perdonar—gli disse accorto,— che ma' non arrivò in queste contrade picciol né grande, che non fosse morto; ma, perch'io veggio per sempricitade t'ha fatto pervenire a questo porto, o lassa l'arme e tutti arnesi tuoi, e vattene al piú presto che tu puoi.—

17

Rispose Bruto:—Ha' tu tanta mattezza, che credi per tuo dire i' lasci l'arme? Intendo di provar mia giovinezza contro chi 'l passo vorrà constrastarme!— Ed e' sí fo adirato e con fierezza disse:—Se tu se' stolto, come parme, da po' ch'io veggio che vò' pur morire, e tu morrai!—E corselo a fedire.

18

E di molt'arme gli tagliava adosso, ed in piú parte la carne gli afferra. E Bruto allor, sentendosi percosso, e 'l sangue suo cadere in su la terra, e la sua donna gli tornò nel cosso, ond'egli isprona il buon destrier di guerra, e ferí quel guardian sí aspramente, che per morto l'abatte di presente.

19

E quel giogante gli chiese mercede, ed egli perdonò per cortesia, e 'l suo cavallo degli sproni fiede e per lo ponte subito si 'nvia. Quando il guardian da l'altra parte vide ch'al suo compagno pur morte giungía, di forte il ponte cominciò a corlare che spesso sotto l'acqua il facía andare.

20

E Bruto, per bontá del buon cavallo, pur passò oltre per lo ponte ratto, e giunse a quel fellone quale strale, dove crollava il ponte al primo tratto, che su la testa ferí senza fallo e, per vendetta di quel ch'avea fatto, per forza il prese e nel fiume il gittòe, onde il guardian di subito affogòe.

21

E, quando egli ebbe valicato il passo ed amendue le guardie abattute, ed e' si risposò, perch'era lasso delle percosse, c'have ricevute; e 'l meglio che poté, seggendo a basso, venne curando tutte suo' ferite. Po' valorosamente, come saggio, montò a cavallo ed uscí di suo viaggio.

22

E, cavalcando il franco damigello per un bel prato tutto pien di fiori, vide un palazzo fortissimo e bello, ma no' parea ch'avesse abitatore, però che porta, finestra o sportello no' si vedea da lato né di fuori. Nel prato sí v'avea mensa d'ariento, piena di cibi e d'ogni guarnimento.

23

E poi appresso vide sotto un pino un gran vaso d'argento pien di biada, ond'egli ismonta, di coraggio fino, perché per suo destrier molto gli agrada. Trassegli il freno e puosegli all'orino, perché rodesse, poi d'intorno vada. No' veggendo persona, fra sé pensa: —Sia ciò che puote!—e fussi posto a mensa.

24

Mangiando francamente, come quello ch'avea grande bisogno di mangiare, una porta s'aperse del castello, che facea sí grandissimo sonare, che maravigliar face quel donzello; sicché ristette e volsisi a guardare, ed e' vide venire un gra' giogante verso di sé con un baston pesante.

25

E da seder non si mosse costui, ma piú che mai mangiava alla sicura. Disse il giogante, quando giunse a lui: —Che ne fa' tu costá senza paura? Queste mense son messe per altrui, cioè per gente di miglior natura. E Bruto mangia prima quanto volle poi gli rispuose:—Deh, quanto se' folle!—

26

Se queste mense son per gentil gente, ed io mi tengo ben d'esser gentile, ché 'l padre mio fu molto soficiente, e suo paese molto signorile. A la corte del re, ch'è si possente, per ch'io vi mangi, no' manca' su' stile. E son venuto per portarne meco uno isparviere che 'l re Artú ha seco.—

27

Disse il giogante:—Oh! t'inganna il pensiero, ché gran semplicitá nel cor t'abonda; che sarebbe impossibile ad avere al piú prod'uom, che è 'n Tavola rotonda; ch'è per guardia del guanto piú vedere che quel palazzo intorno non cerconda, e, se compagni avessi un centinaio, ti veterebbe il passo il portinaio.

28

Però, deh, parti, e torna in tuo paese po' che ancora non t'è la vita tolta; lassa l'arme e 'l caval, ch'a le tue spese vo' ch'abbi manicato a questa volta.— Rispuose allora quel donzel cortese: —Per cosa molto grande ora m'ascolta, ch'io, prima che per te i' torni adrieto, teco saprò se l'arme mia han divieto!—

29

Disse il giogante:—Con questo bastone io n'ho giá morti piú di cinquecento; ma, perché tu mi par troppo garzone, sí perdonava al tuo gran falimento. Ora ti dico ch'i' ho intenzione di raddoppiarti la pena e 'l tormento. Ora va', monta a caval, che 'l ti bisogna, ch'io non ti voglio a piè, per piú vergogna.

30

Rispuos'allora il valoroso Bruto: —Non piacci a Dio che io monti in arcione, ched e' sarebbe troppo gran partito combattere a caval con un pedone! Or come cavalier prod' ed ardito —disse al giogante—fa' tua difensione!— E colla ispada fiede arditamente, ma no' che sangue gli uscisse niente.

31

Disse il giogante, di niquizia pregno: —Io te ne pagherò, se Dio mi vaglia!— col baston del metallo e non di legno, che lo menava come fil di paglia, e fedía Bruto con un tal disdegno, che di molt'arme addosso sí gli taglia, e feciolo per forza inginocchiare, sicché di morte e' cominciò a dottare.

32

E poi gli disse:—Po' che tanta noia t'ha fatto il primo, che fará il secondo? Tu ci venisti per acquistar gioia, i' ti farò portar di morte pondo, ché veramente convien che tu muoia, sicché mal ci venisti a questo mondo.— E la mazza levò co' gra' tempesta, volendo dare a Bruto in su la testa.

33

E, quando Bruto vidde la colonna, cioè 'l baston che 'l giogante have 'n alto, ed e' si ricordò della sua donna, e' ferí lui sopra 'l lucente smalto, sicché, per che di ferro avesse gonna, poco gli valse allo secondo assalto: e' diedegli tal colpo in su la spalla che col bastone il braccio a terra 'valla.

34

—Deh! no' mi uccider, per lo tuo migliore —disse il giogante, sentendo tal pena,— ch'io ti recherò il guanto del signore, e tu potrai intanto prender lena. —Tu mi vogli ingannare, o traditore!— rispose Bruto, e dèttegli una mena. Ed e' per téma della morte volse, e menol seco dov'il guanto tolse.

35

E, come Bruto il guanto ell'ha spiccato, e grande istrida dentro si levâro, e non vi si vedeva in nessun lato chi si facesse il pianto cosí amaro. Ed egli vettorioso torna al prato, e montò al destriero allegro e gaio, e cosí cavalcò parecchi giorni pur per pratelli di bei fiori adorni.

36

E, riguardando, vede dalla lunge il palazzo real dello re Artú, e forte degli sproni il destrier punge, tanto ch'a quella porta giunto fu; e, siccome alla porta mastra giunge, mostrò il guanto e fu lasciato ire su da dodici guardian, che disson:—Passa, ché la tua vita sará molto bassa!—

37

Signor, sappiate che secento braccia aveva di lunghezza quel palazzo, e d'ariento avea 'l tetto e la faccia e dentro d'oro le mura e lo spazzo, iscala e panca v'ha, che ciascun saccia, ch'eran d'avorio, intagliate a sollazzo e sonvi d'oro altri sette iscaglioni. Sedevi re Artú con suo' baroni.

38

E Bruto arditamente per la scala montò, pensando di tal novitade; e, quando giunse in su la mastra sala e vide il re con tanta nobiltade, con riverenza inginocchiando cala e salutollo con benignitade. E re Artú gli rendé suo saluto, benché ma' piú no' lo avesse veduto.

39

—Perché venisti a meco, in questa corte?— disse un di que' baroni in corte. Piano rispuose Bruto con parole accorte: —Venuto son per lo sparvier sovrano.— Disse 'l baron:—Per cosí fatta sorte, credo che tu sara' venuto invano! Onde ti move ardir di cheder dono, che piú di mille giá morti ne sono?—

40

Bruto, pensando di quella ch'egli ama, rispuose lietamente a quel barone, dicendo:—Lo sparvier di sí gran fama i' non dimando senza gran cagione, ch'i'ho l'amor della piú bella dama che niun altro di questa magione. E, se alcun ci è che voglia contastare, per forza d'arme gliel tolgo a provare!—

41

Rispose quel baron:—Siene a la pruova! Però ch'io vo' difendere la mia 'manza, ch'a petto a lei la tua non val tre uova, però che di beltade ogn'altra avanza. E veramente, anzi che tu ti muova, confessar ti farò co' mia possanza.— E 'n un pratello si furono armati dentro al palazzo, e furonsi isfidati.

42

E ferirse l'un l'altro co' la lancia sí forte, che le rupper negli scudi, e, poi che dato s'ebben cotal mancia, miser mano a le spade i baron drudi; e l'uno e l'altro non pareva ciancia, quando si riscontrâr co' ferri ignudi; e 'l baron per tal forza Bruto offese, che de l'elmo tagliò quanto ne prese.

43

E Bruto si ricorda su quell'ora di quella donna per cui amor fa questo, di che el rinvigorisse e risan'ora; e con la spada in mano, ardito e presto, ferie 'l baron, sí che senza dimora in su la terra cadde manifesto. Volendosi levare a questo tratto, e Bruto smonta ed uciselo affatto.

44

E poscia se n'andò ritto a la stanga e tolse lo sparvier, la carta e' cani e partendosi disse:—A Dio rimanga lo re Artú con i suoi baron sovrani!— E tutta quella corte par che pianga ch'un uom cosí gaiardo s'allontani. Lecenziato dal re, che se ne vada, vettorioso tornò a sua contrada.

45

E giorno e notte tanto ha cavalcato, ched egli giunse a la donna selvaggia, quella che prima gli aveva insignato come salir si voleva tal piaggia, e, poi che 'l suo saluto gli ha donato, ed ella gli responde come saggia: —Ben sia venuto, per le mille volte, sí fatto amante, che no' l'hanno molte!

46

E poi con baci e con abbracciamenti gran pezza il tenne, senz'altro fallace, e poi li disse:—Mò che t'argomenti di ritornare a tua donna verace?— Ed e' le disse:—Se tu te contenti, i' farò volentier ciò che ti piace.— E ringraziolla di coraggio fino, poi si partí e tornò a suo cammino.

IX

MADONNA LIONESSA

1

Io truovo d'una donna da Milano, ch'ebbe nome madonna Leonessa, che madre fue d'Azolino Romano, che fue tanto ardito in ogni pressa. Il suo marito ha nome Capitano: di Lombardia ell'era principessa; tutta la Lombardia signoreggiava, e Toscana di lei forte tremava.

2

Ell'era sopr'ogn'altra savia e bella, e sempre avea semilia cavalieri, con i quali prendea cittá e castella o per battaglia o per falsi mestieri; e non montava cavaliere in sella, che non temesse de' suo' colpi fieri: e, se d'amor d'alcuno era richiesta, di botto gli facea tagliar la testa.

3

Cosí reggendo, venne che 'l marito, ch'era d'Italia la piú franca lancia, vennegli in cuore e grande apitito di voler visitare il re di Francia; onde si mosse, molto ben fornito, con semilia tedeschi, a non dir ciancia. Tanto cavalca, che giunge a Parigi; laonde fe' di grandi e be' servigi.

4

Il re di Francia era fuori ad oste; mandò a sua donna ch'ella 'l soccorresse. Il Capitano, udendo le proposte, le si proferse, in quanto le piacesse, con semilia tedeschi alle sue coste. La reina gli disse:—Dio 'l volesse!— Onde da la reina si partíe: dov'era il re di Francia se ne gíe.

5

E grande festa gli fe' il re di Francia, chéd amendue eran perfetti amici. De' saracin v'era la gran possanza, e tutte piene n'eran le pendici; molti cristiani v'eran per certanza, e molti cavalier v'ha da Parigi: da l'una parte e l'altra acampati, cristiani e saracin sono ischierati.

6

Vedendo il Capitan tanta puntaglia di cavalieri da ciascuna parte, di grazia chiese la prima battaglia: il re gliel concedette, onde si parte. Disse a sua gente:—Se Cristo vi vaglia, siate ben franchi, ché sapete l'arte!— Onde tosto percossono a' nimici: la prima ischiera mise alle pendici.

7

Non era in 'Tália uom tanto possente, com'era questo gentil Capitano: e' con sua forza e con sua buona gente diede isconfitta al populo pagano; e il re di Francia ancor similemente, colla suo gente del popul cristiano, a' saracini dieron tal trafitta, che per forza gli mise in isconfitta.

8

Color fuggendo e costoro incalciando, durò la caccia piú di dieci miglia. E lo re poi, a Parigi tornando, menò molti pregion con suo famiglia: e la reina ch'aspettava, quando rivide il Capitan, per mano il piglia. E', vedendosi far tante carezze, subito inamorò di sue bellezze.

9

Cavalcando con lei a coscia a coscia, non si iscopria né in fatto né in detto. Giunti in Parigi, la reina poscia il convitava co' molto diletto, ed e' sentiva l'amorosa angoscia; e, trovandosi un dí con lei soletto, richiesela d'amore: a tal cagione il fe' pigliare e mettere in prigione.

10

E po' col re tutto il fatto ragiona, laonde il re ne fue molto dolente; ma, guardando l'onor della corona, co' savi suoi si consigliò al presente. Ciascun dice di perder la persona: rispuose il re:—Non ne farò niente; ma io condanno quel vembro in due once, che le parole disse tanto isconce.

11

Po' fece il Capitano a sé venire, ed e' si venne tutto isbigottito. Il re gli disse:—Come avesti ardire di farmi oltraggio, avendomi servito? Ma tu se' degno in tutto di morire, bench'io non aggi' tuo fallo seguito; a ciò che la tua vita non s'istingua, sieti tagliato due once di lingua.—

12

El Capitano disse:—I' vi ringrazio, ch'io veggio ben ch'io son degno di morte: ma cento giorni i' v'adimando ispazio prima ch'io venga a sí malvagia sorte.— Il re lo fece di quel voler sazio; fecel rimetter nella pregion forte. Egli poi iscrisse a la sua donna ardita, com'egli era a pericol della vita.

13

Quando la donna intese le novelle del Capitan, che piú che sé l'amava, delle mani si die' nelle mascelle; subitamente in zambra se n'andava, e, non potendo immaginar cavelle dello suo iscampo, ella s'inginocchiava divotamente innanzi al Creatore, e piangendo dicea con gran dolore:

14

—O Signor mio, ch'a Maria Madalena tu perdonasti, non mi abandonare, ch'i' veggio ben che la fortuna mena il mio marito a mala morte fare: ma, se mi doni grazia e tanta lena, ch'io di pericolo il possa iscampare, i' ti prometto, ch'i'ho fatte assai disconce cose, ch'i' non farò mai.—

15

Cosí adorando, si fue addormentata, e dal cielo le venne in visione un angiol, che le die' questa ambasciata: —Se vuoi cavar tuo sposo di prigione, com'uom ti vesti, bene accompagnata, va' dimostrando d'esser Salamone venuto al mondo a rinovar le leggi: contrasto non truovi; i tristi correggi.—

16

Quando la donna si fue risentita, volendo il sogno mettere in effetto, di porpore real si fue vestita, e dice ch'era Salamon perfetto; e la voce d'intorno ne fu ita per Lombardia e per tutto il distretto, sí come Salamone era venuto: e per piacer di Dio era creduto.

17

Apresso, tolse di tutte le chiese di libri raunò some trecento, e mille preti vecchi del paese vestí a nero a suo comandamento, e cento savi colle menti accese pieni d'ogni iscienza e 'ntendimento, e mille cavalier, sergenti e fanti, che gramatica sapien tutti quanti.

18

A' preti comandò che per camino cantasson sempre l'uficio de' morti per rimembranza del regno divino; al qual uficio istanno molti accorti, mostrando avere il mondo a suo dimíno E perché in creder ciascun si conforti, una gran palla d'or portava in mano in sur un bianco palafren sovrano.

19

Le croci inanzi a sé mandava ritte con istendardi di zendado nero, con lettere e parole d'oro iscritte, sí com'egli era Salamon di vero, figliuol del santo padre re Davitte, da Dio mandato per cotal mestiero, per rinovar la legge al mondo guasta. E questo a credere alla gente basta.

20

Come la gente si maravigliava, non è mestieri ch'io vel dichi quici; ché tutto l'universo ne parlava, come tra loro iscriveano gli amici; e tutto il chericato ne tremava pensando perder tutti i benefici. Giunto presso a Parigi una mattina, gli si fa incontro il re e la reina;

21

e 'l vescovo con tutto il chericato si cavalcava col re sanza fallo. Quando si furon a lui appresentato, tutta la gente ismontò da cavallo; piangendo di letizia, inginocchiato, cominciâro il re e gli altri a salutallo: —Ben possiate venir, Santa Corona!— Ed e' saluto non rende a persona.

22

Cui Salamon mirava punto fiso, accetto sel tenea piú ch'uom vivente, e di letizia si segnava il viso e sí diceva umile e riverente: —Egli è venuto ben dal paradiso, tanto ha l'aspetto angelico e piacente!— Giunto in Parigi, come gli fue a grado, col vescovo ismontò al vescovado.

23

E 'n sulla mastra sala fece fare una gran sedia con sette iscaglioni: su vi sedea, e a' piè fece istare i gran maestri, i preti ed i baroni; e fece intorno a sé ingraticolare, empier la sala di libri e' veroni. Po' venne un prenze: com'egli ha ordinato, venne dinanzi a lui inginocchiato.

24

—Mercé, per Dio! Il re tiene in pregione, benché questo dovete voi sapello, nostro signor ch'elli ha 'n condennagione: a tal condennagion facciamo apello.— Vedendo ciò, comandò Salamone che comparisse il re di Francia ed ello. Temendo, il re comparí a mano a mano: apresso menò seco il Capitano.

25

Vedendo Salamone in suo presenza il Capitan con la catena in gola, dinanzi a sé fe' legger la sentenza: "Due once—dice—sia tagliata sola". Salamon parla e disse:—In mia presenza faglici tagliare, parl'io tal parola, due once, come tu condennato hai; ma, se fie piú o men, la romperai.—

26

Ed e' rispuose:—Corona beata, vo' conoscete piú che non fo io; o vaglia o no la sentenzia ch'è data, vo' ch'ella si cancelli, o signor mio.— Salamon la parola ha incorporata; fégli trar carta e assolver ogni rio, e poi apresso gli comandò, e disse che inanzi a lui ogni dí comparisse.

27

E vo' che voi sappiate, o buona gente, ched egli il fece suo procuratore; ed egli e gli altri credean certamente ched e' fusse mandato dal Signore qua giú in terra da Dio 'nipotente, per liberar del mondo alcun errore. E, poi che alquanto e' si fue riposato, Salamone dal re prese comiato,

28

dicendo:—E' mi conviene andare a Roma a correggere il papa e' cardinali, ch'a' cherici porrò sí fatta soma, che in loro vita e' no l'ebber mai tali sí ch'ogni chericato sí si noma, per me' fuggir, vorrebbon mettere ali.— Onde si parte: il re l'accompagnava quel che gli parve, e poi indreto tornava.

29

Come partissi, i preti parigini, a l'uscir fuori, sí com'io intendo, gli presentâr trentamilia fiorini e trenta palafren, s'i' ben comprendo. Gli ambasciador parlârgli in ta' latini, e 'nginocchiârsi e', cosí dicendo: —Vi manda di Parigi il chericato, perché voi non guardiate in lor peccato.—

30

E Salamon, sorridendo, gli tolse e disse:—I' non avea mestier di questi!— E 'nverso lor Salamone si volse e disse:—Fate che viviate onesti;— e per quella fiata gli prosciolse. E' tostamente se n'andaron presti con allegreza e festa a casa loro: e Salamon ne va sanza dimoro.

31

Quando arrivava a castello o a cittade, i preti contro a lor non sono iscarsi: de' preti erano pien tutte le strade a presentarlo ed a raccomandarsi. E 'l Capitan con molta umilitade ogni dí andava a lui a rappresentarsi, e a sua donna iscriveva molto ispesso, ma' non pensando come l'avie presso.

32

Giugnendo Salamone in un gran piano, el Capitan correa un suo destriere, e Salamon domandò a mano a mano, benched e' conoscesse il cavaliere. Fugli risposto ch'era il Capitano. Chiamollo a sé e gli disse:—Fa mestiere, perché cavalchi tu, ch'i' non cavalco, da oggi inanzi sie mio maliscalco.—

33

E, cavalcando a lato a Salamone, il Capitan, siniscalco novello, egli il dimanda di sua condizione, s'egli ha donna o sposa per anello. —Monsignor sí—risposegli il barone— cosí potess'io diventare uccello! Che'nanzi ch'io mangiassi, i' la vedrei con i tre bei figliuoli ch'i'ho di lei;

34

però ch'io l'amo piú che criatura, ed ella cosí me, se Dio mi vaglia.— Salamon disse:—Com'è tanto dura, ch'a te non viene, essendo in tal travaglia? Ma questo è segno ch'ella non si cura della tua morte o vita un fil di paglia!— Ed e' rispose:—Caro signor fino, la testa metterei ch'ell'è in camino!—

35

Salamon disse:—Po' t'ha abandonato e te non cura di tue grave doglie, tal matrimonio rompere ho pensato, ché posso far di ciò tutte mie voglie; ed una ricca donna d'alto istato, savia e gentile, i' ti darò per moglie. Ed e' rispuose:—I' non credo che sia piú sufficiente donna che la mia.—

36

E cosí cavalcavan ragionando che presso a Roma a tre miglia arrivâro: e 'l papa e' cardinali e gli altri, quando l'ebbon sentito, incontro sí gli andâro; e 'n sulla strada insieme riscontrando, il papa e Salamon si salutaro. Dicea il papa:—Ben venga il signor mio!— Ed e':—Ben venga il vicario di Dio!—

37

E, poi ch'alquanto in Roma fue posato, il papa fece con lor concestoro, e fe' che'l chericato ivi adunato gli diede centomillia fiorin d'oro. Parlamentando il papa gli ha parlato: —I' non so quanto farete dimoro; ma io intendo che per ogni verso legge mutiate in tutto l'universo;

38

e tôrre al chericato e' benefici, e darci poi asprissima sentenza. Se riparare si può ta' giudici, provveggia in ciò la vostra sapienza.— Salamon disse:—In Dio e veri ufici vivete casti e fate penitenza, e lussuria lasciate e' buon bocconi: i' pregherò Iddio che vi perdoni.—

39

Da Roma si partí colla secura, e tanto cavalcò che giunse in Siena; lá onde il chericato per paura partire il fece colla borsa piena. E 'l chericato fiorentin procura, di sua venuta, gran gioia ne mena; incontro gli si fe' con grandi onori. In Firenze smontò a' Frati minori.

40

E riposati alquanti giorni poi, i cherci fiorentini il dimandâro: —Dicci se lo giudicio tocca a noi, o se per nostro inciampo ci è riparo.— Salamon disse allor:—Sí come voi siete principio al dolore e all'amaro, sarete i primi che il Signor superno vi manderá nello prefondo eterno.—

41

A' prior disse:—Questa vostra terra, chiamata "fior", farò che fará frutto; ma, prima che sia, se'l mio dir non erra, dovizia avrete di pianto e di lutto.— Ed il consiglio co' prior si serra: alcun dicea che volea ch'al postutto e' fusse presentato riccamente: chi n'era lieto, e chi n'era dolente.

42

In ringhiera levossi un calzolaio e disse:—Io dico ch'al signor reale non si die tanto che vagli un danaio, po' ch'egli il manda il re celestiale; ma, se ognun vuole istare allegro e gaio, pigliamo il bene e lasciamo ogni male, e'l Signor ci dará stato perfetto.— Ciascun rispose e disse:—Egli ha ben detto.—

43

Partissi Salamone e andò a Gagliano, la sera se n'andò sanza menzogna: e riguardando intorno il Capitano conobbe ch'era il camin di Bologna. E parlò e disse:—Signor mio sovrano, licenzia v'adimando con vergogna, ch'io possa ritornar in mio paese, ché mio nimico è il popul bolognese.—

44

E Salamon allora prese a dire: —Di questo fatto il miglior prenderemo: quando tutta la gente fie a dormire verrai a me, e ciò consiglieremo.— Quand'e' fu tempo, ed e' per ubbidire andò a lui nella cambera; allo stremo d'andare a letto, trovò Salamone ignuda, e disse:—Ben vegna il barone.—

45

E poi la man sulla spalla gli ha messa, e disse:—Come ha nome la tua sposa?— Ed e' rispose:—Ha nome Lionessa, ch'i' bramo di veder sopr'ogni cosa.— E' disse:—Guarda s'io somiglio ad essa;— ed e' guardò con faccia vergognosa, po' disse:—Signor mio, santa Corona, veder mi par la mia donna in persona.—

46

Disse 'l barone:—A mente non mi reco se non che siete della santa fede, ché corpo uman non potrebb'aver seco tanta biltá quanto Iddio vi concede.— Diceva Salamon:—Or, com'è cieco chi non conosce il suo, quand'egli 'l vede; ch'i' son tua donna e tu se' mio marito.— Ed e' per gioia cadde tramortito.

47

Come fu risentito di presente, subitamente s'andâro nel letto, ed abbracciâr l'un l'altro istrettamente e tutta notte stettero in diletto. Al mattin Salamon tutta sua gente accomiatò, dicendo:—I' son costretto d'andare al paradiso luziano, dove non può venir niun corp'umano.

48

Contento di bon' ar' ciascun si parte, e Salamon, ch'avíe mutata gonna, secondamente che dicon le carte, tornò a Melan vestito come donna. Come fu giunto, scrisse in ogni parte, insino al papa, del mondo colonna: "Nel paradiso luzian mi ritruovo, sí come piace a Dio, per cui mi muovo".

49

Ad ogni chiesa suo' libri rendette, e conobbe da Dio grazia infinita. Enfin ch'al mondo col marito stette, si fêro insieme santa e buona vita, e chiese e monester fêr diciasette; ed ebbon paradiso alla partita, alla qual ci conduca il Salvatore.— Antonio Pucci il feci, al vostro onore.

X

LA REINA D'ORIENTE

PRIMO CANTARE

1

Superna Maiestá, da cui procede ciò che nel mondo dá ogni sustanza, e sei cortese a chiunque ti chiede divotamente con fede e speranza; umilemente ti chieggio mercede che doni grazia a me, pien d'ignoranza, ch'io rimi sí la presente leggenda, che tutta gente diletto ne prenda.

2

Avendomi io, signor, posto nel core di non perder piú tempo a far cantare, un libro, che mi par degli altri il fiore, cosí leggendo mi fe' innamorare. Poi che rimato l'ho per vostro onore, pregovi che vi piaccia d'ascoltare, però ch'io credo che a la vostra vita sí bella istoria non avete udita.

3

Trovo che la reina d'Oriente fu senza pari al mondo di sapere, e non fu mai da Levante al Ponente donna che fusse di sí gran podere. El suo marito era vecchio e da niente, ond'ella si facea molto temere: era giovane e bella oltra misura, piú ch'a quel tempo fosse creatura.

4

Questa reina di grande eccellenzia era devota ed amica di Dio, vivea casta e facea penitenzia secretamente e senza nessun rio, e digiunava con gran riverenzia, perché del paradiso avíe disio. Ma, se al mondo avea alcun diletto, costei li volea tutti al suo cospetto,

5

siccome s'eran canti di vantaggio ed istormenti d'ogni condizione, con cento damigelle d'un paraggio, cantavan e suonavan per ragione. Ell'eran tanto belle nel visaggio, che agnoli parean piú che persone. Questo facevan quand'ella mangiava, quando dormía e quando si levava.

6

Per guardia avea l'altissima reina mille buon cavalier pien d'ardimento, e mille turchi, gente palladina, ch'eran piú neri che carbone spento. Con questa forza e con la sua dottrina, facea sí grande e giusto reggimento, che simil nol fe' mai signor né dama, sí che per tutto'l mondo avea gran fama.

7

Quando lo'mperador di Roma intese le sue bellezze e 'l senno, ch'avea tanto, subitamente del suo amor s'accese, e pensò d'accusarla al Padre santo, acciò che a Roma andasse a far difese per ubbidienza del papale ammanto, dicendo:—S'ella viene in mia balía, quel ch'io vorró pur converrá che sia.—

8

E disse al papa:—In cotal parte regna una che fa del mondo paradiso; e, fòr di questa, ogni altra vita sdegna, mondan diletti vuol per non diviso. Se questo è vero, ella è di morte degna, e tutto 'l suo reame esser conquiso: però richieder la fate in persona che vegna inanzi a voi, Santa Corona.—

9

E 'l papa fu con tutti i cardinali, e comandò che ella fusse richesta: che comparisse in cento dí, fra' quali fatta avesse sua scusa manifesta, gravandola con scritte e con segnali, acciò che del venir fusse piú presta: che, a pena del fuoco, si movesse, come 'l suggel papal veduto avesse.

10

E 'l messo cavalcò tanto che puose a la reina in man quella ambasciata. Ella la lesse, e poi sí gli rispuose: —La tua richesta fia ben osservata, però che sopra tutte l'altre cose ho disiato di far questa andata, per veder Roma e le reliquie sante, e baciar dove il papa pon le piante.—

11

Quando si partí 'l messo, un palafreno donar gli fece con cento once d'oro; ed ei, contento piú ch'altr'uom terreno, al papa ritornò senza dimoro, e raccontò dello stato sereno de la reina e del suo gran tesoro, e la risposta ched ella avea fatta. E 'l papa disse:—Questa non è matta.—

12

Lo 'mperadore, ch'avea gran vaghezza d'udir parlar di lei, mandò pel messo, e domandolli della sua bellezza. Rispuose il saggio messaggiere ad esso: —Non domandate della sua adornezza, ché non è lingua che 'l dicesse a presso: di nobil baronaggio e dell'avere non ha nel mondo pari, al mio parere.—

13

Quando egli udiva sua biltá contare, gli crescea voglia di vederla al core, e spesso andava al papa a ricordare che li facesse il termine minore. —E s'ella vien, faretela scusare; se non ha colpa, faccialesi onore; che molti giá son stati accagionati, che sanza colpa si son poi trovati.—

14

Il papa, udendo li suoi prieghi adorni, félli un comandamento via piú forte che comparisse: infra cinquanta giorni, a pena della vita, fosse a corte; e, se piú tempo vien ch'ella soggiorni, fará bandir lo stuol per darli morte. Ond'ella, udendo ciò, per ubbidire, molta sua gente a sé fece venire,

15

fra' quali aveva principi e marchesi, duchi, conti, baroni e castellani, cavalieri, mercatanti e borghesi, ed altri gentiluomini cattani; donne e donzelle, che di lor paesi il signoraggio avean tralle lor mani, vedove donne, rimase contesse, ed altre marchisiane e principesse.

16

E, ragunato ch'ebbe il parlamento, l'alta reina in piè fússi levata, e lesse, dopo il bel proponimento, la lettera che 'l papa avea mandata. Poi lesse l'altro gran comandamento che in breve tempo fosse apparecchiata dicendo:—Consigliate che vi pare.— E dopo lei un conte andò a parlare,

17

e disse:—Alta reina, perch'io sono un de' minor del vostro baronaggio, duomila cavalier profero e dono per la difesa di cotanto oltraggio. Ma, s'io fallasse, chieggiovi perdono: lasciate fare a noi questo viaggio, e voi vi state con diletto e gioia. Chi contro a ciò vuol dir, dico che muoia.—

18

Disse un marchese, che si levò poi:
—Per Dio non si sostenga tal vergogna!
Io vi vo' dar, per difesa di voi,
tremila cavalier senza menzogna.
Dama, lasciate far la scusa a noi:
le spade acconceran ciò che bisogna.—
Quand'ebbe detto, scese il parlatore.
E montò suso un grande barbasore,

19

il quale stava al fine d'Oriente, campion de' ner gioganti, s'io non erro; e disse:—Io vi darò della mia gente duomila turchi con baston di ferro, e vo' morir con tutti lor presente, se dieci tanti di lor non disserro.— E dopo costui molti altri baroni li proferian cavalieri e pedoni.

20

Ed ella ringraziò in lor presenza, baroni e donne col viso giocondo, dicendo:—Poi ch'io so la vostra intenza lo 'ntendimento mio non vi nascondo. Io son pur ferma di far l'ubbidienza del papa, che è vicario di Dio al mondo: però mi date quella compagnia, che a voi par ch'onorevole mi sia.—

21

La gente sua, vedendola sí magna, l'un piú che l'altro andava volentieri, ma della sua partenza ognun si lagna. Piangon le donne, baroni e scudieri. E ordinaron che avesse in sua compagna ad elmo diecimilia cavalieri, che la metá di lor fosson gioganti dell'Oriente, neri tutti quanti.

22

L'alta reina si levò e disse: —Grazia ne rendo alla vostra bontade:— poi comandò che, infin ch'ella redisse, stessono in pace ed in tranquillitade. Appresso comandò che si partisse ciascuno e ritornasse in sue contrade; sí che si dipartiron lagrimando, e la reina si venne acconciando.

23

Io vo', signor, che voi siate avvisati che quella donna di sua terra mosse con diecemila cavalieri armati, che per tre tanti non temean percosse, di pedon sanza numero pregiati menò con seco molte schiere grosse, mille dottor con batoli di vaio, vestiti d'un color allegro e gaio.

24

Appresso si menò mille donzelle, di seta d'un color tutte vestite, di musica maestre e tanto belle, ch'allor parean del paradiso uscite; e mille donne per guardia di quelle, da cui la notte e 'l dí eran servite; e mille carra coverte a scarlatto, ch'andavano, a lor modo, piano e ratto.

25

Li carri, ch'io vi dico, eran tirati ciascun da due destrieri ambianti e forti; per due maestri turchi eran guidati, attenti a' loro uffici e bene accorti; presso alla donna andavano ordinati con canti e suon perch'ella si conforti; sopra ogni carro aveva la bandiera, lá dove l'arme di quella donna era.

26

Appresso un carro v'era d'oro fino, tratto da dieci grossi palafreni, lattati e bianchi quanto l'ermelino, e d'oro aveano tutti quanti i freni; sopra ciascuno avea un saracino, perché soavemente il carro meni, il qual di perle e gemme avea cortina, e dentro si posava la reina.

27

Or chi potrebbe raccontar le some de' muli a campanelle d'ariento, che ben valeano piú di sette Rome? Del trionfante e magno fornimento se avete voglia di sapere il come, io vel dirò, per far ognun contento, com'ella potea far piú ch'io non dico, se vero è ciò che conta il libro antico.

28

Per lo reame suo correva un fiume ch'uscía del paradiso deliziano, e pietre preziose per costume menava, ed oro ed ariento sovrano. Non era fiumicel, ma di vilume, per la larghezza un miglio intero e sano, e per lunghezza tenea trenta miglia: se questo è ver, quel non è maraviglia.

29

E, quando a Roma giunse quella donna, che mille turchi menava d'intorno, e sopra al capo, in sur una colonna, aveva uno istendardo molto adorno, veracemente ben parea madonna di ciò che 'n questa vita fa soggiorno; e tutta Roma correva a furore dicendo:—Chi sará questo signore?—

30

Quando la gente la donna vedía piú rilucente che non è il cristallo, e riguardò la sua gran baronía, ch'eran con lei a piede ed a cavallo, e le donzelle, che venian per via, agnoli le credeano sanza fallo; diceva l'uno a l'altro de' romani: —Di vero quelli non son corpi umani!—

31

E, dismontata al palagio papale, l'alta reina, siccome saputa, mille turchi menò su per le scale, ché a torto non volía esser tenuta: e, quando vide il papa naturale, con riverenzia lo inchina e saluta; poi disse in ginocchion con umiltade: —Che mi comanda Vostra Santitade?—

32

Il papa disse:—Tu mi se'accusata di questo mondo paradiso fai, e l'altra vita in tutto hai disprezzata e ne' mondan diletti sempre stai.— Ed ella disse:—Io sono accagionata, Padre, di cosa che ma' non pensai, ch'io credo in Dio e vita eterna spero: chi altro dice non vi porge il vero.

33

Diletto prendo per considerare l'eternal vita che mai non ha fine, e penso, udendo mie dame cantare, che debbian esser le voci divine! E, disiando udirle, star mi pare in questo mondo tra pungenti spine. Di questa vita non curo una fronda; ma, sperando aver l'altra, sto gioconda.—

34

Appresso disse:—Acciò ch'io non v'inganni, fate cessar tutta la gente vostra.— Quando con lui fu sola, alza li panni, una camicia di setole mostra, e dice:—Padre santo, quindici anni fatto ho con questa col Nimico giostra.— Poi mostrò un ferro in sulle carni cinto; laonde il papa disse:—Tu m'hai vinto.—

35

Levossi ritto e presela per mano, dicendo:—Donna santa, grazia chiedi;— ed ella, lacrimando umile e piano, disse:—Per quello Iddio a cui mi diedi, vi priego, Padre mio, Pastor sovrano, che m'assolviate innanzi a' vostri piedi.— E poi che l'ebbe di tal voglia sazia, ed ella disse:—Io voglio un'altra grazia.

36

Voglio, Santa Corona, che vi piaccia di pregare il Signor che mi conceda, ch'un figliuolo col mio marito faccia, che del tesoro mio rimagna reda.— Il Padre santo disse:—Va', procaccia, ché 'l ventre tuo avrá di corto preda.— Ed ella se ne andò con gran letizia ad albergo, al Castel della milizia.

37

Quando l'imperadore ebbe spiato ch'ell'era sciolta sanza suo pregare, subitamente a caval fu montato ed all'albergo l'andò a visitare. E la reina l'ebbe ringraziato, ed e' si parte sanza dimorare, e manda alle milizie pel maestro de' cavalier, sempre alla guardia presto.

38

E disseli:—Tu hai molto fallito, che la reina ha' messa in tal fortezza; ma guarda pur che tu non sie tradito, ch'ella vuol prender la romana altezza; ché seco ha gente per cotal partito la piú fiorita che sia di prodezza, e Roma vuol, per aver lo papato e per signoreggiare lo 'mperiato.—

39

Disse il maestro:—Tal cosa m'è nuova. Ma non temete per cotal cagione; ché, se di ciò si metterá alla prova, farò sonare ad arme lo squillone. Quando suona al bisogno, si ritrova trenta milizie d'uomini in arcione, e cento legion di popol franco, che a sua difesa non si vede stanco.

40

Le milizie sapete sono tante, centosessanta con mille ducento, e le legion di populi altrettanto, sí che saría sí grande assembramento, che, se costei n'avesse sei cotanto, di sua venuta arebbe pentimento. Ma priego voi che, a sí fatto periglio, mi diate il vostro discreto consiglio.—

41

Ed e' rispose:—Fa' che a' suoi cavagli sien tolti tutti e' freni e' loro arnesi. Appresso, lo squillon fa' che battagli, e' traditori saran morti e presi.— Disse il maestro:—Io temo non v'abbagli altro pensier che sopra a ciò vi pesi: che vogli alquanto procurar sua vista, che mal per voi, se tal briga s'acquista!—

42

Mentre che 'l maestro tai parole dice, a quello 'mperador venne un presente, un altro alla sua madre imperadrice da parte della donna d'Oriente. Quel de lo 'mperador fu sí felice, ch'una cittá valeva certamente; onde e' disse:—Piú son che 'n prima preso.— Quel maestro di botto l'ebbe inteso,

43

e disse:—Se di donna sí gentile amor v'ha preso, non so ch'io mi dica, ch'io non ne vidi mai una simile, con tanti buon costumi si nutrica. Se di lei volete esser signorile, la 'mperadrice vi fia buona amica: manifestate a lei vostro talento, ed ella vi fará di lei contento.—

44

Lo 'mperador, per seguitar sua voglia, a la sua madre il fatto ebbe contato, dicendo:—Madre, io mi moro di doglia per la reina, che m'ha inamorato. Se le potessi far passar la soglia d'esto palagio, ben saría sanato.— Ed ella, udendo allora il suo volere, disse:—Io anderò per lei, e non temere.—

45

E l'altro dí in persona andò per lei: e settanta reine menò seco, e ringraziolla. Poi disse:—Io vorrei nel mio palagio alquanto esser con teco: non mel disdir, ch'io non mi partirei se 'n prima mossa non fussi con meco.— E la reina sospettò nel core; ma pur disse:—Io verrò per vostro amore.

46

Poi ordinò che mille turchi armati la seguissen vestiti come donne; alli altri disse:—State apparecchiati a seguitarmi, se bisogno avronne;— e molto ammaestròe turchi velati, e poi con quella 'mperadrice andonne, e portò sotto una spada forbita, che a qualunque fería, toglie la vita.

47

E, giungendo al palagio imperiale, lo 'mperador incontro se li fece, e per man prese la donna reale, che di color nel viso si disfece. La 'mperadrice, ch'era accorta al male, menolla dentro, dove piú le lece; e poi disse al figliol:—Fa' ciò che déi;— e volle serrar dentro lui e lei.

48

E quelle donne turchie non lasciâro serrar la porta, ch'èrno ammaestrate: apresso loro stavano a riparo, e preso avean prima tutte l'entrate. I baron del signor allora andâro, e ispinsono le donne piú fiate, ma no' che le smagliassin d'in sull'uscio, ch'a petto loro non valeano un guscio.

49

Disse lo imperador:—Tre donne quinci non potrete cacciar, tristi baroni! Non fia nessun di voi che incominci a dar lor delle pugna e de' bastoni?— Allor vi trasser gli scudieri e i princi, dando e togliendo su per li gropponi: correndo la reina a tale offesa, e quella 'mperadrice l'ebba presa.

50

E la reina in su quella fu presta, e mise mano a la spada attoscata, e die' alla 'mperadrice in sulla testa tal colpo, ch'ella cadde stramazzata. Nel secondo cantar si manifesta come vi fu battaglia ismisurata, e chi ne scampò allora in su quel tratto. Antonio Pucci al vostro onor l'ha fatto.

SECONDO CANTARE

1

Celestiale, eterna Maiestade, che senza la tua luce mai non veggio, s'io sperdo il tempo in queste vanitade, perdona a me, ch'io 'l fo per non far peggio. Ma perch'i'ho da me poca bontade, della tua fonte tanta grazia chieggio ch'io possa seguitar il convenente di quella alta reina d'Oriente.

2

Io vi contai come lo 'mperadore in camera era con quella reina; e come a la sua gente con dolore le donne turchie davan disciplina; e come quella donna di valore la 'mperadrice uccise la mattina: or seguirá che diece cameriere uccise poi per sí fatto mestiere.

3

Quando lo 'mperadore i suoi soccorse, di sei baroni l'un non trova sano: e la reina fuor la zambra corse, dicendo alla sua gente:—Ora partiáno! E, quando la brigata sua s'accorse ch'avea la spada sanguinosa in mano, mison mano alle lor, ché colle pugna infino allor battuta avean la sugna.

4

E quella donna co' turchi velati tornò al suo albergo sanza dimorare; e trovò tutti gli altri apparecchiati di ogni arnesi acconci a camminare; e disse:—Poi che siete tutti armati, partianci quindi, se voglián campare; ché, se ci suona adosso lo squillone, a rischio tutti sián de le persone.—

5

E come fu partita dal Castello, l'alta reina al papa mandò a dire che li piacesse rimediare a quello che non potesserla impedimentire. Allor suonò lo squillone a martello, e 'l papa disse:—Ah! le convien morire, però che questa gente son sí cani, che duro fia campar dalle lor mani.—

6

E poi le scrisse: "Reina, di saldo a rischio se' con quanta gente hai teco, perché lo 'mperador si è molto caldo, e gente senza numero ha con seco. Ma prendi vestimento di ribaldo e torna indietro, e saraiti con meco, tanto che sfoghi alquanto l'ira sua: poi ti potrai tornare a casa tua".

7

E la reina discreta ed accorta immantanente disse:—A Dio non piaccia che questa gente, che m'ha fatto scorta, abbandonata sia dalle mie braccia: 'nanzi voglio esser io la prima morta, poi che di loro ho guidato la traccia.— E la sua gente gridava:—Campate— alla reina,—e di noi non curate!—

8

Disse un de' savi suoi:—Di questa offesa, de' due partiti l'un convien pigliare: o noi ci apparecchiam per la difesa in ogni modo e 'l me' che possián fare; o disarmati, senza far contesa, incominciamo mercé a domandare; ché io son certo ch'e' roman saranno pietosi sí che ci perdoneranno.—

9

E la reina disse:—Al mio parere, meglio è a fare una morte che cento; ché, se noi ci arrendiamo al lor volere, ne le prigioni ci faran far stento.— E confortò la gente e fe' le schiere, dicendo:—Cavalier pien d'ardimento, vogliate innanzi morire ad onore che viver con vergogna e disinore.—

10

Lo 'mperador correndo uscí di Roma, dicendo a la sua gente:—Siate accorti di prender la reina per la chioma, la strascinate insin dentro le porti; e ciaschedun che sua gente si noma, pedoni e cavalier sien tutti morti; le dame ignude tutte le ispogliate, e incontanente a Roma le menate.—

11

Quando la donna piena di bontade vide venir lo 'mperador possente, guardando intorno, da tutte contrade premer si vide addosso molta gente; ond'ella, sospirando con pietade, iscese da caval subitamente, e cogli occhi levati, inginocchiata, si fu di cuore a Dio raccomandata,

12

dicendo:—O Dio, pietá di me ti prenda, ché ciò m'avvien per voler viver casta; ond'io ti priego che tu mi diffenda da quello 'mperador, che mi contrasta, sí che di mille dame non si offenda, la lor virginitade e non sia guasta. Soccorrimi, Signor celestiale, che per ben fare io non riceva male.—

13

E l'agnol, poi che l'orazione ha detta, li apparve e disse:—Non ti sgomentare: perché istata se' da Dio diletta, mandato m'ha per non ti abbandonare.— E poi li disse:—To' questa bacchetta; fra tuoi nemici sí la va a gittare, dicendo:—Gite come fumo al vento;— e lo tuo cor di lor sará contento.—

14

E dipartita quella santa boce, l'alta reina a caval fu montata, fecesi il segno de la santa croce, e contra e' suoi nemici ne fu andata. Quando fu presso a lor, molto feroce la bacchetta tra loro ebbe gittata, dicendo come l'agnol detto avía, e tutta quella gente si fuggia.

15

E in isconfitta a Roma se n'andâro, non aspettando lo padre il figliuolo, e settemilia e piú ne trafelâro a piede ed a caval di quello istuolo, e de' maggior baron pochi campâro. Di che lo 'mperador n'have gran duolo; e que' de la reina molto arnese de li roman portarno in lor paese.

16

Sentendo la sconfitta, il Padre santo andò al palazzo dello 'mperadore, e in camera il trovò far sí gran pianto, che somigliante mai nol fe' signore. E disse:—Dimmi il fatto tutto quanto.— Ed e' rispuose con molto dolore: —Il fatto è gito come voi voleste, quando la falsa reina assolveste.

17

I' vo' che voi sappiate, santo Padre, ch'ella è maestra di diabolica arte, e le ricchezze sue tanto leggiadre tutte le vengon da sí fatta parte; e per tal modo uccise la mia madre con dieci cameriere po' in disparte; e ora senza combatter mi sconfisse con parole e mal cose ch'ella disse.—

18

E 'l papa, che la cosa tutta quanta sapeva, disse:—Non mi ti scusare. Tu m'accusasti quella donna santa, poi la volesti qui vituperare; perch'ella si difese, tu sai quanta crudeltá inverso lei volesti fare. Dio ne fe' uno miracol manifesto, e la reina non ha colpa in questo.—

19

E poi che l'ebbe molto predicato, lo 'mperadore tornò a coscienza, ed a' suoi piè, di lagrime bagnato, s'inginocchiò con molta riverenza, dicendo:—Padre, i'ho molto fallato, ond'io mi pento e cheggio penitenza.— E 'l papa l'assolvette d'ogni rio, e benedisselo e poi si partío.

20

Appresso scrisse alla donna reale in Oriente come il fatto istava. Quando ella lesse la scritta papale, fu molto lieta di ciò che contava, perché aspettava l'oste imperiale, de la qual cosa molto dubitava. Quando sua gente la novella intese, facean gran festa per tutto il paese.

21

La sera la reina di biltade suo debito richiese al suo marito. Rispuose il re:—Perché tal novitate? Non mostri sanza quel tale appetito; ché sián tant'anni stati in castitade e or mi richiedi a sí fatto partito.— Ed ella disse:—Io 'l fo, perché di noi nasca un figliuol che signoreggi poi.—

22

Udendo il re cosí buona ragione, rispuose:—Tu di' bene, al parer mio.— Giacque collei, si ch'ella ingravidòne in quella notte, come piacque a Dio. E la reina poi il fatto contòne a' suoi baron, che n'aveano disio: —D'un figliuol maschio io sono ingravidata;— onde di ciò si fe' grande armeggiata.

23

E poco istante il re si fu ammalato e in brieve si partí di questa vita. Di ciò si fe' lamento smisurato, e gran gente di brun si fu vestita; e non si vide mai corpo onorato come fu quel d'adornezza infinita. Po' che fu soppellito, di presente, l'alta reina amaestrò sua gente,

24

dicendo:—Ciascun sia come fratello, e niuno faccia ad alcun altro torto; ché a doppio punirò qual sará quello che faccia peggio perché 'l re sia morto. Non dubitate, ché signor novello so veramente ch'avrete di corto, il qual sará bilancia di giustizia.— E tutta gente n'andò con letizia.

25

Ed una ch'avea nome donna Berta, sua segretiera istata sempre mai, disse:—Reina, come se' tu certa di figliuol maschio aver, che ancor no' l'hai? Iscandal nascerá di tal proferta fra la tua gente, se femina fai!— E la reina disse:—Tu di' vero: ripara tu, che ha' 'l senno tutto intero.—

26

Appresso di dolore fu gravata l'alta reina sopra a partorire; e donna Berta savia ed insegnata celato un fanciul maschio fe' venire, e in camera con quel si fu serrata, ch'altra persona non vi pote' gire. Ed ella partorí quando gli lece: or vi dirò che donna Berta fece.

27

La donna partorí una fanciulla, che di bellezza fu maravigliosa; e donna Berta no' ne disse nulla, ma fuor l'ebbe mandata alla nascosa, e con quel maschio in collo si trastulla. Gridando, aprí la camera gioiosa: —Venite dentro, ché 'l signore è nato, piú bel figliuol che mai fosse portato.—

28

E delle donne fu la calca grande a visitar la donna lor maggiore. Quando la boce tra' baron si spande che gli era nato il lor novel signore, tutti armeggiâr con sopraveste e bande, piú volte il giorno mutando colore: e ciaschedun crede che maschio sia quel che regger dovea la signoria.

29

Levandosi del parto la reina, fece lattar quel maschio nel palagio. E donna Berta facie la fantina celatamente star senza disagio; e po', crescendo, a foggia mascolina la faceva vestire e stare ad agio; sí che maschio pareva veramente piú bel ch'altro bellissimo e piacente.

30

E quando di sett'anni fu in etade, e la reina a donna Berta disse che rimandasse il maschio in sue contrade, siccome ella ordinò che vi venisse. E poi che fatta fu suo volontade, sí che non fu persona che 'l sentisse, ed ella fe' tornare la figliuola siccome maschio, per mandarlo a scuola.

31

E disse a donna Berta:—E' ti conviene andar con questa fanciulla a Bologna, però ch'io temo ch'essa sanza tene non ricevesse biasimo o vergogna: teco non potre' stare se non bene. Prendi tesoro quanto ti bisogna, e la non dir chi sia: fálla studiare: s'io non mando per te, giá non tornare.—

32

Ed ella si partí con molto avere e vassene a Bologna quando puote. Quando fu giunta, ella volle sapere chi di scienza sape' me' le note. Fu col maestro, e disseli:—Messere, con voi vo' porre questo mio nipote, che l'amo piú che mio figliuolo assai, e qui da lui non mi partirò mai.

33

E se farete sí ched egli appari tanto che basti come voi sapete, non ne pensate d'avere denari, ch'io ve ne darò quanti vorrete; si che, se non aveste piú scolari, co' sol costui ad agio ne starete.— Disse il maestro, udendo tal sermone: —Io 'l faro savio piú che Salamone.—

34

E poi che la fanciulla fu avviata, ella imprende' ciò che vedea d'inchiostro. Se la reina n'era domandata da' suoi baroni:—Ch'è del signor nostro?— ella dicea:—Ène bene—ogni fiata, —però che studia nel servigio vostro; e spero in Dio che tornerà sí saggio, che di scienza non ará paraggio.—

35

E quando la fanciulla fu cresciuta tanto, era in etá di quindici anni, e in quel tempo suo par non fu veduta maestra di scienza sanza inganni: da tutta gente maschio era tenuta per atti, per sembianti e per li panni; e di bellezze tante in sé avea, che molte donne innamorar facea.

36

Ed in quel tempo la reina scrisse a donna Berta che s'apparecchiasse, che di Bologna in breve si partisse e come re la figliuola menasse; e d'un color cento donzei vestisse, e gente a piè ed a caval soldasse, sí che paresse bene accompagnato il re novello d'oro incoronato.

37

E donna Berta fece incontanente ciò che da quella lettera comprese: vesti donzelli e soldò molta gente, e some fe' di molto bello arnese; e da' signor de la cittá presente prese comiato, e fece allor palese che figliuol era: donde i cittadini l'accompagnâro piú che a lor confini.

38

E, cavalcando poi, ogni cittade gli fece onor quanto li convenía. La madre, che sapea per veritade la sua tornata, fece ambasceria a tutti i suoi baron di nobiltade ch'ognuno andasse a farle compagnia; onde marchesi, barvasori e conti con altra gente a caval furon pronti.

39

Poi la reina fe' per suo contado tutta la strada, dove de' passare, quaranta miglia coprir di zendado, e poi la piazza, ove dovía smontare, di drappo d'oro coprir, che di rado sí bel si vede mai adoperare. Giunto ch'è il re, la festa e l'allegrezza fu tal, che a dire mi sare' gravezza.

40

Ma, poi che 'l fu ne la sedia reale, parlamentò sí ben, che ognun da canto diceva:—Il nostro signor naturale parla per bocca di Spirito santo. E certi sián che 'l Re celestiale colla sua man l'ha fatto tutto quanto, però ch'uscito par del paradiso.— E ciascun si partí con giuoco e riso.

41

E lo re poi, per piú chiaro mostrare che 'l fosse maschio com'era tenuto, apparò di schermire e di giostrare, ed in ciascuno fu ardito e saputo. Cantar sapeva e stormenti suonare, di gran vantaggio l'arpa ed il liuto: sí che di sua virtú per ogni verso fama n'andò per tutto l'universo.

42

Ed in quel tempo avía lo 'mperadore una figliuola grande da marito; e disse al papa un dí:—Santo pastore, mia figliuola vorrebbe anello in dito; ond'io ne sto in pensiero a tutte l'ore, poi che non so chi sia di tal partito: se ne sapete alcun, che a lei si faccia, di maritarla priego che 'l vi piaccia.—

43

Sapendo il papa la magnificenza de lo re d'Oriente e sua vertute, disse a lo 'mperador la convenenza. —Questi sará di tua figlia salute: però che, s'ella ha bella appariscenza, odo ch'egli ha tutte virtú compiute: da lui 'n fuor, non so in cristianitade chi degno sia di tanta nobiltade.—

44

Lo 'mperador ne fu molto contento, e lettere fûr fatte e suggellate, e per ambasciador di valimento a lo re d'Oriente fûr mandate. E lo re l'accettò di fin talento; poi disse a que' messaggi:—Or m'aspettate;— e poi le lesse in zambra saviamente, con donna Berta e la madre presente.

45

Quando leggendo intende la scrittura, come lo 'mperador gli vuol dar moglie, non sentendosi maschio di natura, egli e la madre parean pien di doglie. E donna Berta s'impromette e giura di riparare a ciò, sed e' la toglie; dicendo:—Scusa parrebbe disdegno, onde distrutto saria questo regno.—

46

E lo re fe' chiamar l'ambasceria, e disse lor:—Signori, in veritade, che tutto 'l tempo della vita mia promesso aveva a Dio verginitade; sí che per tal cagion grave mi fia offender la divina Maestade: ma, per aver con lui perfetta pace, son per far ciò ch'allo 'mperador piace.—

47

E fece ragunar sua gente apresso, e in parlemento fe' dir l'ambasciata, e tutta la sua gente gridò ad esso: —Facciasi ciò che dice la mandata.— E, fatto nel Consiglio il compromesso, per cavalcar si fe' l'apparecchiata. Quando il re fu per mover la mattina, s'inginocchiòe e disse alla reina:

48

—Forse che piú non mi rivedi mai; ond'io ti cheggio la tua benezione.— E la reina allor mise gran guai, e cadde in terra per quella cagione. E donna Berta le disse:—Dove hai, reina, il senno e il core di lione?— E la reina disse:—Omè! non dire, ch'io veggio andar la mia figlia a morire.

49

Perch'io uccisi, donde son corrucciosa, la madre di colui che 'l mondo regge. Se il nostro re si spoglia con la sposa, e' non fia quel che 'l matrimonio legge, e se torna in palese questa cosa, ad aspra morte il condanna la legge!— Rispose donna Berta:—Non dottare, ché il re con lei qui san credo menare.—

50

E la reina allor l'ha benedetto, ed el con donna Berta fu partito, e cogli ambasciator di tale effetto, e con altri baron, che l'han seguíto. Nel terzo vi dirò come nel letto la moglie molto lusingò il marito, pognam che poco valse il lusingare. Al vostro onore Antonio fe' 'l cantare.

TERZO CANTARE

1

Io prego Iddio, che 'nfino a qui m'ha dato lo 'ngegno di rimar sí bella storia, che non guardi secondo il mio peccato, e doni grazia nella mia memoria, sí ch'io possala, come ho incominciato, a tutta buona gente far notoria; e priego voi che ciaschedun m'intenda, però che questo è 'l fior de la leggenda.

2

Signori, i' dissi nel cantar secondo come lo re si mosse d'Oriente: or mi convien seguir come giocondo a Roma giunse con tutta sua gente, che 'l non fu mai signore in questo mondo, che comparisse tanto adornamente; che tutta Roma, prima che 'l vi entrasse, dalli stormenti parea che 'ntronasse.

3

Il papa, e' cardinali, e' gran prelati e tutta baronia imperiale incontr' a quel signor ne fûro andati con allegrezze e festa generale. E, quando insieme furon iscontrati, ismontar vuole quel signor reale a piè del padre santo; ond'egli disse: —Sta' su, figliuolo!—e poscia il benedisse.

4

Entrato in Roma, tutte le persone si maraviglian della sua bellezza, dicendo:—Questi è piú bel che Assalone, ed angiol par de la divina Altezza.— E 'l santo papa seco nel menòne al suo palagio, che ne avea vaghezza; e, dismontato, sempre donna Berta vuol presso a lui, perché di senno sperta.

5

E, poi che il re si fu posato alquanto e ragionato col sommo pastore, quando fu tempo, disse al padre santo: —Andiamo a corte dello 'mperadore.— E fûrsi mossi e cavalcaron tanto, che giunti fûro al palazzo maggiore; isceson da caval, salîr la scala, lo 'mperador trovâro in su la sala.

6

E lo re corse e gitòlisi a' piede, e salutollo da parte di Dio. Lo 'mperadore, che sí bello il vede, disse:—Ben sia venuto 'l figliuol mio! Poi ch'è piaciuto al papa, sua mercede, se se' contento tu, son content'io.— Rispose il re:—Santissima Corona, io sono vostro in avere e in persona.—

7

Lo 'mperadore allor chiamò la figlia, e dimandolla se per sposo il vuole. Ella, che inver' di lui alzò le ciglia, e rilucente il vide piú che 'l sole, rispose, tutta di color vermiglia: —O padre mio, perché tante parole? poiché a voi piace, ed io ne son contenta. Ma lo 'ndugiare è quel che mi tormenta.—

8

Il padre tenne il dito a la donzella, presente molti re, conti e marchesi; e lo re la sposò con cinque anella piú rilucenti che carboni accesi, e valean piú di quindici castella, de le miglior di tutti que' paesi; e se ne fece festa in tutta Roma, tal che per tutto il mondo ancor si noma.

9

El papa fu partito di presente, da poi che vide la donna sposata. Il nuovo sposo poi celatamente madonna Berta a sé ebbe chiamata; e' ragionò della sera vegnente, dicendo:—Poi che qui sono arrivata, come farò con quella, che nel letto stasera aspetta aver di me diletto?—

10

Ed ella disse:—Quando se' alle prese, lussuria spregia, loda virgin'tade; il matrimonio, di', fatt'hai palese per non aver col padre nimistade; forma di maschio mostri in tuo paese, per me' signoreggiar le tue contrade. E sappi tanto dir, che la converta teco a tener virginità coperta.—

11

La sera, poi che 'l re ebbe cenato, le donne sí 'l pigliâro senza posa; l'ebber di peso in camera portato, dove aspettava con desio la sposa. E poi che dentro fu con lei serrato, ed ella disse alquanto vergognosa: —Spogliatevi, messer, ché vi posiate prima che a noi le donne sian tornate.—

12

E lo re disse:—Va' inanzi a dormire, però ch'a Dio vo' fare orazione.— E poi s'inginocchiò e prese a dire: —O Signor mio,—con gran divozione,— poi che per questo mi convien morire, alla mia gente campa le persone: poi ch'io virginitade t'ho servata, l'anima mia ti sia raccomandata.—

13

E poi, tremando tutto di paura, da l'altra parte si fu coricato. E quand'ella fu assai stata alla dura, disse:—Messer, molto avete fallato. Per tener questi modi non si giura il matrimonio, da Dio comandato anzi per generare e far figliuoli.— E 'l re piangendo disse con gran duoli:

14

—Tu se' figliuola peggio maritata che niun'altra che nel mondo sia; ed io sono colei che t'ho ingannata, come udirai contra la voglia mia.— E tutta la novella ebbe contata, piangendo fortemente tuttavia, e disse:—Come tu, femina sono; di morte degna son, cheggio perdono.—

15

Appresso disse come donna Berta gli avea insegnato con la mente greve; e la fanciulla, per esserne certa (ché non credeva al suo detto di leve), tutta dal capo al pié l'ebbe scoperta, che parea pure una massa di neve; e poi li disse, quando ben l'addocchia: —Non pianger piú, ch'io ti sarò sirocchia.—

16

E insieme si promison d'osservare virginità, mostrandosi contente, e cotal cosa non manifestare in tutta la lor vita ad uom vivente: poi s'abbracciáro in poco dimorare. E ne la zambra ritornò la gente, la qual danzando era gita intorno; sí che levârsi, ch'era presso 'l giorno.

17

Lo 'mperador la figlia ebbe chiamata, perché la vide cosí lieta in viso, e disse:—Figlia, come se' tu stata?— Ed ella disse:—Me' che 'n paradiso.— E similmente a chi l'ha domandata, a tutti dicea:—Bene, per mio avviso.—E cosí dicíe 'l re, c'ha senno assai: —I' son contento piú ch'i' fossi mai.—

18

E, poi che donna Berta ebbe sentito la mattina dal re la veritade, disse:—Pognam che l'abbi convertita, in femina non è stabilitade; sí che facián di qui tosto partita.— Ed e' rispose:—Apparrebbe viltade!— Ed ella disse:—Io farò la bisogna per modo tal, che non ci sia vergogna.—

19

E fe' fare una lettera, mostrando che la mandassi la vecchia reina, ne la qual contenea, breve parlando: "Sappi, figliuol, che la mia vita fina. Da poi che mi lassasti sospirando, non posai mai né sera né mattina: però, se metti di mia vita cura, fa' che ti mova, letta la scrittura".

20

E, quando il re fu posto a desinare, la lettera gli fu appresentata. Leggendo, incominciò a lagrimare; onde tutta la corte fu turbata, e presto fu levato da mangiare. Ed allo 'mperador l'ebbe portata, dicendo:—E' mi convien partir da voi.— Egli la lesse, e risposeli poi:

21

—Tu hai cagion, ch'io non sarei colui che ti volessi tenere qui a bada; va' tosto, muovi, e la cagione altrui non dir perché, né dove tu ti vada.— Disse la sposa:—Io voglio ire collui.— Ed el rispose:—Fa' ciò che t'aggrada.— E féllo accompagnar da molta gente. E 'l re la ne menò in Oriente.

22

E, trovando la madre fresca e sana, fe' dimostrar come fosse guerita. Per lo tornar del re, l'alta sovrana un anno tenne o piú corte bandita. Quando n'andò la baronia romana fe' lor ta' doni, sí ch'alla reddíta a lo 'mperador disser:—Signor nostro, signor del mondo pare il gener vostro.—

23

E, quando donna Berta ebbe ridetto a la reina come 'l fatto era ito, molto si contentò, poiché 'l diffetto del re non era per altrui sentito. La sposa avea col re maggior diletto ch'al mondo avesse mai moglie e marito; e 'l padre suo n'avea lettere assai, ch'ella si contentava piú che mai.

24

Poi che due anni inseme fûro state, amandosi l'un l'altro d'amor fino, per lo gran caldo avvenne un dí di state, ch'ell'erano spogliate in un giardino. E donna Berta le trovò abbracciate, e riprendéle per aspro latino; ed elle disser:—Vanne, vecchiarella, ché non cape tra noi piú tua novella.—

25

E donna Berta allor, molto adirata, fra suo cor disse:—Io ne farò vendetta.— Subitamente a caval fu montata, ed a Roma n'andò con molta fretta, ed allo 'mperador fu appresentata, e tutta la novella gli ebbe detta, dicendo:—La tua figlia è ancor pulcella, e femina è lo sposo sí com'ella.—

26

Ed el rispose:—Io mi maraviglio ch'ella abbia avuta in sé tanta malizia!— Di ciò prese co' savi suoi consiglio, i quali, accesi tutti di nequizia, dissero ognuno:—Gli si dia di piglio, poi se ne faccia un'aspra giustizia.— Disse il signor:—Se questo fia palese, condanno al fuoco lui e 'l suo paese.—

27

Appresso scrisse, come savio e dotto, a la figliuola ed allo re d'Oriente, che, veduta la lettera, di botto il visitasser, ché sta gravemente. A la figliuola e al re non parve motto, e montâro a caval subitamente con molta gente, e tanto cavalcâro, ch'a la cittá di Roma si trovâro.

28

Lo 'mperadore fe' di lor venuta festa e gioia, mostrandosi guarito: poi domandò la figliuola saputa s'egli era maschio o femina il marito. Ed ella sí fu allor molt'aveduta, e disse:—Padre mio, egli è fornito di ciò che a vero sposo si richiede.— Ed el per tutto questo nolle crede.

29

Ed ordinò d'andar fuori a cacciare e di menar la figlia e 'l suo compagno, e disse a' servi:—Fate ch'al tornare per loro in sala fatto truovi un bagno.— E questo fe' per vederlo ispogliare, mostrando a lui di farli onore magno. Poi cavalcò, e il re siguí la traccia, non sapendo perché facea la caccia.

30

Disse un, ch'andando li si accostò allato: —Lo 'mperador vuol far la cotal prova, ed havvi ad aspra morte condannato, se natura di femina vi trova. —S'io fussi a piè, il t'averei mostrato!— rispose il re,—ma di questo mi giova.— E con letizia aspettò il convenente: poi si partí da lui cortesemente.

31

Cacciando poi per una selva scura, el re andava pur acqua cercando per affogarsi, per la gran paura ch'avea d'essere giunto in cotal bando. Non trovand'acqua in quella valle dura, iscese, non potendo ir cavalcando; e, poi da sé 'l cavallo ebbe cacciato, fussi nascoso in quel chiuso burrato.

32

Piangendo poi ficcò in terra la spada, e diceva, adorando a quella croce: —Poi che di tôrmi la vita t'aggrada, pregoti Cristo con pietosa voce che la mi togli qui, sí ch'io non vada a morte sofferir tanto feroce.— In quella venne un cervio per la valle, bussando colle corna e colle spalle.

33

Giugnendo il cerbio inanzi a lui, soggiorna. Il re teme che fosser cavalieri; ed apparigli un angiol fra le corna, dicendo:—O re, non ti dar piú pensieri: arditamente alla cittá ritorna, e colla sposa fa' ciò ch'è mestieri, ché tu se' maschio per grazia di Dio, ed hai ciò che bisogna;—e poi sparío.

34

E 'l re pose la mano a sua natura, com'ebbe inteso l'angiol prestamente, e ritrovossi sí fatta misura, che comparir poteva arditamente. Di che molto nel cor si rassicura, e cominciò a cantar divotamente: — Te Deum laudamus ;—e, poi si fu armato, partissi da quel luogo ov'era stato.

35

Lo 'mperador, che noi trova la sera, a Roma fe' bandir senza dimoro che 'l si cercasse con gran luminera per quella selva, la notte, ogni foro; e chi 'l trovasse in alcuna maniera, da corte arebbe poi mille once d'oro; sí che gran gente la selva cercava, e la sua sposa, che piangendo andava.

36

E quando venne sú l'alba del giorno, cercando per la selva, ebber udito cantar quel salmo, ch'è cotanto adorno, in quel vallon, che ancor non era uscito. Per quella voce andâr tanto dintorno, che ritrovâro il re, ch'era smarrito. Se la moglie fu lieta in su quel tratto, ben sarà piú com'ella saprà il fatto.

37

E come il re fu montato a cavallo, e la novella a Roma inanzi gía, com'el tornava piú chiar che cristallo con la sua sposa e con la baronia, lo 'mperadore spera senza fallo farlo morir, se quel che crede sia, e come giunse quel signor sovrano, lo 'mperador li disse a mano a mano:

38

—Perché ti déi sentir alcuna doglia, non ti vo' dimandar, se non ti posi; ma di presente in quel bagno ti spoglia, che v'è unguenti molto preziosi. Spogliossi il re, che n'aveva gran voglia, per far le donne e quei baron gioiosi, e mostrò lor sí bella masserizia, che tutta gente si ne fe' letizia.

39

Lo imperador, di voluntate acceso, la gente caccia e poi al re dicía: —Dove andastú?—Ed ei disse:—I' fu preso nella foresta d'Enoc ed Elia, che con certi altri mi portâr di peso dove si sta con gioia tuttavia: ciò fu nel paradiso luziano, dov'era Salamone allegro e sano,

40

el qual mi disse ch'a voi era detto ch'io femina era, e non disse da cui. Sí ch'io lassai quel loco benedetto, per trar d'errore voi ed anche altrui; e quei, che mi portâro, con effetto mi puoser là dov'i' trovato fui.— Disse lo 'mperador:—Lasciamo andare: tu m'hai contento; vatti a riposare.—

41

E la mogliere soffería gran pena del gran disio di trovarlosi in braccio, perché di prima sapeva la mena, e non sapeva poi il suo procaccio, presel per mano e in camera si 'l mena, dicendo:—Amore, andiamci a letto avaccio!— Poi fêr nel letto l'amorosa danza, come tra moglie e marito è l'usanza.

42

Poi ch'ell'ebbe assaggiato quell'uccello, disse:—Amor mio, onde avestú questo?— Ed e' rispuose:—L'angiol Gabriello, come Dio volle, me 'l fe' manifesto. Non maraviglia s'egli è buono e bello— dissele,—se dal ciel venne sí presto. E lo re disse:—Vorrei ch'al presente tornassimo a mia madre in Oriente.—

43

Ed ella fu contenta, e 'l giorno poi disse allo 'mperadore il suo disio: —Concedi, padre, in quanto non ti nòi, ch'i mi diparta col marito mio.— Ed ei rispose:—Quando piaccia a voi, andate con la benezion di Dio.— Ond'ei s'apparecchiâro di vantaggio e dipartirsi con gran baronaggio.

44

Ed una, ch'era la maggior reina che in que' paesi allor fussi trovata, chiamata era la Donna della Spina, s'era al bagnar del re innamorata, e pensò di pigliarlo se 'l camina; ond'ella molta gente ha ragunata alla sua ròcca donde dovea gire. Quando fu giunto ed ella gli fe' dire:

45

—Il signor d'esta ròcca m'ha mandato, che parlar vi vorrebbe, se 'l vi lece.— Ed e' rispuose:—Sono apparecchiato.— Uscí di schiera e contro le si fece. Ed ella, come cavalieri armato, andò ver' lui ben con piú di diece: ché n'avea seco ben dieci migliaia; il re se' mila e cinque centinaia.

46

Com'ella giunse ed ella a lui, il prese per man, dicendo:—Venite a posare. —Perdonami, messer, che in mio paese— rispose il re—ho fretta di tornare.— Ed ella, ragionando alla cortese, ad arte il fe' alla ròcca appressare. Quando si vidde da sua gente forte, si 'l mise dentro e poi serrò le porte.

47

Poi disarmata, disse:—Quando ignudo bagnar vi vidi, fu' presa d'amore; onde vo' che vi piaccia, caro drudo, ch'io sia la donna e voi siate il signore.— Ed e' rispose con aspetto crudo: —Ogni pensier te ne leva del core; ch'i'sofferrei innanzi d'esser morto che fare alla mia donna sí gran torto.—

48

E la falsa reina gli die' bere un beveraggio, ond'el fu addormentato. Poi comandò alle sue camerere che ignudo fusse subito spogliato. E messo in letto e fatto il suo volere, ed ella allor vi si coricò a lato: poi l'abbracciò e con suo argomento el fe' destar d'amoroso talento.

49

E lo re, desto, le baciò la bocca e fe' piú volte la danza amorosa, conciosiacosaché ognor che la tocca, esser si crede con la vera sposa. Poi che in prigion si vede nella ròcca, forte piangendo, non trova mai posa, né parole el confortan né vivande, e fuor della ròcca era il pianto grande.

50

La ròcca era sí forte, che battaglia da niuna parte vi si potea dare. Signor, pensate se briga e travaglia quella donn'ebbe al marito ad acquistare. Intendo dirvi nell'altro cantare come vi pose l'oste di gran vaglia e come vendicò sí fatto scherzo. Antonio al vostro onor finito ha il terzo.

QUARTO CANTARE

1

Benché pe' templi i' t'abbia, Signor mio, tanto pregato, ch'io me ne vergogno, ancor ti prego, onnipotente Dio, che mi soccorra, ch'i' n'ho gran bisogno; si ch'io possa fornire el mio disio della presente storia, ove 'l cor pogno, e dammi grazia ch'io dica sí bene, che piaccia a chi per ascoltarmi vene.

2

Io vi contai, signori e buona gente, siccome nella ròcca della Spina menato preso fu 'l re d'Oriente da quella potentissima reina. Or vi dirò siccome fu valente la moglie, che di fuor campò tapina, ch'a la madre del re scrisse il tenore, e per gente mandò allo 'mperadore.

3

Quando lo 'mperador vide l'oltraggio che la figliuola aveva ricevuto, tre legioni di franco baronaggio mandò subitamente in suo aiuto, diecimilia pedoni di vantaggio con un buon capitan molto saputo, il qual cerchiò la ròcca atorno atorno e non se ne partía notte né giorno.

4

Quando la donna d'Oriente intese che a quella ròcca preso era 'l figliuolo, a tutta gente debb'esser palese se la sentí nel cor letizia o duolo. Poi che fornita fu di quello arnese che bisognava, menò grande stuolo di gente seco, e tanto cavalcòne, che giunse ove el figliuolo era in prigione.

5

E domandò come gli era fornita la ròcca, ch'esser forte dimostrava. Fulle risposto:—Ell'è sí ben guernita, che tutto 'l mondo non cura una fava.— E la reina saputa ed ardita da piú parte d'intorno ordinò cava; e fu la prima che mai si facesse a terra, che per cave s'arrendesse.

6

Tre mesi e piú fatt'era giá l'assedio, quando le cave giungono alle mura; poi che tagliato fu 'l forte risedio, fe' dare una battaglia forte dura; e per la cava intrâr, sicché rimedio non ebbon contro alla gente sicura: sí che la ròcca co' lo re acquistorno, e molti prigionieri ne menorno.

7

Tornossi a Roma la gente romana, di che a lo 'mperador fu gran dolcezza: la figlia, il re con sua madre sovrana, in Oriente andar con allegrezza. E quella donna, che fu si villana, si fêro incarcerar con molta asprezza, e incatenar con molti suo' baroni, che della ròcca menarno prigioni.

8

Poi la reina vecchia ebbe chiamato il suo figliuolo, e poi si fe' mostrare s'egli era vero quel gli era contato che avessi quell'uccel da pizzicare. E, poi che l'ebbe il suo cuore appagato, una gran festa si fe' apparecchiare di giostra e d'armeggiare e di schermire, e molti gran signor vi fe' venire.

9

Perché tal festa era cotanta magna, de' carcerati non era menzione. La donna un dí col suo guardian si lagna, e d'un servigio umilmente il pregòne. —Ciò che vi piace ed a vostra compagna— rispose,—fuor che trarvi di prigione.— Diss'ella:—Un guanto in piazza alto m'appicca, e poi mi sappi dir chi lo ne spicca.—

10

La guardia poi la mattina per mancia fe' suo volere, e poi guardò da canto. Giungendo in piazza, disse il re di Francia: —Battaglia dimandar si de' quel guanto.— Appresso corse e spiccòl dalla lancia, poselsi in capo dicendo:—Io mi vanto di questo guanto osservar la proposta.— La guardia tornò e disse la risposta.

11

Ed ella tosto scrisse a quel signore, dicendo: "La reina Galatea è 'ncarcerata per colpa d'amore, come se fossi pessima giudea. Onde ti priego col tuo gran valore di trarmi di prigion cotanto rea; che tu 'l de' far, però che 'l promettesti, quando di piazza il mio guanto prendesti".

12

E, ricevuta la lettera e letta, la pose in mano a lo re d'Oriente. Ed el si scusa e po' co' molta fretta liberò lei con tutta la sua gente: perché, sappiate, s'ella era soletta, secento cavalieri avea presente, e' quali ebbon ogni loro arnese, e gli altri suoi morìro alle difese.

13

E, quando ella si vide liberata, rendéne grazie a cui si convenia, e di presente sí si fu avviata al torniamento de la baronia. Poi corse ad uno albergo e fussi armata con arme travisate, ch'ell'avía, ed a ferir nel torniamento andava, iscavalcando quanti ne trovava.

14

Dando e togliendo, quel dí fu mestieri che rimanesse a lei quel campo adorno; ciascun dicía:—Chi è quel cavalieri c'ha fatto sí ben d'arme in questo giorno?— E molti, per uscirne di pensieri, quando si disarmò, furonle intorno, e quattro re di lei innamorâro, i qual per astio a morte si sfidâro.

15

E, quando questo pervenne a l'orecchia de lo re d'Oriente, la mattina disse alla madre:—D'arme s'apparecchia tutta la gente per questa reina.— Rispose allora la reina vecchia: —Che s'accomiati questa paterina; e questi signor poi si partiranno: s'ella qui sta, ci potrebb'esser danno.—

16

Poi li mandò a dir ch'ella venisse al palagio del re sanza fallire. Andò 'l messaggio, ritornò e disse: —La donna dice che non vuol venire.— E la reina allora maladisse chi l'avea fatta di prigione uscire; e poi co' re si mosse in su la sera, ed andò fino a lei, dove la era.

17

E disse:—Donna, per lo tuo migliore, pártiti quinci e vanne alla tua via: io non potre' raffrenar il furore che ti vien contro della gente mia.— Rispose quella donna traditore: —Di grazia v'addimando in cortesia che mi scorgiate fin fuor della porta, sí ch'io non sia da vostra gente morta.—

18

E lo re disse:—Molto volentieri, quanto bisogna, ne verrem con teco.— Disse la madre:—Io vo' piú cavalieri, ché 'l re n'ha qui forse dugento seco.— Rispose quella:—Non mi fa mestieri, che n'ho secento ben armati meco.— E la reina e 'l re sanza paura l'accompagnaron fuori delle mura.

19

E quando dilungati für due miglia, e la reina allor prese comiato; e quella donna in persona la piglia, com'ella avea con sua gente ordinato. E 'l re con la reina e lor famiglia fûr presi e tolto lor l'arme da lato. E tanto va, che nel suo paese entra, in una terra chiamata Valentra.

20

E tutta quella gente incatenata subitamente sí fa incarcerare, e disse al re:—Quando fu' innamorata, ti presi per tenerti a solazzare, e nella ròcca mia fui assediata, e poi sa' quel che mi facesti fare. Sí ch'io farò di te aspra vendetta, or ch'io non son dell'amor tuo costretta.—

21

E la sposa del re, non ritrovando il re né la reina per le strade, a' forestier mandò di botto il bando che subito sgombrassin la cittade. Onde, per ubbidir il suo comando, ciascun si ritornò in sue contrade: sentendo poi che il re non si sapea, per tutto l'Oriente si piangeva.

22

E lo re, ch'è in pregion sanza conforto, volendo scrivere allo 'mperadore, disse la guardia:—Messere, egli è morto, e tutta Roma è ad arme in grand'errore.— E lo re, come savio e molt'accorto, scrisse alla donna sua tutto il tenore, sí come e dov'egli era imprigionato, ed un corrier segreto ebbe mandato.

23

Come la donna sua sentí l'effetto, non potre' dir com'ella fu dolente, e fe' venir di tutto il suo distretto a piè ed a caval di molta gente, e con molti baron sanza difetto, mastri di guerra, mosse incontanente; e tanto cavalcò per tal partito, che giunse ov'era 'n prigione il marito.

24

E la cittá con la sua gente serra, sí che non vi può né entrare né uscire; e sei mesi vi fece sí gran guerra, che i cittadin, che non potêr soffrire, aprir le porte e diedero la terra; e la sposa del re, piena d'ardire, liberò la sua gente, e poi ne mena presa colei che gli ha tenuti in pena.

25

E, passando una selva molt'alpestra, e quella donna falsa e frodolente, sí come d'arte magica maestra, un fuoco fe' venir subitamente, ch'ardea la selva a sinistra ed a destra; onde color temeano fortemente, e disser:—Poi che non possiam passare, torniamo a dietro e passerén per mare.—

26

E, quando giunti furono alla riva, e quella donna, che campar s'ingegna, fe' che per mar l'esercito veniva, ed ogni legno avea di Roma insegna. Un messaggier, che dinanzi appariva, a lo re d'Oriente si rassegna, dicendo:—I roman vegnon per difesa di questa donna che menate presa.—

27

E lo re sopra a ciò prese consiglio, e la reina cominciò a parlare: —Da poi che Dio n'ha tratti di periglio, a me parrebbe di lasciarla andare.— Mandarla via, e poi non giro un miglio, che quel navilio tutto quanto spare: allor s'avvidde il re del convenente, e tornòne co' suoi in Oriente.

28

E, giunto a casa, il re fece bandire per tutto 'l suo con gran comandamento, che ciascun gisse alla corte ad udire il re, che far voleva parlamento. E, quando fûr venuti, prese a dire, tutto dal fine allo 'ncominciamento, gl'inganni e 'l tradimento che gli avea fatti quella regina Galatea.

29

Quando la gente suo detto riguarda, gridaron tutti ad una voce, forte: —Mandisi l'oste di gente gagliarda, che con vittoria tornino alla corte! Tutta sua terra si disfaccia ed arda, e diasi a lei co' suo' seguaci morte!— Il re gli ringraziò delle proposte, e di presente fégli bandir l'oste.

30

E quando fue tale novella nota a quella, come l'oste era bandita, perché di Macometto era divota, subitamente a Roma ne fu ita, e inginocchiossi a piè della sua rota, dicendo:—Se tua forza non m'aita, dallo re d'Oriente, che mi sprona, ch'i' son per perdere avere e persona,

31

dappoi che'l m'ha bandita l'oste addosso: ond'io ti priego che in mia difensione, poi ch'io da lui difender non mi posso, mandi un de' tuo' baron per mio campione.— Rispose Macometto:—Gli è giá mosso quel de la sinagoga, Ronciglione, di cui temerá tanto il re co' suoi, che 'l non s'impaccerá de' fatti tuoi.

32

Ed ella si partío lietamente, poi ebbe Macometto ringraziato; e quel dimonio giunse in Oriente, ch'agevol cosa gli era esserv'andato. Perché sappiate di suo convenente, i' vi dirò com'egli era adobbato: forma avea di giogante, sua grandezza quindici braccia e quattro di grossezza,

33

ed era tutto ner come carbone, gli occhi avea rossi come foco ardenti. E cavalcava un orribil roncione, sei braccia grosso e lungo piú di venti. Quattro leon legati avie a l'arcione, e un'anca, di dolor, mordea co' denti semila porci all'intorno, con zanne fuor della bocca piú di quattro spanne.

34

E come fu nella cittá reale, e que' porci si sparser per la terra, la gente fuggía su per le scale, e per paura in zambra ognun si serra; e' porci divoravan per le sale ciò che trovavan, se 'l libro non erra. Uomini e donne erano sbigottiti, e molti per temenza son fuggiti.

35

Giugnendo in piazza l'orribil giogante, lá dove molta gente armata avea, perché egli avea sí feroce sembiante, sbigottiva chiunque lo vedea. Giudicandosi morto, il re davante gli venne e dimandòl quel che volea; ed e' rispose:—Io sono un de' Balbani di Macometto, iddio degli romani,

36

el qual dalla sua parte ti comando, e del popol di Roma che m'aspetta, che d'una, contro a cui mandato hai bando, piú non t'impacci, ch'è nostra diletta; conciosiacosach'io ne fare', quando facessi contra a ciò, aspra vendetta; e s' tu andassi ad oste a sua cittade, non torneresti mai in tuo' contrade.—

37

El re, che vede sua gente smarrita, perché si parta subito, rispuose, dicendo:—Va', che 'n tempo di mia vita non m'impaccerò piú di queste cose. Ma fa' che tosto sia la tua partita, ché molte gente fai star paurose.— Egli rispose:—Innanzi ch'io mi parta, io ne vorrò miglior pegno che carta.—

38

Veggendo la reina dal balcone quel dimonio parlar sí aspramente, di botto fu gittata in orazione, dicendo:—Iddio, come veracemente liberasti da man di Faraone quel Moisé col popol tuo servente, ben ch'io no' ne sia degna come lui, libera noi dalle man di costui.—

39

E, detta l'orazion, l'agnol di Dio gli apparve e disse:—Non aver temenza, ché 'l venir di costui, ch'è tanto rio, permesso fue per molta altrui fallenza. Ma, se tu vuoi vedere il tuo disio, va' francamente nella sua presenza, dicendo: " Verbum caro factum este ", e vederai sue forze manifeste.—

40

Poiché partito fu l'agnol veloce, e la reina, come gli avea detto, si fece in fronte il segno della croce, ed andonne al vicar di Macometto. E, come giunse a lui, ad alta boce: — Verbum caro —gridò; e 'l maladetto con sua gente sparí immantenente, lasciando un corpo molto puzzolente.

41

Come fu dileguato Ronciglione co' porci, che l'andavan seguitando, cominciâro a uscir fuora le persone, ch'eran fuggite prima spaventando. E' sacerdoti con gran divozione andavan per la terra predicando, dicendo:—Immaginate che governo den' far costor dell'anime d'inferno.

42

E immaginate che mille cotanti son piú feroci gli altri che vi stanno! E sempre stride e dolorosi pianti fanno color che a quelle pene vanno. Desiderate udire e' dolci canti che 'n paradiso e' santi angioli fanno: ma chi qui de' peccati non si pente, non puote andar fra sí beata gente.—

43

E lo re d'ogni ingiuria rendé pace, e per pietá la volle aver sofferta, e ribandí colei che fu fallace contro lui molto, ciò fu donna Berta, ch'era gran tempo stata contumace, dovendo della vita esser diserta; la qual, pentuta de li suo' peccata, fe' poi tal vita ch'ella fue beata.

44

Tutta la gente s'era convertita, battendosi con molta reverenza; e la reina e 'l re tutta lor vita al mondo fêr sí aspra penitenza, che poi, al tempo della lor finita, in vita eterna andâr con pazienza. Alla qual ci conduca il Salvatore. Antonio Pucci il fece al vostro onore

XI

MADONNA ELENA

1

Cavalieri e donzelli e mercatanti, per cortesia venitemi ascoltare: ch'io credo ben che Dio con tutti i santi m'ha dato grazia di saper trovare; e voi, signor, traetevi davanti, ed io vi canterò un bel cantare, e si dirò d'Eléna imperadrice che fu piú bella che 'l cantar non dice.

2

Elena fu di molto gran barnaggio e di Nerbona, la nobil cittade: e d'Amerigo fu lo suo legnaggio che mantenea gran nobilitade; Arnaldo di Gironda, prode e saggio, figliuol fu d'Amerigo, in veritade, e questo Arnaldo prese per mogliere una figliuola d'un pro' cavaliere.

3

Co' questa donna Arnaldo mantenea dentro in Gironda la nobil cittade: e l'un de l'altro figliuol non avea, e non potea la donna ingravidare. Come a Dio piacque ed a santa Maria, la donna un giorno si prende a parlare, disse:—Arnaldo, son grossa per ragione; avrem figliuoi, se piaccia al Creatore.—

4

Donne e donzelle ed ogni cavaliere, tutta la corte di quel si ragiona: Arnaldo di Gironda, il pro' guerriere, cogli altri cavalier ne fa gran gioia: poi venne il tempo che la sua mogliere li parturí, senza nessuna noia, ed in nel parto fece una fantina, che fu piú bella che rosa di spina.

5

Le balie immantenenti le fûr pòrte che la fantina dovesson servire. Arnaldo di Gironda e la sua corte cogli altri cavalier sí prende a dire: —Come avrá nome la fantina forte?— e ciascun dice:—Fatela venire.— La fantina davanti fu arecata, e ciascun dice:—Eléna sia chiamata.—

6

Arnaldo di Gironda, il pro' guerriere, poi che la figlia fu da maritare, la mandò a Carlomagno, lo 'mperiere, che ne facesse la sua volontade: Carlo la die' a un prode cavaliere che di Parigi era podestade: da Mompolier fu il cavalier pregiato, messer Ruggieri per nome chiamato.

7

La roba, ch'ebe in dote la fantina, si fu Gironda, la nobil cittade; Arnaldo andò a star presso a la marina ad una terra piena di bontade. Rugier duo figli ha de la bella Eléna, che riluceano molto in veritade; l'uno ebe nome Arnaldo del cor fino, e, per Gironda, l'altro, Girondino.

8

Elena fu sí bella creatura, sigondo che racconta la leggenda, di lei s'innamorava ogni persona, quando vedean la sua figura bella. Un cavalier, malvagio oltra misura, si inamorò de la gentil pulzella: ma non ne potea avere alcuno amore; ond'e' pensò una gran tradizione.

9

Alla stagione del mese di maggio, che aparono le rose a ogni verziere, e gli uccelletti cantan di coraggio e fanno i dolci versi per amore, donzelli e cavalier di gran barnaggio stavan dinanzi a Carlo imperadore, e a ciascun fu mestier che si vantasse, poi conveniva che 'l vanto provasse.

10

Chi si vantava di bella moglieri, qual si vantava di bella sorella, d'aver bell'arme e correnti destrieri, o ricco di cittade e di castella, d'astòr o bracchi o correnti levrieri, o per amica aver bella donzella; e chi si vanta d'oro e d'ariento, e chi d'esser prod'uomo in torniamento.

11

Messer Ruggieri, ch'era prode e saggio, dinanzi a Carlo si fu in piè levato: —Santa Corona, intendi il mio coraggio, sí ch'io mi vanti, ch'io non son vantato: da poi che tutto lo tuo baronaggio davanti al tuo conspetto ha favellato, ed io mi vanto, avanti a voi, messere, e sí diragio tutto il mio volere.—

12

Messer Ruggieri sí si fu voltato avanti a tutta l'altra baronia: —Da poi che ciascheduno si è vantato, ed io mi vanto della donna mia; e chi cercasse il mondo in ogni lato, piú bella donna non si troveria: e questo dico, ch'io il posso provare, se ci ha nessun che il voglia contrastare.

13

Da poi che ciaschedun si fu vantato, ed ognuno ebe detto il suo volere, tostamente Carlo ebbe comandato che 'nmantenente venisse da bere: e 'l suo comandamento fu osservato. Molti donzei si levan da sedere: nappi d'argento e coppe d'oro fino: se non mente il cantar, fu vernaccino.

14

Quivi avea gente di molti paesi, di strane parte e da lunge cittade, e degli avari e ancora de' cortesi; con una coppa di gran degnitade, ha mercatanti, ha signori e ha borghesi. E Carlo bebbe a la sua volontade, e poi la diede a messer Ruggieri; di mano in mano, a' maggior cavalieri.

15

Messer Ruggier la prende volentieri, e sí ne beve a tutto il suo piacere; e Carlo disse:—Gentil cavalieri, che di tua donna se' aúto a vantare, tu se' sí bello, che, se tua moglieri è come te, tu ti puo' contentare!— Messer Ruggier disse:—Santa Corona, egli è vostro l'avere e la persona.—

16

Un cavalier ch'avea nome Guernieri, che d'oltralmare fu nato e creato, come malvagio e falso cavalieri, davanti a Carlo in piè si fu levato, e sí parlò, e disse e' suoi pensieri del tradimento ch'egli ha ordinato: —Santa Corona, un prego ti vo' fare: che mi deggiate mie' dire ascoltare.—

17

Imantenente sí disse Guernieri: —Messer, questo mi par gran falimento; la Tua Corona noi dovria sofrire di quel c'ha fatto Ruggier parlamento: ché la sua donna io aggio a' mio voleri, e si n' ho aúto tutto il mio talento: omo, che da sua donna è scocozzato, ha a ber con coppa di re incoronato?—

18

Ed a messer Ruggier non parve giuoco, e disseli:—Guernier d'oltre lo mare, dicilo tu per ira over per giuoco, od è il vin che sí ti fa parlare? ché non è cavalieri in questo loco, che tai parole facessi stornare. De la battaglia te ne darò il guanto: perde la testa chi non prova il vanto.—

19

Messer Guarnier malvagio e sconoscente, ched era usato sempre di mal dire, disse a Ruggieri:—Io saccio certamente piú bella donna non si può vedere: però mi vanto e dico infra la gente, ch'io vi aggio aúto tutto il mio volere, e sí la posso avere a mia richiesta: se non è vero, io vo' perder la testa.—

20

E Carlo disse allor sanza timore: —Questa battaglia si vuole acconciare, e chi non prova il vanto per ragione, inmantenente io lo farò pigliare e, senza metterlo in altra prigione, subitamente il farò dicapare: domenica sarete a la battaglia, e chi la perde ará briga e travaglia.—

21

Guarnier li disse:—Corona di Franza, sanza battaglia lo credo provare, e senza colpo di spada o di lanza a lui medesmo il farò confessare. Donami tempo ch'io vada a mia 'manza: con esso lei mi credo sollazzare; e recherò sua gioia e lo veletto per mantener in piè ciò ch'io t'ho detto.—

22

E Carlo disse:—Dammi pagatore di ritornar, da poi che se' vantato.— Messer Guernier non trova malvadore; tre suoi figliuoli stadichi ha lassato. E Carlo disse:—Va' sanza timore: di qui a un mese sia qui ritornato: va' e ritorna senza dimorare; se no e' fantini farò dicollare.—

23

Messer Guarnier cavalca per la via, e 'n fra se stesso dice:—I' ho mal fatto!— Piangendo disse a la sua compagnia: —Di questa guerra io rimaragio matto: volesse Iddio con santa Maria ch'io ne potessi avere triegua o patto!— E, lagrimando, cavalcò in Gironda con piú sospiri ch'el mar non ha onda.

24

Messer Guarnier disse a sua compagnia: —Gentil signori, che vi par di fare? Ciascun sí s'armi, e venga a guisa mia dentro a la terra, ch'io voglio armeggiare.— E ciascun dice:—Sire, in fede mia, tutti faremo la tua volontade.— Tre giorni hanno armeggiato entro la terra 'ntorno al palazzo di Elena bella.

25

Tre giorni stanno intorno a quel palazzo ove dimora Elena imperiale, e sí vi fanno gran gioia e solazzo de l'armeggiar, ch'e' n'è condutto a tale, che n'era divenuto quasi pazzo: per nessun modo non le può parlare. Si fece un giorno ad una fenestrella una cameriera d'Elena bella.

26

La donna disse:—O bel cavaliere, per cui amore andate voi armeggiando?— Messer Guarnier ritenne il suo destriere; piangendo le rispuose e lagrimando: —Gentil madonna, tu mi fai mestiere anzi ch'io mora o ch'io caggi nel bando di Carlo magno, che m'ha diffidato, per un gran vanto ch'io mi son vantato.—

27

La donna disse:—Dimmi, per tuo onore, per che cagion, messer, ti se' vantato? —Madonna, io vel dirò senza temore, dapoi che me ne avete adomandato: davanti a Carlo, ch'è nostro signore, or odite di che mi son vantato: sí mi vantai d'avere Elena bella, ch'è piú lucente che non è la stella.—

28

Ed ella disse:—Cavalier, va' via; ben lo sa Dio ch'io non ti posso atare, ché ben facesti mattezza e follia quando d'Eléna t'avesti a vantare; che chi cercasse Francia e Lombardia, piú onesta donna non poríe trovare; ben credo che la morte ti ci mena, quando t'avesti a vantare d'Eléna.—

29

Guarnier le disse:—Non mi abandonare,. aggi pietá di questo cavaliere, ch'io t'imprometto, se mi vòi atare, ched io ti sposerò per mia mogliere; e venga il Libro, ch'io tel vo' giurare: ciò ch'io prometto ti voglio atenere. Se d'Elena mi dái alcuna gioia, tu mi puoi dar la vita e tôr di noia.—

30

La donna disse:—Per le tue bellezze di te m'incresce e piglia gran peccato: però ti conteraggio le fattezze d'esto palazzo, com'è ordinato; e poi ti conteraggio le bellezze di quella c'hae il viso angelicato: delle sue gio' assai ti posso dare, se tu per questo ti credi scampare.

31

A l'entrar de la porta ha du' leoni, che sempre vanno disciolti e slegati: e in capo de la scala è du' dragoni, che son per arte quine edificati: madonna Elena ha du' si bei figliuoli, che 'n paradiso par che fosser nati: l'un nome ha Arnaldo, e l'altro Girondino, ciascuno assembra un franco paladino.

32

E nella sala sta una catella, la miglior guardia che sia mai trovata (non la darebe per mille castella messer Ruggieri, che l'ha amaestrata), che non si parte mai da Eléna bella ch'ella non sia con lei ogni fiata. Se la catella si desse a baiare, tutta Gironda si corre ad armare.

33

La zambra dove sta Elena bella dire ti voglio com'è ordinata: di mezzanotte luce piú che stella, di pietre preziose ell'è murata. È molte donne in compagnia d'ella, da molti cavalieri ell'è guardata: èvi una pietra c'ha nome "carbone", di mezzanotte luce e dá splendore.

34

E non si vide mai donna nessuna che in sé avesse tante gentilezze: e non si trovò mai bianca né bruna che 'n testa porti cosí bionde trezze, e non fu mai persona nessuna che tante avesse in sé piacevolezze; tant'adornezza porta nel suo viso, ben par che fosse nata in paradiso.

35

Madonna Eléna è tanto bianca e netta, ed ha il viso bianco e colorito: tre vel d'argento ha 'n una cassetta, de' quai ciascuno si è molto pulito: uno te ne darò co' una verghetta, la qual sempre ella suol portare in dito.— Messer Guarnier si parte e non dimora: la cameriera sí lo chiama ancora,

36

e disse:—Io t'ho contato le fattezze. O cavalier, se ti vuoi dipartire, deh! usa lealtà e gentilezze, e cui te serve, nollo disservire; ché lo vantare giá non è prodezze e non è lealtá, a non mentire Avisati scampare a questo tratto; un'altra volta non esser sí matto.

37

Ed io ti donerò uno scaggiale e un ricco anello ch'ella porta in dito: guardalo ben, che gran tesoro vale, con altre gioie che ci han del marito.— Guarnier gli disse:—Questo dono è tale, che riccamente m'avete servito: la mia persona è vostra, a lo ver dire; adio, madama, ch'io me ne vo' gire.—

38

Messer Guarnieri indietro si tornava, e da' compagni fu adomandato: —E quella Eléna, che ti favellava?— Messer Guarnier rispuose in ciascun lato: —Signor—diss'elli,—il mio partir li grava, e quest'èn gioie ch'ella m'ha donato. Torniamo a Carlo tutti con gran festa: messer Ruggieri perderá la testa.—

39

Messer Guarnieri a corte fu tornato: dinanzi a Carlo andò messer Guarnieri, e tutte queste gioie egli ha mostrato a donne ed a donzelli e a cavaglieri. Messer Ruggieri cadde istrangosciato per la gran doglia e per li gran pensieri, vedendo lo scaggial ch'e' porta cinto, e disse:—Cavalier, tu m'hai ben vinto!—

40

E Carlo disse a messer Ruggieri: —Ruggier, se Dio m'allegri e doni gioia, de la tua morte mi do gran pensieri, e sí mi grava e da'mi molta noia. Acònciati con Dio a tuo mestieri, e ti confessa inanzi che tu moia, ché domattina a l'alba apariscente tu perderai la testa veramente.—

41

Messer Ruggier li disse:—Imperadore, fino a Gironda mi lassate andare, ed io vi lascerò buon pagatore, se non son morto, tosto ritornare.— Egli ebe la licenzia del signore, veggendo ben che 'l non potea campare. E Ruggier dice:—I'ho perduto il capo, da poi ch'Elena mi ha cosí ingannato.—

42

Messer Ruggieri cavalcò in Gironda, e, quando entrava dentro a la cittade, de li sospiri e del dolor, ch'abonda, or udirete gran crudelitade; ché non trovava cavalier né donna, che non mettesse al taglio de le spade: andò al palazzo, e uccise i due lioni, tagliò la testa a' figliuoli e a' dragoni.

43

Sí come cavalieri iniquitoso ad Elena volea tagliare la testa: poi si pentí quel cavalier furioso, fela menar davanti in sua presenzia; fuor del palazzo, ch'è fresco e gioioso, la gittò tosto per una finestra entro 'n un fiume ch'è forte e corrente, credendo ch'annegasse veramente.

44

Ma Gesú Cristo, Padre onnipotente, sí la sostenne e vòlsela aiutare, perch'elli sapea bene certamente ch'Elena non avea fatto quel male: dentro in Gironda, avanti a la sua gente, su nel palazzo la fece tornare. Scampata Elena or è di quel partito: messer Ruggieri giá sí se n'era ito.

45

Elena, come savia e conoscente, un suo messaggio tosto mandò al padre, ch'eli s'armasse con tutta sua gente e cavalcasse in Francia le contrade, ched e' cavalchi molto prestamente entro in Parigi la nobil cittade, c'ha morto i suoi figliuol contra ragione, e di niente non sa la cagione.

46

Elena tosto a caval fu montata e seco mena grande imbasciaria, da conti e da baroni accompagnata e molte donne per sua compagnia; e giá il padre co' la sua brigata giva in Francia con gran cavalleria. Ciascun cavalca sol co' la sua gente verso Parigi molto fortemente.

47

Messer Ruggieri a corte è ritornato; non fa bisogno di farli richiesta: davanti a Carlo si fu inginocchiato, e a tutta quanta l'altra buona gesta. —Ecco, Signore, che son ritornato, e son ben degno di perder la testa!— Le donne, le donzelle e i cavalieri piangon la morte di messer Ruggieri.

48

Messer Ruggieri quando gia a la morte, Elena bella nella terra è entrata: giunse al palagio e sospignea le porte, davanti a Carlo si fu inginocchiata: —Santa Corona, non mi dar la morte, ché d'esto fallo non sono incolpata: messer Ruggieri è condannato a torto, e proverollo innanzi che sia morto.

49

Messer, che Dio vi dia vita ed onore, tenetemi ragion, Santa Corona: fate venir davanti il traditore, segundo che si dice e si ragiona, che ditto ha mal di me e misso errore, ch'io v'imprometto e giuro in fede buona ch'io lo faraggio morir ricredente davanti a voi e tutta vostra gente.—

50

E per messer Guarnieri e' fu mandato, ch'eli venisse a far sua difensione, che Elena bella si ha rapellato, e prova e dice ch'ell'ha la ragione, e tal si crede aver vinto quel piato, che perderá la vita e la quistione: chi si vanta di quel che non ha fatto, il senno perde ed è tenuto matto.

51

Messer Guarnieri a corte fu venuto: e da li savi ciò fu adomandato: —Quella donna, cavalieri arguto, vedestila tu mai in nessun lato? —Io ho aúto di lei ciò ch'i'ho voluto: ecco le gioie ch'ella m'ha donato.— E per messer Ruggieri e' fu mandato, e comandò non fusse dicapato.

52

Rispuose Elena:—Se Cristo mi vaglia, tu menti per la gola, o traditore! Tu sí m'hai data assai briga e travaglia, e' miei figliuol son morti a tua cagione; ma io ti proveraggio per battaglia, davanti a Carlo ed ogni suo barone, che queste gioie, che tu m'hai mostrate, veracemente tu me l'hai furate.—

53

Messer Guarnier parlò con fellonia: disse:—Madama, giá siete voltata, e sí m'avete ditto villania, ché di tal cosa n'eravate usata: quelle gioie mi deste in druderia, quando stavamo insieme a la celata: or vi ricordi del tempo passato, quando era insiem con voi abracciato.—

54

Elena disse:—Falso traditore! come puoi dir cosí gran falimento? Che non m'aiuti Iddio, nostro Signore, sed io ti vidi mai per nessun tempo se non a questo punto, o traditore, che tu m'ha'aposto sí gran tradimento: però ti dico che non puo' campare, ch'io son pur ferma di teco giostrare.—

55

E Carlo comandò come signore, e disse:—Guarnier, córriti ad armare, e piglia l'arme e 'l destrier corridore: va' in su la piazza sanza dimorare. E voi, madonna, per lo vostro onore pigliate scambio e fatelo giostrare.— Elena disse:—Io voglio esser campione, ch'io credo vincer, ch'i' ho la ragione.—

56

Conti, baroni ed altri cavalieri, molti donzelli si corsero a armare: —Per vostro amore e di messer Ruggieri questa battaglia ci lassate fare!— Elena disse:—E' v'inganna il pensieri: colle mie man mi credo vendicare, ad onta di Ruggier, cor saracino, che mi ha morto Arnaldo e Girondino.—

57

Elena prende l'arme e 'l gonfalone, in su la piazza ne va arditamente, e ben cavalca a guisa di barone su 'n un destrier fortissimo e corrente. Trovò Guarnieri, e disseli:—Fellone! Or ti difendi, ladro frodolente!— Guarnier li disse:—Eléna, se vi piace, di questa guerra piglián triegua o pace.—

58

Elena li rispuose imantenente, e disseli:—Malvagio traditore! Non piaccia a Dio, Padre onipotente, che faccia teco pace né amore, ché sare' male a Dio ed a le gente ch'eli scampasse sí gran traditore: or ti difende, ch'io ti vo' ferire: di questa guerra ti convien morire!—

59

Messer Guarnier, in su la piazza armato, schifava molto dello incominciare. Madonna Elena sí l'ha disfidato, e disse:—Traditor, non puoi scampare!— Abassò l'asta, e tal colpo gli ha dato, che tutto lo fe' torcere e piegare, e pel gran colpo, ch'egli ha ricevuto, lui e 'l cavallo fu in terra abattuto.

60

Messer Guarnieri disse:—O malenato, questo colpo non è da soferére.— E misse mano al brando ch'avea a lato, in sulla testa die' al buon destriere. Elena disse:—Falso rinegato! non è usanza di buon cavaliere: gran codardia faceste e grande fallo avermi morto sotto il mio cavallo.—

61

Elena fu da caval dismontata e misse mano a la spada forbita: lo scudo avanti, e adosso li fu andata; sopra Guarnieri diede tal ferita, tagliò lo scudo e la maglia ferrata, mandonne il braccio in su l'erba fiorita; un altro colpo ch'ella avesse dato, ben l'averebbe morto e consumato.

62

Madonna Elena il vòlse anco ferire: la testa presto li volea tagliare. Messer Guarnier disse:—Non mi finire, ch'io vegio ben ch'io non posso scampare. Venga il Libro, e sí vi fate a udire di ciò ch'io dir voglio e manifestare: come quelle gioie ch'io ho mostrate la vostra cameriera me l'ha date.—

63

E' giudici e' notai furon presente, ed hanno scritto la sua confessione: la testa gli fu mozza immantenente, senza menare in corte od a prigione. Contenta n'era tutta quella gente, vedendo ch'era stata tradigione. La cameriera fu presa e legata, e ad un palo fu arsa e dibrugiata.

64

Messer Ruggieri, ch'era qui presente, vedendo il tradimento ch'era stato, di ciò che fatto avea fu ben dolente: fuggí da corte e non chiese cumiato: e' va dicendo:—Omè lasso dolente! in che mal punto ci fu' io mai nato, che ho morti amendu' i miei figliuoli, onde non vo' ch'Elena qui mi trovi.—

65

Arnaldo di Gironda, il buon guerrieri, vedendo acceso il fuoco e la calura, piangendo disse co' suoi cavalieri: —De la mia figlia io aggio gran paura.— Con mille cinquecento cavalieri va cavalcando per una pianura, dicendo:—Elena, se tu muori a torto, oggi è quel giorno che Carlo sia morto.—

66

Elena bella lo vide venire, salí a cavallo e 'ncontro li fu andato; e dice:—Padre, non ti fa mestiere che tu venghi sí forte ed adirato, ché io ti dico e faccioti asapere ché 'l traditore è morto e dicollato: se a corte vien' di Carlo imperadore, colla tua gente falli grande onore.—

67

E 'l padre disse:—Eléna, il tuo marito, c'ha morti i miei nipoti a sí gran torto, io t'imprometto, se non s'è partito, oggi è quel giorno che sia preso e morto. Elena disse:—E' se n'è fugito, per gran paura se n'è ito al porto, e sollenato va per lo camino, e va piangendo Arnaldo e Girondino.—

68

Elena disse:—Padre e vita mia, un gran dono ti voglio adimandare, e pregoti per la tua cortesia, ciò ch'io dimando non me lo negare. Ruggieri è lasso piú che mai ne sia; quel ch'egli ha fatto non si può stornare; s'egli lo fece, e' si è ben pentito: or li perdona, ch'egli è mio marito.—

69

E 'l padre disse:—Da poi che ti piace, manda per lui e fallo ritornare, ed io li renderò triegua e pace, e per tuo amor io li vo' perdonare: davanti a Carlo, ch'è signor verace, come da prima, ti farò sposare: piú bella coppia non si vide mai, ancor potrete aver figliuoli assai.—

70

E per messer Ruggieri e' fu mandato, ed a la corte fu fatto venire: davanti a Carlo si fu inginocchiato, e disse:—Io son ben degno di morire.— Elena e 'l padre sí gli ha perdonato, ciaschedun di buon core, a lo ver dire: come da prima, l'ha fatta sposare: grande furon le nozze e 'l desinare.

71

Fatta la pace di messer Ruggieri, Elena e 'l padre sí gli ha perdonato: tornò in Gironda col suo cavalieri, da molta gente e' fu acompagnato. A mala guisa sí vi andò Guarnieri; di quel che disse, mal glien'è incontrato. Cosí avvenga a ciascun traditore! Questo cantare è detto al vostro onore.

XII

CERBINO

1

O sacre, o sante, o gloriose muse, che dimorate in su quell'alto monte, priego in me sien vostre grazie infuse, ch'i' non son suto ad Elicona al fonte: e quella, per la qual le labbra chiuse un tempo tenni, afflitta e mesta fronte, mi porga lume, suo volto e sua chioma, suo' costumi, suo' accenti e suo 'dioma.

2

Tu, mio sostegno sol, che a tale impresa condotto m'hai, non mi lassar nel parco; non mi lasciare in mezzo la contesa; prendi le frecce tua, prendi el tuo arco, perché la fiamma, assai piú forte accesa, arde sovente, e 'l cor sente lo 'ncarco de' tuoi dolci pensier, soavi lacci, pensando far sol cosa che a te piacci.

3

Cantando adunque, tu serai, Apollo, con la sonante lira e' be' crin d'auro soavemente sparsi intorno al collo, solo mio lume e mio solo tesauro. La penna prendo, e sol per te la immollo, seguendo el bello stil del verde lauro: canterò, col tuo aiuto, col mio ingegno, d'un giovanetto marziale e degno.

4

Or, cominciando la pietosa istoria, Guglielmo re di Sicilia secondo fu uomo savio, degno e d'alta gloria: ebbe sol dua figliuol felici al mondo: el primo mastio fu, e gran vittoria molte volte ebbe, Ruggieri el giocondo chiamato; e l'altra femina, che, nata seconda a lui, Costanza fu chiamata.

5

Questo Ruggier, morendo innanzi al padre, lasciò un figlio chiamato Cerbino; el qual, crescendo e mostrando leggiadre tutte sue opre, ancor sendo piccino, usando assai colle armigere squadre, venne magnalmo, grato e peregrino, non solamente in Sicilia mostrando la fama sua, ma per tutto volando.

6

La quale andò per tutta Barberia e in altre parti assai, ch'io ho a contare, della sua gentilezza e valentia, che in ogni loco, e per terra e per mare, si parla di sua possa e gagliardia; e, come vòlse la fortuna fare, andò la fama sua alla figliuola del re, piú bella che rosa o viola.

7

Questa del re di Tunizi era figlia, di vertú piena, ma piú di bellezze, tanto ch'al suo Cerbin la s'assomiglia; la qual sentendo sue dive fortezze, Amor, che 'l cor gentil libero piglia, accozza insieme le dua gentilezze; qual fu l'una Cerbino e la su' amanza, che di beltade ogni altra donna avanza.

8

Udiva spesso di lui ragionare ella, che generoso core avea; e, come Amore e Vener seppen fare, la freccia avvelenata al cor giugnea alla giovane dama, che chiamare volle merzé per Dio, ma non valea; e però innamorata e assai penosa rimase, e non pensando ad altra cosa,

9

se none al suo gentile e bel Cerbino. Ma la fortuna talvolta pietosa favorevole fu al pellegrino amor di quella, qual non ha mai posa; ché, sendo sparsa per ogni camino sua fama, sua bellezza gloriosa, spesso laudare udiva il giovanetto, che giá l'aveva scolpita nel petto.

10

L'un giorno piú che l'altro ragionare sente del suo leggiadro e terso volto: aimè Cerbin! tu non puoi riparare, e legato ti se', dove eri sciolto! Che farai dunque, se non sospirare? E 'l libero piacer t'è suto tolto! Non val tua forza contro alle catene di Amor, ma sempre accrescerà le pene.

11

Ma, come e' fa che assottiglia lo 'ngegno a l'anime che a lui son sottoposte, faccendol sempre piú alto e piú degno ed esser presto e pronto alle risposte, cosí mandò Cerbino un certo segno per un fidato servo, el qual per coste e piagge e piani e monti andò a Tuníssi, dov'è la figlia del re, come i' dissi.

12

El qual le fece la grata imbasciata. Pensi ciascun se questo l'ebbe caro! E piú che mai di lui si fu infiammata, veggendo e conoscendo a punto chiaro ch'egli era, com'è lei, innamorata. Partissi alquanto il suo tormento amaro, ed al servo donò piú roba e veste, perché portassi le 'mbasciate preste.

13

E cosí si partí lo 'mbasciadore, e tornossi a Cerbino, e sí gli disse come la donna gli avea posto amore, e quel ch'avea recato da Tunisse, dicendo stessi con allegro core. Or da Palermo par che si partisse, perché Cerbin d'aver sua grazia brama, sí che rimanda el valletto a la dama.

14

E mandògli una prieta preziosa tanto leggiadra e bella, che stimare non si può sua bellezza valorosa. Partissi el servo, e senza piú penare all'alta donna ne portò ogni cosa; e poi piú volte v'ebbe a ritornare, lettere e gioie e 'mbasciate portando, andando quella spesso visitando.

15

Cosí le cose in questo modo andando, e forse piú ad agio ancora assai che bisognato non sarebbe, e stando affritto l'uno amante e l'altro in guai, tempo aspettando che venissi, quando el padre suo, quale era vecchio omai, la figlia maritò al re di Granata: ond'ella fu di questo isconsolata,

16

pensando quella che non solamente el suo amante a lei s'allontanava, ma quasi tolto gli era; onde, dolente piú che altra donna, assai si lamentava: piangendo spesso dolorosamente e sospirando, el suo Cerbin chiamava, dicendo:—Ormai non ho speranza alcuna, po' che 'l destin m'è contro e la fortuna!—

17

Piange el pudico petto e non raffrena di sospirare, e dice:—Oh fère istelle! oh destino aspro! oh sventurata Eléna! oh membre nate al mondo meschinelle! oh lassa a me, che 'ntollerabil pena porterò sempre! ahi sventurate quelle che maritate contro al lor volere son, senza in gioventú prender piacere!—

18

Dall'altra parte, inteso avea Cerbino di questo maritaggio, onde dolente n'era, maladicendo el suo destino, che tolto gli ha la sua dama piacente; e tanto s'allungava al suo confino; e pur pensava che se per niente avvenisse ch'ella andasse per mare, quella per forza rapire e rubare.

19

Ma 'l savio re di Tunizi sentito avea di questo amore alcuna cosa: teme el passaggio non fussi impedito e tolta quella che mandava sposa; perch'e' conosce ben Cerbino ardito e sapea sua fortezza valorosa, e come non avea paura alcuna, né uom teme che sia sotto la luna.

20

In questo, 'l tempo giá era venuto ch'ella a marito ne doveva andare: el padre suo, quale era vecchio e astuto, al re Guglielmo mandò domandare che 'l passaggio gli fussi conceduto, dicendo a punto quel ch'aveva a fare: come non fussi da lui impedito né da Cerbin, quale era tanto ardito:

21

che gli dovessi dar la sicurtá che niun per lui nol potessi impedire, quando la figlia a marito n'andrà. El re Guglielmo, che era vecchio sire ed era savio e di somma bontá, e non aveva mai udito dire del bel Cerbino e suo innamoramento, però di tal sicurtá fu contento.

22

Ed in segno di ciò mandò un guanto al gran re di Tunizi, el quale, avuta la sicurtá, fece fornire intanto una gran nave e bella, e fu empiuta di quel che bisognava d'ogni canto, per su mandarvi la figlia saputa: al porto di Cartagin fu fornita, piena di gente valente ed ardita.

23

Cosí fornita, altro non aspettava se non el tempo per mandar la figlia in Granata, ove dolorosa andava. Ma pur, come fa Amor che la consiglia, sapeva a punto quel che s'ordinava; vedeva apparecchiar la sua famiglia: onde un suo servidore occultamente mandò a Palermo al suo Cerbin piacente,

24

dicendo da sua parte el salutasse, e che dicessi che infra pochi giorni e' bisognava che in Granata andasse, e che mai piú convien ch'ella ritorni; e che 'l pregava che s'apparecchiasse di mostrar suo' costumi e modi adorni; e se era, come si diceva, forte lo dimostrassi innanzi la sua morte.

25

Cerbino, inteso el mandato valletto, fu di vari pensieri inviluppato, sapiendo a punto che, per piú dispetto, Guglielmo, l'avol suo, aveva dato la sicurtà al re.—Oh maladetto fato—dicea,—che sempre mi se' stato contro ogni mio piacer, ogni mio bene, crescendo sempre a me piú doglie e pene!

26

Se la mia vaga luce e dolce speme ch'io conquisti el suo volto m'ha pregato, ah lasso! che farò? Chi ama teme. Sarò io mai di tanto amore ingrato? Sospira el core e l'occhio plora e geme, e l'un pensier mi combatte dallato, e dice:—Segui quel che vuole Amore;— l'altro:—Tu farà' contro al tuo signore!—

27

Pur, dopo lungo spazio, el suo pensiero fermò di seguitar l'ardente amore. Onde e' si mosse; e per ogni sentiero cavalcò a Messina, e con furore fe' ragunare ogni buon cavaliero, come chi segue amor, vittoria, onore. Tutti suo' amici ed uomini valenti, usi in battaglia e forti combattenti,

28

per terra ed acqua, forti ed animosi, volse Cerbino, e' miglior che trovava, valenti in tutti e' fatti bellicosí, sí come a far tal cosa bisognava. Cosí, forniti questi uomin famosi, duo sottili galee subito armava; e su vi misse tutta questa gente, e lui armato ancor com'uom valente.

29

E sopra la Sardigna fu andato, quivi avvisando ch'e' dovea passare la nave grande; onde si fu fermato, ché vuole Elena sua bella aspettare. E, non essendo però molto istato, avendo gli occhi un dí sospinti al mare, vide la bella nave comparire, dove è la dama, e inverso sé venire.

30

Con poco vento quivi sopravenne appresso a punto dove e' l'aspettava; onde Cerbin felice allor si tenne, e inverso la sua gente si voltava, cominciando a parlar con dir solenne, però che Amore è quel che gl'insegnava: del suo 'nnamoramento prese a dire alto sí, che ciascun lo può sentire:

31

—O voi, signori ed uomini valenti, e' qua' siete in battaglia prodi e forti, animosi, feroci, alti e potenti, credo ciascun di voi sappia in che sorti sia chi è innamorato e in che accidenti, ché sente el giorno mille e mille morti: e però piaccia a voi di me udire, e la volontá mia di poi seguire.

32

Non credo al mondo sia uomo mortale, che possa avere in sé virtú nessuna, se in lui non regna l'amor naturale: onde io non mi dorrei della fortuna né d'amor, ch'è'l mio signor principale, perch'io non ho inver' lui ragione alcuna, avendo quel, come signor giocondo, donato a me la bellezza del mondo.

33

Onde nessun di voi maravigliare non si dee s'io sono innamorato, perché da questo iniun si può guardare. Uomini saggi e valenti ha legato, che giá fecion tremar la terra e 'l mare: poi, da quel cieco fanciul faretrato restati presi, sono ognun prigione, Èrcole giá e 'l saggio Scipione.

34

Cosí legò Teseo ed Adriana; Piramo e Tisbe die' feroce a morte, andando quegli alla bella fontana; cosí fu preso quello Achille forte, Lancilotto, Tristano, Isotta umana, Medea e gli altri, che per crudel sorte furon presi da lui senza guardarsi, perché da questo ignun non può aiutarsi.

35

Amor traea da lo 'nferno Plutone per Proserpina, e Leandro per mare andò notando, e lo ingiusto Nerone non si curò la crudeltá usare, Alemena bella con Anfitrione, ed altri assai, ch'io vi potrei narrare, de' quali Amore ha fatti giá dolenti, uomini degni, famosi e valenti.—

36

Non bisognava far questo sermone al bel Cerbin, però che i messinesi avevon fatto deliberazione, della rapina vaghi e bene accesi, di non fare a Cerbin contradizione. Risposon tutti che n'eran cortesi; e, fatto nella fine un gran romore, sonan le trombe con molto furore.

37

E, preso l'arme lor, vogando forte, detter de' remi in acqua, ed alla nave giunson, dove eron l'altre genti accorte, dove fia la battaglia iniqua e grave. Cerbino allor, per far parole corte, parlò, dicendo a quelle genti brave: —O voi mi date 'l padron prestamente, od io farò ciascun di voi dolente!—

38

Eran certificati e' saracini chi fussin questi e perché tale impresa avessi fatto Cerbin co' messini: onde son tutti armati alla difesa, e cominciaron con aspri latini a voler dichiarar questa contesa. Tutti, pien d'ira e di sdegno e dolore, chiamon Cerbin villano e traditore,

39

dicendo:—Ah, vil poltrone e disleale, che fai contro alla fede del tuo re e l'avo tuo, Guglielmo, naturale, el qual la sicurtà buona ci die'! Or tu ci assalti; ma forse tal male potrebbe ancor ritornar sopra a te: ché ben sappiamo a punto il tuo pensiero; ma verrá invano ogni tuo disidèro.—

40

E, per chiarezza piú, mostrarno el guanto del re Guglielmo, el qual per sicurtá mandò al re di Tunizi; e pertanto negando che Cerbin mai nulla ará che in sulla nave fussi, ma che tanto potrebbe far, se la conquisterá; che, per battaglia vinti, allor potrebbe pigliar la donna e quel che gli parrebbe.

41

Ma Cerbin, che la dama avea veduta sopra la nave piangendo sedere, assai piú bella sendogli paruta che non pensava, onde n'ha gran piacere, e cogli occhi guardando la saluta, e pargli el ciel, non che la terra, avere; poi che si vede presso el suo disire, intra se stesso incominciò a dire:

42

—Amor, tu m'hai per sempre oramai preso;
Amor, da te io non mi posso atare;
Amor, tu m'hai colle tue fiamme acceso;
Amor, tu mi vuoi sempre consumare;
Amor, per quel ch'io ho da te compreso,
Amor, tu vuoi di me gran pruova fare:
i' son contento, e sempre sarò forte
ad ubbidirti infino a la mia morte.

43

E, se ciò non facessi, el piú ingrato uomo, ch'al mondo sia o fussi mai, esser potrei da ciaschedun chiamato a non amar colei, che me ama assai: ella non m'ama, ch'ella m'ha legato con forti lacci, ond'io, misero! in guai i' mi starò in fuoco ardente e in fiamma fin ch'io arò di mia vita una dramma!—

44

E dubitava assai che qualche iddea non fussi questa, e venuta soave appresso a sé ed a la sua galea, e postasi alla poppa della nave: onde che Amor sí forte l'accendea, che non curava le parole grave; anzi non ode le grida e 'l romore, ma sempre piú che mai gli cresce el core.

45

E, quasi vòlto alla nave con ira, disse alla gente con aspre parole: —I' vo secondo che la ruota gira, la qual m'ha posto a punto innanzi al sole, e qui ha messo lo sguardo e la mira, e parmi che partir mai non si vuole, fin ch'io non ho colei, che sola bramo e sopra ogni altra cosa al mondo l'amo.

46

E, perché el guanto testé mi mostrate, io non ho al presente qui falconi: dunque contento i' son che vel pigliate, ch'io farei per costei mille quistioni: questo è amore, e lui di ciò incolpate. E perch'io non vi faccia altri sermoni, ognun di voi da me si scosti e guardi, che si fará per voi l'esser gagliardi!—

47

E, senz'altro parlare, alla sua gente si volse e disse:—El vostro grande ardire mostrate, l'alma e la forza potente.— Non altro bisognò che questo dire, ch'essendo in punto ciascun uom valente, incominciar l'avversario a ferire, a gittar dardi, frecce e lance e sassi, che par che 'l cielo e la terra fracassi.

49

Battaglia non fu mai tanto durissima, che chi vedessi gli parre' impossibile! L'aria di priete e di dardi pienissima, che pure a dirlo par quasi incredibile! La gentil donna, piú ch'altra bellissima, Cerbin la guarda, e pargli che invisibile la vegga, e pensa s'egli è desto o sogna; ma altro che pensar pur gli bisogna!

49

Però ch'e'saracin mai di gittare, vinti da ira e da sdegno commossi, non restan dardi e gran sassi lanciare. Eron giá fatti assai di sangue rossi; balzano corpi d'ogni parte in mare; non bisognava mettergli ne' fossi; e la battaglia sempre rinforzava, e l'aria tutta quanta s'infuscava.

50

L'aere tutta par si rabbaruffi; molti corpi di fuor gittavon sangue; e l'arme in mano a 'gnun non par che muffi, ma schizza fuor della gran nave el sangue: e chi è ferito, in mar convien si tuffi, facendo l'acqua rossa del lor sangue, chi forato ha le tempie e chi le guance, e chi ha 'l cor passato da piú lance.

51

Vide Cerbino un saracin villano, che stava quasi inanzi agli altri tutti, onde si fece a lui piú prossimano per dargli de suo' pomi ed aspri frutti, e, lanciògli una lancia ch'avea in mano, e posel dove gli altri eron rudutti, cioè rovescio e morto con dolore, perché la lancia gli entrò in mezo el core.

52

Ancora un altro, ch'era in su la nave, ne cadde morto senza batter sensi per un feroce colpo crudo e grave, ch'ebbe pur da Cerbin. Ma non si pensi, per questo, ignun che l'altre gente brave paura avessin; ma piú inanzi fensi, gridando:—O traditor, la cruda morte purgherá tutte le tue opre torte!—

53

Infino al ciel le grida e l'urla andavano; questa era doppia tempesta di mare! Ad alta voce e' saracin gridavano: —Sangue, carne, vendetta vogliam fare!— Arme, scoppietti e priete rintonavano, che fanno e' legni in su l'acqua tremare; e non avanza l'una l'altra parte: ognuno armato par un nuovo Marte.

54

Durò gran pezzo la battaglia orribile, né l'un né l'altro non si può abbattere. Cerbin, valente, famoso e terribile, veggendo pur durar questo combattere, diliberossi al tutto esser vincibile; e, non volendo piú l'arme dibattere, la nave in altro modo fe' percuotere tanto, che fece ogni barbero scuotere.

55

Perché Cerbin menato un suo legnetto aveva, e quivi fece el fuoco accendere, ed accostossi alla gran nave a petto tanto, che niun non si può piú difendere, e, non avendo piú nessun ricetto, qui sol bisogna o morire od arrendere. E', conoscendo il loro ultimo giorno, fecion venire Elena, el viso adorno,

56

qual prima sotto coverta piangeva, e della nave alla proda menata, dove Cerbin veder ben la poteva. Chiamollo Elena, tutta sconsolata, e, piangendo, merzé per Dio chiedeva, dicendo:—Questa morte ho guadagnata per amar te, ben che senza dolore debbo morire innanzi al mio signore.—

57

Cerbino, udendo le dolci parole, el cor sentissi in piú parte stiantarsi, ed alla donna risponder pur vuole, ma ancor non può pel dolore aiutarsi: ma alfin rispose, e fe' come chi suole, con un cangiare di color, scusarsi; e disse:—O donna, el tuo ultimo punto una morte in dua alme ará congiunto!—

58

Ma, in questa, e' saracin senza pietá, non curando el suo dolce lamentare, anzi tutti pien d'ira e crudeltá, incominciorno la donna a svenare. Cerbin, vedendo tanta iniquitá, grida e combatte e non sa che si fare; ma innanzi a sé svenar, per piú dolore, vede sua alma, sua vita e suo core.

59

Ma, poi che in molte parte era tagliata la bella donna e sentiva mancarsi, inverso di Cerbin si fu voltata, e cominciò in tal modo a lamentarsi, con bassa voce, rotta e sconsolata dicendo:—E, poi che Morte può vantarsi d'avermi giunta in su' legni e 'n su l'acque, non piaccia almeno a te, poi che a lei piacque.

60

L'alma si parte e 'l miser corpo sgombra, e tu rimani al mondo, o signor mio; i' mi starò lá giú nella scura ombra; forse arò altro amore, altro disio, che d'altra cosa l'anima s'ingombra. Or i' mi parto, e tu riman' con Dio!— A pena la parola ebbe finita, ch'ella passò della presente vita.

61

Poiché fu morta, da un saracino fu el gentil corpo suo gittato in mare; e tutti, vòlti poi verso Cerbino, disson:—Farai quel corpo sotterrare. Come crudo corsale ed assassino, t'abbiam voluto al tutto contentare, che in altro modo non l'hai meritata: piglia la preda che t'hai guadagnata.—

62

Ma torniamo a Cerbino, el quale, udendo el dolce dir di quell'alma passata, brama la morte, e piú si vien dolendo che non l'ha almen solo un tratto baciata; onde, per questo piú dolore avendo, fece alla nave raccostar l'armata, e per lo scoppio grande e per lo sdegno, un salto prese e gittossi in sul legno.

63

Or qui comincia la battaglia cruda! Cerbin dava gran colpi a' saracini; teneva in man la forte spada ignuda, tagliando braccia, e fa de' moncherini: istraccia, squarcia, fende, taglia e suda; molti feriti in mar caggion, meschini. E chi non vuole e' sua colpi aspettare, gettonsi in acqua a 'mparare a notare.

64

Grida Cerbino:—O gente iniqua e fella, la vostra crudeltà tornerà folle: picchia e percuote, combatte e martella, né mai por fine al suo brando non volle, tagliando braccia, man, teste e cervella. Era la nave giá di sangue molle, e non è ignun che possa contastallo; de' sua gran colpi niun non giugne in fallo.

65

Pare un leon famelico e arrabbiato, che, quando giugne nella selva folta, sendo da fame superchia assediato, prima co' rami sfoga l'ira molta, ritorte e schegge e traverse ha spezzato; cosí Cerbin con quella gente stolta non può sí presto sua ira sfogare, ma taglia e fende e straccia e getta in mare.

66

Erano e' saracin rimasi pochi tanto, che piú non posson contrastare; vedevasi sol sangue ed arme e fuochi; l'aere è brutta e cosa oscura pare. Cerbino e gli altri son venuti fiochi pel combatter, pell'arme e pel gridare: non si sazia Cerbin, nulla el conforta ma taglia quella gente cosí morta.

67

E' si vedeva gli uomini a traverso l'un sopra l'altro nella nave stare, e qualcun altro dal sangue sommerso; non bisognava e' corpi sotterrare: questo fu vento contrario e diverso, tempesta fu di brando e non di mare: tanti capi tagliati da le spalle, pare la nave un'altra Roncisvalle.

68

Ora Cerbin ha avuta la vittoria (dolente e trista per ciascuno amante) con gran maninconia e poca gloria: onde egli scese, el giovane aiutante, perché la fiamma è grande e la baldoria (ardeva forte quel legno prestante). Ma, prima che della nave scendessi, volle ch'ogni ricchezza si togliessi.

69

Poi la divise e donolla a coloro ch'erano stati armati sopra all'onde, per non parere ingrato e per ristoro delle lor gagliardie alte e gioconde. E lui niente vòlse; ma il martoro e la maninconia tanto el confonde, che brama morte e piú non sa che farsi, perché gli aiuti sarien vani e scarsi.

70

Ma pure alfin dell'acqua fe' cavare el corpo morto della giovinetta; con lungo pianto e con molto baciare quivi, piangendo, in braccio se l'assetta; non può saziarsi quel corpo toccare, ma lagrimando diceva:—O vendetta, tu non se' stata nulla, al parer mio, a vendicar questo volto giulío!—

71

Troppo sarebbe lungo a voler dire le pietose parole di Cerbino e l'angoscioso pianto e 'l gran martire: egli è in sul corpo morto a capo chino, e non resta di piangere e languire; vorre' morire el giovan peregrino. Ma, per venire ormai al nostro effetto, in Sicilia tornossi el giovinetto.

73

Ed in un'isoletta, qual si chiama Ustica, che a Trapani è al dirimpetto, quivi fermossi con dolore e brama che morte venga per piú suo diletto: non vuole onor o gloria o pompa o fama, cerca sol noia, tristizia e difetto; e seppellir fe' il corpo a grande onore con lungo pianto e lagrime e dolore.

73

Dipoi, un dí, soletto, el bel Cerbino, per una valle con dolore andando, dolendosi del suo crudo destino e di fortuna, che 'l vien seguitando e sempre il fa piú dolente e meschino, e' con amor parlava lamentando: —Resister non può gnuno alle tue posse; ma fie pietosa in me, dolce Atroposse.—

74

Mentre che andava cosí lacrimando, arrivò per ventura ad una fonte; quivi a seder si pose, rinnovando d'amor le 'ngiurie e' lacci e 'nsidie ed onte; e con quell'acqua chiara rinfrescando, ch'era affannato, si lavò la fronte, po' 'l bel paese d'intorno guardava, di Fortuna e d'Amor si lamentava.

75

Prima guardava intorno la fontana, qual tutta di begli alberi è intorniata, dicendo:—O lassa vita mia villana, perché se' tu di tal caso occupata? Oh donna degna, oh alma umile umana, oh gente maladetta e disperata, che non guardasti a tanta gentilezza, né alla sola ed ultima bellezza!—

76

Poi riguardava intorno gli arbucegli e i lauri e le frondi, e 'l bel cantare che vi facevan sú diversi uccegli: questo il facea piú forte lacrimare; vedeva e' prati rilucenti e begli, e' fiori in qualche luogo rosseggiare: qual era azzurro o verde o giallo o bianco, onde e' sospira e per dolor vien manco,

77

e dice:—Lasso! qual fia 'l mio ricovero e 'l bel palazzo? Fia l'ombra d'un acero o d'un albero, un faggio, un mirto o un rovero? Domo d'amore e stracco e vinto e macero, di ben privato, e d'ogni speme povero: e 'l corpo, stanco omai, fragile e lacero, el suo riposo nell'urna disidera, e vola, giace, triema, arde ed assidera.

78

Per grotte, selve, boschi, monti e piani e fiumi ed acqua e terra e rena e sassi, poggi, piagge, padul, burron, pantani, balze, campi, caverne, scogli e massi, luoghi diserti, ombrosi, alpestri e strani, sugher, castagni, querce, aceri, e a passi strani e scuri, n'andrò pensoso e vinto, come in esilio cacciato e sospinto.

79

Oh lasso! che farai? che pensi o guardi?
Oh lasso! el tempo ove è tanto felice?
Oh lasso piú ch'altrui, che triemi ed ardi!
Oh lasso! oh infortunato! oh infelice!
Oh lasso! ch'ogni ben verrebbe tardi.
Oh lasso! presto andrò nell'ombre e 'n Stice.
Oh lasso! ove vedrò la bella fronte?
Oh lasso! forse al fiume d'Acheronte.

80

Oh lasso, ch'io andrò sempre cercando ogni asprezza crudel, iniqua e acerba; e 'l miser corpo, affritto tapinando, tra pruni, scogli, schegge, bronchi ed erba; e la mia rotta voce, lamentando d'Amor le reti, a dolersi si serba: andrò, trafitto da piú d'uno stecco, chiamando Eléna; e risponderá Eco.

81

Io credo ormai che infino all'ultim'ora, quando verrá a serrare i miei tristi occhi, gemerá l'alma come or geme e plora: ahi miser pensier vano degli sciocchi! O alma, perché se' del mondo fòra? Pártiti, corpo mio, prima che tocchi la morte di coltello e getti sangue: piacciati l'alma contentar, che langue.

82

Ciò son ben certo, che, se non vorrai, o Morte, contentarmi di tal cosa, non curerò tua dolorosi guai: e se non vieni a me volonterosa, contro mi ti farò, come vedrai, e la mia vita, che sempre è penosa, torrò dal corpo, poi che 'l mio destino qui m'ha condotto, misero Cerbino!

83

O misero Cerbin! miser, se bene tu pur sapessi come la fortuna t'ha forte preso e legato ti tiene, senza aver mai di te pietá nessuna! Tu chiami Morte, e la Morte ne viene, senza che tu la 'nviti in guisa alcuna: el sangue tuo si dee versare in tutto, e di coltel sarai morto e distrutto.—

84

Or lascerem Cerbino alla fontana, e torneremo al vecchio re canuto, el qual la nuova dolorosa e strana aveva giá, secondo 'l ver, saputo della gran rotta e di sua figlia umana: or s'egli ebbe dolore, el vecchio astuto, nol può narrar né scriver la mia penna, che Amor ch'i' lasci el suo pianto m'accenna

85

e ch'io debba la storia seguitare, per dare esempio a chi seguita Amore, che viene i mia dolci versi ascoltare. Egli è giá presso all'ultimo dolore, ch'a Cerbin debbe sua vita mancare: or mandò 'l re un suo ambasciadore al re Guglielmo, a dir che la fé, data da lui, come non gli è suta osservata.

86

Lo 'mbasciador di nero era vestito, e l'ambasciata al re Guglielmo fe', come Cerbin, valoroso ed ardito, prese la nave e, senza aver merzé, aveva ogni baron morto e ischernito; e piú contò della figlia del re come fu morta e svenata con doglia, per non saziar di Cerbin la sua voglia.

87

Sentendo el re la dolorosa nuova, fu piú ch'altr'uomo dal dolor sommerso e per maninconia luogo non truova; —e diceva:—O Cerbin crudo e diverso, presto spenta sará ogni tua pruova! Tu se' caduto in caso sí perverso, che dee mancarti l'onore e la fama; per che giustizia e morte ognun ti chiama.—

88

Poi fece presto prendere el Cerbino. e fu menato inanzi a sua Corona dolente, lasso, povero e meschino, piú che mai fussi forse altra persona. El re Guglielmo, come un bambolino, d'urla, di pianto el suo palazzo introna, e lacrimando disse al suo nipote: —La Mia Corona campar non ti puote.

89

Tu sai che sempre tua virtude ho amata, piú che se stato mi fussi figliuolo. Or la fortuna, qual sempre parata sta per guastare ogni diletto, solo volle per te la mia fede mancata: e cosí questo fia l'ultimo duolo al fragile mio corpo, a mia vecchiezza: dunque tua morte fia d'onor salvezza.—

90

Cerbin rispose e disse:—O signor mio, la morte mi sarà sommo diletto. Non piangere di quel che non piango io; ché la fortuna per rimedio eletto ha questa morte, ch'è nel mio disio, poi che si spense quel leggiadro aspetto. e non potresti d'altro contentarmi che mi piacessi, se non morte darmi!—

91

Queste parole el cor passorno al re, la piatosa risposta e l'atto umano, che lacrimando el suo Cerbin gli fe'. Ogni baron di questo caso strano gì'incresce e piange, e chieggono merzé pel bel Cerbino, il giovane sovrano; ma el re non può, che giustizia 'l molesta; e condannò el nipote nella testa.

92

Qual non fu mai di vita al mondo privo tanto infelice e tanto sventurato? Pianga per lui chi resta al mondo vivo, pianga chi ha questi carmi ascoltato; da poi ch'i'piango in mentre ch'i'gli scrivo, e sempre piangerò quest'almo, ornato, che si lamenta e plora e geme e langue, che s'apparecchia versare el suo sangue.

93

Poi ch'ebbe data la cruda sentenzia el re contro a sua voglia e con tristizia, volle che in su la sala e in sua presenzia far sí dovessi la trista giustizia: Cerbino allor, sanza far resistenzia, a pianger cominciò, ed a dovizia le lacrime gli caggion giú pel petto: cosí, piangendo, mosse questo detto:

94

—O voi, amanti, che Amor seguitate, venite ora a veder mia cruda morte: essempro di me misero pigliate, di mia fortuna e di mia aspra sorte; e voi, o giovinetti, vi guardate di non pigliar le vie inique e torte d'Amor, perché, spietato e sanza fede, non ha pietà di 'gnun mai né merzede.

95

Amore amaro, oh lasso! i' moro: i' m'ero el piú felice che mai fussi in terra; il piú allegro, il piú degno, il piú altèro, vincente in ogni bellicosa guerra, eccetto questa d'Amor crudo e fèro: ogni alma, che la fa seco, dunque erra, come ho fatto io: ma, se io ho errato, la morte purgherá tanto peccato!—

96

Poi pose fine all'ultima parola. El giustiziere un colpo con tempesta menò inverso Cerbino: el brando vola e da lo 'mbusto gli levò la testa: el sangue tutto per la sala cola, perché d'uscir di quel corpo non resta. Cosí morí Cerbino, el gentil core, per seguitar lo iniquo e falso Amore.

97

Elena bella sua superò il mondo di bellezza, or di vita è trapassata; termin ha avuto el suo viver giocondo: cosí ogni cosa è diterminata. Questi, felici giá, Fortuna al fondo gli ha messi, come quella che parata sta e conturba, anzi guasta ogni cosa, come malvagia sempre ed invidiosa.

98

El re Guglielmo è vecchio e d'anni pieno: Fortuna inverso lui vòlto ha le ruote. Benché questo gli sia mortal veleno, vuole prima restar senza nipote e seguir la giustizia a punto a pieno, perché un re, senza fé, regnar non puote. Basta che piange el suo fiero destino, e seppellir fe' il corpo di Cerbino.

99

Or te, mio sol conforto all'affritt'alma, vero sostegno al temerario core, i' priego ben per la grillanda e palma, qual si conviene al fedel servidore, tanta tempesta tu converti in calma. Come volesti, ho trattato d'amore: dunque i' ringrazio te, le tue virtute, che m'han condotto al porto di salute.

NOTA

AVVERTENZA

Siamo dolenti che l'indole della presente raccolta ci abbia costretti a pubblicare soltanto una parte della lunga e dottissima nota, che ci aveva inviato l'amico Levi. E purtroppo abbiamo dovuto invitare il nostro valente collaboratore a dare in altra sede proprio ciò che del suo studio offriva maggiore interesse, vale a dire una paziente e acuta indagine circa le fonti, gli autori e le date dei singoli cantári da lui pubblicati. Il risultato della quale è che Bel Gherardino fu scritto circa il 1340-50 (è citato nel Corbaccio ); Pulzella gaia è di poco posteriore, perché è citata nella Sala di Malagigi ; Liombruno fu scritto alla fine del sec. XIV; la Storia dei tre giovani nel Quattrocento; La Donna del Vergiú nella prima metá del Trecento, perché è citata nel Decamerone ed è la fonte indubbia degli affreschi del palazzo Davanzati; Gibello è anteriore al 1390, probabile data dai Reali ; i cantári di Bruto di Brettagna , del Gismirante , di Madonna Leonessa e della Regina d'Oriente sono di Antonio Pucci (m. il 1388); il cantare di Madonna Elena è contemporaneo a quello di Liombruno ; quello di Cerbino fu composto probabilmente dall'Altissimo alla fine del secolo XV o ai primi anni del secolo XVI.

LA DIREZIONE

Si chiamavano "cantári" i poemetti in ottava rima, che nei secoli XIV-XVI i cantampanca intonavano, alla sera o nel pomeriggio dei giorni festivi, nelle piazze di Firenze, e specialmente nella piazzetta di San Martino del Vescovo, presso alle case degli Alighieri. Moltissimi documenti ci recano notizie di questa pubblica recitazione: appartiene alla fine del secolo XIV un repertorio giullaresco, il Cantare dei cantári , nel quale sono passati in rassegna tutti i temi favoriti dai cantori e dal pubblico, e molti altri accenni alla recitazione popolare in San Martino sono sparsi nelle opere del Quattrocento, e specialmente nei poemetti dell'Altissimo, che fu uno di quei dicitori popolari.

Nel riprodurre negli Scrittori d'Italia i numerosissimi cantári che ci sono restati, credo opportuno, per la grande varietá della loro materia, di distinguerli in alcune grandi classi:

a) cantári ciclici, cioè quelli che si riallacciano ai cicli di Artú e di Carlomagno;

b) cantári di argomento classico: Orfeo, La bellissima storia di Perseo quando ammazzò Medusa, Giasone e Medea, Piramo e Tisbe , ecc.

e) cantári di argomento religioso: La istoria di Susanna, Madonna Elena imperatrice, La leggenda delle sette dormienti , ecc.

d) cantári leggendari.

Alcuni dei cantári ciclici furono recentemente raccolti in volume; ma moltissimi ancora rimangono dispersi nei codici e nelle stampe popolari, e attendono le cure di un editore coscienzioso. Da parte mia, ho creduto opportuno cominciare dai cantári di argomento leggendario, i quali non erano mai stati studiati nel loro insieme, né pubblicati con un ordine o un criterio qualsiasi. Le edizioni spicciolate, che di essi vennero in luce dal 1860 al 1880, non avevano altra pretesa fuor che quella di fornire dei testi di lingua, cioè semenzai di parole e di frasi del Trecento, ai cruscanti e ai linguaiuoli: nessuno dei vecchi editori pensava che l'importanza dei cantári consiste anzitutto nella materia e che, frantumandoli in infinite edizioni spicciolate, se ne distruggeva tutto il valore. Raccogliendoli invece insieme, come mi accingo ora a fare, si rende loro l'originaria coerenza e unitá, e si illuminano di luce nuovissima, perché essi rappresentano tutto il tesoro di leggende che il nostro popolo ci ha tramandato.

Se non che una "raccolta" non può essere un fascio disordinato di opere diverse. Un libro organico richiede un ordine preciso e sicuro; e quest'ordine i cantári non avevano di certo, racimolati com'erano dalle miscellanee mss. del Tre e Quattrocento e dalle stampe popolari del Quattro e Cinquecento. Come ordinare e disciplinare in un libro quella disordinatissima e indisciplinatissima materia? Poiché l'Italia non ebbe nel medio evo un libro organico di materia leggendaria, ho vòlto gli occhi alla Francia, e ho preso come modello l'opera compiuta alla fine del sec. XII da una affascinante poetessa anglo-normanna, Maria di Francia. Ai dodici lais di Maria metto di fronte i dodici cantári di questo volume: al lais di Lanval corrispondono i cantári del Bel Gherardino , della Pulzella gaia e di Liombruno ; al lais di Fraisne il cantare di Gibello , ecc.

Non tutti i dodici cantári appartengono al medesimo tempo: il primo è della prima metá del Trecento, l'ultimo forse dei primi decenni del Cinquecento. Ma, come tutta l'arte primitiva, la poesia dei cantári è impersonale, sicché tutti ci appaiono quasi della medesima mano e del medesimo tempo. Forse per questo i critici di qualche tempo fa li attribuivano tutti quanti ad Antonio Pucci.

I cantári non erano destinati alla lettura individuale, ma alla recitazione al pubblico. Della recitazione serbano traccia nelle formole con le quali essi si aprono e si chiudono, che sono sempre uguali, come uguali sono tanti elementi tradizionali del teatro. Ogni cantare ha un'ottava al principio e una in fine, nelle quali è contenuta l'invocazione a Dio e ai santi. Queste invocazioni potevano mutare, mutando le circostanze della recitazione, sicché è frequente il caso di cantári con duplice o triplice inizio, oppure di cantári senza inizio o senza fine. Questo spieghi il fatto che i cantári di Bruto e di Gismirante hanno la prima ottava comune.

Il titolo del libro mi fu suggerito dall'espressione, con la quale costantemente i canterini esaltano la bellezza della loro fonte: "un libro che mi par degli altri il fiore", e da due versi della Reina d'Oriente :

e priego voi che ciaschedun m'intenda, però che questo è 'l fior della leggenda.

Se non che "fiore" non ha, nel frontespizio del presente volume, il medesimo significato che nell'ottava, ma quello di "fiorita", di "scelta", che gli è comune nella letteratura antica, la quale ci ha dato, ad esempio, il Fiore dei filosofi e i Fioretti di san Francesco.

Quanto alla metrica, ho tolto le ipermetrie dovute alla scrittura antica, che rispettava le vocali finali soppresse nel verso, e alle rappezzature dei copisti; ma ho serbato in molti luoghi la dialefe, specialmente dopo le parole tronche, perché essa è un vezzo costante della poesia popolare e, d'altra parte, si trova qualche volta anche nella poesia d'arte e nelle scritture solenni dei primi secoli. Per la grafia, mi sono attenuto ai criteri di questa raccolta: ho quindi tolti i raddoppiamenti iniziali toscani ("cheppiú", "affare", "addire", ecc), scritto "e" o "ed" e "a" o "ad" (i mss. hanno costantemente "et", "ad") a seconda delle esigenze del verso, e via discorrendo. Qua e lá ho soppresso o aggiunto qualche parola o sillaba, come specificherò nelle note che seguono. Nelle quali renderò conto anche delle varianti non meramente formali¹. Purtroppo esse sono moltissime; ma di ciò non stupirá chi pensi che questi cantári, in luogo di avere una tradizione tranquilla di famiglie di mss., erano affidati al capriccio e alla memoria dei cantastorie. Si aggiunga che essi non lasciavano inerte (come un libro dottrinale) la fantasia dei copisti. Ogni copista, poiché scriveva per sé e non per gli altri, si tramutava volentieri da trascrittore in rifacitore. E spesso le varianti, che siamo costretti a respingere perché appartenenti a codd. piú incerti e malfidi, sono belle e ingegnose al pari e piú delle legittime.

¹ Racchiudo tra parentesi quadre le sillabe e le parole aggiunte da me, tra parentesi tonde quelle soppresse.

I

Il Bel Gherardino si legge in due mss.:

[ A ]. Cod. Magliabechiano, VIII, 1272. Dopo una storia in prosa di Apollonio di Tiro, scritta in grossi e pesanti caratteri da un certo Poccio di Benino, segue questa nota: "Questo cantare d'Apolonio è finito allo vostro onore, e 'l secondo è al cominciante, dello Gherardino ; e questo libro è di Davançino di Giovanni". Piú sotto, un altro scrittore postillò: "Questo libro è di Davanzino, lo piú tristo garzone, e fassi ispacciare molto volentieri". Nella pagina seguente incomincia il cantare, il quale occupa cinque carte scritte a due colonne (cc. 33-37). Il copista trascrive le ottave senza interruzione o distinzione di versi, come se esse fossero prosa: soltanto ha cura di andare a capo alla fine d'ogni ottava. I nomi propri sono resi con semplici sigle (G.=Gherardino; M.=Marco), i numeri con cifre romane, le parole sono abbreviate bizzarramente e smozzicate; sicché, diceva un critico, il codice appare "dei piú difficultosi del mondo, scritto che par raspatura di gallina, e diluviano i malintesi".

[ B ]. Bibl. Naz. di Firenze, cod. II. IV. 163, miscell, del sec. XIV. Le ultime tre carte (95-97) contengono il Bel Gher . su due colonne; ma disgraziatamente il testo rimane interrotto all'ott. XXVIII del primo cantare.

B rimase finora sconosciuto; A fu pubblicato da F. Zambrini nel 1867: Cantare del bel Gherardino, Novella cavalleresca, in ottava rima, del sec. XIV, non mai fin qui stampata , Bologna, 1867 (16°, di pp. 56). È un'edizioncina di 120 copie, formicolante di spropositi d'ogni maniera. La critica le fece un'accoglienza cosí ostile e severa, che lo Zambrini fu obbligato, poco dopo, a rinnovarla e a correggerla nell'opera: Cantare del Bel Gherardino, Novella cavalleresca, in ottava rima, del sec. XIV, non mai fin qui stampata , Bologna, 1867 [la data è falsa: si legga 1871], che costituisce la disp. LXXIX della Scelta di curiosità letterarie . Questa seconda ediz. del 1871 fu di soli 82 esemplari, i quali furono numerati progressivamente in continuazione dei precedenti 120 del 1867, e formarono con essi come una sola ediz. di 202 copie, recando tutti nel frontespizio la medesima data del 1867. Ai sottoscrittori della Scelta di curiositá letter. furono distribuiti indifferentemente esemplari della prima e della seconda edizione, sicché essi ben presto si confusero e si scambiarono facilmente. Anche cosí rabberciata, l'edizione dello Zambrini è una delle piú sciagurate, sia per la superficiale coltura filologica dell'editore, sia per le difficoltá presentate dall'unico codice allora conosciuto [ A ], scritto, come diceva il Piccini, "da un solenne ignorante", anzi "da uno dei piú grossi idioti, che, come suol dirsi, sien andati mai sui picciuoli". Basti dire che quattro ott. (I, II, XII, XIV) sono di sei versi; dal che lo Zambrini deduceva che il cantare deve essere dei piú antichi, perché l'ottava non è "ancora ridotta alla sua perfezione"! Naturalmente quelle lacune si devono a un'omissione di A , che io ho potuto colmare col sussidio di B . Sebbene piú compiuta in quelle famose ottave mutile, la lezione di B non reca grande utilitá nella ricostruzione del testo del Bel Gherardino . La differenza piú notevole, che presenti rispetto ad A , è il costante scioglimento dei nessi sintattici, con l'abolizione di ogni particella relativa e consecutiva. È chiaro che, mentre il copista di A amava raccostare il poemetto alla coerenza e al legamento proprio delle opere destinate alla lettura, quello di B aveva invece l'animo rivolto al fare sciolto e disordinato dei cantori all'improvviso. Se ne dovrebbe desumere che B è piú vicino all'originale; ma questa conclusione, data la scarsitá delle notizie e l'incompiutezza del cod., è pericolosa. Per questo, piuttosto che dare nelle prime 28 ottave (riferite da tutti due i mss.) un testo diverso dalle altre, e conferire al cantare una veste arlecchinesca e bizzarramente rappezzata, ho preferito di partire sempre da A , modificandolo solo nei tratti dove appariva evidentemente guasto, come qui sotto si vedrá:

CANTARE PRIMO:

I, 3-4 mancano in A e nell'ed. Z. 4 B se[d]… fusse f. 8 B per cortesia ciaschehuom la 'ntenda

II, 1 A parlare
2 A primai, missi
3 B farò
5 B O buona gente che state a 'scoltare
7 B Se d'ascoltare avarete memoria
8 B io vi dirò d'una

III, 4 B come diciasonglio
5 B voglio tornare et dirvi el convenente

IV, 1 B questo signor venne 3 B reggiar 4 B sillacomando 5 A e que fu quegli 6 A fu chiamato

V, 3 B e lo piú forte di lor 7 B poi gli

VI, 1 B se manteneva 3 B collui son bracchi et virtuosi 4 A e caval 5 B con molti 6 B convita cav. 8 B si si ragiona

VII, 1 A tantonto 2 B potia 3 B venie 4 B li suoi serventi 7 B si che fr.; A cogli suo

VIII, 1 A E un donzel 2 A Di tristizia e di dolor; B ch'egli avia 4 A Per esser fuor di 5 A E quel donzel A e tratterotti

IX, 1 A E quel donzel
2 B sol per la v. che a lui servire
3 A e di pres.
4 B con teco voglio
8 B De la citá esciron

X, 3 B et in tal loco furon
4 B che casa non ci avia dove
6 B restavan
7 A venne in su l'albor del giorno
8 B pose mente

XI, 1 B Ebbe sguardata una lunga p. 2 A Ebbe veduto un 4 B in questo modo non è i vv. 5-6 mancano in A 6 B e[sso] 7 A e entro; B un nobil 8 A Ciascun cavalca la

XII, 1 A E cavalcando per quella i vv. 5-6 mancano in A 8 B mise

XIII, 7 A Inpero che colá dove il serpen' toccava 8 A alie

XIV, 2 B perché lo s. li mova
3 A uno colpo li die' nel
i vv. 5-6 mancano in A
7 B elli mise

XV, 3 B a Marco
5 A Gherardin che in prima lo previde
6 A in ver li
7 B quando

XVI, 2 A giamai
4 B fal cadere
6 A E egli chiamando forte
7 B Non mi lassar cosí impedimentire

XVII, 1 B non tardò neente 2 A colla spada tagliente senza far 3 A in ver' dell'orso; B feriva l'orso si neq. 4 A uno colpo ch'egli de' 5 A che l'ebbe fesso 6 A Bello ne 7 A cader che fece; B in nel ferir dixe l'orso: O damigello 8 B di quel

XVIII, 1 A morto le bestie; B la fiera 2 B si meraviglia 3 B e nella mente 4 B ver' del castello prese a cavalcare 5 B ma quando fûr davanti 6 B bussare 8 A chi se l'aprisson non viddon neente 1 A E scavalcar e montano suppe' le scale 2 B pur che l'un 5 B lo freddo era grande che 'l tempo non cala 6 A e in fralloro insieme 7 B E cosí ragionando in per poco

XX, 1-2 B Ben chi 'l facesse non potian vedere. E guardaron dintorno
a basse ciglia
6 A avessomo
7 A Questa sarebbe maggior meraviglia!

XXI, 3 B eran 4 B fûr di molti 5 A e le lumiere v'eran 6 B E' cavalieri furono 7 A e po' cc'a tavola fûr gli b. 8 A furono recate

XXII, 1 B assai fûr 2 B non ci vedian ragazzo né 3 B et dimorando in sí facta 4 B sopra di lor avien 5-6 B E l'un co l'altro insieme si dolea: Ma i' non fu uso in cosí facto ostieri 7 B Ma poi ch'ebon

XXIII, 1 B Ma poi che venne l'otta del d. 2 B in una z.; A ne furor menati 3 B con un doppier dinanzi, a lo ver dire 4 B in una zambra fu Gherardin menato 5 B a lui con gran disire 6 B davanti a Gherardin si fu spogliata 7 A pavento

XXIV, 7 B Bel Gher. intende 3 B et quella donna fra le braccia el prende 5 B si 'l sostenne 7 A come il libro dimostra 8 B fecion d'amor

XXV, 4 B d'una gran quantità

XXVI, 1 B Ma poi ch'ebbe asaggiato 2 B e l'un dell'altro prese a lor dimino 3 A E la donzella 4 B le rispose: El nome è G. 5 B si le dicia a lei perché 7 A tutto ciò ched egli aveva 8 A egli aveva speso in cortesia

XXVII, 1 B quella donpna 2 A [egli] 3 B accende 4 B trovava loco 5 B Bel Gher.

XXVIII, 1 B Quando… comincia l'albore 2 A e la donzella si si fu 3 B di fino colore 4 B davanti a G. 5 E a Marco Bel ch'era suo 6 B l'á donata

XXIX, 6 A presente

XXX, 3 e[d]
4 trovarono
7 a destra e a sinistra

XXXII, 2 A allegrezza ettade
5 A e que' che quella pena sostene
6 e non vedea

XXXIV, 4 A lei si parte

XXXV, 2 [tu] comanda 5 o[ver]

XXXVII, 4 A cavallo si montarono

XL, 1 A l[o] 5 e[d]

XLI, 1 A Con grande onore ne la cittá entrava

XLV, 1 A In un ronzino ciaschedun sbigottito.

CANTARE SECONDO:

I, 6 A bello sia esto secondo

III, 8 A v'intendo trarre malinconia

VII, 5 A che[lla]

VIII, 5 A uscí [fuori] ed entrò

X, 2 A gran(de)

XI, 2 A donzel(lo)
7 [d]entro

XIII, 4 A e dice: Or [donna mia] ti
8 a(d)

XIV, 6 A Parecchie volte

XVI, 3 A la [d]ove 5 A e non vedea 8 A si [egli] era

XX, 5 A ella [lo] veggendo(lo) (co)tanto

XXII, 2 A (co)tal 4 se (tu) non

XXVI, 7 A datemi [la] parola

XXVII, 4 A S'io [ne]

XXIX, 6 Questo verso manca nel ms.; è aggiunto dallo Z.

XXXIII, 2 A che quel soldan facea sí malamente

XXXIV, 2 A fe[ce]… cadere 4 me[glio]

XXXV, 5 A dicea(no)

XXXVII, 1 A E lo Bel Gherardino molto sdegnosse 2 A veggendo che 'l soldan

XXXVIII, 5 A cuor(e)

XXXIX, 4 A assodotte 5 A [ha] vinto

XLI, 3 A a il cerchiovito

XLIII, 2 A avanza[va] 3 A altro

XLIV, 6 A omai per niente

XLV, 5 A ismon[tando].

II

I due cantári di Pulzella gaia si leggono in un cod. del sec. XV, appartenuto giá alla biblioteca Saibante di Verona, e poi posseduto dal marchese Girolamo d'Adda di Milano [ C ]. I cantári sono dati dal ms. in una forma assai diversa da quella che qui si riproduce, e cioè "vestiti per metá alla veneta". Il Rajna, che li scoprí, sostiene che la forma originaria fosse toscana, e a questa li ricondusse nell'edizione che ne diede nel 1893: Pulzella gaia, cantare cavalleresco , Per nozze Cassin-D'Ancona, 21- 22 gennaio 1893, in-8, pp. 44 (Firenze, tip. Bencini).

Per dare un saggio della lezione del codice, riproduco di sulla copia, che mi ha comunicato il Rajna, le prime quattro ottave del primo cantare:

1

Ora me intendeti, bona zente, tuti quanti in chortexia et in bona ventura: dire ve volio de li chavalieri aranti, ch'al tenpo antigo andava a la ventura. In chorte de lo re Artus li sedeva davanti, segondo come parla la scritura, in schomenziamento de miser Troiano, che feze avanto con miser Galvano.

2

Miser Troiano sí disse:—Ho chompagnone con tieco e' volio inpignar la testa, chi dirano piú bela chazaxone de nulo chavalier di nostra jesta.— Quando eli fezeno la inpromisione, alo re e ala rajna feze richiesta; e zaschaduno la testa si inpignava chi piú bela chazaxone si aprexentava.

3

Intradi sono j chavalierj a quele jnprexe, inverso lo bosco prexeno lor chamino. Miser Troiano una zerva si prexe che jerano piú bianca de un armeljno; e tuta vja lo la menava palexe, che veder la podea grandi e picholino. Davanti lo re Artus saluta e inchina, poi l'aprexentò a Zenevre la rezjna.

4

Miser Galvano chavalchano ala boscaja; alo levar del sole l'ebeno trovato. Una serpe, che lo rechiexe de bataja; sopra lo schudo quela j s'ave zitato. Lui mese mano ala spada che ben taja, cretela avere ferjta nel costato. La serpa, che sapeva ben scremjre, Miser Galvano non la pote ferire.

Come si vede, dalla revisione del Rajna il poema è uscito compiutamente trasfigurato. Nel testo originario, avverte il R., i versi "in gran parte non tornano"; e la malattia era cosí profonda, che non è interamente guarita neppure dopo le cure d'un medico cosí delicato e sapiente. Dovunque smozzicature o enfiagioni; e parecchi tratti in tal modo zoppicanti, che anch' io ho dovuto offrir loro, di mio, le stampelle, perché si reggessero in piedi. Ecco, ad es., qualche correzione:

XXI, 1, corr. "si li si fu" in "si li fu";

XX, 2 "con penne": "con [le] penne";

XXXII, 6 "gentil": "gentil[e];

XLII, 7 [ne] raccomando;—liv, 8 "niun[o]";

LXXII, 5 "altra cosa che a te sia grata": "che [ben] ti sia grata"; ecc. ecc.

Nel testo del Rajna sono omesse quattro ottave (XCVI-XCIX), che paiono spurie. Le riproduco qui dalla copia del codice D'Adda, che il R. mi ha comunicato:

[96]

Leta la letera, lo bon miser Galvano el fato li consonò e molto li piaze. A vui dico, signori, a chi altro leto non ano, di questo parentado ve dirò veraze, di queste do sorele che mentoano lo autore nostro, che fo tanto audace; fiole bastarde de lo re Apandragone, di queste do sorele fo la condizione.

[97]

Pandragone de lo alto re Artus fo pare, come dize l'instoria e 'l vero chanto; queste duo fie naque d'un'altra mare in modo de avolterio in quelo canto, sorele de re Artus fo, zò mi pare, per padre ve dicho solamente tanto; la Dama di lo lago fo chiamata, Lanziloto costei ebeno nodrigata.

[98]

El savio Merlino costei feze morire, la qual lei chiuxe dentro al molimento esendo vivo, la sua instoria áno a dire, de la sua fine non sepe veder lo partimento. Innamorato di 'sta dama era quel sire, ma a lei lo suo amore non li fo in talento. Costei era savia e gran incantatrice; vivo nel molimento serò Merlin, zò se dize.

[99]

De la fada Mongana costei fo serore d'un padre e madre nate veramente; lo suo parentado vi ò dito in 'st'ore; ritorno a l'instoria di presente. Miser Galvano stava di buon cuore, leta la letera, che fo tanto sazente; amaistrato da la Ponzela gaia, hobedire la vuole e piú non abaia.

III

Del cantare di Liombruno non si conoscono manoscritti, ma moltissime stampe antiche e preziose:

1. HISTORIA DI LEON BRUNO—6 cc. a caratteri gotici, s. n.; reg.: Ai—Aiii.—Incom.:

Omnipotente dio che nel cielo sei padre celeste salvator beato che cu_m_ tua mano tuto el mondo fei el tuo saper rege i_n_ ogni lato.

Finisce (c. 6 b):

al nostro fin dio ce dia gloria
al vostro ho_n_ore he dita questa istoria.
LAUS DEO

S. a., ma del sec. XV; appartiene alla Biblioteca Melziana di Milano.

2. LA HISTORIA DELLIOMBRUNO—In-4°, caratteri rotondi, sei carte a due colonne di 40 ll., della fine del sec. XV. È cosí descritta nel catalogo Libri del 1847 [n. IIII], e dal Brunet ( Manuel , II 590): ha due figure in legno.

3. HISTORIA DI LIONBRUNO—s. l. n. a. (ma ed. a Roma, Eucharius Silber, c. 1485). In-4°, 4 ff.; reg. A—Aii, a due colonne di 52 l., caratteri semigotici. Dopo il titolo (c. 1 A) in caratteri maiuscoli: "Historia di Liombruno", segue una xilografia e poi la prima ott.:

[o]nnipotente Dio che nel ciel stai padre celeste salvator beato.

Fin. a c. 4 B, col. 2^a: "FINIS".—È posseduta dalla Biblioteca Trivulziana di Milano, Miscell. vol. V, n. 6; cfr. D. REICHLING, Appendices , n. 1754.

4. HISTORIA DI LIONBRUNO—s. l. n. a. (ed. a Roma, Joanne Besicken et Sigism. Mayer, c. 1495). In-4°, caratteri semigotici, di sei ff. non num.; reg. aii-aiii. 2 coll. di quattro ottave e mezza. Inc. (I A) "La historia de Lionbruno" e, dopo una xilogr., l'ott.:

[o]Mnipotente dio che nel cielo sei padre celeste e salvator beato che con tua mano tutto el mondo fei el tuo saper regi in ogni lato o tu che sei chiamato Re di rei concedi gratia a me padre onorato che possa dir un bel cantar in rima che a ciascun piacza dal piede alla cima.

Fin. (c. 6 B col. 2^a), dopo tre ott.: "FINIS". È posseduta dalla
Biblioteca Casanatense di Roma; cfr. REICHLING, Appendices , n. 940.

5. LA HISTORIA DI LIONBRUNO—s. a. Cosí descritta dallo Hain [ Repertorium , 10114] " Praeced. fig. xilogr.; est poëmation 98 octavis constans; 6 ff.; sequitur La Sala di Malagigi".

6. LA HISTORIA DI LIOMBRUNO ET UN | CAPITOLO DI PAMPHI- | LO SAXO.—In fine: In Siena, Per Francescho di Simeone adistantia di Giovanni d'Ali- | sandro Libraro, 1550 A di | 10 giugno.—È posseduta dalla Bibl. Marciana (miscell. 1945-43 a), ed è cosí descritta dal Segarizzi: "Il tit. è a c. 1 a. A c. 3 b una xilogr. rappr. il re in trono circondato da due soldati. Inc. c. 1 A, col. 1^a: 'Omnipotente Dio che nel ciel stai' Fin. (ott. 97) col. 2, v. 32: 'al vostro onore ditta è questa storia'. EL FINE. Segue (c. 6 B col. 1): | Uno de capitoli di Pamphilo | SAXO, d'uno che si lamen- | ta del suo amante. 'Fera la stella sotto la qual nacque'. Fin. (terz. 23 -|- v. 1) c. 6 B, col. 2, v. 31: 'Non messer della morte almen villano'. Mis. mm. 186x125, cc. [6] col. 2 p. p., vv. 40 per col., segn. A—Aiii. s. rich.".

7. [L]A STORIA DI | LIOMBRUNO | IL QUALE FU LASCIATO DAL PADRE PER |. Povertá in preda del Diavolo, e scampando fu portato da una donna in | forma d'Aquila in una Cittá, e facendo egli dipoi varii viaggi, ru- | bò à certi malandrini un Mantello, e un paio di Stivali, | con i quali andò invisibile, e vinse il vento, | Con un capitolo di Panfilo | Sasso Nuovamente Ristampata. In fine: In Firenze, Alle Scalee di Badia .—S. a. (ma del sec. XVI ex.) di cc. [6]. Reg. A—Aiii a 2 coll. di 5 ott. ciascuna, carattere rotondo con due xilogr. Fin. (c. 6 a): "al vostro honore finita è questa storia. Il fine della historia di Liombruno. Seguita un bellissimo Capitolo di Panfilo Sasso".—C. 6 B: Uno de' capitoli di Panfilo Sasso | d'una che si lamenta del | suo amante: "Era la stella sotto la qual nacque". Fin.: "Non m'esser della morte almen villano. IL FINE".—È posseduta dalla Biblioteca Magliabechiana, n. 981-15. Conta 97 ottave.

8. LA HISTORIA DI LIOMBRUNO (got.) | Il quale fu lasciato dal padre per povertá in preda del Diavolo, et | come fu portato da una donna in forma d'Aquila in una | Citta; et facendo egli dapoi varii viaggi, rubò a certi | malandrini un Mantello, et un par di stivali, con li quali andava invisibile, e corre | -va piú che non il vento.—"Poscia un intaglio in legno: nel fondo montagne con una cittá; dinanzi dell'acqua con due battelli pescherecci e un pescatore, al quale il diavolo presenta un pesce". Indi le tre prime strofe. Inc.: "omnipotente Dio che nel ciel stai". Fin., c. 6 A, l. 32: "al vostro honor finita è questa historia". IL FINE DELL HISTORIA DI LIOMBRUNO | Seguita un capitolo di | Pamphilo Sasso. Fol. 6 B a.: Uno de capitoli di Pamphilo | Sasso d'una che si lamen- | ta del suo amante || FEra la stella sotto la qual nacque. Fin. c. 6 B b 1. 37: Non m'esser della morte almen villano || IL FINE. Stampata in Firenze l'anno MDLXX.—La storia ha 98 ottave, il capitolo 23 terzine. In-4, car. rom. con segn. e cust. senza num., 6 fogli con fig. xil.—È compreso nel celebre volume miscellaneo della Bibl. di Wolfenbüttel, descritto da G. Milchsack ed A. D'Ancona nel 1882, n. XXIV.

9. LA HISTORIA DI LIOMBRUNO. Con un capitolo di Panfilo Sasso, nuovamente ristampata. In Firenze, per Stefano Fantucci Tosi alle Scalee di Badia, s. a. (sec. XVI ex.?), in-40, cc. [6] con incisione in legno.—Un esemplare era nella Biblioteca dei marchesi D'Adda di Milano, un altro è nella Melziana pure di Milano.

10. LA STORIA DI LIOMBRUNO con un capitolo di Panfilo Sasso. Firenze, Girolamo Cavaiè, s. a. (ma della fine del sec. XVI), in 4°, fig. cc. [6] a 2 coll.—È citata nel catalogo Libri del 1847 [n. 1112]

11. LA HISTORIA DI LIOMBRUNO. Bologna, per il Sarti sotto alle Scuole alla Rosa, con licenza de' Superiori, s. a. (ma del sec. XVII), in-4°, cc. [4] a due coll.—Un esemplare è nella Biblioteca D'Adda, un altro nella Melziana.

12. LA HISTORIA DI LIOMBRUNO. In Bologna et in Pistoja presso il Fortunati, s. a. (sec. XVII). Il titolo è a c. 1 A, segue la solita xilogr., poi C. 1 A col. 1^a: "Omnipotente Dio che nel ciel stai". Fin. (ottava 96) c. 4 B col. 2, v. 52: "Al vostro honor è detta questa historia". Mis. mm. 175x125, cc. [4], col. 2 p. p., v. 52 p. col., segn. A-A 2 s. rich.—È compresa nel catalogo Libri del 1847 [n. 1113]. Un esemplare è alla Marciana, Misc. 1016-20 (Segarizzi, Bibl. delle stampe pop. della B. Marciana , n. 103).

13. LA HISTORIA DI LIOMBRUNO. Bologna, 1647, in-4°.

14. LA HISTORIA DI LEOMBRUNO. Palermo, Per il Coppola, 1650, con licenza de' superiori, in-4° gr., a 2 coll, di pp. 8.—È cit. dal Pitré, Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani , Palermo, 1875, 1, 280.

15. LA HISTORIA DI LEOMBRUNO. In Napoli, per il Pittante, 1701, in-4°, a 2 coll., con una tavola. Citata dal PITRÉ, l. c.

16. Bellissima Istoria di Liombruno . Dove s'intende che fu venduto da un (= suo?) padre ecc. In Bologna, Alla Colomba, 1808, in-18°. Cit. dal PITRÉ, op. e loc. cit. Credo che le indicazioni date dal P. siano inesatte e che l'opuscolo sia quello stesso in-12°, giá posseduto da Emilio Teza e da lui inviato a R. Köhler [n. 17].

17. Bellissima Istoria di Liombruno . Dove s'intende che fu venduto da suo Padre. E come fu liberato: ed altre cose bellissime, come leggendo intenderete. In Bologna, 1808, Alla Colomba, con Approv., in-12°.

18. Bellissima | istoria | di | Liombruno | dove s'intende, che fu venduto | da suo Padre al Demonio, | E come fu liberato, | E altre cose bellissime, come | leggendo intenderete.—Firenze | Presso Francesco Spiombi | Con Approvazione, s. a. (sec. XIX), di pp. 24.—Sono ott. 91.

19. Bellissima Storia | di | Liombruno | Lucca | con permesso. Di pp. 24. "Benché porti la data di Lucca, mi pare piuttosto stampata a Todi. Sul frontespizio una rozza stampa che rappresenta uno portato via da un'aquila e una donna in atto di maraviglia. È diviso in 2 cantári; e in tutto sono ott. 95" (D'ANCONA). In una miscell., di Storie e canti popolari d'Italia , posseduta dal Libri, era compreso un libretto in-12°, ed. a Todi, int.: Bellissima istoria di Liombruno . Credo che il D'Ancona voglia accennare a questo.

Molte altre stampe moderne (perché il cantare si ristampa o si ristampava fino a pochi anni fa) vanno sui muricciuoli: l'Imbriani cita, senza indicarne la provenienza e l'anno, una:

20. Bellissima Istoria di Liombruno, dove s'intende che fu venduto da suo padre e come fu liberato, ed altre cose bellissime, come leggendo intenderete , che potrebbe essere una di quelle indicate ai num. 16-17-18-19 o qualche riproduzione fedele di esse.

La storia di Liombruno doveva pubblicarsi nel 1866 in edizione critica per cura del D'Ancona, in un volume della Collezione di antiche scritture italiane inedite o rare, dall'editore Nistri di Pisa; ma purtroppo quel disegno non fu piú eseguito. Pochi anni dopo,l'Imbriani, senza intento né apparato erudito, dava alla buona un testo di Liombruno , riproducendo in appendice alla novella fiorentina in prosa di Liombruno , i due cantári, quali erano nelle stampe 14-20, cioè nei libriccini popolari moderni: La novellaja fiorentina , Livorno, 1877, p. 454 sgg.

Evidentemente noi ci troviamo di fronte a due diverse versioni, l'una piú antica e piú compiuta, e l'altra raffazzonata e rabberciata; e le stampe si devono dividere in due famiglie distinte. La prima ha 97 ottave e questo inizio: "Onnipotente Dio che nel ciel stai". La seconda ha 91 ott. e l'inizio: "Dammi aiuto, ché puoi, musa divina". Alla prima famiglia appartengono le stampe indicate ai numeri 1-2-3-4-5-6-7-8-9-12; alla seconda i nn. 18-20 e forse i nn. 16-17-19.

Tener presenti tutte le edizioni sarebbe stato un lavoro immane ed inutile, perché le stampe popolari si riproducono meccanicamente le une dalle altre; perciò ne ho trascelto dal primo gruppo una sola, l'Ediz. magliab. descritta al n. 7 [M.], col sussidio della quale ho ricostituito il testo che ora do in luce. Ed ecco l'elenco delle correzioni da me apportate allo scorrettissimo testo:

CANTARE I:

II, 6 M uom

III, 2 M d'andava 6 M havea

IV, 6 M gran[de]

VI, 7 [se]

VII, 6 M figliuoli

IX, 3 M gran-[de]
6 M nessun[o]

X, 3 [vi]
8 trarre

XIII, 1 [E] poscia
5 M che riceveva

XIV, 7 son [colei] che si [in] alto
8 M diavol

XVI, 3 e[d] a giostrare
5 M nessun

XVII, 6 M al tutto piacciati

XVIII, 2 [Cosí] cortesemente (si)
7 M El nome; il v. 8, che manca in M, è tratto dalla stampa n. 20

XIX, 2 M fe ei per suo
3 [gl'] era

XX, 1 (E) Liombruno

XXII, 3 M Che al termin. L'editore ha frainteso il passo, fuorviato dall'inversione: "prometti di ritornare al termine ti darò". Il pronome relativo si omette frequentemente nei testi antichi (cfr. il secondo cantare, XLVII, 7)

XXIV, 3 [ch'ei] 5 [l']

XXV, 7 La sera (che) Liombrun

XXVI, 2 Liombr. all'hora si fu
6 [n']ha

XXVII, 2 si [ei ri-]chiese il buon. Senza la correzione, il verso
sarebbe manchevole

XXIX, 7 che[d io] ho fatto

XXX, 2 M facean ciaschedun

XXXI, 1 [n']ho 5 [Sappi] 8 M si de seco venire

XXXII, 1 M Quando L. questo udire udia 6 (E) Liombr.

XXXIII, 4 era (giá)

XXXIV, 2 si [gli]
6 M Davanti a lui
7 M e disse al Saracin. Ma questo è il discorso del saracino a
Liombruno, tant'è vero che subito segue la risposta di Liombruno
(XXXV 1): "E Liombrun disse:—Volentieri"

XXXV, 8 M a colpi.

XXXVI, 3 M dette ciascheduno (12 sillabe) 8 M (E) giú

XXXVII, 7 combattere

XXXVIII, 6 Ciò (che) vi piace. Per la soppressione del relativo, cfr. piú sopra l'ott. XXII, 3

XXXIX, 6 che[d] a noi

XL, 4 [ne] provi

XLI, 4 M chi genta il sparviero 8 Liombruno poi fu (13 sillabe)

XLII, 1 [vi]

XLIII, 2 Re [ed] io
4 M presta

XLIV, 6 M (ri-) piena
8 M (Ed) ei

XLV, 3 quando lo re
7 Et disse Liombruno

XLVII, 1 M da lei. Ma non giá da Aquilina prende commiato Liombruno, sí bene dal re di Granata 6 M ben mincr.; ma Aquilina sdegnata deve dire il contrario, cioè di essere indifferente alla morte dell'amante

XLVIII, 2 [ne] fu.

CANTARE II:

III, 8 M edua par di stivali. Quattro stivali per due piedi son troppi!

IV, 4 M si hebbono a crucciare 7 il chiamoe

V, 2 habbi

VII, 1 Disse Liombr.: Io nol crederia 8 a[d] uno

VIII, 1 Se[d] 3 el piú 8 ninna

X, 1 (la) scusa

XI, 1 questi 4 si [n'] ebbono 8 restar

XII, 3 di vedere, ripetizione del v. precedente

XIII, 2 Che [presso] a un'osteria [ne] fu
7 (che) fece L.

XV, 4 M all'hor, inutile ripetizione dell'"allora si ebbe parlato" del v. 3
5 voi [che] cercate
7 dimmi

XVI, 3 menzonare
6 (di) piú [che] qualche mese

XVII, 1 M E Liombr. disse e nissun
3 [Ed] il piú antico

XVIII, 3 M se non un romito 4 M el qual da venti 6 Dio [ne] gli ha ordinato

XIX, 6 "uso" per "oso": ardito

XX, 2 E (quando) Liombr. da costor si

XXI, 1 quegli stivali
3 giunse in parti tali
5 doppo alla cella del romito soli. L'ottava è guasta, come mostra
la falsa rima del v. 5, e deve essere stata cosí raffazzonata in
un tempo in cui il popolo non sapeva piú che cosa fossero gli
"usatti", che formano la rima del v. 1, e conseguentemente dei
vv. 3 e 5. Nel ricondurre il testo alla lezione primitiva mi valgo
della stampa descritta al n. 20

XXII, 8 M sentendo chiamare

XXV, 4 M non ò da narrare. La stampa 20 riprodotta dall'Imbriani: "non udí nominare". Il testo in origine doveva recare "non odi", donde è uscito lo spropositato "non ò da" di M, e "nomare", dal quale venne da un lato il "narrare" di M e dall'altro il "nominare" della stampa 20, che rende ipermetro il verso

XXVI, 2 tornan (a) uno 8 M e da parte di Cristo domandava. Ma non si sa di che cosa domandasse; l'interrogazione rimane vuota

XXVII, 3-6 vento Levante poi subitamente | che fece al mondo al furor tapino | vento maestro venne similmente | e vento Greco e 'l buon vento Marino. Ho invertito i vv., perché Levante non è un vento maligno, ma è "furente" invece il Maestrale: perciò ho disposto i vv. in questo ordine: 2, 3, 6, 5, 4. Ho mutato "fece" (v. 4) in "face", perché gli effetti del Maestrale si fanno sentire tuttora, e "al furor" in "al suo furor" per la misura del verso. "Al suo furor" significa "col suo furore" perché nei testi antichi "a" spesso ha il significato di "con"

XXVIII, 1 [ch'è]

XXX, 8 quando sarai per voler camminare. Il verso deve essere stato mutato, quando dal primitivo "cominciare" si trasse un arbitrario "camminare" e si ebbe la ripetizione di "cammino" e "camminare"

XXXI, 2 per venire

XXXII, 4 M Con Liombruno il romito partia. Ma quello che segue mostra che il verso è stato rovesciato, perché colui che non si vuol trarre gli usatti è Liombruno e non l'eremita 7 'l vento ['l] chiamasse

XXXIII, 7 Ve' (di)

XXXIV, 1 trahendo 4 vento [e] messesi

La rima dei vv. 7-8 è fiorentinescamente "arriv_oe_-aspett_oe_", ma il tronco "arrivò-aspettò" mi pare renda assai meglio la prodigiosa rapiditá del volo

XXXV, 5 lunga vedi tu. Ma è facile correggere, ricorrendo all'analogia di XXXIII, 7: Ve' quella montagna lungi? 6 M te ne convien gire

XXXVII, 4 sei ['l] miglior
7 via se n'andava

XXXVIII, 1 dimostrato
6 Aq. vuol mangiare

XXXIX, 4 che gli bisogna

XL, 3 cuor[e] disse (questo) è segnale

XLI, 2 nol vedieno l'ardito
5 [Ed] egli

XLIII, 3 con effetto
8 il soperrò

XLIV, 3 Liombruno

XLV, 2 vidde 3 questo 6 Io sì l'ho sognato

XLVII, 1 E quella donna. Ristabilisco costantemente i nomi propri in
luogo dei generici
3 strinse. Ma avremmo la medesima parola in rima ai vv. 3 e 5
7 Si adopra. Anche qui è sottinteso il relativo "che adoperi" come
in XXII, 3 del primo cantare

XLVIII, 4 Anche qui è sottinteso il relativo "che": cfr. XLVII, 7

XLIX, 8 M onore.

IV

Dell' Istoria di tre giovani , della quale non si conoscono manoscritti, queste sono le edizioni a me note:

1. Historia di tre giovani disperati e di tre fate , s. n. t. n. a. (circa il 1530), in-4° fig. È posseduta dalla Bibl. di Lucca.

2. Historia di tre Giovani disperati | e di tre fate (gotico). Poi un intaglio in legno: a sinistra i tre giovani che dormono all'ombra degli alberi, a destra le tre fate. Quindi le prime 4 stanze; inc.: "Colui ch'da Giovañi hebe 'l batesmo"; fin.: "a lei rimase duo palmi di coda". Stampato in Firenze nel MDLXVII. In-4°, caratt. rom. con segn. e cust. senza num., 6 ff., 114 ott.—È nella Biblioteca di Wolfenbüttel, n. XXVIII della miscell. citata.

3. Historia di tre giovani disperati | & di tre fate (gotico). La solita xilografia, poi 4 ott.; inc.: "Colui che da Giovanni ebe 'l battesmo" fin.: "a lei rimase duo palmi di coda". Stampato in Fiorenza nel MDLXX.—In-4°, caratt. rom., con segn. e cust. senza num., 144 ott., 6 ff.—Se ne conoscono due esemplari, uno a Wolfenbüttel (n. LXXXVII) e uno nella Melziana di Milano.

4. Historia di tre giovani | disperati et di tre fate. | S. d., ma della fine del sec. XVI o del principio del XVII; in-4°, di cc. 6 n. n. reg. A-Aiij, a 2 coll. di carattere tondo con lettere maiuscole ai capoversi. Fra il titolo e l'inizio del poemetto una xilografia (a destra le tre fate e a sinistra i tre disperati); inc.: "Colui che da Giovanni ebbe il battesmo" fin.: "A lei rimase tre palmi di coda". È nella Bibl. Palatina (Naz.) di Firenze [E. 6- 7- 55, cart. 2^a, n. XXVI].

5. Historia di tre Giovani | disperati et di tre fate.—Una xilogr. rappr. un bosco: a destra tre giovani addormentati, a sinistra tre donne: la prima regge un tappeto, la seconda suona un corno, la terza ha la borsa incantata. A due coll., 10 ottave per pag., 5 cc. n. n., s. l. n. a. (Firenze, sec. XVI ex.). È nella Nazion. di Firenze, Magliabech. M. 981, n. 12.

6. Historia di tre giovani | disperati e di tre fate. La stessa xilografia rovesciata. A due coll., 10 ott. per pagina, 6 cc. n. n., s. 1. n. a. (Firenze, sec. XVI ex.). Bibl. Naz. di Firenze, Palatina [E. 6. 7. 42].

7. Historia di tre giovani disperati e di tre fate . In Pistoja, appresso il Fortunati, in-8°, s. a., ma dei primi del sec. XVII; c., 20 n. n., reg. A—A10, car. tondo. Al principio la solita incisione.

8. Li tre | compagni | li quali si diedero la fede di andare per il | mondo cercando la lor ventura, e come | la trovorno.—Cosa | bella | e | da | ridere. In Lucca, 1823, presso Francesco Bertini, con approvazione.—Di pp. 32 e 111 ott. Inc.: "O musa se io d'Ascrea adesso al fonte" fin.: "Sol le rimaser due palmi di coda".

Ho tenuto sottocchio, durante l'edizione dell' Istoria , le tre stampe fiorentine 4-5-6, le quali non presentano notevoli varietá se non nella prima ottava, che in 4 e 5 è cosí:

Giove, sia quel che sia, in me medemo e' mi conceda grazia in ogni lato ch'i' possa raccontar quanto vedemo e d'udito c'è stato ragguagliato, ecc.

Il testo di queste stampe è assai guasto ed ha richiesto molti e pazienti restauri. Citerò un solo caso. Dopo la guarigione delle damigelle, la principessa, dicono le stampe, fece dare a Biagio "anche cento ducati". Con questi cento Biagio ne rende quattrocento dei cinquecento promessi al medico, che gli aveva data la zimarra (cant. II, ott. XXXII, i) e poi 50 per i servi (XXXIII, 6)! Dunque è evidente che non "anche cento" si debba leggere, ma "seicento": basterebbero per il computo nostro anche cinquecento, ma questa cifra ha una sillaba di piú, per la misura del verso.

Il libercoletto n. 6 è molto piú scorretto del n. 5 e deriva da esso, come dimostra il fatto che la xilografia, che è al principio, riproduce quella del n. 5 rovesciata.

È inutile ch'io riferisca le numerosissime varianti della mia edizione rispetto a quelle popolari. Quasi in ogni verso ho dovuto restituire le sillabe mancanti o potare senza misericordia zeppe ed esuberanze infinite. Ho creduto opportuno di dividere il poema in due cantári, perché non è possibile che la recitazione potesse durare cosí a lungo e l'attenzione del pubblico sostenersi per piú di cento ottave. Nel dividere i cantári, ho seguito la partizione stessa della materia, sicché la spezzatura non è arbitraria, ma logica e quasi organica nello svolgimento dell'azione. Il primo cantare comprende la perdita della borsa, del corno e del tappeto; il secondo il riacquisto dei tre oggetti miracolosi mediante i fichi buoni e i fichi malvagi recati alla corte della principessa scaltra.

V

La donna del Vergiú fu pubblicata da Salvatore Bongi nell'opuscolo: La Storia | della | donna del Verziere | e di messer Guglielmo | Tratta da un codice riccardiano del secolo XV | Lucca, Per B. Canovetti, 1861 (in-8°, pp. 32). Ediz. di cento esemplari. Il codice riccardiano, annunciato nel titolo, è il 2733 "scritto, da un cosí bestiale copista, che, non contento di vituperarla [la Storia] con ogni sorta di errori ortografici, l'avea a tal ridotta, che spesso mancava il numero del verso, il senso e la rima. Onde in varie ottave ha bisognato usare qualche arbitrio e correggere assai, perché il discorso e il metro corressero". Il Bongi era uomo di gusto assai fine, e perciò le sue correzioni hanno sempre qualcosa di seducente e di aggraziato; ma sono cosí numerose e cosí profonde, che si può dire che il testo del cantare pubblicato non ha piú nulla a che fare con quello originario. Sopra settanta ottave, quindici sono interamente rifatte a capriccio dell'editore: la povera Donna del Vergiú , tra le "bestialitá" dell'antico copista e gli accorgimenti del moderno editore, ne uscí tutta impiastricciata e camuffata come di carnevale. Per conseguenza tutte le citazioni, che sono state fatte da questo testo, sono sbagliate e tutte le illazioni storiche e filologiche, che se ne sono tratte, non hanno nessun valore e poggiano sul vuoto.

I manoscritti del cantare della Donna del Vergiú sono tre: quello conosciuto dal Bongi e altri due.

D .—Codice Riccard. 2733. È un grosso volume cartaceo (di 176 carte), scritto sul principio a due colonne, poi a pagina intera, con iniziali rosse e azzurre, sempre dalla stessa mane Lo scrittore cosí si rivela al principio del libro: "Xpo (Cristo) M. cccc.° lxxxj.°. Questo libro si è di Fruosino di Lodovicho di Cecie da Verazzano, el quale è ttitolato La Storia d'Arcita e Palamone chomposta in versy pello famosissimo poeta messere Giovanni Boccacci fiorentino; e di poi ci è scritto altre dilettevole storie e chantary in versi, chomposti da ppiú persone valentissimi; el quale libro si scrisse per me Fruosino detto, l'anno 1481, del mese di luglio e d'aghosto, sendo chastellano del Palazotto di Pisa, per piacere. Addio sia gratia".—Alla fine (c. 176 B) abbiamo un'altra nota di Fruosino: "Chompiessi di scrivere questo testo di questo libro per me Fruosino di Lodovicho di Cece da Verazano, questo di XXVIIII° di agosto 1481, nel Palazotto di Pisa, sendo castellano".

Il cantare comincia a c. 112, con questo titolo: Chomincia la storia della Donna del Vergú et di messer Guglielmo, piacevolissima choxa , e finisce dopo dieci carte (c. 122) coll'" explicit ": "Finita è la storia della donna del vergú". Il Bongi ha chiamato "bestiale" la copia di Fruosino da Verazzano, e non a torto. È una ridda di sfarfalloni comicissimi: "dir loro" per "dirlo" (IV, 7), "latrova" per "latrava" (IX, 7), "tita" per "cita" (V. 1), "mostrerotoli" per "mostrerolti" (XLIII, 8), "nemica" per "una mica" (LIII, 6), "Didio" per "Dido" (LX, 6), "si vera" per "chi vi era" (LXIV), "chuore" per "errore" (LXVII, 6;, ecc. Moltissime volte i versi sono disposti in ordine inverso e tutti frammescolati per entro le ottave, come scossi da un terremoto. Né si contano i versi manchevoli di una, due o tre sillabe, o gli endecasillabi di 12, 13, 14, 15, persino 16 sillabe! Un esempio per tutti (XI, 6-7):

diciendo se altro non a interviene preghiamo iddio che questo dilettoso tempo basti.

E .—Codice Bigazzi 213 della Biblioteca Moreniana (proprietá della prov. di Firenze)—È un ms. cartaceo della fine del sec. XV o dei primi anni del sec. XVI, legato tra due assicelle di legno, di cc. 150 nuovamente numerate, piú VII in fine. Non v'è dubbio che fu scritto nel territorio pisano-lucchese, come dimostra lo scambio costante dello "z" e dell'"s", in "sita" (zita), "sambra" (zambra), "caressa" (carezza), "letisia" (letizia), ecc, e per contro "mizura" (misura), "tezoro" (tesoro), "chazo" (caso), "uziate" (usiate), "Luzingnacha" (Lusignacca). A Pisa ci richiama anche il poemetto del Giuoco del Mazza scudo (cc. 82-89), e la nota che vi si riferisce alla fine della c. 82 B: "Inchomincia il giocho del massa schudo lo quale si solea fare im-Pisa, restossi di giochare in del m. cccc°. vij". Il cantare della Donna del Vergiú comincia a c. 20 e segue fino a c. 31, a tre ottave per pagina, ed è cosí intitolato: "qui inchomincia la donna del verzú". Il cantare conta 68 ottave: mancano le ott. 67 e 68 della mia edizione e vi è in piú un'ottava [64 bis], di cui parlerò piú innanzi. Il testo è molto piú corretto di quello riccardiano, ma è pur sempre ben lontano dall'originale. Non vi si contano i versi ipermetri, non giá per errore del poeta, ma per sciatteria del copista. Nell'ottava 19 i vv. 4 e 6 sono fuori di posto; nell'ott. 35 un verso è interamente rifatto, e ne vien meno la rima ("usa": "mizura"); nell'ott. 38 in luogo del "fiume" di luce del paradiso, abbiamo un "lume" di luce rilucente, e poi "chostui" (XXXVIII, 6) per "chostume" in rima; "duchera" (XLI, 6) per il "duca ch'era a tavola", ecc.

È curioso il fatto che di un cantare, che ebbe una cosí larga celebritá nel Trecento, non possediamo se non due soli manoscritti; e questi sono tutti due pisani. Fruosino da Verazzano è veramente fiorentino; ma la Donna del Vergiú la trascriveva a Pisa nel luglio del 1481, essendo castellano del Palazzotto, come abbiamo udito da lui medesimo. Perché poi la mia pellegrina rondinella leggendaria si sia annidata a Pisa, non saprei dire davvero.

F .—Questo è un codice che io non ho visto e non so dove sia. Ne parla il Passano: "Il r. p. Sante Mattei carmelitano conserva un frammento di manoscritto contenente questa novella, col quale in piú luoghi si potrebbe emendare la stampa. V'ha pure un'ottava di piú [che non ho riprodotta nella mia ediz., perché la giudico un'inutile aggiunta, sebbene sia riferita anche da E ] ed è la seguente:

[64]

dicendo tutti sien per simil crimine colla francesca di paol darimine.

[64 bis]

El duca avea di quella morte colpa del barone et della Dama felice ondegli per tristitia si discolpa come q_ue_sta leggienda conta et dice. Ella duchessa fortemente _in_colpa chiamandola malvagia moritrice. Et pentesi che gliele avea contato et lui che gliele avea rimproverato.

Della mia ricostruzione critica ecco le varianti principali dei mss. D (riccard.) ed E (moreniano):

I, 1 E e verg. domzella 2 E vostra gr. adom. 3 D prima; E per versi 5 E di nobile 7-8 D morine: seguine

II, 1 E un gran 3 D appellato 4 D molto prodo e di gran baronia 5 E di verita quant'omo dir porria. 8 E poderosi

III, 1 E chui amava 3 E prode e gient. 5 D di giente et di tenere; E argiente posissione 6 E del chorpo franco nobil bacciellieri 7 D piú che allora; E quanto a quel tempo 8 D feciesi

IV, 1 E poderoso 2 D altra 3 E valoroso 4 E nessun fior 6 D correva 7 D dir loro; E o a schudiera 8 E duna c. faciea.

V, 1 D tita nonché piú bella; E sita nonche
2 E non si trovava cristiana
D allor si era
3 D verzella;
E verzú
4 E ch'era piú bella che stella
5 D el padre suo nobile barone fue e ella
6 D ella sua madre figliuol di reina;
E e la m. f. di redina
7 D sechulo trapassarono;
E di questo secol
8 D lasciarono;
E lassorli un grande e un ricco tezoro

VI, 1 E Ma ella l'amava cho maggiore
3 E e non avea
4 D essi chollui stava;
E e si cielata stava
5 E ciaschedun

VII, 2 D tanto che in vista; E che per cenni e per sem. 4 E non se ne pote achorgiere homo 5 E avrieno 6 E prima ciascun ch'averlo 8 D savi… tenieno

VIII, 1 D la donna;
E la bella
5 D messere G. si n'andava
6 D [ed]
7 D se esso avea compagnia;
E segl'era achompagnato ella latria
8 E si dipartia

IX, 2 E cucciola
3 E imantenente
5 D esse alcuno… giardino;
E sol per verder se nel g.
6 D o che lui;
E fusse nessuno o che mirasse
7 D ella la trova
8 D ella chucciolina tornava

X, 1 E se non trovava niuno
2 D giva;
E challa
3 E spirito avea sicome
4 E cenno… l'anchina
5 E dama in chui amor sovente (si intenda: la donna—come sovente
Amore suggerisce—trova l'accorgimento della cagnolina)
6 E catellina
8 E giva al verzieri chola cucciola

XI, 1 D quegli a. pieni di 2 D chongiungniono chon tutto elloro 5 E v'avea dovizia 6 E ciascun dicendo: Io non chiegio altro a Dio; D dicendo se altro non interviene 7 E se non chel 8 E si guasti

XII, 1 D erano; E tempo 2 E e si partia la dama el barone 3 E paura 5 E e la m. quando eran 6 E a c.; D incontro 7 E altri segni 8 E che verun non ne

XIII, 1 D [che] ello core spronava;
E chel core spirava
2 D e facea l'amadori pien
3 D ma quella;
E la damigella
4 E viso li fioria la bellezza
6 E chom larghezza
7 E chegli era
8 E chui

XIV, 2 E che la donna
3 D altra
5 E faccia per lo suo amore tal festa e gioia
6 D mostrasse
7 E e ched e' fusse del suo bel piacere
8 E a tutto il suo p.

XV, 1 E ela avea
3 D sicché el disio che dolore amore prieme;
E el dizio dolce nel chor li prieme
6 E sovente
7 E dicendo

XVI, 1 D suoi
3 D solo chollui
6 D ridendo
7 E ne l'assentia;
D enogliele neghava enogliele acchonsentiva

XVII, 2 D e cavalcato aveva auno nobile palazzo;
E [suo]
3 E alcun difetto;
D ignuno s.
5 D chamera

XVIII, 1 D ebbono 2 E che si strugie e cola; D ella d. comamore sovente 3 E avete voi 4 E giá lungo tempo di trovarmi sola 7 E egli

XIX, 1 E Ela stringendolo dice 4 E Bel dolce amico mio pri[ma] muoia 6 E che voi prendiate medio diletto e gioia

XX, 1 E Disse M. G. 4 D al mio 5 D questa vergogna 6 E imprima 7 D vi prego 8 E uziate

XXI, 1 E tennesi la d. ivi schernita;
D scornata
4 D [e]
D morire; E a gran
7 E la mia persona a destrieri mai non monta
8 E di sifatta

XXII, 1 E Era quel cavalier
5 D quindi era gramo
6 D tale
7-8 E che 'n tal maniera mai non l'amerà
ella rimase ed egli uscí di camera

XXIII, 2 manca in D
4 E raccontolle
6 E ella pose
7 E com'elli
8 E ed ella disse

XXIV, 1 E La donzella di ciò fecie gram risa
4 D vuoi
5 E qui
6 E morte innaverata;
D i fia anghonsciata

XXV, 2 E mezo;
D ritorna… punto dalla
3 D el duca con la s. compagna
4 D egli smontò;
E dismonto al palagio
5 E questo giunse
6 E ci fe'
7 E viso
8 D signore.

XXVI, 1 D turbato 2 D cosí 3 E diciegli dolce anima 4 E di che fai tu si gram 5 E Ati oltraggiato verun 7 E t'abbi 8 E a lui onte e dannaggio; DE [l']onta… ['l] dannaggio

XXVII, 4 D [e]

XXVIII, 1 E mi fecie 3 DE [egli] 6 DE s'io 7 D e farne fare; E farne quarti a quattro 8 E per infino

XXIX, 1 E el
2 D dal nero
3 E gliel crede
7 E che del baron ne fi'

XXX, 1 E Alora la d.
5 E (e) l'ond. si mi da
6 E fede ben
7 E di non p. mai.

XXXI, 1 E duca alor dal parlamento
2 D la leggienda
4 ED assai
D loffenda
6 D (dasse) contende;
E lo contende
7 E over che la D.;
E cio[è] che la D.

XXXII, 1 E Volsesi com el c. langue; D et chon molto caldo langue 2 E rosso avea 3 E La s. f. p. t. l. 5 manca in D 8 E pensando nel gran chazo ch'era

XXXIII, 1 E Disse el d. a un suo caro s. 3 E quando 4 E disse 'l duca: Baron 5 E racchontolle 5 E e la d. fecie il gran c. 7 E d'amor l'avea

XXXIV, 1 E Disse messer Guiglielmo: Duca e Sire
2 E chom f.
3 E certo;
D che[d]
5 D e non sono chavaliere
6 E pur dir
7 D in sul chapo;
E essi al campo
8 E ricred.

XXXV, 1 E se non vi b. 3 E 'm altra bella donna il mio chor uza 4 E nobile e bella e d'ogni buom 5 E le sue belle sono oltra mizura 6 D e a lanima mia el corpo; E è 'n suo 8 E Figliuola di reina

XXXVI, 1 D [allora];
E Disse el duca al barone
3 E testa
4 E voi mi sgomberiate
5 D intende
6 E se prima non mi fate chiaro
7 E in cui avete ogni speranza

XXXVII, 1 D allora;
E dal
2 D meno
3 D maninconoso (ripetiz. del v. 1); E doglioso
5 D cuore; E entro se stesso dicieva: Ho fresco
6 E Donzella 'l nostro;
ED amore

XXXVIII, 1 D Lo stare
2 D potere menare;
E rechar… a tal
D e tal
3 D [s]io
4 E dove di gloria rilucente ha lume
6 E ogni buon chostui

XXXIX, 2 E ben lascerò il
6 E traditori som messo
7 E no mi parto… iscopra
D amore noischo
8 E e giamai chotal fallo non ricuopro

XL, 2 E bem pareva D dolore 4 E ed era giá 5 E in questo si gli 6 E prestamente senza far 7 E personalmente 8 E dove il sir

XLI, 1 E e quel baron
2 E gia
D pelle scale
4 E et il viso;
D in sul viso
5 D crucciata
6 E duchera
7 E chol'altra
D ella sua

XLII, 2 E Dise 'l duca: Barone, or ti c.;
D [co]sí (ri]conf.
4 E se tu m'avessi;
D se[ben] ttu
5 E Or… io ti
6 E anima mia
7 E è la d. che si ti t.

XLIII, 1 E cavalieri… partiti;
D cha due partiti
3 D diventogli le sensa sbigottiti;
E diventoli i sensi
4 E el suo fresco cholor divenne burbo;
D dubio
5 E chon suo membri uniti;
D come e' morti ignudi
7 E da lingua i denti
8 E disse sire;
D [disse] mostrerotoli

XLIV, 2 E pare el sire el
5 E segreto;
D baron(e);
E donna per amor col cavalieri
7 D fuora giardino;
E e di
8 E sotto un ciesto doppo una

XLV, 1 E Essendo il baron solo nel 2 E fene la cucciola 3 D fiori 4 E chiamò 6 E cercò 7 E tutto d'intorno 8 E se veruno

XLVI, 1 E ben cerco; D ben cercato 2 E ella n'andò nella z. amorosa 6 E'l duca dentro 7 E misel sotto 8 E una sponda

XLVII, 1 E E in quel mezzo avea fatta la chuma
D In questo mezzo avia fatto laghuzza
2 E la gientil damigella; D gia quella
3 D e perciò stante allei fa venuta; E al giardin
4 DE volea

5 E ella non pensava esser tradita 7 D del traditore 8 E col drudo suo prese

XLVIII, 1 E E quel barom 2 E tener nol puote al tutto 3 E di lista 5 D Voi mi mostrate 7 D Mancherebevegli; E Mancherebevi eli 8 E che vi sia in talento

XLIX, 2 E contaminato lo chor 3 E la qual mi fa 5 E segli è 7 E saccumiataro 8 E mille volle si baciaro

L, 1 E Poi se ne; D dama 2 E chola 3 E verzieri 4 E se ne gì 5 E diciendo 6 D et in d. 6 D sembianti

LI, 1 D istesa 3 E Quando fu a letto 4 E Levossi e voleasi rivestire 5 E giurando di non mai 6 E se prima non volesse far 7 E che li fece 8 E e allui volle far onta ed.

LII, 1 D El d. irato disse 2 E (si) un gram 4 E ha il suo amore a tal donna donato 5 E piú bell'è di te 7 D a quella e come el modo tiene a gire a ella; E e il modo che tiene quando uza con quella 8 E sole hovero stella

LIII, 1 E E q. il duca 3 E artatamente 4 E che; D Iddio 5 E qual è 6 DE nimica 7 E Amor mio b. 8 E io non

LIV, 5 E e contolle l'affare oltra misura
6 D chome per messaggio avieno;
E la c.
7 E li vide sciender
8 D tennono

LV, 1 E Ma 2 E che la 3 E avea giá il giorno 4 D [fuor]; E quand'ella uscí 6 E sembiansa

LVI, 1 E in quel punto 2 E ghai 4 E guiza d. dama 5 E Ella rispuose 7 D rispuose alpresera 8 D mestiera

LVII, 2 E e aver 4 E allegrezza 6 D [che] chon 7 E e la donzella udendo; D la fantina 8 E non risp.

LVIII, 1 E gissene nella sua sambra 2 E come colei che per dolor 4 E e preg. 5 E siccom'edelerita 8 D Bellitie; E Bellisse

LIX, 1 D spada igniuda
4 E (che)
7 E de la mia morte sará testimoni;
D e di mia morte tussia
8 E davanti al duca e a tutte persone

LX, 1 E poggiò
2 E il suo cuor poggio;
D e achonciossi il chore per me' la punta
4 D sono io oggi
8 E spinse giuso la spada e misesela al cuore

LXI, 1 E ch'udito avea
2 E quivi dall'uscio il pianto e 'l lagrimare
4 D aggire;
E entrare
5 E quando sentí il sospiro del gran tormento
6 D quand'(ella);
E ella venne al passare
7 E dentro entro… finita
8 E a sé toglie

LXII, 1 E tutte 2 E truvorom finita la luciente 4 D da 7 D prima 8 E oimè

LXIII, 1 DE [E]
3 E Il duca chiamò;
D e chiamando
4 E ch'io merito morir
5 E in ogni
6 E l'apresso
8 D del cuore;
E per morte

LXIV, 3 E amendue 4 E ne 5 E ne 7 EF fim di simile crimine 8 EF colla Francesca di Pagolo da Rimine

LXV, 2 E im p. come ho 3 E alpestra 7 D pella sua difetta 8 D e di quello fecie el duca giustitia dritta

LXVI, 2 D ballava 3 E sambra 4 D ballava 6 E e fu punita allor della ria fama 7 E tagliolle

LXVII, 2 D fecie soppellire e chorpi 4 D facieba [tutta] 6 D chuore

LXVIII, 3 D e[d] 8 D [re]stando

LXIX, t D (che) avete 2 E che fu quel di costor per la malisia. In E i vv. 5-8 sono cosí:

E doppo questo andò in pellegrinaggio per merito di chotanta nequisia e poi andò a far ghuerra ai saracini. Dio ci conduca tutti a buon confini.

VI

Gibello è contenuto in un solo ms.: P.—Bibl. Laurenz., cod. Palatino CXIX, scritto da piú mani del sec. XV e XVI. La coperta di pergamena reca la data "Mccccviiii° a di X di febraro". Il cantare di Gibello comincia nella seconda colonna della c. 152, col titolo rimasto a mezzo: " Comincia …". e finisce a c. 157 A: " Amen ".

Il testo di P fu pubblicato nel 1868 da F. Selmi: Gibello, novella inedita in ottava rima del buon secolo della lingua , Bologna, dispensa XXXV della Scelta di curiositá letterarie .

L'edizione del Selmi [S] è ben differente delle solite ammannite in quegli anni; nonostante la prolissitá e l'inutilitá di molte, troppe note linguistiche e qualche svista, può giudicarsi buona e corretta.

Delle correzioni che ho introdotte nelle lezioni del codice darò qui l'elenco, riproducendo le varianti del cod. P:

I, 3 se' lucente
4 sovente chiave
5 graçia a mia [segno di lacuna] favella

II, 1 Cantare anticho vivo chon alegr.
4 e guera mantenea a torto
7 qual gli partoriva la fa

III, 6 chella… gunto
7 in una: S in 'na "con aferesi, a fine di ricondurre il verso a
giusta misura" (p. 41)
8 perlqualore dallun sconfitto foe

VI, 3 sacreta
7 e per gittarlo al mare portollo (verso di 10 sillabe)
8 [e]

VII, 3 adun 5 facevallo 7 chavarollo dereame 8 portarollo

VIII, 5 chede piú 6 fallo 8 belleça nuone

IX, 2 Gienudrisse (ma il verso ha 12 sill.)

X, 4 bello 7 don[o]

XI, 1 [fur tolte] 2, inamora… ne 4 silo(si) 5 [ch]e

XII, 3 P [che]

XIV, 5 in P. il v. è lacunoso: "a molti fa… selle votare"

XV, 5 valentìa. La mia correzione è resa certa del paragone con
XXXIV, 1

XVI, 3 P iscontrossi in un
6 il v. è lacunoso: fier lui… tostane

XVIII, 1 sapiamo 4 essere 5 udendol

XX, 3 chella

XXII, 4 volea la testa che gli si tagliasse
8 ma [a]

XXIII, 5 donerallo amore: sostituisco "cuore" per evitare la
ripetizione della rima del v. 3

XXV, 1 Gibello di XVJ

XXVI, 1 valle 3 (e) nel 4 P quel… lo guardava 6 lasciar non vi passava

XXVII, 4 quale
7 ne

XXVIII, 5 [che], sott.: "dico"
6 a forzar

XXIX, 6 rupo

XXX, 5 fu lamere

XXXII, 2 quel[lo]

XXXIII, 3 insunun

XXXIV, 1 pien[o] 3 fedelta non giurerei 6 domandar[e]

XXXV, 6 giurerotti;
8 fede

XXXVI, 2 lioncel(lo)
8 inançalla

XXXVII, 5 volentier

XXXVIII, 6 fu[nne]; 8 [il]

XXXIX, 8 [egli è]

XL, 2 lo fé; 3 dallun intorno ai vv. 7-8, si veda la fine di questa nota al cant. VI

XLI, 7 [E] per… [in]
8 Argholosa

XLII, 5 [Ed]… [suo]
7 [ne] volle ascoltar(e); e cosí il verso non corre perché ha
l'accento sulla quinta

XLIII, 2 eare
3 avea gravi
7 gridaron

XLIV, 3 (suo) popolo
5 ducha di_ser_pentina mi_ser_oridente
6 [piú]

XLV, 2 P [si]
8 gioia

XLVI, 2 [ch]é; 3 diceva 8 are

XLVII, 3 disio io 4 P [di]

XLVIII, 1 in suo 5 potessi fare; 6 puru

XLIX, 2 don 4 e(d)

L, 1 Gibel

LI, 3 gli contaro 8 aveano

LII, 1 furon 3 [ne]… [suo] 5 porti aperti… ad esso 8 P vegiendo venire

LIII
4 [ed]
7 P Gibel
8 S fidando: "lascio la lezione del codice non tocca, perché non è
infrequente presso gli antichi che si applichi a prefisso
l'avversativa 's' ai vocaboli senza che mantenga la forza di
communicare il significato opposto ai medesimi, ecc.". Ma il
cod. ha "sfidando"

LIV, 4 [e poi ne] monto
7 essere

LV, 2 P cominciarono 6 P essere 7 e[d]

LVII, 1 P comincare 2 P talgiente, S tal giente

LVIII, 7 P sechol

LIX, 1 P eno gli S ecco gli vene manco 8 [e]

LX, 1 P El… baronaggio: ma il verso avrebbe gli accenti spostati

LXI, 7 P del buon

LXII, 4 [egli]

LXIII, 3 P fedir[e] 6 P moltto

LXIV, 5 S E chi 6 PS vo' rit. Interpreto: "invano desidera di ritornare indietro ad annunciarlo"

LXV, 1 suo 4 P Gibel fé bandire 6 fedir 8 S a rit.

LXVII, 1 PS invece di "egli": "che", P dipartiva

3 PS chereddia. I due "che" del v. 1 e del v. 3 rendono incomprensibile il passo qual è nell'ediz. Selmi. L'edit. sente il bisogno di "ordinarne il costrutto" e spiega: "Gibello, che si dipartia dalla donzella, prese commiato da' piú (?) baroni e reddia prigione in Serpentina". Il testo della mia ediz. è cosí limpido, che non ha bisogno d'altro "ordinamento di costrutto" 6 P venire

LXVIII, 3 P gioia.

LXIX, 7 congnano il d. andare

LXX, 3 [n']

LXXI, 5 chandar 6 in vostra prigione 7 menero 8 cherre

LXXII, 2 prigione 6 qui 8 dere

LXXIV, 8 dieron

LXXV, 4 PS eam.

LXXVII, 3 umilemente

LXXVIII, 8 madonna ben

LXXIX, 5 fegiudicarelareina: ma il verso cresce.
6 che[d]…[ne]

LXXX, 2 voglio
6 de giovani

LXXXI, 1 [1]
3 e[d]
8 diritta

LXXXII, 2 che[d]
5 possibile. Ma il senso richiede il contrario
8 filgluo

LXXXIV, 5 pien
6 messo [l] fe

LXXXV, 6 [d]ismontata
7 vederla

LXXXVI, 8 amor chadallor: ma i due tronchi assonanti sono impossibili
a pronunciarsi

LXXXVII, 1 e[l] riso 3 ch chon 4 gioia.

Una novitá di questa ediz. rispetto all'antica è la divisione in due cantári, la quale mi è parsa necessaria, perché in nessun caso la recitazione in San Martino poteva molto protrarsi oltre la cinquantesima ottava; e Gibello ne ha 89. Perciò mi son messo alla ricerca del luogo dove i due cantári dovevano avere rispettivamente fine e principio, e l'ho trovato nell'ott. XL, i cui ultimi due versi espongono e propongono, a modo di chiusa del cantare, l'argomento del racconto che seguirá poi.

VII

Il cantare di Gismirante , col quale s'inizia in questo vol. la serie [VII, VIII, IX, X] dei cantári di Antonio Pucci ( 1388), si legge in un solo ms. [R], che conserva molta altra materia leggendaria e, tra l'altro, anche il cantare di Mad. Lionessa : R.—Cod. Riccard. 2873, c, 44 [ chantare di Gismirante ]; fin. a c. 57. Di su questo ms. fu edito col titolo: Il Gismirante , poemetto cavalleresco di Antonio Pucci, nella Miscellanea di cose inedite o rare , pubbl. per cura di <sc>F. Corazzini</sc>. Firenze, 1852, PP 275-306 [C].

Ecco le principali varianti di R e C :

PRIMO CANTARE:

I, 8 [che]

II, 3 per (che) alcuno

III, 4 dubio

V, 7 [ed]

VII, 2 ancor[a]

X, 3 il quale tiene 5 se per

XI, 3[ne] 7 [ognun si] 8 e cosí fugon.

XII, 3 che passati
7 dare dalla mie

XIV, 2 bossolo
3 e[d]

XV, 1 e si diciendo vegiendo la vista. Il testo è guasto, perché abbiamo tre gerundi ("riguardando", "diciendo", "vegiendo") senza reggimento. Suppongo che "dicendo" sia un errore per "dice", e "vegiendo", celi un "alla gente", camuffato cosí per attrazione del "dicendo" che precede. Si sottindenda "che": la gente che aveva visto il bóssolo…

XVII, 6 un dragone e uno grifone
7 azufarono ed e

XIX 4 a[d]
8 era[n]

XIX, 1 tu(e)
8 mur

XXIV, 1 abergo
8 puo[te]

XXV, 7 aberg. abergo

XXVI, 1 (il) dam.

XXVII, 5 e[d e'] poi

XXVIII, 2 a[d] un 3 e[d]

XXIX, 1 righuardo

XXX, 6 abergo 7 abergatore

XXXII, 2 picholo 6 face[va] 7 dalulato

XXXIII, 1 uno ischudiere
6 Egli vegiendola. Il verso cresce, ma la correzione di
C. ("vegendol") non può accettarsi. La trasposizione, ch'io
propongo, non tocca il testo e riduce il v. alla giusta misura

XXXIV, 7 [noi] abiamo

XXXV, 2 disse[r] 3 Gismir. mise mano 8 e[d]

XXXVI 5, amare

XXXVII, 3 chavalieri

XLI, 6 isgridandolo

XLII, 3 vedendolo.

CANTARE SECONDO:

VI, 6 chi son dicio. Il passo è incomprensibile. Suppongo che il "chi son" del cod. celi un originario "che fo" e interpreto: "In buona fede, che è avvenuto (che fu, "fo") di ciò che ora ho acquistato?"

VIII, 2 che sanza porta entrata molta apresta (?)
6 Intendi: "a tale ora che l'uomo selvaggio sia fuori del castello, ed
ella sia affacciata alla finestra"

XII, 8 Cioè: di chi ti ha fatto signore di sé

XV, 7 il qual stane

XVI, 6 finestra il

XVII, 8 [ne]

XVIII, 2 tronchascino

XIX, 5 molto
8 sedemi

XXIII, 4 dimando
5 E uno gli disse: E si

XXIV, 4 ano averllo morto; cioè: lo hanno da uccidere
8 diavolo

XXV, 5 Sott.: Dice "mostra" [la storia]; cfr. XXXIV, 1

XXVI, 8 mai avesse niun cavaliere

XXVIII, 4 che provandosi col

XXIX, 4 l'avresti

XXX, 5 ediegli 7 C per

XXXVI, 1 (di) fargli

XXXVII, 1 E porcho

XLIV, 4 gentile uuomo

XLIX, 8 o l'uscita; cosí anche in LI, 6

LI, 5 e[d] 6 o l'entrata.

LIII, 7 chome lo videro tutti singinocchiaro

LV, 4 pevoi odo chio atenere. Il C. non ha inteso questo passo e colloca dei puntini, indice di lacuna, al posto di "ocio"; ma il senso non è difficile: "Poniamo che io vada a corte; in ogni modo io riconosco da voi ciò che io debbo ottenere, avendo salvata la cittá del porco troncascino". La difficoltá della forma perifrastica "ho a tenere", terrò, si risolve col confronto del passo analogo: "hanno averlo morto", uccideranno (XXIV, 4)

LVIII, 6 diciendo

LXI, 3 (gran) magnificienza.

VIII

Il cantare di Bruto , che si pubblica qui per la prima volta, si trova a cc. 25 A—27 A del celebre codice Kirkup ( K ), donato recentemente dal Collegio di Wellesley al nostro governo, e da questo depositato nella B. N. di Firenze. Nel riprodurlo ho eseguiti alcuni ritocchi; ecco le varianti di K :

II, 5 chi sia

V, 5 apreso;
8 so scrisse ['n]

VI, 1 io dico
8 che ['n]

VII, 2 a[spri]
7 sieristte

VIII, 7 dedime
8 te

IX, 2 contoe 3 [n']andava 4 chotale 7 odimi

X, 3 quello 6 sai 8 chonvie

XI, 2 selghuanto delucciello nona
3 qualguanto

XII, 2 nom(in)ar
6 chovenenza

XIII, 6 i suo

XV, 4 [poi]

XVI, 1 giovane
7 (gli) arnesi

XVII, 2 [che] credi
5 [a]dirato

XVIII, 4 i[n]su 6 gu[e]rra 8 abbatte(va)

XIX, 1 glochante
6 giogieva

XXI, 2 agmendue
8 pontò

XXII, 7 [si v']avea messa
8 piene

XXIII, 8 et fu si puoto

XXV, 4 chevu 7 Eprutto… valle 8 (e) poi

XXVI, 8 stecho

XXVI, 6 che perchio mangi no mancha su stile

XXVII, 2 chore tanbonda 3 iposibole 4 che tavola 5 chaper… puo 6 non cierchonda

XXVIII, 2 [ancora]

XXXII, 5 muia 7 te[m]pesta; 8 i[n]su

XXXIII, 2 velato (ave'n alto)

XXXIV, 6 doveglie mamena 8 dovegli il tolse il tolse ( sic )

XXXV, 2 levaro(no) 3 [in] nessu[n] 5 ed [egli] 8 [a] dorni

XXXVI, 3 pu[n]gie 6 'l guanto e fu lasciato ire 7 dadici

XXXVII, 7 so[n] vi…alte

XXXVIII, 4 i[l] re con tanta novitade 6 bingitade

XXXIX, 8 ciá

XL, 7 contastare

XLI, 4 chogli altra avanza 7 [si] furono amendue

XLIII, 1 ricordo 3 dichelrinvichorisse erinsanora 8 enciselo

XLV, 3 [in]signato.

IX

Il cant. di Mad. Lionessa è contenuto nei due codici:

R .—Riccard. 2873, e. 103-117 B. Il testo di questo manoscritto è molte volte guasto e scorretto; ma si dovrá ritoccarlo con grande cautela, data l'autoritá di questa cospicua raccolta di cantári.

K .—cod. Kirkup, c. 49 A. Prima di questa carta, ne mancano 15 (34-48), che dovevano contenere i cantári di Apollonio di Tiro , III (ott. 5-58), IV, V e VI, e le ott. 1-45 di Mad. Lionessa . Non rimangono sulla c. 49 a che le ultime 4 ottave, che furono edite secondo questa lezione da M. H. Jackson nella Romania , XXXIX, 322.

Il testo R fu pubblicato nella seg. ediz.: Madonna Lionessa, cantare inedito del sec. XIV, aggiuntavi una novella, del "Pecorone" [per cura di Carlo Gargiolli], Bologna, 1866; nella Scelta di curiositá letterarie , disp. LXXXIX. Accurata edizione, ma imperfetta perché anteriore alla scoperta del cod. K e deturpata da spiacevoli errori di lettura e di interpetrazione.

Naturalmente, preparando questo libro, io ho tenuto sott'occhio non solo l'ediz. del Gargiolli (G), ma anche i due ms. R e K , dei quali indicherò le varianti piú notevoli:

II, 3 R con qua 4 mestrieri

IV, 2 R alla reina chella il sachorese 6 di[ss]e 8 i[l] re

V, 2 che[d] 7 RG a l'altra

VI, 7 RG percossono tosto

VII, 1 RG un tanto 7 G diede 8 RG misogli

VIII, 3 R (ri)tornando 7 R (ed) e'

IX, 8 (ella) il fe'

XI, 7 R ella si stingua

XII, 7 R e[gli]

XIII, 7 RG dinanzi

XIV, 7 R fatti

XV, 7 R [le] leggi
8 istriti

XVI, 2 R affetto
6 il (suo) distretto

XVII, 2 RG rauno libri some ben dariento [Muto "d'ariento" in "trecento", perché nell'ott. XLIX si parla della restituzione dei libri, ma non delle some d'ariento.]

XVIII, 8 R su[r]

XX, 8 R i[l] re

XXI, 2 R co[l] re 4 (s)i smontò 6 cominciarono a salutarllo

XXII, 6 R tanto [ha l']aspetto

XXIII, 4 RG e[d] i

XXIV, 2 R sapere 3 chell[i ha 'n] 8 (si) menò

XXV, 6 R ta[l] 8 G comperai

XXVI, 6 R [assolver]

XXVII, 3 R cierta(na)mente 8 (e) Salam.

XXVIII, 4 R [mai]

XXIX, 1 R partito fue 2 onteso 7 (questi) vi manda

XXXI, 4 R e[d] a 6 [a lui]

XXXII, 6 R [gli]

XXXIII, 4 R rispose[gli]

XXXIV, 3 GR come

XXXV, 1 RG cha 5 RG e[d] una

XXXVI, 1 R chavalcando

XXXVII, 4 R undalulato

XXXVIII, 4 R i[n] Dio

XXXIX, 5 G per cura

XL, 8 RG nel[lo]

XLV, 1 R (in) sulla

XLVI-XLIX: di queste quattro ott. abbiamo il testo apografo K

XLVI, 1 RG e poi dicea:—a 3 R avere 5 R edel disse: deh

XLVII, 1 RG. Quando fue 2 con alleggrezza n'andarono a 3 et a braccio 4 tutta la notte istettero 5 K il giorno 6 RG accomiatava che a loro ebbe detto 7 i' vado

XLVIII, 1 RG contento di partir
2 si rimuta sua g.
3 e secondo ch'io trovo nelle carte
5 lettere scrisse poi in ciascuna parte
7 ne vo io
8 al nipotente

XLIX, 3 RG Infino che col marito suo vivette
4 feciono insieme lunga e santa
6 poi ebbon
8 K fieci
I vv. 7-8 sono in RG: il qual conciede a noi il Creatore |
Questo cantare è detto al vostro onore.

X

La Regina d'Oriente si legge in un numero notevole di manoscritti.

K .—Codice Kirkup. Manca il primo fascicolo del codice, sicché il cantare si inizia al quinto verso della IX ott. del secondo cantare. La perdita di quelle 16 cc. deve essere assai antica, poiché due diverse mani del Quattrocento notarono in alto alla c. 17 A: "Chomincia i chantari della reina d'oriente". Il resto segue fino a c. 24 B: sono omesse due ottave, la IX e la X del terzo cantare. Per la sua compiutezza, questo codice del Trecento che, unico, raccoglie insieme le sparse opere pucciane, e per altre ragioni, che sono state messe in evidenza dal Morpurgo, deve ritenersi assai prossimo all'autografo. Naturalmente l'ho tenuto a fondamento di questa edizione, senza per ciò obbligarmi ad una fedeltá pedissequa e cieca, perché in molti luoghi la sua lezione è meno limpida di quella di altri manoscritti, o si rivela addirittura errata.

E .—Cod. Moreniano-Bigazzi CCXIII, c. 91 B: "Qui incomincia la reina d'oriente". Le pagine 100-104, mutile, sono state restaurate dal moderno legatore e poi completate col testo dell'edizione Bonucci.

M .—Biblioteca Marucelliana di Firenze, cod. C. 265. Grosso volume cartaceo, di cc. 182, racchiuso in una dozzinale, ma antica legatura di cuoio e di assicelle di legno. Fu messo insieme o almeno acquistato nel Quattrocento da un amatore, nonché della letteratura leggendaria, anche del vino: da Baldese di Matteo "vinattiere alla Nave " in Firenze. La Regina d'Oriente comincia, senza titolo alcuno, a c. 49, e, a tre ottave per pagina, occupa le cc. 49-80 b; dopo di che è l' explicit : "Finissi questo libro". Pel tipo della composizione, questo volume si avvicina e si rassomiglia a quello Moreniano-Bigazzi, che pur contiene l' Apollonio e poi la Reina d'Oriente . E anche per la lezione gli si affratella; cfr., per esempio, IV, 1; V, 2; VI, 5-7; VIII, 3; IX, 2-3-6-7; x, 1, 5-6-7, ecc. Sono omesse le ottave XXII e XXV del IV cantare e vi sono parecchi errori di scrittura e di interpretazione.

U .—Cod. 158 della Bibl. Univ. di Bologna. Bel vol. di pergamena del sec. XIV, scritto a due colonne, con rubriche, illustrato da F. Zambrini nella Prefazione al Libro della cucina del sec. XIV Bologna, 1863, Scelta di curiositá letter ., disp. XL), e piú sommariamente dal Mazzatinti ( Inv. dei mss. delle biblioteche d'Italia , xv, 156). Appartenne al pontefice Benedetto XIV. La Regina d'Oriente vi occupa 9 cc. e una col. della 10^a (c. 86-95 a) con circa cinque ottave per colonna: manca la fine del terzo cantare (XXXVIII-L) e il principio del quarto (I-XXIII, v. 5), in tutto 35 ottave, le quali dovevano occupare per intero due carte, tra l'attuale c. 93 e la 94. Oltre questa grande lacuna, dovuta alla perdita delle due cc., il testo è mancante dell'ott. XIX del terzo cantare. Questo ms. è indicato dal Bonucci col nome di "Veggettiano XV", nome che non gli appartenne mai, se non per questo che esso ebbe dal bibliotecario Liborio Veggetti la nuova segnatura 158 (e non 15) in luogo d'un'altra piú antica.

Panc .—Cod. Panciatichiano XX, del sec. XV, c. 82. Contiene, anepigrafe, solo le prime 4 ottave.

T .—Cod. Tosi, del quale non conosco il destino. Questo ms., che conteneva la Sala di Malagigi e la Regina d'Oriente , dopo esser passato per le mani del bibliografo Tosi "attraverso le Alpi e la Manica, andò a cascare Dio sa dove", scrive il Rajna.

L .—Ms. posseduto dal cav. Fortunato Lanci di Roma e da lui trasmesso al Bonucci, il quale se ne serví specialmente nelle 35 ottave mancanti in U. Non so se questo testo fosse copia di un codice antico o un codice antico esso stesso, e di quale secolo, nulla dicendo il Bonucci.

Le stampe popolari della Regina d'Oriente sono cosí numerose che non spero che l'enumerazione, che ora segue, possa essere compiuta:

I (1483).—LA REYNA D'ORIENTE.—In fine: "Finita la reyna doriente adi 2 guiugno ( sic ) Mcccc. lxxxiii, In-firenze".—In-4° 3 quad. (reg. a-b-c ) caratt. tondo, 4 ottave per pagina: cfr. Molini, Operette bibliografiche , p. 114.

II (1485).—Ediz. s. a. n. l., in 4° "carattere rotondo, che ha del nostro corsivo", mancante di virgole, numeri e richiami. Un esemplare fu rinvenuto alla metá del Settecento, a Napoli, da S. M. di Blasi (_Continuazione della lettera del padre d. Salvatore Maria di Blasi intorno ad alcuni libri di prima stampa, negli Opuscoli di autori siciliani_, t. XX, Palermo, 1778) in un ricco volume miscellaneo di stampe popolari del Quattrocento.

III (sec. XVI).— La Regina d'oriente (gotico).—Segue un intaglio in legno, che rappresenta una regina in orazione; indi le tre prime strofe. Inc.: "Superna maestá da cui procede" Fin. alla c. 10 B, seconda col., l. 44: "la historia è finita al vostro onore". </sc>Il Fine<sc>.—s. l. n. a. n. t., in-4° car. romani con seg. e cust., senza num. di pagine. Le ottave sono 194, le figure 10. È posseduta dalla Bibl. di Wolfenbüttel, Miscell . n. XIV.

IV (sec. xvi).—Edizione identica alla precedente, ma posteriore; è posseduta dalla Bibl. Magliabechiana.

V (1587)—-LA REGINA D'ORIENTE—In fine: In Firenze, appresso Francesco Tosi, alle Scale di Badia 1587. , In 4°di 12 cc. non numerate (Reg.: A, Aij, Aiij, B 2, A 5, A 6) a due coll., car. tondi.—Reca cinque stampe: la prima, nel frontespizio, rappresenta la regina che prega; la seconda (c. B 2 recto ) la celebrazione del matrimonio; la terza (c. 6 recto ) un giardino, dove il Re e la principessa si tengono per mano; la quarta (c. 9 r ) e la quinta (c. 10 r) rappresentano una battaglia di cavalleria. Le ottave sono 194: fin.: "Al vostro honor Anton Pulci l'ha fatto".—È nella Bibl. Palatina di Firenze.

VI (1628).—LA REGINA D'ORIENTE—In fine: In Firenze, Rincontro a Sant'Apolinari , 1628. Con Licenza di Superiori . In-4° di 10 carte non num. (Reg.: A-A5), a due colonne, caratt. tondo. Dopo il titolo, la medesima stampa che è nell'ediz. V, ma con diverso contorno. Un esemplare è nella Palatina.

VII (sec. XVII ex.).— Historia della Regina d'oriente, dove si tratta di molti apparecchi, trionfi, e feste tra valorosi cavalieri , Bologna, Pisarri, s. a., in-12° Questa edizione fu riprodotta piú volte, nel sec. XVII e XVIII, s. a.: cfr. G. <sc>Libri</sc>, Catalogo del 1847 , n. 1106; Brunet, Manuel , IV, 957.

Moltissime sono le edizioni popolari del sec. XVIII e XIX. "Di questo poemetto cavalleresco popolare—scrive lo Zambrini, Opere volgari [4], col. 848—si sono fatte in ogni tempo, e quasi direi, in ogni cittá d'Italia edizioni per uso del popolo, ma grandemente sfigurate e ridotte in tutto alla moderna dicitura".

Oltre le numerose edizioni popolari, ne abbiamo due, che vorrebbero essere critiche e filologiche:

VIII (1862).— Historia | della | Reina d'Oriente | di | ANTON ( sic ) PUCCI | Fiorentino | Poema cavalleresco | del XIII° secolo | pubblicato e restituito | alla sua buona primitiva lezione | su testi a penna | dal dottore <sc>Anicio Bonucci</sc>. Bologna, 1862 (disp. XLI della Scelta di curiositá letterarie ).—Il titolo è lungo e contiene moltissime promesse, delle quali, con mirabile sfrontatezza, nel libro. Il testo non è per nulla rivisto sui "testi a penna", ma è condotto sul cod. U fino al cant. III. ott. 37. Per le 35 ottave mancanti in U e per il cant. IV, ott. 23-24, l'edizione è dedotta dal testo del cav. Fortunato Lanci. Con questo pasticcio, il Bonucci si illudeva di aver scoperte le "auguste virginali bellezze" della poesia antica; ma gli spropositi, che gli piovvero tra le carte da ogni canto, sono cosí numerosi e piramidali, che quella edizione resterá per un pezzo un monumento di cieca ridicolaggine. Del resto, tutti riconobbero subito di qual pregio fosse il libro del Bonucci e non gli risparmiarono rimproveri; ma egli soleva giustificarsi, dicendo che si era fatto correggere le bozze dalla serva. E qualche anno piú tardi mise fuori una nuova Regina d'Oriente .

IX ( 1867 ).— Historia della Bella ( sic ) Reina d'Oriente, poema romanzesco di ANTONIO PUCCI fiorentino, poeta del secolo di Dante, novellamente ristampato ed a miglior lezione ridotto sopra un testo a penna Marucelliano , in Bologna, 1867, in-8° di pp. xvi-64. In fine: "In Bologna, fatta stampare dal bibliofilo Anicio Bonucci, nelle case di Costantino Cacciamani".—Ma questa edizione "riveduta" non riuscí meglio della prima e, se quella fu corretta dalla serva, "v'è da dubitare—diceva argutamente lo Zambrini—non le bozze stavolta fossero rivedute dal guattero"!

Preparando questa mia edizione, le due bonucciane non potevano in alcuna maniera servirmi, se non per rappresentare, chi sa come trasfigurate, le varianti del testo Lanci, del quale ignoro la sorte; e perciò mi sono valso senz'altro dei quattro manoscritti: K, M, E, U.

Subito la concordia nelle lezioni e negli errori tra U ed E mi avvertí che essi formano una famiglia distinta. Dove gli altri mss. hanno "ed ella fa'" (I, 30, 7), U ed E recano insieme "appresso fa";—dove: "non ne pensate d'aver" (II, 33, 3) E "non v'è mestier", ed U "non vi fará mestier";—KM "paresse" = EU "tornasse" (II, 36, 7);—KM "che figliuol era" = EU "chi 'l signor era" (II, 37, 7);—KM "l'ha fatto" = EU "lo fece" (II, 40, 6);—KM "prima che 'l v'entrasse" = EU "parea che tremasse" (III, 2. 7).—E l'enumerazione potrebbe continuare all'infinito.

M aderisce per alcuni tratti ad E e per altri si mostra tributario di K. Nel cant. IV 16, 7, E reca "e poi col re si mosse"; K sopprime l'"l", come sempre, per un vezzo di pronuncia, "e ——-File: 374.png—-\\\\—————————————————— poi core si mosse"; M, malamente interpretando l'inesatta grafia di K, storpia cosí il v.: "e poi a correre si mosse".

K naturalmente ha un testo buono, ma non impeccabile. Molte volte la lezione si rivela una corruzione di quella data da E e M, che il senso e la rima accertano esatta: E "crescendo" = K "che sendo" (II, 29, 5);—E "s'ella" = K "sole" (II, 43, 3);—EM "la possa" = K "la poscia" (III, 1, 5);—EM "nolle" = K "nulla" (III, 28, 8);—EM "avere isposo" = K. "vero sposo" (III, 28, 7);—EM "ove il cor pogno" = K "ove il compagno" (IV, 1, 6), ecc.

Abbiamo dunque tre tradizioni, quella di K, quella della famiglia EU e quella di M, il quale è nei passi prima arrecati tributario di K e in questi ultimi è invece da lui indipendente. Insomma i rapporti tra i vari mss. potrebbero cosí rappresentarsi graficamente:

autografo
|
___________|________
| | |
x K y
| | /
_____|_____ | /
| | | /
E U | /
\ | /
\ | /
\ | /
M

Ecco ora le principali varianti:

I, 2 E dalchuna sostanza;
M d'altrui bene si stanza
3 U a chi ti richiede; M essere chortese achum che ti

II, 4 E di se inn.;
U fa inam.
5 M che poi rimato
7 U chio vi prometto
8 U piú bella.

III, 2 UM nel

IV, 1 U Giusta reina e di
6 U avea
8 U lavea a tutto suo;
M Questa gli;
E in suo piaciere lavea nel suo

V, 1 U Sicome dice li erano;
M sera;
E sichome som
4 EM ed eran
6 U [che] angeli parean non che

VI, 1 E Em guardia;
M questa gentil reg.
5 U quella
7 U che mai nol fe' simile signore

VII, 4 E papa;
M pare
5 E per difese
7 U, seguito dal Bonucci: Per ubbidire de lo papa il manto;
M. Per riverentia.
La lez. di E che accolgo, è pur quella delle ediz. quattrocentine.

VIII, 3 U questa vita ogni altra
4 U mondane cose vole al suo diviso. Il BON. segue questa lezione,
che non dá senso alcuno; EM e l'ed. del 1475: "mondan diletti
vuole". L'ed. 1475: "tien" per non diviso (M divini). "Tenere
per non diviso > = "considerare indivisa una proprietá"
( Crusca , IV, 781), sicché intendasi: "La regina d'Or,
considerava le gioie della vita quali una proprietá indivisibile
per tutti gli uomini"
5 U di morir
7 M per acertar la fate che in pers.
8 UM dinanti

IX, 1 M fé
2 EM a chonsigliare
3 U tra ciento
6 EM quanto poteron perché la
7 E sotto la pena del fuoco la si muovesse
8 M segnale pap.

X, 1 U caminò 2 M questa 5 U che disiato ò sopra l'altre 6 U ho sempre mai di fare 7 EM e quelle 8 E tene; M po' le

XI, 3 M c'ogn'uom 5 E raccontolli 7 EM che ella

XII, 1 E ave
3 E addomandandol della sua adornezza;
M domandollo
4 M ond'e' rispuose, el mess.;
U savio messaggieri
5 U sua savezza
7 BONUCCI: "lo nobil baronaggio e lo suo avere", smentito da EMU

XIII, 1 U ludiva subito contare 2 U e BON.: crescea la voglia 3 E al p. and. a rachord.; U rammentare 4 U e BON. un termine 5 U e BON. Sed ella viene fatela; M ispogliare 6 E Se non v'è colpa faccilisi 7 U e BON. (giá) 8 U e BON. (si)son poscia

XIV, 1 U e BON. Veggiendo ( sic ) il papa
4 U e BON. soppena
6 UE farò;
BON. fece

XV, 1 E vaveva
2 U e baroni
6 U in sign.
7 U ed altre donne rimase;
M vedove e figlie;
E vedove donne rimase
8 E marchigiane

XVI, 1 U e BON. li ebbe in p.;
M raunato a suo modo il p.
2 BON. si fu
U lalta reina sicome saputa; ma questo verso appartiene all'ott.
XXXI, 2
4 M gl'avia data;
U che dal papa avia avuta
5 M proponimento
7 U a voi p.; 8 M uno gran chonte

XVII, 1 U dissele: reina 3 U duomiglia 5 EM sedio fallassi 6 E a me 8 E chi contradicie acciò

XVIII, 3 EM e io
7 E di parlatoro;
U del perlatoro
8 EU barbassoro

XIX, 1 U e BON. lo quale
2 E di vero;
M. neneri
5 E morir se io con loro presente
6 E diece milia
8 M la pr.;
U caval. e chi pedoni.

XX, 1 E Ella li ringr. 3 U e disse 6 EMU nel mondo 7 E ora mi; M ormai mi 8 M che pare a voi

XXI, 2 U andava piú l'uno che l'altro volentieri 3 U e della 4 U piangeano donne 5 E le ordin. 6 M armati dieci 7 E e la metá

XXII, 1 EM E la reina. Mi attengo ad U, nonostante la concordia di EM,
perché l'espressione: "l'alta reina" è costante nel cantare
(cfr. XVII, 1; XXXI, 2; cant. sec, XIV, 2; XXIII, 8; XXVI, 2)
6 M contrada
7 U onde ciascun si parti;
M e tutti si partiron
8 E ella duchessa

XXIII, 1 E E voi singnori perche siate;
M che vo siete
3 U con trentamila. Dall'ott. XXI, 6 sappiamo con certezza che i
cavalieri della scorta erano in numero di 10000
4 E gagliardi tutti quanti e pien di posse;
M che di sea tanti non teme niente
5 U e di pedoni assai annominati
7 M mantello

XXIV, 3 M musiche
4 U [ch']allor
6 E giorno
7 M chiuse di scarlatto

XXV, 3 ME neri turchi
6 U con molti suoni
7 M in su ogni
8 E dove che l'arme

XXVI, 1 U Nel mezzo avea;
M Appresso a questo un charro
2 U tirato;
E il qual tirava;
M tiravan
3 E come;
M piú che
7 U di pietre e gemme aveva la cort.
8 E vi

XXVII, 2 UM e camp.
3 E per dodici R.
4 E El;
M Chol

XXVIII, 1 E chorrava
2 E luciano;
M lutiano
4 U menava oro e argento
5 U fiume anzi era di
7 M e correva pel suo;
E e per lo suo correva
8 M e' non è mer.

XXIX, 2 M turchi neri a piè;
E turchi a piè e piú dintorno
3 M capo sopra una;
E sunn una;
U avea una
4 U con istendardo ch'era
5 U e ver.; E che veram.
6 E fa bisogno
8 U che sará

XXX: in U e BON. i vv. sono cosí disposti: 1-2-5-6-3-4
3 U e riguardando la sua
5 E delle;
EM ch'ognuna parea
6 EM angeli di paradiso senza
7 EM l'un coll'altro

XXXI, 1 U dismotò;
E dismontava
3 EM con mille turchi montò
4 U però ch' a torto
7 U gittandolisi a piedi chon umiltade 8 UE che com.

XXXII, 3 V e tutto laltra
6 M ch'io non commisi
7 EM e 'm vita

XXXIII, 1 M i' prendo
2 E etterna
4 U uscire;
E debbin;
M debon
5 U disiando ciò mi pare stare
7 U chero
8 E ma spero aver l'altra vita gioconda

XXXIV, 1 M ora ch'io 3 M quella fu sola alza i panni 4 U li mostra 5 M dicendo 6 E con questo ho fatto 7 U sulle carni un ferro

XXXV, 1 U Levossi su
2 E che gratia; M santa donna;
U chieri
4 M dicendo a quello: Iddio;
E per cui mi;
U a cui mercé
5 U dicendo padre
6 E a piè de';
M presso a'
7 M di tal chiesta;
U Quand'ebbe ella di ciò la voglia

XXXVI, 1 U io voglio;
E i vo';
M santo padre
2 U mel
3 U con
5 U il papa disse: Donna or ti procaccia;
E papa
6 M arai di corto;
U del ventre tuo tosto avrá la preda
8 U [ad]

XXXVII, 6 U e' tornò arrieto
8 U di c;
E sopra la guardia destro

XXXVIII, 4 U ella non prenda
7 M e c[i]ò vuol fare per
3 M el periato

XXXIX, 5 M che quando
7 M del

XL, 1 U come voi sapete;
EM come sapete davante. Ma "davante" non ci si è detto nulla
2 U sett. con tremila secento;
E cento sessanta con mille dugento;
M sessanta sei con semilia davanti
3 U ellegion
4 U sarebbe
6 E n'avrie

XLI, 1 U egli disse

2 U loro a tutti quanti i freni;
E e gli altri arnesi;
M e sua arnesi
3 E fa che lo sq.
5 U che t'inganni
6 U ciò non pesi
7 E alquanti di voi procuri sua
8 M se questa guerra

XLII, 1 U il
8 U tosto l'ebbe

XLIII, 1 U disseli: se dama
2 U damor
4 BON. che'n tanti; tutti i mss.: "con"
5 M vorete

XLIV, 1 E seguir la sua
3 U madre mia io muoio
4 U reina io sono;
E reina si m'à
6 U in questo palagio;
EM sare' sanicato

XLV, 2 U settantadue
3 BON. salutolla
6 U non facessi meco;
E facessi teco
7 MU sospirò
8 V e disse: Io vi verrò

XLVI, 1 EM e ord.
3 U siate
4 E a seguir me se bisogno n'avronne
8 EM [a];
U qual. feria si gli.

XLV1I, 2 M lesi
4 [che];
U di ciò nel viso tutta
6 E in zambra;
M lerece
8 U vuole

XLVIII, 2 U la camera; EM che n'eran prima 3 M ma sempre stavano 5 M tutti andaro; U allor si ficcaro 6 M sospinso[n] 7 U levassin

XLIX, 2 M non sapete levar 3 E è tra voi n.; M uno si buono che 5 U correvano sc; E baroni; EM quei balconi

L, 1 E in su quel punto fu
3 M e allo imp. sulla
4 M le die' un colpo che cade istram.;
E die' tal che morta cade istrangosciata;
U cadde morta
5 E e secondo chel cantar manifesta
7 EM scapitò.

SECONDO CANTARE

I, 3 E e perdi:
M si sperdo. Si costruisca: "Perdona a me s'io perdo il tempo"
4 EM perdonami
6 U tanto de la tua gratia chio te chieggio

II, 3 U di valore
7 U or seguitiam;
M chon (= come)

III, 1 U si socc.
2 U de' suoi baron nessun trova;
EM de sei cavalier l'uno
4 M ora ci p.
8 U avea[n];
EM avevan fatto (M vinto) la pugna

IV, 1 E Quando la donna co' 2 E fu ritornata senza 5 E si disse 6 M quinci

V, 3 EM medicar si 4 E che nolla potessono 5 EM e' le con.

VI, 2 U quanta gente ed arnese ha' tu conteco
4 E avrá
6 U tórnati; starati
7 E che fugga

VII, 1 U segreta
2 M rispose amant.;
E disse incontanente
6 M perché di loro ò ogniun data la traccia
7 diceva

VIII, 1 M impresa
2 UM ci;
U fare
5 M difesa
7 EM [ché]

IX, 2 M egli è meglio
3 U per lor volere;
M al suo
7 E prima

X, 2 E Or siate:
K e disse
4 U e trascinarla;
M. e trasc. sia;
K porta
5 UM ciaschedun che sua

U 1 e tutti i suoi baroni dicon che muoia
7 U sian tutte sp.
8 M e in pregione a Roma le menate;
EU e tutte quante sieno imprigionate

XI, 1 M biltade
3 U inanzi e da molte;
K inanzi per
4 U venir
5 U sospirò con gran;
K apresso sosp.
6 U dismontò
7 U gli occhi levati si fu
8 U e di buon cuore

XII, 1 U e disse: Di me pietá;
E noi
4 U questo
5 U che de le mie dame non si perda
6 K dallor
K [io]

XIII, 1 U fu
3 U perche a Dio se' stata diritta
6 U labbia;
E l'arai
7 U gente come fa 'l mare al vento

XIV, 1 UE Poich'è
2 KM e la reina; ma cfr. la nota al cant. I°, XXII, 1
4 U inverso
5 EU e come giunse allor, tutta
8 KEM fugiva

XV, 1 EM i roman se n'and.
3 U ventim.;
E diecem.
6 E avea;
U ebbe
8 K di que'

XVI, 1 U Essendo in isconfitta
2 U a casa
4 U che mai simile nol fece s.
6 U elli rispuose
7 U Lo fatto è ito

XVII, 3 U ricchezze ch'ha tanto
4 U tutto gli avvien per
6 U cavalieri poi
8 U parole maliziose;
EM p. malivagie

XVIII, 7 U n'ha fatto
8 U di q.

XIX, 1 U e quando 3 U e li suoi… ha bagnato 4 U in gin. 5 U e disse 6 E i' mi confesso 7 M pipento; U perdonanza 8 UE benedillo; dipartio

XX, 1 K dama 3 U e quando lesse la lettera 4 EU di quel 7 U e quando la nov. sua gente 8 M fece

XXI, 1 E nobiltade
2 U di subito richiese
3 U Ed elli disse;
E il re risp. per tal
4 M sanza chagione;
U senza nome tal partito
5 EMU trent'anni

XXII, 1 U Veggendo il re ch'è si bella 2 U si disse: Tu di' vero 4 U in figliuol maschio 5 UE la mattina lo fatto si 7 K [d']; E in un

XXIII, 1 U Ed in quel tempo lo re; K [si] 2 U e 'n pochi di passò 3 EM di che 4 U molta gente 5 M dorato 6 KEM quel(lo) 8 E ella

XXIV, 1 U disse 2 U faccia l'uno a l'altro 3 U dopo il proponimento sarà quello 4 E faccia male 5 K (e) non 6 U sopra di voi vederete di corto 8 K di ciò la gente ne fe' gran

XXV, 1 U una ch'aveva
2 U segreta;
ME segretaria
4 E chome detto ái;
M d'avere ch'ancora;
U d'un f. [aver]
5 U scandalo sará
8 EM che 'l senno;
U che hai lo senno intero

XXVI, 1 U del;
E Quando fu il tempo, di che fu agravata
4 U segretamente un figliuol ch'ella fe';
E cielatamente un fanciul fe'
6 UE con esso in camera si fu
7 UE le

XXVII, 4 M fuora la ne mandò;
U fuor la mandò
5 M che collo trastulla
6 U ridendo;
E guardando

XXVIII, 1 K dame;
U ella legreça delle donne fu
3 U la novella tra
5 U armeggiando in s. a;
E armeggiaron
7 U e ciasch. crede che maschio
8 K de'

XXIX, 1 U di
3 U facea;
EM fecie
4 U stare bene ad agio
5 K e pò che sendo a modo mascolino
6 M la fe' vestire di fine adoagio
7 K pare[va];
U (chede) pareva
8 KME altro (mai)

XXX, 4 U e pui si ordino ched ei v.
5 U Da poi
7 E apresso fe' t. l. sua f.;
U apresso fa

XXXI, 3 K chi' temerò
4 U danno né v.
5 E potrá fare;
U e t. non può
8 KEM (e) s'io

XXXII, 3 U Come fu giunta si v.
6 U poner
7 manca in U.
Dopo il v. 8 U ha il seg.: infine che insegnato no' gli avrai

XXXIII, 1 U ma se voi fate sí
3 U non vi fará mestier;
E non v'è mestier
4 K quanto voi;
E quantunque
6 U che sol
8 U farollo

XXXIV, 1 UE quando;
E Ella fanc. poi che
2 U d'apprendere ciò ch'ella v.
3 EU quando la madre
5 UME rispondea;
E ema

XXXV, 2 M sí che l'era
3 EMUK pari
4 K in isc.
7 M (n') avea;
E che in sé

XXXVI, 3 M presto
4 U il suo figliuol;
M ne men.;
E adobbasse
5 U c. d. d' un color
6 U e a cavallo
7 EU tornasse
8 K e d'oro

XXXVII, 2 U ciò che comprese da quella scrittura
4 K molti begli;
M ricco
7 K chi figliorera;
U che signor è onde li
8 U piú che lle

XXXVIII, 1 U cavalcaro per 2 UEM si 5 U che tutti 6 U si gli andassono a fare 8 M a altra gente a cavalcare fur

XXXIX, 1 EMU e la; M comando 2 EU dovia 4 U posare 5 U [di] 6 U si fu veduto si bel cioperare 7 U e giunto il re 8 EU sarebbe; M non si potre' per me fare manifesta

XL, 1 EU e poi
3 U diceano
5 U che 'l padre naturale;
KME certo;
M sono
6 M colle sue;
EU lo fece
7 [ch']

XLI, 1 U dimostrare
3 U imparò a… ed a
4 U era prò'
6 K bene arpe e l.
7 M per l'universo
8 M per tutto e ogni verso

XLII, 4 M la mia figlia vuole
5 M Perch'io; U e' no so
7 manca in U;
M voi s.;
E confaccia
8 In U l'ultimo v. è: "prima che morte di vita mi sfaccia"

XLIII, 2 E elle vert. 3 E suo conv. 5 U e bella d'adornenza; U sole dela pariscenza 6 U lui ha in se ogni biltá 7 U fuora non ha

XLIV, 5 U ond'elli l'accetta di buon
6 M e disse
7 K ciambra

XLV, 5 M alor prom.
7 U dicea: Non ciò facendo, parria sdegno
8 M diserto ne sará 'l tuo

XLVI, 1 U lore fece
6 U d'offendere al padre celestiale
8 M vuo' far

XLVII, 1 K preso 2 E ap. e fe' 3 M onde tutta la g. 4 U ambasciata 5 U lo con. e 'l 6 U caminare fe'

8 KEM diciendo ingenochiossi

XLVIII, 1 M Reina tu non mi vedi 2 M onde mi dá la tua benedizione 3 U si trasse gran 4 U cotal 5 U ov'ai 6 M e la discrezione 7 EM rispuose la reina

XLIX, 1 U la donna uccisi e ne son
2 U del signor
4 U né faccia ciò che 'l;
E non sará quello;
M fará quello che 'l patrimonio
5 U se ciò torna
6 M asperamente lo
7 UE d. B. disse
8 U collei i' credo qui menare

L, 1 U si l'á
2 U si partio
3 U e coll'ambasceria;
M tanto effetto
4 U che lui seguio
5 U Nel t. canto
8 E onor dett'è questo c.;
U Antonio Pucci rimò questo cantare
In M. vv. 7-8 sono:
e come alfine per gratia di Dio
a ogni suo voler la convertío.

TERZO CANTARE

I, 1 U quì guidato
5 U chio possa dire come;
M si come è cominc.
6 U gente questa storia;
E dar vettoria

II, 4 U da
5 E oramai
6 U orribilmente;
K comparisce
7 UE Roma parea che tremasse
8 K choli… ntonasse;
E tonasse

III, 2 E con tutta;
M chompagnia
3 M furono davante
4 E allegrezza che fan
5 U si furo

IV, 3 U Costui;
K Ansalone;
M un Ans.
4 U agnolo par
7 U e dismontó sempre con donna
8 U appresso;
E va appresso

V, 1 U quando il re
5 U montôro a cavallo e andaro tanto;
M e furon mossi a cavalcare tanto
6 U furon
7 E iscesi;
U montar la
8 E trovarom

VI, 1 UE 'nginocchiato gli si fu al piede
3 E quando sí bello
4 K sei;
M signor mio
6 U se piace a te, contento ne son io;
EK se tu t'appaghi tu son content'io
7 U ed e' risp.
8 E vostro son io;
M piú lieto sono che fussi mai persona

VII, 1 U assé chiamò 2 EU isposo 3 UM [che] 4 U bianco lo vede chome la spera e sole 7 K son piú; E son piú che cont.

VIII, 1 E tenendo 2 M duchi e re 4 M che rilucevan piú 5 U e ben valean piú di cinque 6 U che fosse 'n que' 7 U e tanta festa se ne fece 'n R. 8 U di che… se ne noma; KE sona.

In K mancano le ott. IX e X

XI, 3 U novel
7 E come fa

X, 2 EUM verginitade, ma il verso cresce
3 U il m. di fatto è;
EM e di che matr.
6 U mei
8 U e seco tien

XI, 1 U quando
3 U il piglia sanza;
M il pigliaron e;
3 E di p. in zambra si l'ebber;
U e colla sposa in cam. è serrato
4 U ell'andò a letto dov'ha disiato
5 U poi che dentro con lei fu riserrato;
M che fu con lei dentro;
K lui
7 U voi;
M signor

XII, 1 U Quando il
2 EM io vo fare a Dio;
U perch'io vuo fare
5 M poi che con questo mi convene;
E poi che mi convene in tal modo
7 M perché insino a ora son vergine istata;
U poi che lla v. t'ho observ.

XIII, 1 U tutta
2 EM dall'altra proda
3 K fatto a la dura
4 M troppo hai;
U assai tu m'hai; ma qui il "voi", altezzoso e corrucciato,
sta assai meglio del "tu"
5 M ti
7 U anco per ingenerare e ffar

XIV, 2 M ingniuna;
U nessuna
3 U son quello che t'aggio;
E quella
4 U contare
6 U Fattura fu di donna Berta mia
7 U dicendo; E Sorella mia, uomo io non sono
8 EM ma degna di morir cheggio

XV, 1 U disse acciò che;
EM ciò che
4 M credette;
E fatto in breve.
7-8 E e poi le disse quella donna bella:
Non pianger piú che sarò tua sorella

XVI, 3 U e questo fatto
4 U a tutta la lor vita allor
5 U con poco;
M e un poco dim.
6 K a quella;
U e 'n c. tornaro dov'era la gente
7 E la qual era ita tutta notte dintorno;
U li quali erano iti tutta notte din.
8 U poi si levaron

XVII, 1 U asse la f.
2 U si allegra;
E vedendola si
3 KEM [figlia];
U (mia)
4 M meglio;
U rispuose
5 M adimandava;
U e cosí disse a chi
6 EM per non diviso;
K per non aviso; ma cfr. la chiosa al cant. 1 VIII, 4
8 E che e' fussem

XVIII, 1 U quando
4 U [mai] in
6 U rispuose il re: E' parrebbe;
E E' parrebbe
7 U Lo ben fare abbisogna

XIX, 3 E il re parlando;
M breve parole
8 E muovi

XX, 3 E leggendo il re
4 U di ciò
5 UE appresso s'è levato
6 K contata
8 K Ed e' la;
U e sí gli disse

XXI, 2 M ch'io
3 U muoviti e non dire ad altrui
4 U non dire a nullo per qual via tu
5 E ne vo gir com lui
6 U ed elli disse; E Va sed e' t'a.; M e tu va se t'a.; U Vanne se t'a.
8 U lo re menò la moglie

XXII, 3 K. Del suo tornar;
M si fe'festa sovrana
5 U partí l'ambasceria;
M altana
6 E fa;
M gran doni
7 U disse a lo 'mp.: O signor

XXIII, 5 M di lei maggior
6 U tra moglie;
M né moglie

XXIV, 2 M l'una l'altra
3 U era;
K vene
4 U e' stavano
6 U biastemogli in molto aspro;
E ripresele con diverso
7 U ed ella disse: Va via
8 M tal favella

XXV, 1 M tutta crucciata
2 U fra lo suo cor
5 U si fu avviata;
E inviata
8 M che femin'è 'l marito

XXVI, 1 U Lo 'mperador disse
2 E ch'egli abbi
3 M allor prese
5 U disse al signor: Quest'è di gran periglio
6 E poscia;
M poi ne facciamo aprirsi;
U e faciasi di lui
7 EM lo 'mperador;
UEM se ciò torna in palese

XXVII, 2 K ed a' re;
U ello re
4 U visitassono
5 KU el re
7-8 M cavalcarom… trovarom

XXVIII, 1 KEM de la lor 2 EU gran festa 5 UM ed ella fu accorta ed 7 EU ch'avere sposo 8 U lo imperador per questo; K nulla

XXIX, 1 U Poi ordina d'andar fuori alla caccia
2 E figliuola e 'l c.;
U la sposa e 'l
3 U che si faccia
4 U dentro alla sala per lo re un bagno
5 EM e ciò facien;
U e tutto fa per vederlo a faccia
7 U cavalcando
8 U si faccia

XXX, 1 U (ch')
2 E la tal
3 M alvi
5 M il te l'arei;
U io te l'arei

XXXI, 1 U per quella valle scura;
M dura
2 K si va pur;
U va cerc.
3 U perché affogar si volla per paura
4 U di non essere giunto a
5 KME dura;
E in una v.
6 U dicendo: Cristo a te mi raccomando
7 U poi scavalcò e da sé ebbe caciato
8 K e fu;
U oscuro lato;
E bosco scurato

XXXII, 1 U poi inginochiossi e ficcò
2 U dicendo e
5 U che me la.

XXXIII, 1 K li s.; manca in U.;
E e 'l cervo giunse e inanzi
2 U temette il re non fosse un;
M il re che tenne che non fusino c.
4 UM e disse
5 U subitamente

XXXIV, 1 U si pose m. alla
2 U poi che partito fu l'agnol presente
3 U di sí
4 E potrá
5 MU Onde molto;
U s'assicura
7 K lodamus ;
E lardamus ;
M laldamus ;
K a[r]mato

[Come ho avvertito piú volte (cfr. Regina d'Oriente, 2° cant., L; 3° cant., XV e L; 4° cant., XLI) il distico finale dell'ottava veniva mutato assai facilmente dai cantampanca e dai trascrittori. Tra i vari casi, quello della presente ottava è il piú caratteristico. Il testo di U (= Bonucci) reca:

Te Deum laudiamo che ci a' dato e uscí del luogo dov'era inborato.

M: Te Deum laldamus sempre sia lodato
e uscí fuora dello iscuro burato.

E: Te Deum lardamus a dir cominciòe
e uscí del bosco ov'elli albergöe.

La lezione che io riproduco è quella di K.]

XXXV, 1 E trovò
2 E in R.-3
U grande lumera
4 U tutta la selva la notte ognuom di foro
6 U mill'oncie d'oro da corte egli avrebbe;
E piú di mill'once

XXXVI, 1 U quando furo su
2 U cercar per la selva ebbe;
E ebbeno
5 BON. Drieto la voce andorno tanto intorno
8 Box. piú lieta fia quand'ella

XXXVII, 1 U quando
2 U inanzi a Roma giunse
3 U che 'l re torna piú chiaro
4 K e la sua:
U e coll'ambasceria
6 K [che] crede;
U quello crede
7 U come fu giunto quel baron;
E quando fu giunto
8 K le

XXXVIII, 4 M ca v'á d'ung.
5 E E lo re si spogliò, ch'avea
6 K co' barun
8 M ne feron;
BON. facea gran

XXXIX, 5 M portaron

XL, 3 M in quello
6 K puoson;
E recaron
[Nell'ediz. Bonucci (=L?) i vv. 7-8 sono cosí:
Disse lo 'mperador senz'altri guai:
Tu m'hai contento piú ch'io fussi mai.]

XLI, 1 M sua isposa;
BON. che tutta era piena
2 M considerando trovarlosi;
E trovarselo
4 K dappoi;
BON.: e poi saputo aveva il;
M e non fu apena
6 M al re
7 BON. facendo inseme

XLII, 1 E Da poi
3 BON. come piacque a Quello
4 BON. che guida 'l tutto, e' m'ha concesso questo
5 BON. e se dal cielo discese
7 BON. il re gli… prestamente

XLIII, 3 M Padre concedi alquanto non ti noi;
BON. padre benegno che 'l puoi
6 E benedizioni
BON. and. allegri col nome di
7 E Ed e'

XLIV, 1 K E[d] 3 M madonna 4 M e al b. d. r. fu inn. 5 BON. e pensava; K chiamarlo 6 BON. onde che 7 E rocca andò 8 M |ed]

XLV, 1 BON. La donna d'está
4 E e 'ncontro si le fece
6 E con anche piú (=BON. con ancor piú);
M con tre piú; si intenda: "con tre piú di dieci" ="con tredici"
7 BON. dodici
8 E simile ciento centinaia

XLVI, 1 E quand'ella; BON. (a lui) et ella allora
3 BON. madonna
6 BON. andar lo fe' alla rocca a riposare
8 E misselo;
M fé 'l metter d. e poi serrare

XLVII, 5 E effetto crudo
6 BON. lievati
7 Bon (ch')io s.

XLVIII, 2 BON. e si fu a.
4 BON. che di presente e' fussi disp.
6 E si gli;
BON. ella tosto si giacque a lui da lato
7 BON. un suo

XLIX, 1 BON. Il re destato 3 BON. ogni cosa tocca 4 BON. che far si crede con sua dolce sp. 6 BON. trovava 7 E parole noi conforta né 8 BON. di quella rocca il pianto spande

L, 3 E sapiate
4 E ebbe la d.;
BON. la moglie al suo mar. ad aq.
5 BON. E com'ella
6 E e BON. quarto cant.
7 BON. El re si fu condotto a tristo sch.
8 M compiuto;
E Al v. onore finito è il canto trezo

Nell'ed. BON. i versi di questa ottava sono cosí disposti: 1-2-3-5-6-4-7-8.

CANTARE QUARTO:

I, 1 BON. piú tempo;
K pettenpi
6 K ovel compogno;
M cuore;
BON. ch'io comp.

II, 3 M fu el gran re
6 BON. la donna sua, che di fuori t.
7 M e alla suocera sua;
BON. E la moglie del re

III, 1 M udí
2 K avea;
E la sua f.
4 K nel suo M prode e s.;
E prò e;
BON. molto s.
7 M BON. int., int.

IV, 1 BON. La reina d'o. quando int. 2 BON. in quella rocca era el suo f. 3 BON. a tutti e' suoi baroni fe' p. 8 BON. dove el figlio

V, 1 M guernita 2 M che sí forte 3 KM fornita 6 BON. fa una c. 8 E si vincesse; BON. si prendesse

VI, 1 M isteteno in ass.;
BON. che giá fatto è
2 BON. colla cava giungevano alle m.
3 BON. e poi che forte ha tagliato l'assedio
4 M aspra e d.; E fuora b. dura;
BON. dar di fuori la b. d.
5 BON. entrorno ché
7 M per lo re;
BON. e lo
8 BON. e quella donna prigione m.

VII, 4 KEM andar in oriente con molta all.
6 E. fecieno:
M. fe' mettere in prigione co'
8 BON. ne menar

VIII, 2 BON. fecesi
3 BON. incontrato
4 BON. e av….. bezzicare;
E ch'egli abbi
5 BON. l'ebbe veduto e toccato
6 M cominciare;
BON. a molta gente fece app.
7 BON. a giostr. arm. et isch.
8 BON. fece

IX, 1 K (co)tanto 2 K d'incarcieratti; BON. de' prigioni 3 BON. colla guardia 4 M umile molto 7 E Ella li disse 8 E nelo

X, 2 BON. da ogni c.
3 BON. e giunto in
4 E dovria;
BON. Batt. di donna addomanda
6 E puosesi in campo;
BON. poselo in campo e disse
8 E fecie;
M ella g. alla donna fe' risp.

XI, 3 BON. forza
4 M s'i';
E una malvagia rea
5 E che 'l tuo
6 E alquanto di prigione a trarmi dea;
M a trarmi;
K alquanto rea

XII, 3 BON. Ella rimase allora pura e netta
4 BON. e liberolla;
E si lib.
5 BON. or vo' sappiate
6 M avea con seco
7 BON. e M riebbon;
BON. tutto 'l loro
8 E fur
BON. furno morti

XIII, 2 BON. ne rese; E si rende… come 3 BON. subitamente a cavallo è montata 4 BON. e andò al torneo della 5 BON. poi allo albergo corse e quivi 7 BON. a ferire al torneo ella n'and. 8 E ne scontrava

XIV, 3 BON. ognun
5 BON. uscir di que'
6 BON. disarmar fûrrogli;
M li furo dint.;
E fulle
8 BON. e per amore a m.;
M i q. per aschio a morte;
E i qual per asthio;
K per lei

XV, 1 K prevene 2 BON. del gran re 3 K edarme 7 E quei 8 K ella ci sta, el potrebb'esser

XVI, 2 M senza piú dire
3 K onde 1;
M onde 'l re
5 M e la reina vecchia
6 E chi di pregion l'avea f.
7 M a correre
8 E andò a lei infino lá dov'era;
BON. fecesi incontro lá dov'ella

XVII, 2 M e torna alla 3 M (ch')io; BON. affr. 4 BON. dietro 5 BON. donna, o car signore 6 E chieggio a vostra

XVIII, 1 BON. el re li
2 BON. quando;
BON. E verrò
3 BON. alla madre
4 E ch'io non ho qui piú che dugiento meco;
BON. che 'l re n'aveva da d.
5 BON. Disse la donna: Non ci fa;
E e non vi fa
6 E n'ha
S E imfim fuor

XIX, 1 BON. e come d. f. tre;
M beu due
2 E domandò c.
3 BON. lo
4 M e como neglion sua
5 E il re con tutta sua f.;
BON. el re fu preso con la sua mogliera; manca persino la rima!
6 BON. e tutte l'arme tolse lor d'ali.
7 BON. tanto cavalca che 'n suo;
M e tanto va quella donna ch'ell'entra

XX, 2 BON. fecie 3 BON. Poi che 5 BON. ben sa' tu poi che mi v. f. 7 E ond' io farò 8 BON. per tuo amore costr.; M di tuo

XXI, 1 E ritrovava; M di' re 3 KME de' ferestieri 4 E che ciascuno sgonbrasse 6 BON. ritornò ciascheduno in 7 BON. sapendosi che il re

XXII l'ott. è omessa in M 4 BON. in arme et in rumore 5 BON. che savio era e bene; E sicome s. e a. 6 BON. alla sua donna ebbe scritto il 7 BON. incarcerato 8 K sagreto

XXIII, 1 BON. Quando 2 BON. quant' 3 BON. fece venire presto in suo; M per tutto 7 U e cavalcaro assai per tal 8 BON. ove prig. era il

XXIV, 1 BON. E la sua gente quella cittá s.;
U ell'assedie la cittá, che non era
2 BON. che niuno ent. non vi può ne use.;
U potea
3 BON. mesi e piú vi fece star la
4 M potien;
U posson;
BON. potean
5 BON. apriron… dier;
KE diede
U di che aperser la porta della
8 M ch'era tenuta;
BON. ed E: l'ha tenuta

XXV: l'ott. è omessa in M
1 U passando poi per una s.;
BON. cavalcando per la s.
2 BON. donna sí
4 E il f.
6 K temendo
7 U e pur veggendo che non potean p.;
E dissem
8 U tornare ad. per p.;
E indietro

XXVI, 1 UE alla marina;
BON. quando fur giunti del mare alla riva
2 UE che mal far s'ing.
3 U un es.;
BON. fece p. m. che es.
5 U ed uno messaggio;
BON. de' romani appariva;
E venia
6 BON. et al re
7 M e disson i romani
8 E che tu meni;
BON. ch'è menata

XXVII, 1 UM il re sopra di ciò
3 BON. Disse: Poi Dio
5 U Poi fur partiti che non giron un;
E e poi gir forse un;
M ne giro
6 E quell'armata
8 U e con suo gente si tornò in oriente

XXVIII, 1 M giunse;
U Tornato… lo re
2 U per t. lo suo g.;
E 'l regno e gran;
BON. ch'è suo gran
4 U il
5 M giunti;
U e poi incominciò e prese a
6 BON. dal piè fine al
7 BON. tutti gli ing. che f. gli a
8 BON. Quella falsa:
U f. gl'avea ['l] Signor della Spina

XXIX, 1 U tal
2 UE gridando tutti
3 KEM mandi(vi)si oste;
U gente che quella città arda
5 U e quella;
E la terra tutta
6 U e diesi a lei sí gravosa
7 E risposte
8 EU vi fe'

XXX, 1 E cotal;
BON. U quando la donna tal n. nota
2 K dove l'oste;
M quella donna l'oste ebbe;
E a quella donna che l'oste;
U BON. che quello re l'oste gli ha b.
3 M malcometto;
E malcometter
4 E subito a macometto
5 U davanti a la sua
6 U e BON. S'tu hai forza, ora

XXXI, 1 K Po';
E Però
4 K barun
4 U manda
5 E disseli;
M malc.
6 BON. ch'ha la sin.;
U ella ragione;
E della mia s.

XXXII, 1 BON. parti allegramente
2 U poi Mac.
3 U e BON. perché a simil cosa s'era dato;
K n'era;
EM egli era
4 U acciò s.
7 U giogante e di grandezza

XXXIII, 1 E un calabrone
2 E avea acciesi
5 M quatt'uomini avia;
E omini legati
6 E una n'avea innanzi che lo mordea;
BON. e U mordea ad arte lor l'anca
7 KUE sanne;
E seco avea;
M avie dirieto
8 U sette;
M venti ispane

XXXIV, 1 U quando fu giunto nella 2 U li porci si sparsono 3 BON. si fuggien 4 UE e volentieri in 5 U divorando 8 UE per paura; EM tramortiti

XXXV, 1 U terribil
2 U (ella) raunata;
K v'era
3 U perché facia
4 U ciascuno che 'l;
M qualunque
5 U El re allora si andò davante
6 U e dimandollo quel ched e' volea
7 U uno: so;
M Baroni;
E Burbani
8 U di M. ed anco de' rum.

XXXVI, 1 BON. e dalla parte sua ti fo c.
3 U che una donna a cui;
M contro a lui
4 U nostra diritta
5 U cosa che far seguitando;
BON. cosa che tu seguitando;
E ne farem quando
6 BON. farebbe contro a te
7 K in suo contrade
8 K ma' la tua cittade

XXXVII, 1 M vide: ism.
3 M e disse
4 U io non (piú)
5 E che 'n breve
7 E Ed e'
8 BON. pegno vorròe miglior che di carta

XXXVIII, 1 U Udendo
3 BON. s'è gittato ginocchione;
U fu gitt.
6 U quel non essere al populo obbediente;
K presente
8 U e BON. me

XXXIX, 1 U dicendo;
BON. finita;
E e detto questo
3 K colui;
U che lla venuta di costui è tanto ria;
E cotanto rio
4 UEM promesso;
U (altrui)
5 M al suo
7 K faton meste ;
M fatto este ;
E fattum este
8 U tuo

XL, 1 K angiol di Piero
3 UM e si si fece (infronte)
4 U e BON. e al vicario andò
5 U e BON. giunse alloro molto feroce
6 K Verbon
7 U gente gridò;
KM sua compagna;
E c-i
8 K puciol.

XLI, 1 UM BON. E dilungato il terribil roncione
2 E e' p.
4 E sospirando; U fuora sospirando
5 K con (gran);
BON. pricissione
7-8 E Considerate quanto maggiormente
De' far lagiú 'n inferno tal gente
(cfr. la nota all'ott. XXXIV del terzo cantare)

XLII, 1 U Or mag.
2 U quelli che vi
3 U che scure grida;
M dolorosi guai
4 U ch'a tal;
BON. che'n quelle parte
5 BON. disiosi d'udire;
U e disiate;
E Considerate
6 U che gli angnoli di paradiso fanno
8 U e BON. può'

XLIII, 2 BON. volse averla;
K avere oferta
3 M colei che fu isbandita
4 U contro di lui, ciò fu;
M fu c[i]ò dama bella
5 U stata era in contumace;
M in cont.
8 BON. vita ch'andò fra beati

XLIV, 1 M batezata
3 BON. a la lor;
M tutta sua
4 U feno
6 U andorno in pazienza;
BON. con clemenza
7 E dove conduca noi il S.;
U al qual ci cond.
8 K feci;
U questo cantare è detto al vostro onore:
BON. e l'istoria è finita al vostro onore.

XI

Il cantare di Madonna Elena si trova in due codici:

E .—Cod. Morenianu-Bigazzi CCXIII, c. 136 a [ Di Madona Elena imperadrice ], fin. e. 148 a [ Finis ]. Il titolo non è esatto, perché appartiene ad un altro celebre cantare di argomento religioso.

F .—Cod. CLX della Bibliot. comunale di Perugia (giá C. 43): Novela di Lena imperadrice —"Questo cod. ha parecchie lacune ed è scorrettissimo". Col sussidio dell'uno e dell'altro dei codd., il cantare fu pubblicato da Ottaviano Targioni-Tozzetti nel libretto Cantare | di | Madonna Elena | Imperatrice [per nozze Soria-Vitali], Livorno, 1880 (16°, di pp. 57) [T].

Il Targioni ebbe dal D'Ancona le copie del codice Perugino e del codice Moreniano, ch'egli definisce Pisano, perché allora era in proprietá di un prete del contado di Pisa. Il cod. E , scritto a Pisa, reca molte grafie pisane, "pulsella", "fattesse" ecc, le quali non furono eliminate tutte dal Targioni; io ho tolte anche le poche che vi erano restate. Ometto l'apparato alle varianti, perché esso è stato dato nell'edizione del Targioni e la lezione scelta da lui nei casi dubbi è sempre la piú giudiziosa e aggraziata.

In qualche luogo mi sono scostato dall'edizione T, sia per rendere al verso la giusta misura, sia per schiarire il senso, che era evidentemente oscurato e arruffato dai copisti:

III, 7 EF e disse: Arnaldo grossa son. T corregge: "Arnal". "Questi scorciamenti non sono insoliti ai cantori popolari". Mi pare che d'un cosí strano scorciamento non vi sia bisogno, perché per dare la misura al v. basta togliere l'"e" iniziale

VII, 4 a[d]

XIV I codd. sono molto discordi:

F

Quivi avea giente di molti coluri di strane parti e de lontan paesi e de liali e de li tradituri e de li avari e anche de li cortisi. Appresentò lo vin li servituri e si fu dato bere al re Alvisi e lo ne bevé a tutta sua volontade, poi porse la coppa a Urgier lo podestade.

E (=T)

Quivi aveva giente de molti paesi di strane parti e da lungie cittade e degli avari e ancor de' cortesi, con una coppa di gram dengnitade, a mercatanti, a signori e a borghesi e Carlo n'ebe a la sua volontade, e poi la diede a messer Rugieri; di mano in mano, a' maggior cavalieri.

Il testo F dovrebbe essere accolto senz'altro, se fosse possibile ridurre a forma toscana le rime: "cortisi", "Alvisi". Per schiarire il testo E, evidentemente bisogna mutare "a" (v. 5) in "ha" =vi sono mercanti, signori e borghesi, e mutare "n'ebbe" (v. 6) in "bebbe" (=bevé di F), iniziando col nuovo verso (6) un nuovo periodo logico.

XVIII, 1 e[d] 4 o[d] è il vin… vi 6 parole ('n)

XIX, 2 che[d]

XXIV, 4 T destro a la terra

XXV, 7 a[d]

XXVII, 2 tu se' vantato? Muto in "ti sei vantato", per coerenza col v. 6 "mi son vantato"

XXIX, 4 che[d]

XLIII, 2 a[d]

LI, 2 EF che fu adimandato; T: "ch'e'fu", ma neppure la correzione dá senso. Suppongo che il "che" dei mss. fosse in origine un "cho", vale a dire "ciò". E allora tutto si rischiara.

LVI, 7 a[d]

LX, 2 EFT questo non è piú da sofferire; mancano la rima e la misura
del verso, perciò modifico: "questo colpo non è da sofferere"
7 gran[de]

LXII. Nei codd. e in T mancano tutte le rime: "Madonna Elena il volse anco ferire: | la testa presto gli volea tagliare | Messer Guarnieri disse: Non mi uccidere | ch'io veggio ben ch'io non posso scampare. | Venga il libro e sí lo fate scrivere… Muto "uccidere" (v. 3) in "finire" e "lo fate scrivere" in "vi fate a udire". "Scrivere" fu attratto dall'"hanno scritto" di LXIII, 2

LXII, 7 EFT che quelle gioie ch'io v'ò mostrate. Il verso manca:
correggo: "Come quelle gioie ch'io ho mostrate"

LXIV, 8 EFT non vo' ch'Elena non mi trovi. Tolgo la ripetizione del
"non" e sostituisco: "ch'Eléna qui mi trovi"

LVII, 7 EF solonato. Il T. stampa "solo nato", che non dá senso
alcuno; si legga "sollenato", cioè istupidito per il dolore,
svanito di mente (v. Gloss.)

LXIX, S EFT potremo. Ma il povero vecchio non c'entrava per nulla!
Leggasi: "potrete".

XII

Anche del cantare di Cerbino non s'hanno manoscritti, ma solo stampe popolari:

1.—LA NOVELLA DI CERBINO.—Segue una stampa in legno, rappresentante un combattimento navale, poi due ottave. Inc.: "O sacre sante gloriose muse"—In-4°, cc. 6. non numerate (reg: a-aiij) a due colonne con 4-5 ott. per col.—Fin. dopo 4 ott.: Finis. Il Molini, Operette bibliografiche cit., p. 184 la definisce "del principio del '500 e forse di Firenze, 1502"; cfr. R. Renier, Sonetti e strambotti dell'Altissimo , XLIV n .—Un esemplare è nella Magliabechiana (981-7) ed è quello ch'io segno [M].

2.—LA NOVELLA DI CERBINO—s. n., in-4°, 6 cc. non numerate; in fronte un intaglio in legno "che rappresenta la battaglia navale descritta per entro la novella, sopra la quale leggesi il titolo suddetto, e sotto le 2 prime ottave. Il " verso " dell'ultima carta contiene 8 st. e la parola: <sc>Finis</sc>. L'edizione sembra fatta in Firenze, sul cadere del sec. XV". Cosí G. B. <sc>Passano</sc>, I novellieri ital. in verso , p. 93.

3.—NOVELLA DEL CERBINO | in ottava rima | di un anonimo | antico—Bologna, 1862. In-16°, pp. 38. [Disp. XXV.^2 della Scelta di curiositá letterarie ]. Questa edizione è condotta su M ed è anonima.

Preparando ii testo di questo vol., ho tenuto sott'occhio questo libretto moderno [S] e l'edizione del Cinquecento [M]. Eccone le varianti piú cospicue:

I, 5 M perle culle labbra;
S perre cui le.
Per ristabilire la misura del verso, sostituisco "per la quale"

IV, 8 M secondo

VI, 3-4 S sua; M. sua gentileza e genolosia | non acchador ma per terra & per mare

VII, 8 M beltá

VIII, 2 MS si che ella
3 M seppe

IX, 4 MS al suo
6 MS sua beltá, sua belleza gloriosa

X, 3 M ai
6 MS suto t'è.

XI, 2 M posti 4 M risposti 5 M che pur Cerbin oncerto 6 M costi

XIV, 2 M legadra
5 [ne]

XVIII, 7 S venisse ch'ella n'andasse
8 S voler per forza rapirla

XXI, 2 M ognun

XXIV, 3 M in Granata bisognava che andassi 5 M che 'l sapporasse

XXVIII, 6 M due galee soctile

XXX, 7 MS prima a dire

XXXI, 1 M a voi

XXXIV, 2 [a]

XLVIII 2 M parebe

L, 5 [è] ferito

LXXIII, 8 M antroposse

LXXIV, 2 a[d]

LXXIX, 6 M estice S estinte ( sic )

LXXX, 8 M respondeam'ecco

LXXXI, 1 M Non
3 M Non resterano che sempre geme e prora

LXXXII, 5 M incontro
S incontro ti sarò

LXXXIX, 1 MS virtú 7 M corpo mio la mia 8 M che spento sia la tua famosa fortezza

XCII, 4 M dolci carmi.

GLOSSARIO

A , con— Liombr ., II, 25.6.

accarnare , affondare nella carne la spada— Gismir ., II, 35.8

aguiglia , aquila— Gismir ., 1, 18.2; 19.7; II, 41.1

aiuolo, tirar l'aiuolo , tendere la rete, preparare un imbroglio (cfr. Crusca ^5, 1, 331)— Storia di tre giov. disperati , I, 35.4

aiutante , forte, agile— Cerbino , 68.4

aldace , audace— Gismir ., II, 27.6

ambasciare , fare un'ambasciata— Gibello , 31.3

are , aria— Lionessa , 48.1

aritornare , ritornare— Gibello 67.8

assiso , messo in possesso— Gibello , 89.5

atropòsse , morte— Cerbino , 73.8

Balio , governatore— Gibello , 9.7

banda , bandiera— Gibello , 24.8

barbuta , elmo— Gismir ., I, 27.2

barnaggio , baronaggio— Gibello , 62.1

batolo (di vaio), falda del cappuccio che scendeva sulle spalle e talvolta pendeva sul petto per la sua lunghezza ( Crusca ^5, II, 95)— Reg. d'Or ., I, 23.7

benezione , benedizione— Reg. d'Or ., II, 48.2; III, 43.6

bigordare , armeggiare— Gibello , 14.3

bisante , moneta d'oro dell'impero d'Oriente— Gismir ., II, 43.8

bossoletto , scatoletta— Gismir ., 12.6

bramo , bramoso— D. del Vergiú , 22

brigare , procurare— Gibello , 74.6

bubio , viso b., rannuvolato e brusco— D. del Vergiú , 43.4. Cfr. il Centil . del Pucci, c. LI, terz. 54: "il qual fu sí crudel con viso bubbio".

burraio , burrone— Reina d'Or ., III, 31.8

bussare , scuotere le frondi e le frasche nelle siepi e nelle macchie— Reina d'Or ., III, 32.8 [Questo significato non è registrato dalla Crusca^6, II, 332.] .

Camoscio (portare il piede nel c.)—Storia di tre giov. , I, 37.5

cavelle , cose— Lion ., 13.5

cerchiovito , circuito, circo, arena—B. Gherardino, II, 41.3

cerco , cercato— Donna del Vergiú , 6.1

ciambra , camera— Reina d'Or ., IV, 34-4

compagna , compagnia— Gibello , 52.8; Reina d'Or ., IV, 9.5

con , come— Vergiú , 10.5

coraggio , cuore (pensate nel vostro coraggio)— Gismir ., I, 26.5; II, 50-1

corlare , scrollare— Bruto , 19.7; 20.4

cosso , la sua donna gli tornò nel cosso,?,— Bruto , 18.5

credere , offrire— Storia di tre giov ., 44.4

Dannaggio , danno— Vergiú , 51.8

dicapare , decapitare— M. Elena , 20.6; 51.8

divario , mutazione— Storia di tre giov ., I, 17.3; III 28.7

diviso , (per non diviso), termine giuridico: in comune ( Crusca ^5,
IV, 781)— Reina d'Or ., I, 8.4

dotta , ora: a so dotte , alle ore sue, alle ore
debite— B. Gherard ., II, 39-4 [v. so dotte ]

Fantina , fanciulla— Vergiú , 57.7

fazzione , fattezza del volto, fattura d'una cosa— Liombr ., I, 16.8; 45.4

fiancare , sorreggere, dare aiuto—Gibello, 80.8

finare , finire— Reina d'Or ., III, 19.4

fiotta , frotta— Gibello , 37.8

franco , libero— Gibello , 86.3

Gaiardo , gagliardo— Bruto , 44.6

gallare , esultare— Gismir , I, 33.6; Vergiú , 66.2

Gesò , Gesú—B. Gher ., I, 1—Anche la leggenda di Vergogna
ed. D'Ancona, I, 1: "O Gesò Cristo sommo redentore"

gesta , famiglia, schiatta e anche corte— Gibello , 21.5; 24.2;
77.2; M. Elena, 74.4

giovane , gioventú— Bruto , 6.1

gostare , costare— Gismir ., II, 42-3

groppiera , sella— Gibello , 16.4

Imboscare , celarsi in un bosco— Gismir ., n, 70.8

impossibole , impossibile— Bruto , 27.3

incorporare (le parole), formare le parole— Lion ., 26.5

indovino (capello indov.)— Gismir ., I, 14.7

insegnato , saggio— Gibello , 83.3; Gismirante , II,13.1; Reina d'Or ., II, 26.3

interiglio , interiora— Gibello , 61.6

intorsare (e molto bene all'oste il becco intorsa)— Storia di tre giov ., 25.3

Laniere , pigro— Gibello , 30.5. Il Selmi ravvicina assai opportunamente (p. 52) il v. dell' Intelligenza : "E disse ai suoi:—Or non siate lanieri"

latire , latrare (ella lativa)— Vergiú , 8.7

lattovaro , medicamento, pozione mescolata— Storia di tre giov ., II, 28.8

lista (luceva piú che oro in lista )— Vergiú , 48.3

luminèra , luminaria— Reina d'Or ., III, 35.3

Magnalmo , magnanimo— Cerbino , 5.6

maniero , familiare, affabile— Gibello , 12.5

marmerúca , marrúca— Vergiú , 44.8

mastra , principale (maestra): mastra porta— Gismir ., I, 33.8; Bruto , 38.3; mastra sala— Lionessa , 23.1

mattutino , ora notturna— Gismir ., I, 29.8

memoria , mente— Vergiú , 14.3

mena , cosa— Reina d'Or ., III, 41.3

mestiero , pratico— Vergiú , 56.8

mica , briciola; usato come particella negativa, come "punto"— Vergiú , 53.6

moro , gelso— Vergiú , 64.6

mostrare , parere (non mostrava dogliosa: non pareva dogliosa— Vergiú , 55.7; non mostri: non sembri— Reina d'Or ., II, 21.4). Usato assol. mostra , sott. il "raconto", dice la leggenda— Gismir ., II, 25.6; 34.1

musare , accostare il volto in atto di fiutare, di ricercare e di desiderare— Vergiú , 35.5 (l'Amore… solo sua bellezza guarda e musa)

musorno , istupidito— Vergiú , 40.2

Natura , nascita— Gibello , 25.6

Orino (all'orino), ombra— Bruto , 23.5

Parletico , paralitico— Storia di tre giov ., II, 32.3

parte , mentre (parte che facía: mentre faceva)— Gismir ., II, 42-5

pellicini (d'una borsa), le estremitá dei lembi per i quali la borsa si può afferrare e scuotere per vuotarla— Storia di tre giov ., 33.7

pennello , stendardo— Gismir ., 36.6

piaggia , erta— Bruto , 45.4

piuolo (piantare a piuolo), piantare in asso— Storia di tre giov ., 35.6

podesta , podestá— Gibello , 24.6

possente , possibile— Gibello , 85.4

predicare , persuadere— Gibello , 70.1—Il Selmi (p. 58) ravvicina il passo dell' Apollonio di Tiro in prosa: "e con umile parole lo cominciò a predicare che gli piacesse di non mandarla in siffatto luogo"

prieta , pietra— Cerbino , 14.1; 49.3

promettere , assicurare— Liombruno , II, 37.3

procurare , chiedere notizie— Gismir ., I, 24.7

puntaglia , moltitudine di lance— M. Lionessa , 6.1

rabbaruffare , confondere— Cerbino , 50.1

ragione , qualitá— Vergiú , 55.8

ragionale , ragionevole— Gibello , 80.5

ramo (che di pazzia menava ramo)— Vergiú , 22.

Rène , re— Gibello , 81.2

replicare , raddoppiare— Storia di tre giov ., II, 15.4

ringioiarsi , riempirsi di gioia— Gibello , 67.7

risedio , edificio, accampamento— Reina d'Or ., IV, 6.3; cfr. PUCCI, Centil ., 1.46 "Dieder la terra e quella disfèr tutta, infino a' fondamenti ogni risedio".

roncione , cavallo da sella— Gibello , 56.3

ròta , tribunale (Ròta di Maometto, che risiedeva a Roma)— Reina d'Or ., IV, 30.5

Santo , chiesa— Gismir , I, 12.3; 27.1

scapigliare , scarmigliare— Gibello , 72.5

schiavina , veste da gaglioffo— Gismir ., II, 22.4

scocozzato , cornuto— M. Elena , 17.7

scorgere , mostrare il cammino e fare scorta— Reina d'Or ., IV, 17.8 [Qualche esempio analogo reca il Diz . del Tommasèo e Bellini].

scuola (d'un giardino)— Vergiú , 45.6

sempricitade , semplicioneria— Bruto , 16.5

smagliare , togliere— Reina , I, 48.7

sodotte —a sodotte—B. Gherard., II, 39.4, v. "dotta" a' so dotte : alle sue ore. Dotta per otta , ora è comune nella lingua antica ed è registrata dai dizionari.

sogliáre , soglia— Gismir ., 12.3

sollenato , svanito di mente— M. Elena , 67.7

subbio (come panno in subbio), rullo compressore— Vergiú , 43.7[Questo significato manca nei dizionari; comunemente subbio vale "rocchetto da telaio".]

Tenuta , signoria— Gibello , 37.6 e 8

tornare , tardare— Gibello , 74.2. Il Selmi annota: "con tale uso il verbo 'tornare' manca nei vocabolari".

tradizione , tradimento— M. Elena , 8.8.

transito , morto— Vergiú , 43.5; 61.7; Gibello , 72.8

troncascino (il porco troncascino)— Gismir ., II, 14.7; II 23.7

uso , òso, ardito— Liombr ., II, 19.6

vallare , cadere in basso ( a valle )— Bruto , 33.8

vasa ("bestia di vasa")— Storia di tre giov ., 64.3

vembro , membro— M. Lionessa , 10.7

verghetta , anello— M. Elena , 35.6

verzúe, vergiú—Donna del Vergiú , 5.3; 10.8

vilia , vigilia— Gismir ., I, 10.7; 11.1; 25.1

vilume , volume— Gismir ., I, 32.2

vitare , eccitare— Gibello , 15.6 cfr. la nota 34 del Selmi (p. 50)

Zambra , camera— Vergiú , 17.5; 46.2; 50.8; 61.2; 63.5; Mad.
Lionessa
, 13.4; Storia di tre giov ., I, 35.7; 40.3; 41.2; 48.4;
II, 14.1; II. 30.3; II. 39.7; Liombruno , I, 13.3; Reina d'Or .,
II, 44.7; M. Elena , 33.1

zita , zitella, fanciulla— Vergiú , 5.1

INDICE DEI NOMI

Alessandria—vi sbarca Gherardino; B. Gherard . II, 16.1; II, 26.1

Amerigo di Nerbona— M. Elena , 2.3

Aquilina, fata amica di Liombruno — Liombr ., I, 14.2; 18.3; 19.8; 43.4; 46.1; II, 2.6; 15.8; 24.7; 26.8; 29.4; 35-8; 38.6; 47.1

Arnaldo di Gironda— M. Elena , 2.5-7; 3.7; 5.3; 6.1; 7.3; 65.1

Arnaldo, figlio di m. Elena— M. Elena , 7.7; 31.7; 56.8; 67.8

Argogliosa. principessa di Genudrisse— Gibello , I, 9.3; 23.1; 41.8;
42.3-5; 84.7; 85.1

Artú— Pulzella gaia , 1.5; 3.7; 38.1; 41.2; 42.1; 46.7; 52.1;
56.5— Gismir ., cant. I 2.4; 5.4; 7.4; 43.4
—Ospita il padre di Gismir., I, 2.4; ha caro Gismir., I, 5.4;
Gismir . gli chiede commiato, I, 16.3; Gismir . gli conduce la
Principessa, I, 43-4
—Lo sparviero di A.— Bruto , 26.8
—Curiositá della corte di A.— Bruto , 5.2
—Usanze della sua corte— Gismirante , I.6-7

Astor di Mare— P. gaia , 56.2

Azzolino Romano— M. Lionessa ,1.3

Balbani, baroni di Maometto— Reg. d'Oriente , IV, 35.7

Bellicies, amante di Tristano (Cfr. Il Tristano Riccardiano ed. E.
G. Parodi, Bologna, 1891, p. 27 e sg.)— Donna del Vergiú , 58.8

Berta, segretaria della regina d'Oriente— Reg. d'O ., II, 25.1; 26.8; 27.3; 29.3; 30.2; 31.1; 36.2; 37.1; 44.8; 45.5; 48.5; 49.7; III, 9.4; 15.1; 18.1; 23.1; 24.5; 25.1

Biagio, il piú sciocco dei tre giovani disperati— Storia di tre giovani disperati, passim .

Bianca, fata innamorata di Gherardino— B. Gher ., I, 25.2

Bologna—nemica della famiglia dei da Romano— M. Lionessa , 43.8; —vi viene a studiare il re d'Or., Regina d'Or ., II,31.2; 32.2 —via che da Firenze conduce a Bol.— M. Lion ., 43

Borgogna—Guernieri duca di B.— Donna del Vergiú , 2.3; 14.2

Bravisse o Bramisse, capitale di re Tarsiano— Gibello , I, 2.2; 7.7; 62.3

Breus o Breusse— Pulzella gaia , 55.8; 57.4.

Calliano—gli è raccomandato Gismirante— Gism . I.3.8.

Camellotto, capitale del regno di Longres, patria di Artú— Pulz.
gaia
, 46.3; 54.2; 56.2

Capitano, marito di Leonessa— M. Leon ., 1.5; 4.3; 6.1; 7.2; 8.6;
11.1; 12.1; 13.2; 24.8; 25.2; 31.5; 32.2; 43.3

Carlo magno— M. Elena , 6.3; 9.6; 11.2; 13.3; 14.1-6; 15.3; 16.1;
20.1; 22.1-5; 26.8; 27.5; 38.7; 39.2; 47.2; 48.4; 52.6; 55.1;
65.8; 66.7; 69.5; 70.3

Cavaliere (il) Cortese, padre di Gismirante— Gism ., I.2.2. —(il) Nero— Gibello , 25.8; 26.3; 30.5; 31.2; 51.2; 61.1 —(il) Vermiglio— Bel Gher ., II, 38.2

Conte (il) Vermiglio— Gibello , 32.2; 34.2; 61.2

Cortese—v. Cavaliere cortese.

Costanza d'Altavilla— Cerbino , 4.8

Elena, figlia del re di Tunisi— Cerbino , 17.3; 29.4; 55.8; 56.4; 80.8; 97.1.

Elia— Reg. d'Or ., III, 39.4

Enoc—porta nel paradiso la regina d'Oriente— Reg. d'Or ., III, 39.4

Estor—v. Astor.

Fata Bianca, amica di Gherardino;— B. Gher ., I, 25.2; II, 10.5;
14.8; 24.2; 25.1; 39.1
—Innominata, amica di Gismirante; Gism ., I, 8.8; 20.3
—Morgana, madre di Pulzella gaia— P. gaia , I, 15.3; 51.2 [v. Morgana].

Firenze, visitata da Salomone— M. Lion ., 39.7

Francesca da Rimini— Donna del Vergiú , 64.8

Francia, il re di F.— Lion ., 3.4; 4.1

Gabriello, l'angelo— Reg. d'Oriente , III, 42.3

Galasso— Pulz. gaia , 56.3

Galatea, regina della Spina— Reg. d'Oriente , IV, 2.2; 11.2; 28.8; 44.3

Galliano— Gismir ., I.3.8

Galliano, borgata in val di Sieve, sull'antica via della Futa, Lionessa , 43.1

Galvano— Pulzella Gaia , passim

Genudrisse o Gienidrisse: cittá e reame di G.— Gibello , I.7.8; 8.1; 44.8; 46.7; 47.2; 48.2; 49.2; 51.7; 52.1; 62.1; 75.3; 78.7

Ginevra—P. gaia, 3.8

Gioganti neri— Regina d'Or ., I, 19.2; 21.7

Gironda— M. Elena , 23.7; 32.8; 41.2; 44.5
—dote di M. Elena, 7.2; signoreggiata da Arnaldo di Narbona, 3.2;
4.3; 71.3

Girondino di Gironda— M. Elena , 7.8; 31.7; 56.8, 67.8

Granata— Cerbino , 23.3; 24.3; Liombr ., I, 33.2 —il re di Granata; Cerb ., 15.7; 19.1; Liombr ., I,31-5; 38.1; 40

Guarnieri d'Oltremare— M. Elena , passim

Guglielmo (messer), amante della donna del Vergiú— Vergiú, passim

Guglielmo II, re di Sicilia— Cerb ., 4.2; 20.4; 2I.4; 25.4; 39.3; 40.2; 85.7; 86.2; 88.5; 98.1

Isotta— Cerbino , 34.5

Ivano— P. gaia , 56.5

Lancillotto— Cerbino , 34.5; Gismirante , I, 3.8; Pulz.gaia ,
II.4-7 56.1

Liombordo— Pulz. gaia , 56.6

Lione (messer), padre di Gherardino— B. Gher ., I, 3.7; 4.1

Lionello— Pulz. gaia , 56.4

Lombardia; Lionessa, principessa di L.— Lion ., I.6-7

Macometto (Maometto), ha in Roma la sua sede— Reina d'Or ., IV 30.3

Marco Bello, scudiero di Gherardino— B. Gher ., I, 8.7; 9.1; 10.8; 12.4; 15.2-8

Mare—v. Astor (di) Mare

Messina— Cerbino , 27.4; Messinesi— Cerb ., 36.2; 38.3

Mompolier (di) Ruggieri— M. Elena , 6.8

Morgana— P. gaia , 15.3; 51.2; 54.5

Nerbona (di), Amerigo, padre di Arnaldo v. Amerigo; Arnaldo

Neri—giganti d'Oriente— Reina d'Or ., I, 19.2; 21.8

Palamides— P. gaia , 56.3

Palermo— Cerbino , 13.6; 23.8

Paradiso Deliziano o Luziano— Reina d'Oriente , I 28.2; III, 39.7;
Lion., 47.7

Parigi—vi dimora Capitano, Lion ., 3.7; 9-3 —vi giunge Salomone, Lion ., 20.7; il clero fa omaggio a Salom., Lion ., 29.7

Patrimonio, la prov. di Roma— B. Gher ., I, 3.8

Piramo e Tisbe— Cerbino , 34.2; Donna del Vergiú , 64.6

Porco (il) Troncascino, che custodisce il cuore dell'Uomo
Selvaggio— Gismir ., II, 14.7;
l'imperatore gli dá in pasto un suo figliuolo, Gism ., II, 23

Rodi, vi combatte il duca di Borgogna— Donna del Vergiú , 68.5

Roma—colonna che sorge sul Campidoglio, Bel Gher ., I, 3.1
—Castello delle Milizie, Reg. d'Oriente , I.36.8
—Sede della "rota" di Maometto, Reina d'Or ., IV, 30.5
—È signoreggiata dal Porco Troncascino, Gismir ., II, 14.8
—e ne è liberata da Gismirante, Gismir ., II, 45; 46.4; 48, 5-6-8
—Patria di Gismirante, Gismir ., I, 2.9—Gismir. vi arriva,
Gism ., II, 20.6
—Vi giungono la regina d'Oriente, Reina d'Or ., I, 29.1
—e il cavaliere Cortese, Gismir ., I, 2.6—Vi abitano i tre giovani
disperati, Storia di tre giov ., I, 24.7

Ronciglione, ufficiale della corte di Maometto— Reina d'Or .,
IV, 31.6

Roncisvalle— Cerbino , 67.8

Rota di Maometto in Roma—Reina d'Or., IV, 30.5

Ruggiero di Mompellier— M. Elena, passim

Ruggiero Normanno di Sicilia— Cerb ., 4.6; 5.1

Salomone ritrovato nel Paradiso deliziano dalla regina d'Or.— Reina d'Or ., III, 39.8

Sardigna— Cerbino , 29.1

Selvaggio—v. Uomo selvaggio.

Serpentina: ròcca, dov'è imprigionato Gibello— Gibello , 41.1; 67.3; il duca di Serp.— Gibello , 44.5; 63.1; 72.4. La duchessa di Serpentina— Gibello , 61.1; 69.1; 70.1; 71.1; 73.7

Siena, vi giunge Salomone— M. Lionessa , 39.2

Spagna, vi giunge uno dei giovani disperati— Tre giov. e tre fate ,
I, 25.2.
—La regina di S. truffa a Biagio il corno, il tappeto e la borsa:
Tre giov. e tre fate , I, 26.

Spina, la reina delle S.: v. Galatea.
Ròcca della S.— Reina d'Or ., IV, 2.2.

Tarsiano, re di Bravisse: Gibello , I, 2.2; 38.8; 41.4; 43.2; 46.8;
56.1; 58.1; 58.8; 60.7; 64.7; 69.5; 73.8; 80.7

Tavola Ritonda— Pulz. gaia , 6.8; 7.5

Tisbe—v. Piramo e T.

Trapani— Cerbino , 72.2

Tristano— Gismir ., I.3.7; Pulzella gaia , 56.1; Cerbino , 34.5
—Il caval. Cortese gli raccomanda Gismirante, Gismir ., I.3.7
—Bellicies muore per amor suo, Donna del Vergiú , 58.8

Troiano (messer)— Pulzella gaia , 1.7; 2.1; 3.3; 26.1; 56.4

Tunisi— Cerbino , 7.1; 11.7 13.6; 22.2; 40.3

Turchia—Viaggio di Biagio in T., Tre giovani e tre fate , II, 18.1

Uomo Selvaggio— Gismir ., 1,45; 11.1; II.7.8
—Abita in un castello con quarantatré donne— Gismir ., II, 8

Ustica— Cerbino , 72.2

Valentra, cittá della donna della Spina— Reina d'Or ., IV, 19.8

Valle Bruna— Gibello , 25.8; 26.1; 51.1; 53.1

Vergiú—la donna del V.: La donna del Vergiú , 5.3; 23.2; 54.4: la
donna del Verzieri, ib., 56.4

Vermiglio: il cavalier Verm.— Bel Gher ., II, 38.2
—il conte V.— Gibello , 50.6; 59.2; 61.7: 62.5; 63.7

INDICE

I —IL BEL GHERARDINO.
Cantare primo………………………… pag. 5
» secondo……………………….. » 17

II —PULZELLA GAIA.
Cantare primo…………………………. » 31
» secondo……………………….. » 45

III —LIOMBRUNO.
Cantare primo…………………………. » 61
» secondo……………………….. » 75

IV —ISTORIA DI TRE GIOVANI DISPERATI E DI TRE FATE.
Cantare primo…………………………. » 91
» secondo……………………….. » 109

V —LA DONNA DEL VERGIÚ………………………. » 123

VI —GIBELLO.
Cantare primo…………………………. » 145
» secondo……………………….. » 157

VII —GISMIRANTE.
Primo cantare…………………………. » 171
Secondo »……………………………. » 183

VIII —BRUTO DI BRETAGNA………………………… » 199
IX—MADONNA LIONESSA……………………………. » 213

X—REINA D'ORIENTE.
Primo cantare…………………………. » 231
Secondo » …………………………… » 245
Terzo » …………………………… » 259
Quarto » …………………………… » 273

XI—MADONNA ELENA………………………………. » 285
XII—CERBINO…………………………………… » 305
NOTA………………………………………….. » 333
GLOSSARIO……………………………………… » 383