The Project Gutenberg eBook of Lucifero

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Title : Lucifero

Author : Mario Rapisardi

Release date : September 16, 2007 [eBook #22641]

Language : Italian

Credits : Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at DP-Europe, http://dp.rastko.net. (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LUCIFERO ***

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LUCIFERO

POEMA
DI
MARIO RAPISARDI.

MILANO,

LIBRERIA EDITRICE G. BRIGOLA.
Corso Vittorio Emanuele, 26.

1877.

PROPRIETÀ LETTERARIA.

Coi tipi di G. Bernardoni.

I

ARGOMENTO.

Silenzio di Dio.—I suoi ministri imprecano.—Gli uomini ridono. Lucifero s'incarna.—Proposizione del poema, ed apostrofe ai critici.—Avvenimento dell'Eroe sul Caucaso, da dove eccita gli uomini alle finali battaglie del pensiero.—S'incontra in Prometeo, che cerca da prima dissuaderlo dall'impresa, ch'egli crede inutile e disperata; commosso indi dalle ardite parole di lui, lo prega a volergli narrare la sua storia.—L'Eroe si dispone al racconto.

Dio tacea da gran tempo. Ai consueti
Balli moveano in ciel gli astri, e con dura
Infallibile norma albe ed occasi
Il monotono Sol dava a la terra.
Reddían le nevi a biancheggiar le spalle
Del tremante dicembre; april venia
Col suo manto di fiori; arida e stanca
Movea la bionda està giù da' falciati
Campi a cercar le vive onde marine;
E, coronato il crin d'edra e di poma,
Scendea l'autunno a ruzzar vispo e snello
Fra l'accolte alpigiane, e pigiar l'uve
Nei colmi fianchi dei capaci tini.
Tutto seguía così l'alte, immutate
Leggi de la Natura, e nullo in terra
Creato obietto, o in ciel, l'arduo sentiva
Strano silenzio del mai visto Iddio.
Abbandonati e solitarî intanto
Giacean per le infrequenti aule divine
I marmorei Celesti; e per le fredde
Vòlte il sacerdotal canto e la prece
Qual vano si perdea grido, che inalza
Da la rupe solinga il cacciatore,
Se mira dileguar giù ne la valle
Tra 'l sonante canneto il salvo augello.
Da fiero gel, da sacro orror comprese
Fur l'alme vostre allor, pallidi e negri
Zelatori de l'are; e quando ai vani
Scrigni balzar vedeste arido e magro
L'obolo di san Pietro, e oziose e tristi
Tornar dal mondo, qual gregge digiuno,
Le scornate Indulgenze, orridamente
Su le madide tempie alto rizzârsi,
Come ad istrice, i crini, ed agitato
Tre volte e quattro tentennò il tricorno
Su la sacra tonsura. Un grido, un urlo
Cupo s'alzò dai congiurati petti:
—La fede muore! O Dio, fulmina e sperdi
Gl'increduli mortali!—
Alcun non arse
A la prece crudel fulmine in terra;
E i mortali rideano.
Udì quel riso
Lucifero, e balzò. Sedeangli intorno
Il silenzio e la morte; oscure e fredde
Strisciavan su la sua fronte immortale
Strane larve di sfingi e di chimere,
Ed ei, solo com'era, in mezzo a tanta
Morte la luce e l'armonia sentiva.
—Qui in eterno starò? Favola indegna
Senz'opra e senz'amore, io, che del cielo
Per istinto d'amor spregiai la vita?
No, si torni a la terra! Un nuovo io sento
Spirto d'amor, che mi discorre il petto:
Santo auspicio è l'amor. L'ultima prova
Tentiam; l'ora è propizia: assai già sono
Su la terra i miei fidi; uom fatto anch'io
Amerò, soffrirò; correrò il breve
Travaglioso cammin d'un uom mortale,
E, redento da l'opre e da l'amore,
Recherò a l'uom salute e morte a Dio.—
Così l'Eroe parlava, e i circostanti
Baratri tenebrosi si agitavano,
Come per improvviso urto di vento
Il sen cupo del mar. L'ali di gufo,
Il piè forcuto e la bovina fronte
Mutò d'un tratto il favoloso iddio;
E dai lombi gagliardi e da le spalle
Le fuliggini tèrse e la stillante
Cispa dagli occhi affumigati ed orbi,
Tutt'uomo apparve, e radïò dal volto
La superba beltà d'un dio mortale.
Tramutato così, dal piceo trono
Balzò d'un tratto; il guardo mosse in giro.
Ed esclamò:—L'infernal regno è sciolto;
Il mio regno è la terra!—
Ecco il subietto
Del canto mio. Classico o no, ne affido
L'occulto senso a voi, vergin consesso
D'oculati Aristarchi. A voi diè Giove
La diva Arte in governo e i mal concessi
Talami de le Muse; e se agl'incerti
Occhi vostri si niega il delicato
De le Grazie sorriso e la suave
De le sacre fanciulle ispiratrici
Candida voluttà, dolce vi sia
Star su la soglia a noverar gli ardenti
Amplessi e i baci insazïati, ond'hanno
Suon di celesti melodie le chiuse.
Odorate cortine, ed immortale
Vita in terra gli eletti: in simil guisa
Sta su la porta dei gelosi arèmi
La fida turba dei scemati servi,
Mentre il figlio d'Osmàn deliba il fiore
De le belle Circasse. Alto e solenne
Officio è il vostro, e non indarno io chiamo
Il vostro nume auspice a me: voi soli
Le riposte misure e voi sapete
Le leggi e il rito, onde s'ottien l'impero
De l'occulte bellezze, e qual più giova
Tener modo e governo in sul tentato
Mare de l'Arte, e quando ed in qual guisa
Toccar si dee la tuba o la chitarra,
E metter l'ali al dorso e dar di sproni
Al Pegaso spumante, o nel tenace
Fren moderarne a tempo i perigliosi
Impeti giovanili, ed a che segno
E con che industria è depredar concesso
Del Meonio le carte, o del Tebano.
Pèra colui, che al necessario giogo
Prova sottrar la temeraria nuca,
E va a ruzzar licenzïoso, come
Selvatico puledro, per li campi
De la sfrenata fantasia! L'immensa
Ira vostra ei subisca, e tutto a un punto
Perda il pazzo sudor, per cui tenea
Seder primo in Parnasso. Armati ed irti
D'alfabetiche cifre, unitamente
Sorgete, e contro a lui, contro a lui solo
Tutti dal sapïente arco scoccate
I rettorici strali; onde il meschino,
Travagliato da l'onta e dal rimorso,
Egro ed insano a riparar s'affretti
Fra le mura d'un chiostro. O, se più degno
Sia di spregio che d'ira, alta, pesante
Sul suo capo ostinato onda si aggrevi
Di silenzio e d'oblio. Gelide e mute
Gli sfileran dinanzi ad una ad una
Le sdegnose gazzette; indifferenti
Si chiuderan su la sua faccia smorta
D'Acadèmo le sale; e allor che, stanco
D'urlar strambotti contro al secol ladro,
Povero e solo abbraccerà la morte,
Non fia che le supreme ore gli allegri
L'aureo rabesco d'un qual sia diploma.
Saldo così su cardini d'acciaro
Il tron vostro si gira, e vita e nome
Dal cieco umano folleggiar traete.
Tal ne l'algide stalle, in fra le zampe
D'ardimentoso corridor, ritrova
Cibo e sollazzo il piceo scarabèo;
E, quando fra le storte ànche ghermisce
Il picciol globo del dorato fimo,
L'ali spiega da terra, e s'alza a sghembo
A emular de l'audace aquila il volo.
S'incarnò adunque il mio Demonio. In terra
Sorrideva l'aprile; entro al suo petto
Sorrideva l'amor. Sopra la cima
Del Caucaso famoso, onde s'appella
La giapetica stirpe, egli fu visto
Venir come in un sogno, e star d'incontro
A l'aurora nascente. Un invisibile
Spirto, qual di canora aura, fremea
Per le fibre del mondo, e più lucenti
Dava al ciel gli astri ed a la terra i fiori:
Gli dan nome d'amor l'anime accese
Dei parlanti mortali; ed ei su tutte
Anime impera, e solo e senza legge
Il mar penetra e i monti e la selvaggia
Cute degli olmi e il petto aspro del tigre,
Chè spirto è desso, e qual raggio di sole
Splende e s'agita in tutto, e l'alme e il tutto
Con secreta armonia mesce e ritempra.
Era per l'aria un fluttüar d'ardenti
Atomi mobilissimi di luce,
Una confusa, fluvïal fragranza
Di sconosciuti balsami, e suave
Musica di parole e di concenti
Misterïosi. Un'irrequieta e nuova
Delizïosa voluttà di sensi
Vaganti per immenso ètera, come
Rondini in cerca di lontani lidi,
Una dolcezza non provata mai
Di lagrime e di sogni, al primo arrivo,
Sentì l'Eroe nel petto; e lo stupito.
Sguardo volgendo per la vasta luce,
Muto restò, di giovinetto a modo,
Che raggiante di vita alfin ritrova
La sognata beltà dei suoi vent'anni.
Ma, poi che in lui l'alto stupor primiero
Al fier proposto e a la ragion diè loco,
L'incredul'occhio ai firmamenti spinse,
—E, dove sei, sclamò, tu che presumi
Regnar l'anime eterno? Alzati, e pugna!
L'uman genio ti sfidai—
Il pugno strinse
Superbamente, eresse il fronte, e stette
Il fulmine aspettando, o la risposta.
Tacito intanto dal soggetto mare
S'apre l'indifferente occhio del sole
Su le cose create, e si ridesta
Giù per le valli intorno e la pianura
Il lieto suon de le fatiche umane.
—Sorgi, la terra è tua, proruppe allora
L'inclito Pellegrin, sorgi, o gagliarda
Possa de l'uomo! Assai d'ombre e di sogni
Preda al mondo tu fosti; e dal terreno
Pugno di fango, onde t'han detto uscito,
Non ti redense ancor la tua cotanta
Vita de l'alma audace e la sventura
Tua perpetua compagna. E che ti valse
Al par di te, trar da la creta i Numi,
Se al cospetto dei freddi simulacri
Dechinasti il ginocchio, e la superba
Libertà del pensier serva fu fatta
Di codarde paure? Or sorgi ed osa:
Il tron del mondo è tuo; numi e fantasmi
Son fuor de la Natura, e non ha vita
Tutto che il vol de la ragion trascende.
A che tra larve ìnesorate e vane
Cercare un che t'aggioghi e ti spauri,
Se muta al cenno tuo trema e si prostra
La possente Natura? Ama e combatti!
L'opra de l'uomo è amor, vita è la guerra,
Tuo regno è il mondo, e il solo iddio tu sei!—
Tacque, e a l'ardito favellar commosse
Tremâr l'aure d'intorno, e agitò i fianchi
La titanica rupe. Era nel monte
Negra, profonda, solitaria, intatta
Da umane orme e dagli astri una spelonca
Di bronchi irta e di sassi. Orrido intorno
Le fan murmure i venti, e tra' selvaggi
Fianchi, qual di commosse ali e di strida,
Cupamente rintrona. Irati al verno
Vi piomban da l'opposta erta i torrenti
Scatenati dai ghiacci, e a balzi, a salti
Mugulando spumeggiano; ma quando

Giungono al vallo de l'orrenda uscita,
Perde l'onda il nativo impeto, e pigra,
Torba, pollente s'impaluda, e manda
Pestiferi mïasmi a chi la spira.
Quivi, al fin del suo dir, contenne i passi
L'umanato Demonio, e con feroce
Piglio di scherno a contemplar si stava
L'orrido sito e il ciel. Da le profonde
Viscere allor del cieco antro una voce
Querula, lunga, dolorosa emerse
Come suon di sospir. Porse l'orecchio,
E s'appressò l'Eroe, quanto il permise
L'angusto varco e la stagnante gora,
Ed ascoltò:
—Di che perigli in cerca,
Misero! vai? Che stolta opra e che vano
Talento è il tuo di proseguir l'impresa,
Ch'io già per tempo incominciai, spregiando
La tutta ira del ciel? Stolto! che tardi
Son fatto accorto, e di Prometeo il nome
Mal mi dieron le genti! E che non feci,
Che non diss'io per questa al pianto nata
Cara stirpe de l'uom? Cieca ed ignuda
Giacea nel lezzo de l'error, sì come
Belva cibando la caonia ghianda,
E altra legge nel mondo, altro governo
Non sapea che l'istinto: ad altri ignota
E a sè stessa giacea, scherno e vergogna
De le cose create, e le create
Cose, ignara di tutto, iva mescendo
Con fallace giudicio. Ahi! qual dei numi
Qual mai n'ebbe pietà, se non ch'io solo
Io sol più che a me stesso? E non cotanto
Mi punse il cor la fulminata fronte
Dei fratelli Titani, e non di sdegno
Arsi così per l'usurpate sedi
Del fuggiasco Saturno e pe' negletti
Consigli miei, quanto d'affetto e d'ira
Destommi in cor la tribolata sorte
Degli umani infelici. Ardito e solo
Contro a' Numi io mi stetti, e alzai la voce
Contr'esso Giove, allor che ad uno ad uno
Sprecava i doni al vegetale e al bruto,
E a l'uom, misero tanto, altro conforto
Non largía che il morir. Tutto ebbe allora
L'uomo infelice il mio favor: sol io
Gli svegliai l'intelletto; io di sapienti
Arti e d'opre gentili e di gagliardi
Ardimenti lo instrussi; io sotto al trono
Gli aggiogai la Natura, e dio lo resi
Non minor d'alcun altro. Ahi! qual mi venne
Premio da ciò? Non che n'aver mercede,
L'invida rabbia arsi di Giove, e degno
Tenuto fui d'ogni più cruda ammenda
Quasi reo di delitto. Or quinci ai nembi,
Come vedi, io mi fiacco, e a le voraci
Cagne del ciel fatto son cibo, e scherno
E favola del mondo. E nè querela
Movo di ciò; chè il querelar non giova
A chi esente è di morte; e inesorata
L'ira è dei Numi, e inesorato al pari
L'orgoglio mio. Ma qual benigno frutto
Colser giammai di mie fatiche tante,
Del mio tanto soffrir le sconsolate
Proli del mondo? Ahimè, che sórte appena
Da la tenebra antica, a l'infinita
Luce del Ver schiusero gli occhi, e poco
Poco a lor parve ogni più grande acquisto;
Tal che, tolte dal sonno, ai sogni in preda
Diedersi tutte, e del saver la sete
Arse in loro così l'alma e la vita,
Che a precoce vecchiezza e ad immatura
Morte fûr sacre e a maledir condutte
L'alto mio dono e il sagrificio mio!—
—Figlio di Temi, a lui rispose irato
L'inclito Pellegrino, e che perigli
Fantasticando vai? Nè vil fanciullo,
Credi, io mi son, che si rivolta in fuga
A la prima minaccia, o nauta imbelle,
Che trema al più leggier spirto di vento,
E si chiude nel porto. In questa eterna
Rupe confitto, in verità, tu ignori
Gli alti fati de l'uomo; e qual tu sei
Carco di mal, di falsi mali agli altri
Indovino ti fai! Lascia, deh! lascia
Questi vani compianti, e oltre misura
Non ti strugger di noi, se pur non t'hanno
Tolto il senno davver le tue sciagure.
Però sappi, e t'acqueta: opra gagliarda
Tu cominciasti, ed io, se il ver discerno,
La compirò. Non già il saver, t'accerta,
Reso l'uomo ha quaggiù misero tanto,
Ma la nemica a ogni saver, la cieca
Credulità. Di false ombre e d'inganni
Essa vive nel mondo, e si fa gioco
De l'umana ragion; ma quest'azzurro
Cielo e quest'aure e questi monti io giuro,
Ch'ella è presso a morire, e arbitra in terra
La ragion sederà; largo e securo
Spiegherà il vol su' mal temuti errori
Il redento intelletto; e allor che tutto
Ciò che vuol, ciò che può senta e conosca,
Questo ignaro di sè dio de la terra
Pago fia di sè stesso, ed oltre il vero
A cercar non andrà larve e paure!—
Disse, e partía; ma lo rattenne un detto
Del pazïente Prometèo:
—S'hai grande
E pari, ei disse, agli alti accenti il core,
Deh! non partir così, quando m'hai dèsto
Tale un desío, che a lo sperar somiglia.
Molto io soffersi e soffro, e assai maggiore
Del mio soffrir fu la speranza, il tempo,
Che co' fulmini suoi Giove sedea
Sovra il trono d'Olimpo, e sul mio capo
Rovesciava ogni mal. Crescea cogli anni
E col disprezzo mio la sua paura
E la sua crudeltà, però che immite
Più chi regna divien quanto più trema,
E dei fiacchi è virtù l'esser crudele.
Solo di tutti io l'avvenir vedea
Securamente, e de la sua caduta
Presapeva il destin. Godi dei tuoi
Vani, äerei rimbombi, io gli dicea,
O spensierato usurpator del cielo;
Tal da l'Inachia stirpe uno stupendo
Mostro verrà, che spezzerà il tuo scettro
Come fil non ritorto, e me da questi
Ceppi redimerà; nè ti varranno,
Credi, i fulmini allor, chè assai più salda
Sarà del fulmin tuo la sua possanza.
Forse Giove non cadde? Ahi! ma il secondo
Dei vaticinii miei sperdeano i venti!
Qui fra' ceppi io rimasi: ad un tiranno
Tiranno altro successe, e meco avvinto
Restò in preda agli affanni ogni uom mortale.
Or che parli tu mai? Cadde a buon dritto
E dopo assai di mali esperimento
L'alta speranza mia; nè agevol cosa
È il ridestarla, ed utile per certo
Non mi saría, quando più tetro e fiero
Sembra il dolor cui la speranza illuse.
Pur, se grave non t'è l'esser pietoso
A chi tanto per l'uom male sostenne,
Al mio partito interrogar rispondi:
Uom mortale sei tu? Qual t'assecura
O responso, o destino, onde presumi
Condurre a fin tant'onorata impresa?
Non t'illude il voler, che dei più saggi
Tal tiranno si fa, che par destino?
Fidi in altri, o in te stesso? E se in te fidi,
Tal possa hai tu, che al grande ardir s'adegue?
E se fondi in altrui le tue speranze,
Tanta han virtude ed armonia le genti,
Che, fatto un brando sol d'un sol consiglio,
Al trïonfo del ver movan secure?
Qual che tu sii, svelati a me: qui sconto
L'immortal vita inutilmente, e assai
Tempo a soffrire e ad ascoltar m'avanza.—
—Ben m'è lieve appagar, l'Eroe rispose,
La discreta domanda. Uom saggio, in vero,
Io non terrò chi lusingato e spinto
Da una rosea speranza ad ardua impresa,
Pria non libra sè stesso, e con sottile,
Freddo giudicio non prevede, e scerne
I possibili eventi; anzi dà mano
Subita a l'opra, e ciecamente ai casi
Gitta sè stesso e de l'impresa il fine.
Or, perchè a tal tu non mi assembri, io tutte
Ti dirò le mie cose e l'esser mio,
Quando a colui che tanti uomini e tempi
Vide, e al fato durò con alma invitta,
Grato è ridir ciò che di gloria è degno.—
Disse, e in cima a la rupe erma e selvaggia
Pensieroso si assise. Alto a l'intorno
Spazïava il silenzio, e in larghi giri
Un'aquila le azzurre aure fendea.

CANTO SECONDO.

ARGOMENTO.

Incomincia la narrazione.—La Natura e il Pensiero.—Stato primitivo degli uomini; primi e difficili avanzamenti, a cui si oppongono i Numi, creati dall'anima inferma degli uomini.—La gran Lite.—La guerra dei Titani: il pensiero e non la forza trionfa dei Numi.—Lucifero non si contenta del cielo; Dio lo fulmina; l'inferno lo accoglie.—Un istinto di amore lo chiama sulla terra.—L'albero della scienza.—La tentazione.—Percosso nuovamente da Dio, ripiomba nell'inferno.—Non mai contento de l'esser suo ritorna sulla terra.—Cristo predica l'amore.—Gli uomini desiderosi del cielo dimenticano la terra.—Lucifero ve li richiama, ed è malamente calunniato.

Non da l'Inachia stirpe, o d'alcun mai
Ceppo mortal, così l'Eroe riprese,
Ma da natura, immortal germe, io nacqui
Una a le cose, e da la luce ho il nome.
Dir giusti sensi, o tacer dee chi dritto
Co'l pensier mira; e, chiaramente espresso,
Torna più grato, e pregio doppio ha il vero.
Però di studïose ombre e d'enimmi
Non cingerò il mio dir, chè nè maestro
Di misteri son io, nè a disdegnosa
Anima, che a sdegnosa alma favelli,
Dubbio o coverto il ragionar si addice.
Nuovi non già, ma da la turba illusa
Negletti veri io parlerò. Due sono
Le virtù, che le cose hanno in governo:
La Natura e il Pensier; l'una, ch'eterna
Genitrice visibile è di tutto,
La pesante materia ordina e muta
Per suo proprio valor; l'altro la informa
Di spirital possanza, e la solleva
Ad ardui voli e a magisteri egregi.
Ferrea, immota in sue leggi, una procede
Lenta così, che par che giaccia: inalza
Su le rovine, onde si allieta, il trono,
E da l'arida morte una perenne
Fonte di vita e di beltà deriva;
Ma l'occulto Pensier, ch'agita e accende
Tutte cose universe, in varia guisa,
Con poter vario e con legge diversa
Ogni via tenta, ogni regione esplora
Mobilissimo sempre, e tutto aborre
De la tarda materia il peso e il freno;
E quando avvien, che di misteri e d'ombre
L'altra s'avvolge, e, per geloso istinto,
La ragion de le cose occulta e serba,
Ei libero discorre, e si ribella
Ad imposte paure; apre e dischiava
Terre, cieli ed abissi; argini atterra,
Crea, muta, strugge, e a le domate forme
Nuovi dà impulsi, e nuove leggi imprime.
Tal, benchè l'un viva ne l'altra, e vita
Abbian comune e necessaria, avversi
Son per intimo ingegno; onde tu vedi,
Che or l'un l'altra soverchia, or questo a quella
Soccomber mostra; eppur son ambo invitti,
Sono eterni ambidue, però che morte
Da tal guerra non sgorga, anzi han le cose
Da cotanto agitare ordine e vita.
Sparsi per gli antri, e fieramente soli
Vivean gli uomini primi, e nulla amica
Possa lor sorridea, tranne il Pensiero.
Ispide pelli eran lor vesti, e rudi
Selci lor armi e sol conquisto il foco.
Da l'alte culle del fecondo Irano,
Procedendo, spandeansi a mala pena
Sui giapetici piani, e gl'inclementi
Ghiacci vincendo, che inghiottían le belve,
A nuove lotte s'accingean. Muggía
Dai britannici fiumi alto l'immane
Caval de l'acque, a cui, pari a vorago,
S'apre orrenda la bocca, e al cui sospiro
L'onda gorgoglia e al ciel salta in ruscelli;
Devastando correan l'irte spelèe,
D'umane carni esploratrici, e fuori
Dai frondosi dirupi a l'onde in riva
Calavasi il deforme orso e il velloso
Primigenio mammuto: oscura e pigra
Mole di membra, a cui nemico è il sole;
E tu, sovrano troglodita, astretto
Dal fecondo bisogno, a miglior prova
Sempre volgendo il multiforme ingegno,
Armi e industrie trovasti; onde più lieve
Ti fu il domar co'l lavorato renne
Le nemiche falangi. Apron le nubi
L'inesauste sorgenti, e senza freno
Fiumi ed oceani giù dal ciel dirompono;
Entro al diluvïal baratro immenso
Spariscono le specie, in quel che, armato
Di novella virtù, l'uom passa i mari
Su la prima piròga, e, di recisi
Boschi infrangendo il pian glauco dei laghi,
Fermo vi elegge e men selvaggio asilo.
Ivi, fanciulla ancor, l'Arte s'assise
Pargoleggiando; e, a far men lungo il giorno
D'un che l'alma struggea dentro a l'amore,
Tal gli spirò nel cor dolce un sorriso,
Ch'ei fatto a un punto più gentil, leggiadre
Forme e il pensier nel duro selce espresse.
Però, quand'ei con lungo studio al rito
Del caro amor la sua fanciulla indusse,
Docil vide obbedire ai suoi talenti
Il tenace basalto; a l'agil fianco
Brunite armi precinse, e il flessüoso
Collo di lei, che gli gemea su'l petto,
Incoronò d'inteste ambre e di baci.
Or deggio dir, che, di regnar mal paga
Sovra i campi natii, la curïosa
Mente de l'uom s'insinüò nei cupi
Visceri de la terra, e ai fiammeggianti
Gnomi, che custodían l'ampie miniere,
Rapì il bronzo, indi il ferro, a cui funeste
Armi non sol, ma civiltà l'uom debbe?
Io benedico a voi, fiumi e torrenti,
Che giù dai fianchi dei materni Uràli
L'auree sabbie lucenti al pian recaste;
Ma più a la paziente opra, che il lieve
Stagno confuse e il risonante rame,
Non che a l'assiduo ardir, per cui, dal duro
Abbracciamento mineral divelti,
S'arresero i metalli a l'uom tenace.
O pensiero immortal de l'uom che muore,
Te da prima io conobbi, e quinci unito
S'intrecciò a' fati umani il mio destino.
Bruco, che il corpo infermo, a mala pena,
Per intima virtù svolge dal primo
Involucro, e, a la dolce aere credendo,
Crisalide novella, il picciol volo,
Co' fior de' campi il suo color confonde,
Tal de l'uomo è il pensier: s'apre a fatica
Fra tutti ingombri e lunghi affanni il varco,
E cammina, cammina, e a nullo iddio
Dee la vita, il principio, il mezzo e il fine.
Ultimo forse e più perfetto anello
De la catena universale, ei tutto
Chiude in sè stesso il suo destin, chè umana
Mutabil cosa e de la terra è il vero.
Ahi! che un morbo fatal l'alma gl'invase
Fin da' giorni suoi primi, ed ombre e morte
Gli gittò sovra il capo, in cor, d'intorno!
Tremò a l'aspetto de l'eterno, immenso,
Fluttuar de' creati esseri il mesto
Figlio de l'uom, che riprodotta e viva
Non pur vedea nei circostanti oggetti
Tanta lite incompresa e tanto affanno,
Ma dentro al cor, dentro a le vene, in tutta
L'esistenza sua poca iva ammirando
Un perpetuo agitar d'odio e d'amore.
Di fantastici mostri e di chimere
Popolò quinci il mar, l'aria, la terra,
Ogni spazio, ogni vuoto; e dove un'ombra
Vide e un mistero, o una maggior possanza,
Là piegò la cervice e pose un Dio.
Dio nacque allor, Dio, creatura a un tempo
E tiranno de l'uom, da cui soltanto
Ebbe nomi ed aspetti e regno e altari.
Chè or sopra ai soverchianti astri ei fu visto
Spazïar l'insegnato etere, or chiuso
Tra' fulmini precipitar su l'ale
Dei rotanti uragani, or sovra al dorso
Dei cavalli del mar correre i flutti
E sfrenar l'onde a battagliar coi venti;
O ver come immortal fremito immenso
Penetrar l'aria, serpeggiar nel grembo
Degli avari terreni, e al vigilato
Solco apparir fra le compiute ariste.
Però quel che Dio fu, quale ancor vive,
E quanto ebbe e mantiene a l'uom soltanto
Il deve, a l'uom, che d'ogni suo destino,
O prospero, o maligno, arbitro è solo.
Chi a tiranno cotal, che, dal pensiero
Nato de l'uom, l'uomo asservir presunse
E le cose universe, il fronte oppose
Con indomito orgoglio, e una selvaggia
Voce di libertà gittògli incontro,
Sì che il ciel ne tremò? Chi la temuta
Prepossanza di Dio tenne equilibre
Con perenne agitar? Fu la feconda
Lite, che il mar de l'essere commove
Con assiduo flagello, e dai cozzanti
Corpi la luce e l'armonia deriva.
Essa al pigro e ferrato Ordine, occulto
Padre di servitù, per fiero istinto,
Rubellossi da prima; essa al feroce
Andropòfago Iddio scosse la reggia
Vigilata dai fulmini; e dal fiero
Cozzo con lui tanta favilla emerse,
Che, mutata dagli anni in fiamma viva,
Tutto divorerà dei numi il regno.
O d'ogni libertà fonte primeva,
Madre d'inclite pugne, io ti saluto!
Tu co'l moto la vita, e co'l solenne
Fra le cose de l'alma egregio attrito
Luce dèsti e saper negli intelletti
E co'l saper la libertà, sublime
Pianta, che sol dov'è coltura alligna.
Te da la terra solitaria i saggi
Primamente avvisâr; te, spiratrice
Di terrigeni mostri a Dio rubelli,
Raffiguraro e coltivâr le genti,
E or fosti Isi nomata, or Bahavàni,
Or Arìmane or Loke, or acqua, or foco,
Or discordia infinita, e, se paura
Ebber dei moti tuoi l'anime imbelli,
O fur da sacerdoti empî travolte,
Nome avesti d'errore e di menzogna
Tu, che ad onor del vero e de la luce
I misteri del cielo agiti e sperdi.
Ma qual tu fosti e sei, più che i mortali
Lo sanno in prova, e da più tempo, i Numi.
Sedea Giove orgoglioso in su' tranquilli
Troni d'Olimpo, il nèttare libando
D'ogni più lieta voluttà, nè alcuna,
Fra le dapi fumanti e le vezzose
Fanciulle che tesseangli inni e carole,
Cura de l'uom gli penetrava il petto.
Sorsero allor dal cupo èrebo, tratti
Dal comando di lei, che Lite ha nome,
Quanti mai da la terra erano usciti
Terribili Titani, a cui la forza
Granava il corpo, e il cor crescea l'ardire;
E avventando ciascun li suoi cinquanta
Capi feroci e le altrettante braccia
Contro ai regni di Giove, orribilmente
Tracollaron dai fondi imi l'Olimpo.
Arse d'ira il tiranno, e forza a forza
Oppose, e vinse. Da le attinte altezze
Precipitâr gl'intrepidi gagliardi
Un dopo l'altro fulminati, e monti
Ed isole parean, che in un selvaggio
Moto la terra, o il mar vorace inghiotte.
Ma a che fremi e sospiri al fier ricordo
Di cotanta caduta, o sopra a tutti
Sventurato Titano? Eran pur folli
D'Ùrano i figli, ove tenean, che segga
Maggior virtù, dove più grande e saldo
Torreggi il corpo, e il vigor cieco e bruto
A pugnar contro a tutti e a vincer basti.
Tal nel mondo è virtù, cui nè possanza
Di giganti trïonfa, o adamantina
Spada conquide, e solo a la modesta
Continua punta del pensier soggiace.
Rupe, cui dal gagliardo imo non svelse
Furor d'atre procelle, a poco a poco,
Morsa dal flutto che le geme intorno,
Scemar vedi e crollar: son rupe i Numi,
E il flutto assiduo del pensier li rode.
Così Giove fu vinto, e in simil guisa
Vinto sarà chi gli successe. Or odi
Quel ch'io feci e farò. Da una malnata
Bordaglia rea, che da natura in dono
Ebbe al corpo la lebbra e al cor la fede,
Ièova ne venne, un implacato iddio,
A cui fulmine è il guardo e tuon la voce.
Solitario e funesto egli incombea
Dal recesso del ciel plumbeo su'l petto
Dei tremanti mortali, e gran sepolcro
Di mal vivi era il mondo, a cui su'l capo,
Pria de l'ora, il fatal sasso si aggrevi.
Io nel cielo era ancor, bello di tutti
Radïamenti. Era sorriso e luce,
Fragranze ed armonie del ciel la vita,
E, cullati in un mar d'ozii e di fiori,
Si tenean tutti e si dicean beati.
Sol'io, spirito inquieto, indifferente
A quell'aprile, a quel banchetto eterno,
Sentía dentro a l'altera anima un vôto
Misterïoso, un mar senza confine,
Come una solitudine infinita
D'intorno a me, dentro di me: se avessi
Conosciuto l'amor, forse in cor mio
Ravvisato l'avrei sin da quel giorno.
Poco mi parve il ciel, misera vita
L'eternità. Di strane opre, di voli,
Di turbini, d'ebbrezze, di battaglie
Tal m'invase un desío, che sfere ed astri
Corsi, cercai, sempre irrequieto, in traccia
D'un fantasma incompreso, o fosse un'ombra
Del mio stesso pensiere, o una diversa
Immagine con me nata, e divisa
Fatalmente da me. Dove mai, dove,
Sospiroso io dicea, trovar ti posso,
O disïata e necessaria parte
De l'esser mio? Per entro a l'immortale
Anima mia tutto il mortal sentiva.
Infelice mi tenni. A Dio nel fronte
Gli occhi un dì fissi, e interrogarlo osai:
Chi m'ha fatto così? D'ira e di lampi
Ei fiammeggiò, nè mi rispose. Il vero,
Io replicai, l'eterno vero; io voglio
Tutto saper; se il Ver tu sei, ti svela!
Ei fulminò; tremâr gli angioli; io caddi,
Nè pugnai già: sentía ch'era più grande
De lo sdegno di Dio la mia caduta.
Quale allor degli antichi astri mi accolse?
Nessun fuor che la terra, e de la terra
Gli oscuri antri più cupi: ivi prescritta
Fu la mia reggia a un tempo e il carcer mio.
Bollía sotto ai miei passi un fragoroso
Mar di liquide fiamme; in gran tenzone
Mugghiando si rompeano onde contr'onde;
Ma più cocenti assai dentro al mio petto
Combattendo bollían dubbî e speranze;
Salde e ferree correan sovra il mio capo
Di granito le vòlte, e assai più saldo
Era il cor mio: sempre a me innanzi, ovunque,
Un fantasma d'amor, sempre in cor mio
Una voce incompresa: ama e cammina!
Ruppi il carcere mio; l'aria, la luce
De la terra cercai; chi avria potuto
Porre un freno al mio spirto? Ièova m'avea
Fulminato, non vinto. È là, un occulto
Pensier diceami, è là sovra la terra
Il tuo destin, là di tue prove il campo,
Là fra tanto agitar d'odî è l'amore,
Là fra tanto morir la vita alberga!
Mi trasformai la prima volta: ignoto
Corsi la terra, e al caro sole in vista
L'uom, la natura e l'esser mio compresi.
L'uom compresi, e l'amai. Ma allor che prono
A piè dei suoi creati idoli il vidi
Vaneggiar paventoso, e legar tutta
L'anima ardita a un inconcusso altare
M'arse il cor d'ira e di pietà. Sembiante
A vasta e fruttüosa arbore, in mezzo
De la terra sorgea l'egregia pianta
D'ogni umana Scïenza; e Dio, nemico
Del veggente saper, che i tenebrosi
Spirti rischiara, le ruggía d'intorno
Con feroce divieto; onde alcun mai
Coglier non osi ed assaggiarne il frutto.
Fu allor che con sottile arte la mente
Degli uomini tentai: simile a Dio
Sarà, dicea, chi ciberà quel frutto;
E quel frutto fu colto. Un'orgogliosa
Brama, un'ardente, inestinguibil sete
Di saver, d'indagar l'ombre, che folte
Gli addensava d'intorno il Dio nemico,
Morse gli uomini tutti; e qual più viva
Sentì in cor la mia voce e il poter mio,
E per vie non segnate oltre si spinse
Al confin de la pavida ignoranza,
E interrogò con l'intelletto audace
Le piante e gli animai, la terra e gli astri,
Quei di mago ebbe nome e di ribelle.
Piombò quinci su'l capo ai maledetti
Figli di Cam la collera di Dio,
E assai d'essi perîr, non la pugnace
Virtù, che a l'uom pria la Natura infuse,
Ed io, sin da quel dì, sveglio e raccendo.
D'orgogliose speranze io mi pascea
Secretamente, ed oltre un mar d'affanni
Prevedea su la terra il mio trïonfo;
Ma fulminato dal geloso Iddio
Nuovamente io piombai nei tenebrosi
Baratri de la terra, ove il superbo
Sdegno del petto e il mio dolor nascosi.
Ivi scendea talor qualche gagliardo
Intelletto di sofo o di poeta,
A cui fu colpa il propagar le nuove
Apocalissi del pensier mortale.
Rïardea la speranza entro al mio petto
Co'l suo venir, però che per ciascuna
Stella, che al fronte di Sofia s'accende,
De la Fede su'l crin spegnesi un sole.
Così durai gran tempo, e non già pago
De l'esser mio: sempre a me innanzi, ovunque
Un fantasma d'amor, sempre in cor mio
Una voce incompresa: ama e cammina!
Ritornai su la terra. Un mansüeto,
Che de l'iroso Iddio credeasi il figlio,
Predicava l'amor. Debole e solo
Egli parea, ma tutta era con esso
L'umanità. Stetti pensoso e muto
Ad ascoltarlo, e mi obliai. Senz'armi
Egli pugnò; vinse morendo: cadde
Giove dal ciel, Roma dal mondo, e il mondo
E il ciel fu suo. Sperai, dubbiai; ma il giorno
Che tutte dopo a lui volgersi al cielo,
Per cercarlo, vid'io l'anime umane,
E su la terra derelitta e mesta,
Come in carcere vil, gemer la vita;
No, vittoria non è, gridai da l'imo
Petto, e furente mi scagliai per quanta
Terra il ciel vede, e il mar sonante abbraccia;
No, vittoria non è questa, che il tempo,
L'opra, il pensier, l'uomo e la vita uccide;
Amor questo non è, ch'entro a una fatua
Luce di ciel nuota ozïando, e il tergo
Cheto soppone a qual che sia flagello!
Braccio e pensier, moto e conflitto è amore;
Campo d'opre comuni e di travagli,
Non èremo la terra; uom, che nel pianto
Vive, e da Dio gioie o tormenti aspetta,
Schiavo non pur, ma inutil cosa il chiamo!
Tremâr le infeminite anime al grido
Del mio potere; e Dio, fatto più forte
De l'umano terror, me per la mano
Del suo fido Michel di ceppi avvinse,
E percosso e ferito indi nei cupi
Baratri m'inchiodò; stolto! e si tenne
Securamente vincitor. Dai ceppi,
Dagli abissi io balzai, giovine eterno,
E mutando me stesso in mille guise
Ebbi regno nel mondo. Una venale
Turba di sacerdoti a cui nel nome
Abusato del Cristo, agevol cosa
Era il far degli altari empio mercato,
Me d'ogni colpa allor, me d'ogni affanno
Degli uomini imputò; strani sembianti
Mi foggiâr le nemiche anime, e avverso
D'ogni umana salute e d'ogni amore
Il mio nome suonò; ma in faccia a questo
Dolor tuo sacro e in faccia al mondo io giuro:
Mi fu iniqua la fama! Orrido, immoto
Su l'umane coscienze s'assidea
L'infallibile Domma: un paventoso
Mostro senz'occhi e tutto plumbeo il corpo,
Che il mortale Pensier di ferri avvinto
Squarcia con le feroci unghie, e sen ciba.
Suo regno è l'ombra, sua virtù gl'inganni;
L'ignoranza dei popoli il suo scudo,
Ed armi sue l'anátema e la scure.
Contro ad esso io pugnai: sinistra e maga
Cosa per lui la sitibonda brama
D'ogni saper; frutto vietato il vero,
Colpa il voler, la libertà delitto,
E allora, oh! allor, superbamente il dico,
Menzogna, error, colpa e delitto io fui!—

CANTO TERZO.

ARGOMENTO.

Lucifero, continuando il racconto, accenna alla venuta dei barbari; ad Ario, che si ribella, fra' primi, all'autorità ecclesiastica, da cui viene scomunicato nel concilio di Nicea; a Telesio, che scote il giogo scolastico; alla stampa che propaga il pensiero nuovo.—La rivoluzione, filosofica in Italia, diventa religiosa in Germania.—Leone X e Lutero.—Il pensiero e la coscienza armano il braccio dei popoli, e la rivoluzione prende l'aspetto politico.—Tirannide monarchica e republicana: la libertà sta nel centro.—Rivoluzioni d'Inghilterra, d'America, di Francia.—Il canto della guigliottina.—Fecondità delle rovine.—Rassegna delle principali invenzioni del pensiero umano; dalle quali confortato l'Eroe, predice il suo vicino trionfo.—Finita così la narrazione, si parte, mentre una voce misteriosa annunzia agli uomini la sua venuta.

Sopra la terra imperversava intanto
Un uragan di popoli. Sul vecchio
Tronco latin spirò l'aura del norte,
E il rinverdì; fra le disfatte genti
S'insinuò un gagliardo alito, un fremito
Di selvatica possa. A quella forma
Che al ritorno d'april, sotto al fecondo
Bacio del Sol, freme la terra, e il cieco
Germe, che in grembo custodì dal fiero
Morso de' ghiacci, a l'aurea luce esprime;
Tal serpea de l'uman genere in petto
Una nuova virtù, che a la secreta
Aura del mio pensiere apríasi il varco.
Ed Ario sorse, e tutte avea d'intorno
Le germaniche stirpi.—Oh! splenda un lume
Di verità su queste genti; un riso
Di libertà su le coscenze umane;
Sia concesso il pensier!—Questo ai pastori
Del buon Cristo ei chiedea, là, su la soglia
Del Niceno consesso, ove a congiura
Tratti il cenno li avea d'un parricida.
Siccome folla di mendici, a cui
Cadan rotte le vesti e manchi il pane,
Tali sul freddo limitar premeansi
Mute, ansïose del giudizio, ai fianchi
D'Ario le genti. Alzâr le braccia i sacri
Del Cristo alunni, e su la fronte ardita
Del Cirenèo fulminâr tutta a un'ora
L'umanità. Sfida fu questa, a cui
Ostinata e mortal guerra successe.
Quinci la Fede della plebe: un'orba
Maga, che l'ignoranti anime impera,
E d'error vive ed a le stragi istíga;
Quindi colei, che luminosa incede
Fra tutti affanni, e di Scïenza ha nome:
Di severi intelletti arbitra e diva,
Sperimentando, essa li guida in loco
Dove scevro di nubi il Ver fiammeggia;
Gli eterni de le cose atomi indaga,
L'essenze esplora, e a la cagion lontana
La varia prole degli effetti annoda.
Chi potría tutti annoverar di questa
Universa battaglia i campi e l'armi,
Gli eroi, gli studî, i vincitori, i vinti?
Sol taluno dirò. Di precursori
Italia è madre, e tre corone ha in fronte:
Regnò co'l brando e con le leggi in pria;
Poi, vinta i polsi e strazïata il petto,
Co'l pensiero regnò. Gemean le menti
Sotto al flagel d'una loquace, astuta
Sfinge bifronte, che, di Cristo a un tempo
E d'un Saggio, che patria ebbe Stagira,
Usurpando il poter doppio e gli aspetti,
Mutava con sottile arte in oscura
Fede il saper, la cattedra in altare.
Povera fra le genti iva e digiuna
D'ogni culto Sofía, nè pria fu lieta
Di fermo ospizio e d'onorate offerte,
Che s'avvenne in Telesio. Il venerando
Vecchio sedea pensosamente a l'ombra
De le selve native; e, pari al raggio
Novo del Sol, che tra le fronde e i rami
Scendea sereno a ricercargli il fronte,
Un arduo gli splendea dentro al pensiero
Giovanissimo spirto. A l'aura, al guardo
Riconobbe la santa esule, e incontro,
Sorridendo e tremando e con aperte
Braccia le córse. Una parola ardita
Quinci udiron le serve itale menti;
Impallidì l'orrida Sfinge; il duro
Giogo fu scosso; e da quell'aureo giorno
La casetta del sofo ara divenne.
Qual da le dilicate ántere aperte
Manda l'amante fiore al fior lontano
Il pòlline fecondo, e messaggero
Del casto bacio è il zeffiro d'aprile:
Tale il novo pensier, creduto a un novo
Magistero di cifre, inclite imprese
Maturò fra le ardenti anime; e il vanto
Fu tuo per vero, o egregia arte, per cui
Da metallici tipi impresso, e in mille
Guise prodotto, agil discorre e vola
Il mortale pensier, visibil fatto.
Possa tu sei, che ogni confine, opposto
Fra gente e gente, indomita conquidi;
Fulmine sei, che la funesta e scura
Tirannia de l'error sfolgori e sperdi;
Luce sei tu, per che dovunque e in tutte
L'alme il sorriso d'ogni ver si svela,
Tu, nel commercio de l'idee, le sparse
Genti accomuni; in facile amistanza
Leghi i vivi agli estinti, e in guisa annodi
L'uno a l'altro pensier, l'ieri al domani,
Che la specie de l'uom, devota a morte,
Un sol gigante ed immortal diviene.
Ma qual de l'onda avvien, che d'uno in altro
Vase versata, altra figura assume,
Così, da la contesa alpe ad estranei
Climi varcando il pensier novo, in nova
Forma e in campo diverso e con altr'armi
Contro a un cieco poter sorse, e proruppe.
Trafficata, qual vil merce, passava
Da un giogo a l'altro la saturnia terra;
E i suoi figli rideano. Un rubicondo
Pastore e re, che di Leone il nome,
Ma l'alma avea d'un animal di Circe,
Banchettava su l'are, e il ciel vendea.
Venne un giorno d'oltralpe un battagliero
Frate sul Tebro. Gli bollía nel petto
Il sassonico sangue, e calda al pari
Del suo sangue la fede.—Oh! ch'io nel vivo
Fonte, dicea, de l'evangel di Cristo
Quest'anima disseti!—Io, ch'era presso,
Per man lo presi, e lo condussi in loco
Ove il sir de l'umane alme gioíva
Fra una ciurma di servi, a cui sul crine
Sedea per celia un ramoscel d'alloro,
Una burla su'l labbro, e sol ne l'epa
La libertà. Del buon Leone intorno
Tripudïando oscenamente ignude
Ivan muse e madonne; ed ei, nuotante
Come in un mar di placida quïete,
Sonnecchiava e ridea, mentre, seduta
Sui suoi ginocchi, con la man lasciva
Stazzonando il venía lubricamente
Del Bibbiena una putta, ed esso il Cristo,
In abito or di scalco, or di poeta,
Compartía, strambottando in buon latino,
Cibi a le pance e a l'anime indulgenze.
Su la spalla battei de lo stupíto
Solitario, e gli dissi: Ecco il vangelo!
Arse in cor d'ira e di vergogna in volto
Il generoso, e a le natíe contrade
Disdegnando volò. Folti a' suo' fianchi
Si stringeano i fedeli al suo ritorno,
Dimandando di lui, che il ciel dispensa;
Ed ei tuonò:—Colui, che il ciel dispensa,
L'are insozza, il ciel vende, e Dio svergogna!—
Disse, e dal petto fremebondo il sacro
Abito svelse, e si lanciò nel mondo
Come guerrier contro a nemico armato.
Ululâr contro a lui, contro al pensiero,
Contro a la vita, contro al ciel, gl'ingordi
Lupi di Trento; sibilâr gli obliqui
Rettili del Loiola, e dentro ai petti
S'insinüando, avvinghiâr l'alme; un freddo
Lento velen vi sparsero, sperando
Che sepolta nel sonno, o nel terrore,
L'umana volontà tutta si spenga.
Fu un sepolcro la terra. Un'ara e un trono
Soli sovr'esso; e tutto occhi e sospetti
Sovra entrambi il Loiola: Iddio discese
Umilmente dal cielo; e, perchè alcuna
De le pecore sue non si smarrisse,
Al comando di lui prese il coltello,
E con celestïal garbo l'immerse
Ne la gola di mille. Un mar di sangue
Coprì la terra; il divo manigoldo
Tornò al ciel, carezzò l'insanguinata
Barba, e pago dal suo trono sorrise
Come al settimo giorno. Io nel fumante
Sangue mi astersi, e fulminai la voce.
Pugnâr vivi ed estinti, e nuova intorno
Pullulò da la strage onda di vita.
Gemina possa, è libertà: risveglia
Le menti in pria, poi discatena i polsi.
Uom, che servo ha il pensier, la destra ha inerme;
Spada non ha chi i suoi diritti ignora.
Ricca d'affanni e d'ogni mal contesta
Egli è certo la vita; e pur qual turpe
Cosa è nel mondo, che al servir s'agguagli?
E qual di tutte è servitù più infesta
Che servir, non volente, al ferreo cenno
D'assoluto signor? Popol che geme
Fra' ceppi, e sente del suo mal vergogna,
Per metà è schiavo, e qual gode e s'oblía
Schiavo è due volte, e d'ogni ingiuria è degno.
Dinanzi a re, che il suo piacer fa legge,
E a nessun mai de l'opre sue risponde,
Leggi non son, nè cittadini: ai sommi
Gradi i pessimi esalta; il buon deprime;
L'altrui sostanze impunemente invade;
Grandi e piccoli offende; il sangue sparge;
L'onor calpesta: è tutto insomma ei solo.
Nè giustizia miglior, nè più felice
Stato è, per me, dove la plebe impera.
Idra ingorda è la plebe, e per ciascuna
Testa ha due bocche: a divorar la prima,
A morder l'altra e a maledir dischiusa.
Vile in servire, in comandar superba,
Cieca in ambo gli stati, iniqua sempre.
Miglior però d'ogni governo io tengo
Quel che al centro risiede, e da ogni estremo
Con eguale poter si tien diviso.
Quinci l'empia Licenza, a cui gradito
Cibo è la strage cittadina, e quindi
La Tirannide astuta; ed esso in mezzo
Sta, come ròcca, e per vegliante cura
Campa a un'ora dal male e al ben provvede.
Da l'estrano temuto, e riverito
Al par da' suoi, de la sua gente i dritti
Custodisce e difende, e, pur lasciando
A l'oprare d'ognun libero il campo,
Argine solo il dritto altrui gli oppone.
Così liberi tutti e tutti a un tempo
Servi sono a la Legge; e per diversa
Via, con varia fortuna e vario ingegno
Egual fine ha ciascuno: il ben di tutti.
Questo però, qual ch'abbia forma e nome,
Libero stato io sovra gli altri estimo.
Nè pensar già che il buon desío m'accechi,
Se dir m'udrai, che a tanto inclito obietto
Ogni gente del mondo ormai si appressi.
Al novo grido del pensier ribelle
Tremâr con l'are i troni, e giù dai troni
Precipitâr scettri purpurei e teste
Coronate di re. Surse su'l nudo
Scoglio Albïone, e su'l riverso giogo,
Il suo tiranno a giudicar, piantosse.
E giudicò. Splendea nitida e bella,
Qual s'addice ad un re, sovra il tuo collo,
O Stüardo, la scure; e fredda, muta
Come il pensìer del rigido Cronvello,
Cadde, e libò con voluttà plebea
Il regio sangue di tue regie vene.
Rotolò ne la polve il tuo parlante
Capo, e le voci balbettate a pena
Da le labbra morenti entrâr nel petto
D'ogni re de la terra, a cui mutato
Sembrò il regno in abisso, in palco il trono.
Surse anch'ella e ruggì d'oltre l'Atlante
L'americana Libertà, che troppo
Sentì al collo pesar l'anglico giogo;
E tu primo ne udisti il grido orrendo,
Redentor Vasintóno, a cui la spada
Sfolgoratrice d'assoluti imperi
Essa prima affidò. Scornata e vinta
L'altera Anglia soggiacque; e non le valse
Fulminar Franchi orgogli e antenne Ibere,
Nè gli oceani domar, nè invitta e ferma
Durar su la contesa arce di Calpe,
Quando te non domò, te di nemici
Vincitore non pur, ma di te stesso.
Libertà allor sul grande istmo si assise
Vittorïosa, e ne le immense braccia
Ad un patto d'amor le genti accolse.
Sedea fra tanto una cortese e imbelle
Sovra il trono di Francia ombra di re.
Quinci un cortèo di pallide e lascive
Fantasme, e inciprïate ombre e superbi
Scheletri incappellati e rugginose
Armi vuote, che si tenean diritte,
Come fosser guerrieri; e quindi un vasto
Tumultüoso brulicar di vivi.
Il Re dicea: Stiam fermi, io son lo Stato!
Ed il popolo: Avanti, eguali tutti!
Diceva il Re: Pieghiam la fronte a Cristo;
E la plebe: Nè re, nè dio vogliamo:
Cristo è il passato, e l'avvenir siam noi!
E il magnifico Re, non per paura,
Ma perchè ardea d'amor pe' suoi soggetti,
Titubò, tentennò, si rassettò
Co'l mignolo sottil certi indiscreti
Ricci, che gli sfuggían da la parrucca,
E gridando: sto fermo, un gradin scese.
Fe' un sogghigno la plebe, e disse: È poco.
Ed il Re scese ancora. Ancor non basta!
Gridò la plebe; e il Re: M'abbasso troppo;
Allor pari sarem!—Meglio per tutti;
Se non ami con noi viver nel fango
Un palco t'alzerem d'oro e di gemme;
Vieni, scendi e vedrai!—Scese; e la plebe
Urlò un plauso di gioia, e, sì com'era
Nana, minuta, sbrindellata e scarna,
Diessi a ballonzolar bizzarramente
Tutta in giro al buon re.
—Balliam, balliamo:

La nostra gioia, il viver nostro è un'ora:
L'uccel venne a la rete, il pesce a l'amo.
Da l'una a l'altr'aurora,
Balliam, balliam, balliamo.

Balla con noi, buon re: noi non siam prenci,
Non vestiamo, gli è ver, porpora ed ostro,
Ma fatto è il manto tuo coi nostri cenci,
E tinto te l'abbiam co'l sangue nostro.

Balla con noi, buon re: vigile ognora
Tu pensavi al tuo popolo diletto:
E il popol tuo vegliava e veglia ancora
Per comporti a sue spese un cataletto.

Balla con noi, buon re; balliam, balliamo;
Facciam cambio di doni, oggi ch'è festa:
Noi la vita e l'onor dato t'abbiamo,
E tu, buono qual sei, dànne la testa!—

Era questo il baccar di quel tremendo
Popolo di pigmei. L'un l'altro, a un segno,
S'aggruppâro, si unîr, si fuser tutti
Come liquido bronzo, e una trifronte
Furia formâr così gagliarda e fiera,
Che immoto stette a contemplarla il mondo.
Ella si scosse, e dietro a lei sparirono
I secoli; diè un grido, e tremâr quanti
Popoli e re. Tutto sia nuovo, disse,
E fulminò: tempi, memorie, cose,
Troni ed altari, uomini e dii. La terra
Corse in tre passi; e a le rovine in cima,
Fra un oceano di sangue eretto un trono,
Lieta, guardando a l'avvenir, si assise.
Come allor, che dai campi aridi e brulli
Piomba co'l verno una tempesta, orrendo
Romba il tuon, fischia il vento, a larghe falde
Piove olimpo; i torrenti alzansi in fiumi,
I fiumi in mar; crollan capanne e case,
E ti par tutto, ove che il guardo giri,
Un sepolcro di torbe acque la terra;
Tal passò quell'Erìne; e, a quella forma
Che, a le fiamme del Sol, bevendo i campi
L'abbondevole umor, pullula intorno
Fuor del morbido limo ogni diversa
Vegetal vita, e variopinto e bello
D'erbe intesto e di fior spiega il suo manto;
Così da le rovine alte e dal sangue
Germinâr cose e idee, ch'arbori or fatte,
Dan riparo a le genti e frutti al mondo.
Questi, ch'io noto con parlar fugace,
Inclito Prometèo, son, tra' maggiori
Fatti, per cui l'uman genere avanza,
I maggiori e più illustri; e d'essi al raggio
La speme del mio cor s'accende e cresce.
Me più volte cacciò nei tenebrosi
Baratri il Dio, che al suo fatale è presso,
Ma invitto sempre ad altre prove io sorsi,
E a l'estrema mi accingo, or che cotanto
Spazia nel Ver de l'uman genio il volo.
Però ti piaccia udir, come appuntando
L'uomo industre e tenace il vario ingegno
Or d'Iside nel grembo, or di sè stesso,
Utili veri a la sua vita invenne.
Qual dirò prima o poi? Correa su' ciechi
Flutti il nocchiero, e nulla al dubbio corso
Guida costante gli reggea la prora,
Fuor che l'Orsa malfida e il vario sole.
Mal securo ei fuggía gli alti, e la riva
Con vigile tenendo occhio, il nemico
Nembo tremava, che rapìagli il cielo.
Ma poi che la virtù primo conobbe
Del commisto magnete, il qual, sospinto
Da un istinto d'amor, volgesi al polo,
Un sottil, ben temprato ago ne trasse;
Mobilmente il librò sovra a un diritto
Fil d'intrepido ottone; entro una cava
Ciotola il custodì tutta di puro
Rame, e, co'l guardo al ben costrutto ordigno,
Diede a l'agile prua certo il governo.
Così per mari inesplorati, in traccia
D'un pensier, che parea sogno e deliro,
T'affidavi, o Colombo; e intenta e certa,
Più de la punta del sottil congegno,
Ch'oltre ai nembi scorgea l'artiche nevi,
Lungi, lungi, oltre ai mari, oltre al confine,
Dove il cielo si univa al mar crudele,
Tutto un mondo vedea la tua pupilla.
Esplorata così questa rotante
Sfera, che intorno al Sol l'anno misura
Più vasto al genio umano aere s'apría.
Crescean genti e città; crescean con elle,
Madri d'opere eccelse e d'aurea prole,
Le varie stirpi de' bisogni industri,
E d'un vol più veloce e più securo
Ogni gente, ogni cor l'uopo sentiva.
Qual parría del vapor più debil cosa?
Atro figlio de l'acqua e del selvaggio
Foco, di tutto genitor, si leva
Turbinando per l'aria, e l'aria offende
Di fosco, umido vel, sin che del tutto
Si discioglie e si sperde. Eppur, se in cupo
Spazio tu ardisci imprigionarlo, e al cielo,
Ch'ei desía, non gli assenti adito alcuno,
Cozzar tosto l'udrai contro ai pareti
In terribile guisa, e sì con fiero
Talento e con tal vivo urto li assale,
Che, fosse anche d'acciar la sua prigione,
Indomito la spezza; i perigliosi
Frantumi in alto, in cento versi avventa,
E con tuono improvviso all'aria esplode.
Di tal fiero poter con mente audace
L'uman genio si valse; accortamente
Il compose, il costrinse in ben attati
Cilindri, che dischiuso abbiano un varco;
Diè modo e verso al repentino istinto,
Che a dilatarsi e cercar l'aria il porta,
E di guisa il domò, che or dentro a immoti
Dedaleï congegni urge, ed immani
Suste ad un cenno e ferrei magli elèva,
Ruote stridule aggira, e, a tutto intorno
Propagando con vario ordine il moto,
Porge all'uom mille braccia, a l'arti il volo;
Or, d'un agile pino occulto in grembo,
Via lo spinge su' flutti, al nembo, a' venti,
Senza remi, nè vela; ond'esso, in forma
D'agile carro, sui voraci abissi
Rapidissimo scorre, e lidi e genti
In utili amistanze obliga e aduna.
Nè il mar vince soltanto; anche la terra
Con nuovo magistero a lui soggiace.
Varcar vedi per lui, quanto è distesa
Da l'igneo Sâra al gelido Trïone,
Tal fulmineo congegno, che animato
Mostro il diresti: un ferreo ed infernale
Pègaso dai fiammanti occhi, che orrendo
Fuma, fischia, ansa, sbuffa, alita, e crassi
Fiati or da l'alto or giù dal ventre avventa;
Ed ecco, or per campagne umili e valli
Correr mugghiante e serpeggiar lo miri,
O lungo i fianchi d'un aëreo monte
Divincolando trascinar l'immane
Corpo; or sui fiumi sorvolar, traendo
Fuor dai pensili ponti alto fragore;
O la riva del mar tremulo al giorno
Radere, o dentro a tetri anditi a un tratto
Cacciarsi, e poi, lontan che il vedi appena,
Sbucar, lieto fischiando, a l'aure amiche.
Di tante meraviglie a l'uom stromento
È il domato vapore. Or quelle ascolta,
Ch'opra il vigor del fulminante elettro.
O che chiuso ei si assieda, o che trascorra,
Tutto egli abita e muove: il ciel sublime
Turba e schiara a sua posta, or con sovrana
Possa adunando, or dispergendo i nembi;
La terra investe, agita i petti, e i germi
Scalda e svolge ne l'una, e dentro agli altri
L'estro del ricco immaginar produce.
Le piante, gli animai, l'ambre, i cristalli,
L'irto pel, l'aurea seta, il fil sottile,
Tutto, qual serpeggiante anima, invade,
Per ogni cosa si conduce, e, come
Odio avesse ed amor, le simiglianti
Cose respinge, e le diverse attira;
Altre muta, altre scambia, altre dissolve.
Di questa forza onnipossente, occulta
Entro al sen de le cose e di sè stesso,
L'uom si avvisò meravigliando; e poi
Che al vulgare stupor, che inerte ammira,
L'acuto esame operator successe,
L'ignea virtù, la doppia indole, i fatti
Ne investigò, ne misurò; gli azzurri
Dardi, per via di ben composti ingegni,
Costringendo, ne accrebbe, e di tal guisa
Al suo nume obbligò l'etereo foco,
Che il fulmine del ciel, già paventosa
Arma di Dio, terror de l'uomo e morte,
De l'umano pensier schiavo s'è fatto.
Affascinato da la tenue punta
D'un magnetico stil, che su dai colmi
Aërei tetti a vertice s'inalza,
Giù da le nubi rovinar tu il mira
Con fragore innocente, e sotto al cenno
Del tranquillo mortal cercar gli abissi.
Qui di doppio metal sorger tu vedi
Piccioletta colonna, a cui di pila
Dà nome il mondo. Di frequenti, alterne
Piastrelle, altre d'argento, altre di zinco,
Fra cui, molle di salsa onda, si spiega
L'indocile a l'elettro olida lana,
Con modesto artificio essa è costrutta.
Dentro ai vari elementi, in questa forma
Sovrapposti e congiunti, in un momento
Per innata virtù svolgesi e guizza
L'elettrica corrente; ai poli avversi
S'urta inqueta, s'aduna, e quindi e quinci
Svanirebbe per l'aria inutilmente,
Se ai due lati non fosse un magistero
Di metallici stami, in cui bentosto
La fulgurea scintilla entra, e propagasi
Precipite, e, fidata al tenue filo
Che ronzante a l'immenso aere si stende,
E i lidi estremi ed ogni gente unisce,
Fende il ciel, passa i campi, il mar penètra
Qual dèmone; e non pur segni e parole,
Fidi messaggi del pensier, produce,
Ma, stupendo a veder, le desïate
Di chi lungi è da noi care sembianze
Fedelmente ritratte a noi presenta.
Ma a che produrre il favellar? Che detto
Sarà che il vol de l'uman genio adegue?
Dirò, com'ei, con piccioletto ordigno
Le alate ore del dì segna e divide?
E l'elastica e grave aria, che preme
Su le suddite cose, e il caldo e il gielo
Con ingegno sottil pesi e misuri?
O come, armato la pupilla inferma
Di veggenti cristalli, al ciel li appunta
Con alto ardir, gli astri gelosi esplora,
E, penetrando un oceán di fiamme,
Strappa ai templi del Sol gli ardui misteri?
La terra, il mar, l'aria sonante, il cielo,
Tutto ha l'orma di lui, tutto gli cede
Riverente il governo. Un sol, sol uno
Maligno error nei regni suoi si ostina,
E quell'uno cadrà. Più forte io sento
Favellarmi l'amor; già di mortali
Forme il fantasma del cor mio si veste;
Ecco, il sento; ecco, il vedo. Oh! se a cotanto
Volo, per tanta via, per tanti affanni
L'uomo mortal contro a l'error si eresse,
Credi, non pur possibile e secura,
Ma vicina, imminente, agevol cosa
È la morte del Nume e il mio trïonfo!—
Disse, e giù per la china aspra e romita
Concitato avvïossi. Alto un saluto
Suonò l'antro profondo, e a lui d'intorno
Strana e gagliarda un'armonia si desta:
Ei viene, egli s'avanza;
Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi;
Non firmamenti, o báratri,
Ma le tende de l'uom son la sua stanza.
Sorgete a lui d'intorno,
O sepolti ne l'ira; e voi, che fate
Traffico di terreni odî, dal vostro
Usurpato soggiorno
Levatevi! Tremate
Da la cortina dei venduti altari,
Voi, che potenti di menzogne, il foco
Del dissidio apprendete; e al reo costume
De le plebi insensate
Esca porgete, ed affilate acciari.
Raggio non ha di lume
La mente vostra, e non ha tetto o loco
Per voi la terra, abbenchè vasta. O fieri
Mastri d'insidie, o neri
Viventi covi di serpenti, o mostri
D'error pasciuti e d'uman sangue ingordi,
Ministri d'ira, apostoli d'errore,
A terra alfin; costui che viene è Amore!
Ei viene, egli s'avanza;
Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi;
Non firmamenti, o báratri,
Ma le tende de l'uom son la sua stanza!
O derelitti e miseri
Figli devoti a povertà, reietti
Da splendidi banchetti,
Servi cenciosi a la spezzata gleba,
Che fertile e ridente,
Il molle ozio nutrìca
Di fastosa Ignoranza;
A voi dura e nemica
Madrigna, invidiosa
Pur d'un vil tozzo bruno
Che pugna duramente
Con l'affilato dente
Pria che sfami il plebeo fianco digiuno;
Schiavi, in piè, tutti in piè; quanti pur siete
Da le arene di Libia a la restía
Cuba, asilo di schiavi, e qual pur sia
Sotto al flagello de l'assiduo sole,
Crudo signore anch'esso,
Il color vostro e il crin. Schiavi, in piè tutti!
Parla cotal parola
Costui che vien, per cui,
De l'opre e degli affanni
Santificati a la feconda scola,
L'alma e la destra amica
Di provvida fatica,
Porger potranno tutti
De la finor vietata arbore ai frutti!

Ei viene, egli si avanza;
Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi!
Non firmamenti, o báratri
Ma le tende de l'uom son la sua stanza.
Voi, che in abietto e vile
Ozio distesi, il turpe viver molle
Annoverate dal fuggir de l'ore,
Schiavi imbelli del core
Vostro e d'altrui, larve patrizie, all'opra!
Tal giudice v'è sopra,
Che a nulla mai quanto a l'oprar perdona.
Nè del ceruleo sangue
Vi gioverà l'inclita stilla, o il caro
Peso di scrigno avaro,
Solo a capricci di lussuria aperto;
Nè, meno ignobil merto,
Le illustri opre dei padri: egro ed imbelle
Nipote da gagliardi avi discende,
Qual da la salma d'un illustre antico
Discende il vil lombrìco.
Industre ed ingegnosa
Gente, ai travagli del pensiero avvezza
Come ad opra di man, combatte ed osa
Assidua ed animosa,
Ed a mezzo il cammin mai non assonna.
Da le vulgari ed ime
Sedi s'inalza a mal contesa altezza,
E, rampogna sublime
Cui l'ozio ingombra e l'ignoranza opprime,
Sa ciò che vale, e di sè stessa è donna!
Tal suonava d'intorno al Pellegrino
Meravigliosa un'armonia, fra tanto
Che, incoronato di superba luce,
Sul superbo suo capo il Sol splendea.

CANTO QUARTO.

ARGOMENTO.

Lasciato il Caucaso, l'Eroe si dirige verso la Grecia; trascura molti luoghi favolosi, ma ricordasi di Ero, ed apostrofa all'amore e alla morte.—Descrizione di Tempe.—Le bagnanti sorprese.—Il palazzo incantato e la fanciulla misteriosa.—Lucifero arriva; ascolta il canto di Ebe, e le domanda ospitalità.—Accenna in brevi tratti all'esser suo e a quello di Dio, e la commuove di paura e di affetto.

Concitato così le spalle tòrse
A la scitica rupe, e dentro al petto,
Siccome vena di sboccanti lave,
Giovane e forte gli bollía la vita.
Solo e pensoso ei va, come solinga
Per gli spazî del ciel tacita nube,
Nè gli cal se la bianca alba gli rida,
Nè se il Sol lo saetti, o lo ravvolga
L'ombra notturna, o lo flagelli il nembo;
Perocchè diva è la sua tempra, e nulla
Di mortale ei non ha fuor che l'aspetto.
Solo e pensoso ei va: monti e dirupi
E foreste e deserti indifferente
Lasciasi a tergo, e par nave, che muta
Solchi le tenebrose onde sospinta
Da prosperi aquiloni. Il flutto varca
De lo spumante, ingiurïoso Arasse;
Il suol trascorre, ov'ebber regno e fama
Le Amazzoni omicide; le spelonche
Orride mira e le ferrate valli
Dei Cálibi feroci; e dei cotanti
Popolati di fiabe incliti lochi
O si scorda, o non cura, o ver sorride.
Ma di te si sovvenne, in su la sponda
Del propontide stretto, Ero infelice;
E il mar querulo ancor di tanto lutto
Ricercando con gli occhi e le nascenti
Per l'azzurro del ciel candide stelle:
—Ecco il talamo vostro, ecco le faci
Del vostro imene, o giovanetti, ei disse:
Ecco l'amore, ecco la morte! Eterno
Mormora, o mar, l'inno di nozze; eterno
Mormora, o mar, l'inno di morte! Il mondo
Due tesori ha nel sen, l'alma ha due voli,
Due fior la vita, ed ogni cor due stelle!
Mormora eterno, o mar, l'inno di nozze;
Mormora, o mar, l'inno di morte! Un bacio
Ed un sospiro; un talamo e una fossa;
Un sogno e un sonno; un inno ed un addio!
Oh! l'amore, oh! la morte!—
In tali avvolto
Meste e leggiadre fantasie d'amore
Giunt'era al lido; e i ricercati, ardenti
Per tanto flutto verginali amplessi
E la pronuba face e il fato estremo
Invidïando al garzoncel d'Abido,
Sentì quasi pietà d'esser sì solo.
Mentre ei vaga così di terra in terra,
E amor solo il comanda, ad altre piagge
Volano i canti miei: su le ridenti
Piagge di Tempe, asil di giovanette,
Ninfe, amanti di rose e di garzoni.
Come canestro di ben culti fiori,
Nel tessalo giardin Tempe verdeggia,
Tempe, amena contrada, a cui diêr grido,
Quando Grecia fioría, Numi e poeti.
Coronata di selva, entro ad opaca
Valle per ben chiomati olmi canori
E per canto d'augelli e suon di rivi,
Tra Larissa e l'Egèo molle dechina,
E, quai Titani, a lei stanno d'intorno
Ossa, Pelia ed Olimpo: immani e illustri
Gioghi di monti, da le cui pendici,
Qual vïolento iddio, sgorga e prorompe
Fragoroso il Penèo. Fama è, che quivi,
Quando più torve lo mordean l'Erinni,
Pervenne Èrcole un giorno. Opposte e chiuse
S'addossavano ancor rocce su rocce
Senza varco di uscita; e brulla e mesta
Era la terra. Arse di rabbia il fero
Nume a tal vista, e giù co'l capo e il petto
Fe' cozzo ai monti. Traballâr divelti
Gl'iperborei macigni; inorriditi
Si arretrâr, si fermâro, e il passo aprîro
Al furente Almeníde. Amena e bella
Sorrise indi la valle, e sgorgò il fiume
In memoria del dio. Fra sempre verdi
Gramigne e giunchi flessuösi e fiori
Esso ha il lubrico letto, ed or si volve
Querulo come rivo, or mugolante
Dirocciasi da l'alto, or queto e bruno
Tra foltissimi vepri al Sol s'invola,
Or limpido e sonante al ciel risplende
Come lama d'argento, ed ai lavacri
Il polveroso mandrïan conforta.
Pingue così di spume e di tributi
Scende superbo a fecondar la valle,
E al Cuärio, al Pomíso, a l'Apidáno
E a l'Orcon si accompagna, Orcon, che scarsa,
Ma nitida su tutti e dolce ha l'onda
E sdegnosa altresì; però che un tratto
Su l'ampio dorso del Penèo galleggia
Lieve e cheto com'olio, indi si parte
Solissimo fra' giunchi, e vien per via
Mordendo argini e siepi ed involando
Iridati lapilli e tenui fiori,
Finchè a l'amplesso de l'Egèo deduce
Con allegro susurro il giovin flutto.
Cercan la sua romita onda al merigge
Sitibonde le capre, e tarde e stanche
Giù da l'erta si calano le vacche
Al tinnío de le pensili campane,
Mentre a l'ombra d'un pioppo o d'un cipresso
Il rubesto caprar zufola al vento.
Venían furtive un dì sopra la riva
Le danzanti fanciulle, e avean di ninfe
Le ritonde sembianze, e su l'eburnee
Spalle le chiome. Ardean sotto la ferza
Degli estivi solstizî, e mezzo ignude
Entravano nel flutto, e Amor, fors'egli,
Più che il Sol, le cocea. Trepidi e muti
Palpitavan, celati entro ai cespugli,
L'insidïosi giovanetti, e nulla
Prendean cura di greggi, o di ritorno,
O di cacce, o di cibo; e s'un più ardito
Fuor mai si spinse, e disïoso e folle
Corse a la riva, e giù balzò ne l'onda,
Clamorose echeggiar sentivi intorno
Femminee strida, ed agitate e rotte
Suonar l'acque. Qua e là, scevre di velo,
Fuggon le donzellette, e vesti e pepli
Scambian confuse, e tremanti avviluppansi
Ne le riverse tuniche, e pe'l lido
Corron, s'urtan, s'addossan, si disperdono
Pei fiorenti sentieri; e qual minaccia,
Qual si attrista, qual ride; e nastri e veli
Volan per l'aria; al Sol splendono e involansi
Rosee forme fuggenti, e scappan dardi
Di voluttà. Riedon delusi intanto
I giovincelli, e s'affollan sul piano
Clamorosi, anelanti, ed un si loda
Del proprio ardire, e ride e si fa gioco
Del ritroso compagno; un leva a cielo
La beltà de l'amica; altri fa mostra
D'un fior carpito, altri d'un velo; un vanta
Sorrisi e baci e occulte intelligenze
Di vicini ritrovi; e va del caso
Superbo ognun qual d'un primier trïonfo.
Così a le danze ed ai trastulli amica
Tempe fioriva un dì, quando nei bruni
Letti del mar dormía cieco ed ignoto
Il fiero astro d'Osmàn. Muta e deserta
Come vedova or siede; e s'anco aprile
Va per uso a recar le sue ghirlande
Su quell'orbe contrade, e van le stelle
A specchiar l'auree fronti entro a quel fiume,
Ben puoi dire, che senso han tutte cose
Di ricordi gentili, e son fedeli,
Più che gloria ed amor, le stelle e i fiori.
Sparsa pe' monti in giro, in fra le chiuse
Ispide macchie al croceo Sol biancheggia
Qualche muta capanna, ove, costretto
Di scarse lane il macerato fianco,
Numera i penitenti anni nel duolo
Il romito calòcero, che nulla
Ha delizia del mondo, e, quel che al mondo
Forse dar più non puote, offre al Signore.
Sola, fra questi incolti èremi, in vetta
D'un'aërea collina, a cui sorride
Primo dagli orti il giovinetto sole,
Una strana magion sorger tu miri
Tutta cinta di bosco. Ampia e lucente
Fuor d'un mare di fronde alzasi, ed ora
Qual purpureo piròpo al ciel fiammeggia,
Or circonfusa d'un'argentea luce
A dolce meditar l'anime invita.
Danza d'intorno a lei con grazïoso
Florivolo tripudio il fresco Aprile,
Che le penne del dorso e il facil volo
Ivi gran tratto e volentieri oblía,
Fin che non giunga a discacciarlo il verno.
Sentono il suo fecondo alito i fiori,
E su su da le intatte erbe, che tremolano
Riscintillanti al candido mattino,
Schiudon l'auree corolle, innamorate
D'agili silfi; ed ei, per la diffusa
Luce che lo circonda e le volanti
Fragranze, ebbro d'amor, le danze intreccia,
E le farfalle, i fior, gli augelli, i rivi,
L'aure, la luce, il ciel, tutto ch'è in giro,
A un concento d'amor tempra e concorda.
Mira a la lunge il credulo romito,
Come spera di Sol, fulger l'ostello,
E suonar l'aure insolite armonie
Stupefatto ode, ed incantevol mostro
Di spiriti lo crede, asil di fate
Suäditrici di lascivi amplessi.
Pende un tratto con doppio animo, e quando
Nel travolto pensier dèmoni e ninfe
Ruzzar vede su l'erbe, o tutti ignudi
Saltar nei fonti ed intrecciar gli amori,
Trepidante di là togliesi, e il foco
Del vorace desio, che il cor gli afferra,
Nel pensiero di Dio spegner presume.
—Piombi il foco del ciel su l'empie mura,
Quinci a notte passando, esclama il vecchio
Merciaiolo di Sira; al maledetto
Spirito che vi ha stanza aprasi il nero
Regno di Belzebù!—Sporge le braccia
Imprecando in tal guisa; e, borbottando
Per l'erma notte altre più ree parole,
Riattizza la pipa: in fosche e spesse
Nugole fuor da le sonanti labbra
Sbuca il putido fumo, e con sinistro
Gorgoglío geme la tartarea canna.
Ma di lui men feroce, in su la china
De le valli fiorite, allor che intera
Guarda l'estiva luna entro lo specchio
De le chete fontane, e a le tranquille
Brezze dei monti flettono la cima
L'arsicce mèssi e i moribondi fiori,
Men feroce di lui fermasi e guata
Il giovinetto pastorel, che vide
Un dì ne la pensosa ora dei vespri
Vaga passar di sotto ai pergolati
De l'aërea magione una bellissima
Immagin di fanciulla, e non sa forse
Il semplicetto mandrïan, se cosa
Fosse di sogno, o di mortal figura
Non fallace apparenza. Entro al pensiero
Quella leggiadra visïon tuttora
Vagolando gli nuota, a quella forma
Che vediam ne la verde onda d'un lago
D'un astro ignoto tremolar l'aspetto,
E ne par forse innamorato e mesto
Spirto, dannato ad abitar quell'acque.
Sui disfatti scaglioni il giovinetto
Appo il fonte si asside, e la stanchezza
Dei lunghi giorni e la stagion cocente
Trova scusa a l'indugio. Aura, che spiri
Fra le vergini rose e le modeste
Edere de le siepi, or tu gli reca
Le suavi armonie, ch'usa in quest'ora
Derivar da la dolce arpa l'ignota
Di quell'aureo palagio abitatrice,
Ebe, il misterïoso astro di Tempe,
Ebe, l'arcana visïon d'amore.
Ella è colà: nei taciti giardini
Pari a le stelle uscì; candida e sola,
Qual sonnambula cosa, ecco, s'aggira
Pei fioriti vïali, ecco, domanda
Non sa qual fiore al suol, qual astro al cielo,
Qual ricordo al suo cor. Sotto al gran mirto
Ne la pensile rete ella distende
Le bianchissime forme, e a l'aura, a l'aura
Abbandonatamente a l'aura ondeggia.
Spinge tra fronda e fronda il curïoso
Raggio la luna, ed al tremar dei rami
Pispigliano gli augelli entro ai lor nidi.
Bacia quel fronte, o luna; e voi ghirlanda
Fate di danze, innamorati augelli:
Bacio d'amor su quella fronte intatta
Finor non si posò; pronube danze
Ella non vide ancora; e a l'aura, a l'aura,
Abbandonatamente a l'aura ondeggia.
Che sogna ella in quest'ora? Al Sol si gira
L'elitropio da l'ombra; erba, che chiusa
Resti dai ghiacci, il ghiaccio sforza, e un varco
S'apre a fatica a la materna luce;
Onda, che parta il marinar co'l remo,
Mormorando s'aduna, e corre al lido;
Forse a questo ella sogna; e a l'aura, a l'aura
Abbandonatamente a l'aura ondeggia.
Or vedete, ella sorge; a la vocale
Arpa dà piglio; sul foglioso, oscuro
Sedil, tessuto di costanti bossi,
Mollemente si adagia, e al fuggitivo
Tremulo raggio de l'occidue stelle
La mesta del suo cor voce confida:

—Date a la terra i fiori,
Date i coralli al mar;
Ad ogni cor gli amori,
Ad ogni dio l'altar.
Abbia ogni nembo un'ìride,
Ogni astro i suoi splendori;
Date a la terra i fiori,
Date i coralli al mar.

Ma, rieda il verno o il maggio,
Mesta e soletta io son;
Muto è del cielo il raggio,
Triste è de l'arpa il suon;
Qual vana ala di zeffiro
Passo nel mio vïaggio,
E, rieda il verno o il maggio,
Mesta e soletta io son.

O immagini lucenti
Di più felici dì,
Sogni de l'arte ardenti,
Il vostro april sfiorì;
Invan chiedo le olimpiche
Forme a le nuove genti,
O immagini lucenti
Di più felici dì.

La giovinezza, il riso,
Le grazie ed il piacer
Fuggon tremanti al viso
De l'inamabil Ver;
Fuggon su l'ali rosee
Del vago error conquiso
La giovinezza, il riso,
Le grazie ed il piacer.—

Ella così cantò. Sul limitare
Appresentossi un pellegrin. Dai muti
Sottoposti sentieri, a stilla a stilla
Bevuta avea la voluttà secreta
Di quel suon, di quel canto, a par di fiore,
Che le brine del cielo avido beve
Ne le tiepide sere; e a forza tratto
Ivi venía, per quel secreto istinto
Che l'altera rivolge aquila al sole.
—La Ragion sia con voi, grave e solenne
Esclamò su la soglia; un pellegrino
Chiede ospitalità.—
Lo sguardo eresse
A lo strano saluto Ebe, e tremante,
Attonita mirò quella bizzarra
Sembianza d'uomo. Ambe sul petto ha chiuse
Le braccia, al ciel volta la fronte; e fiero
Gioco gli fan così su la persona
Le acute ombre notturne e l'auree faci,
Ch'uom no'l diresti già, ma fuggitiva
Apparenza di spirto, ivi per voce
D'incantesimi tratto.
—O pellegrino,
Così a dir prese con trepida voce
L'inclita giovinetta; ove di cibo
Mestieri abbi e di tetto, invero, a ingrata
Gente ed a case inospitali e dure
Tu non volgesti il piè: nunzii del cielo
Gli ospiti sono, ed esso Iddio sovente
Viene in tal guisa a visitar la terra.
Però siedi e t'allegra; e mentre intorno
Movan le ancelle ad imbandir le cene,
E a sprimacciare e ricovrir di schiette
Coltri le piume al tuo riposo amiche,
Dir ti piaccia il tuo nome e le native
Piagge ed i casi tuoi, però che al volto,
A le fogge straniere e al portamento
Uom venturoso e non vulgar ti estimo.—
Egli sorrise e s'adagiò. Siccome
Tenera foglia al susurrar del vento
Trema tutta in su'l ramo, e par che a l'aura
Goda cullarsi e presentir l'onore
Dei colmi bocci e del nettareo frutto,
O che, del nembo aütunnal presaga,
L'ora estrema paventi, Ebe in tal guisa
Trepidava ne l'alma al novo aspetto
De l'orgoglioso Pellegrino, e muta
Pendea da lui, qual candido corimbo
Che dal solingo muricciòl de l'orto,
Quando zeffiro tace, immobil pende.
Di ciò s'accorse, e in cor gioì l'altero
Ospite, e come può, cerca con gli occhi
Disïosi tradir tutta in un punto
La dolcezza improvvisa, onde si strugge
Fatalmente ne l'alma; e intento, assòrto
Nei grandi occhi di lei, con lenta voce
Diè principio al suo dire:
—Ospite, ov'io
Dar potessi la fede ai tanti miti,
Di che memore è il loco, io di mortali
Questo l'asil non crederei, ma antica
Stanza di numi; ma nel cielo i numi
Si dormono la grossa, e l'uomo è il solo
Regnator de la terra; ond'io con esso
Primamente mi allegro, e son superbo
D'esser con te. Pur molte fiate e molte
Tornería l'alba, ov'io tutta dovessi
Raccontar la mia storia, e tu non senza
Terror l'udresti, perocchè diverso
Molto son io di quel che sembro, e fama
E possanza ed impero ho anch'io nel mondo
Non minor d'alcun dio. Ma se ti piace
Saper tanto di me, che altera cosa
Il silenzio non sembri e folle il vanto,
Brevemente dirò. Su l'immortale
Cardine del Pensiero, inclito padre
Di stupendi artificî, erto il mio trono
S'alza come alpe, e nulla a me di fronte
Nel creato universo altra si estolle
Nemica forza emulatrice, tranne
La gran larva di Dio. Fiero e superbo
Starmi incontro ei si attenta; e non pur l'alta
Region dei cieli e la miglior presume
Frenar sotto il suo scettro, e il radïante
Popol degli astri e il dolce aere e la luce
Al mio regno involar, ma questa bruna
Picciola sfera, ove si affanna e preme
Tanta stirpe di mesti, e le gagliarde
Alme al Vero devote e al culto mio
Lungamente impugnommi, a me, ch'eterno
Vivo, ed a lui, che dal terrore è nato,
Darò, nè guari, e di mia man la morte!—
—Tu bestemmî, stranier! raccapricciando
Ebe esclamò; tremar mi fai!—
Su'l labbro
Pose ei l'indice in croce, e altero in atto
Silenzio indisse, e proseguì:
—Pugnammo
Con diverse armi sempre, e spirò incerta
L'aura de la vittoria. Entro al più chiuso
Firmamento del ciel, rigido, immoto
L'emulo Dio s'asconde; e, quasi ei poco
Fosse a la colpa del mestier divino,
Sotto triplice larva il ciel governa.
Ma qual governo io dico mai? Pe'l vuoto
Fan la ridda i pianeti, ed ei nè un solo
Arrestarne potría; come insanita
Tiade balza la terra a l'aër cieco,
E l'etere si spande, e il mare ondeggia,
E la fiamma al ciel tende, ed esso intanto
Lo spensierato iddio pasce le nari
Del bruciaticcio di venali incensi,
E a soffiar vuote bolle di sapone,
Che a la luce del Sol gli sembran stelle,
Sciupa l'eternità. Ferrei governi
E immote norme ed assoluti imperi
A l'incontro io dispregio, e avverso al fato
E a la Natura sto; m'agito e vivo
Fra le cose create, e son de l'alma
La libertà. Stupido e fiero ei regna
Immobilmente, ed or di püerili
Giochi si piace, or d'uman sangue; io vivo
Solo del Ver. Di sacerdoti iniqui
E d'anfibî ministri e d'evirate
Menti ei si cinge, ed ha vita e possanza
Di misteri e d'enigmi; io, se mai regno
Ebbi nel mondo, ed uno anco men resta,
Di libere e gagliarde alme il difendo
Liberamente. O amore, o affanno, o colpa
Di scïenza e di luce, o istinto e vita
Di verità, di libertà, se merto
Altro non hai che la tortura e il rogo,
Se altro nome non hai fuor che delitto,
Ecco, a la terra io fermamente il grido:
Altare è il rogo, ed il delitto è dio!—
Tacque, e d'orgoglio radïante, i magni
Omeri scosse, e sollevò la faccia
Con fantastico ardir. Pavida, incerta
Con gli occhi Ebe il seguía, mentre un'ignota
Purpurea fiamma le scendea nel petto
Agitandole il cor. Sorse a la fine
Tacita; con gentile atto la destra
Cortesemente al forestier profferse,
E al cheto asil dei suoi verginei sogni
Conturbata si volse. Ei con l'acceso
Sguardo la cinse; com'etereo foco
Lambíala intorno co'l pensiero, e, tutto
D'eterno amor le fibre intime ardente,
Gridò in cor suo: L'ora è venuta; è dessa!

CANTO QUINTO.

ARGOMENTO.

Il fantasma di amore, che ha eternamente agitato l'Eroe, veste forme sensibili.—Ebe e Lucifero si amano: l'amore accerta l'Eroe del trionfo.—Si allontanano da Tempe, e giungono nell'Attica.—L'Acropoli di Atene.—Voluttà d'amore fra le rovine.—L'Ombre di Socrate, di Focione, di Codro.—Un bruttissimo e strano mostro appare in sogno all'Eroe, e lo beffeggia.—Onde questi, abbandonando la fanciulla nel sonno, si caccia impaziente ove il destino lo chiama.

Ma qual riposo mai, qual mai quïete
Quinci innanzi, o infelice Ebe, a te resta,
Se Amor, che ai passi tuoi tende la rete,
Sì fiero caso a la tua vita appresta?
Come fil di corallo entro a le chete
Onde germoglia Amor ne l'alma mesta;
Amor sen vien furtivo e taciturno,
Sen viene al cor qual ladroncel notturno.

Su le deserte, angoscïose piume
Ella inquieta si volge, ella sospira;
E, qual lieve farfalla intorno al lume,
Amor non visto intorno a lei si aggira;
Gira per l'aria, e com'è suo costume,
Nel foco, ch'ei destò, ventila e spira;
E de lo strano Eroe le reca innante
Le fogge, il riguardar, gli atti, il sembiante.

Ella il vede, ella il sente: ad una ad una
Fan le audaci parole a lei ritorno,
Qual nel tiepido ottobre a l'ora bruna
Tornan le pecchie argute al lor soggiorno;
Ed or le parla de la sua fortuna,
Muto or la guarda, or le si asside intorno;
Ed ella, a par di bianca aërea face,
Trema a quei detti, e d'ascoltar le piace.

Sorse alfine; e de l'ombre impazïente
Gli opposti vetri a le fresche aure aperse.
Taceva anco la notte, e rade e lente
Fuggían contro al mattin le stelle avverse;
Un zeffiro gentil da l'orïente
Le vaghe ali movea di brine asperse,
E ad ogni fior de le ben culte aiuole
Dolci olezzi traea, dolci parole.

Diceva a l'aura il fiore:—Aura pietosa,
Che mi porti le brine alme e vivaci,
Deh! per poco su me l'ali riposa
L'ali dolci così, così fugaci;
Tu in sen mi svegli ogni virtù nascosa;
Son mia vita ed amor solo i tuoi baci;
Deh! se posar non puoi rompi il mio stelo;
Che teco io venga a spazïar pe'l cielo!—

—Sorgi, dicea con lamentevol grido
Presso a la rosa il tenero usignolo;
Quanto bella sei tu, tanto io son fido,
Quanto lieta sei tu, tanto io son solo.
Già il candido mattin sorge dal lido,
E tu sorgi così dal tuo bocciòlo;
Tu il vago olezzo, il vago inno io t'invio;
Tu sei l'amore, e l'armonia son io.—

Questo udía pe'l giardin la vereconda
Ebe, e un mar l'avvolgea d'ombre e di larve,
Quando un fruscío sentì tra fronda e fronda,
E un'Ombra vide, o di veder le parve;
Stette, il respir contenne, e a la gioconda
Luce de l'alba il Pellegrin le apparve;
Mise ella un grido, e pallida divenne;
Se non fuggì, fu Amor che la rattenne.

—Ferma, sclamò l'Eroe con mesto accento,
M'odi, pietà del mio destin ti tocchi:
Io, che ai Numi recai guerra e spavento,
Ecco, supplice io cado ai tuoi ginocchi!
Ogni raggio d'onor fia per me spento,
Se non mi danno un raggio i tuoi begli occhi:
In quel raggio d'amor, poi ch'io l'ho visto,
La vita, il trono, la vittoria acquisto.

Ti sognai, ti cercai: ne l'infinita
Luce del ciel, nei cupi abissi orrendi
Sempre in traccia di te corsa ho la vita,
O eterna Idea, che umana forma or prendi;
Vista t'ho innanzi a me, t'ho in cor sentita,
Sempre acceso m'hai tu come or m'accendi;
Or che t'aggiungo, e intero alfin son io,
Son colmi i fati, ed il trionfo è mio.

Sì, vincerò. L'amor, ch'io sento e chiamo,
Sprona l'alme ad imprese inclite e chiare:
T'amai nel sogno, entro la vita or t'amo,
E immenso è l'amor mio siccome il mare:
Ei dà a la foglia il fior, la foglia al ramo,
La beltà agli occhi, a la beltà un altare,
Sola virtù di questa fragil salma,
Luce de la pupilla, aria de l'alma!—

Così dicendo, a l'odorato lembo
De le vesti di lei dolce si appiglia;
Ella pavida in atto, al vergin grembo
Restringe i veli, e al suol figge le ciglia;
E qual fussia gentil, che dopo il nembo
Scote la pioggia, e al Sol più s'invermiglia,
Stillante di pudor la faccia bella,
Senza il fronte levar, così favella:

—Stranier, qual che tu sii, dolce e cortese,
Benchè nuovo ed ardito, èmmi il tuo detto;
Deh! chi mai la possente arte ti apprese
Del suäve parlar, ch'apre ogni petto?
Ben questi alberi muti e le scoscese
Rupi verrían commossi a tanto affetto,
E amor risponderían, d'amore istrutti,
Le dure querce e gl'infecondi flutti.

Ma qual amor vuoi tu, ch'apra e rallegri
Il fior di questa mia povera vita,
Se le gioie del mondo e i giorni allegri
Par ch'abbian del mio cor la via smarrita?
Qui passan gli anni miei romiti e negri,
E m'è la speme del morir gradita;
Chè sol di là di quest'oscuro esiglio
Vede l'anima un pòrto e un astro il ciglio.—

Tal parla, e in verginale atto la faccia
Volge, e il respinge, e move gli occhi in giro,
E minacciar vorría, ma la minaccia
Le muore su le labbra in un sospiro.
Ebbro, anelante, con aperte braccia,
—Ah! no, risponde il Pellegrin delíro,
Tu, che sì bella e sì pietosa sei,
Senza luce d'amor viver non dèi.

No, non fia ver, che senz'amore al mondo
Volga tua vita abbandonata e sola,
Qual pèrsa gemma ai neri flutti in fondo,
Qual bianco giglio in solitaria aiuola:
Quant'alto è il cielo, e quanto il mar profondo,
La forte ala d'amor penetra e vola,
Nè tu vorrai, leggiadra e debil tanto,
Chiuderle il petto, e dar la vita al pianto.

Mira intorno, o fanciulla: ombra ed albore,
Raggio di sole e manto irto di neve,
Vol di farfalla e profumo di fiore,
Tutto passa così rapido e lieve;
Tutto è breve quaggiù, fuor che il dolore,
E l'istante d'amor forse è il più breve;
Oh! la vita e l'amor, cara fanciulla,
Il tutto è un'ora, oltre quell'ora è nulla.

Amiam, fanciulla, amiam; sia piano o monte,
Sia valle o mar, vivrem l'un l'altro appresso;
Non v'è serto miglior d'un bacio in fronte,
Non v'è laccio miglior d'un primo amplesso;
Ci specchierem dentro a la stessa fonte,
Sognar potrem sovra il guanciale istesso;
Come ad olmo consorte edera o vite
L'alme unirem sovra a le bocche unite!—

Disse, e acceso negli occhi e in atto strano
Chiuse le aperte braccia, e i labbri pòrse;
E un'armonia suonò per l'aër vano,
Ch'armonia parve, e baci erano forse.
Sorto era il sole intanto, e dal sovrano
Balzo a schiarar quelle due fronti accórse;
E negli occhi de l'un, qual fior nel lago,
Specchiar l'altra mirò la propria immago.

V'è una pianta gentil, ch'alma e giuliva
Di bei fiori non è, non è di foglie,
Ma al tocco sol, come se fosse viva,
Tutta in sè si restringe, e si raccoglie;
Nome il volgo le dà di sensitiva,
E senso di pudor certo essa accoglie,
Chè tutto, che del Sol si scalda al raggio,
Ha virtude d'amor, senso e linguaggio.

Tal divien la fanciulla; e il ciel sereno
Erra co'l guardo, e incerta pende, e geme;
Ed agli urti del cor le ondeggia il seno,
E il cor le fugge a la risposta insieme:
—Stranier, caro stranier, per questa almeno
Secreta ambascia, che m'affanna e preme,
Deh! per questa ti prego alma soletta,
L'onore, il pianto, i sogni miei rispetta.

Deh! se fido è il tuo dir, se l'alma è fida,
Se a l'audace voler tua possa è uguale,
Fa' che scorra da' regni aurei de l'Ida,
Nuova di giovinezza onda immortale;
Fa' che amico a le Muse il Ver sorrida;
Che men funesto a noi vibri il suo strale;
Che a questa vecchia gente infastidita
Riedan le Grazie a rifiorir la vita!

E se tanto non puoi, dammi che a questa
Terra, che non m'intende, alfin m'invole;
Ch'io mi scevri da tanta orda molesta,
Che sepolta nel ver l'anima vuole.
Oh! ch'io torni dei miei sogni a la festa,
Ch'io mi confonda in un raggio di sole,
Ch'io naufraghi coi miei poveri numi
In un mare di luce e di profumi!—

—Oh! no, vieni, amor mio, vieni, ei rispose,
Co'l Sol nascente e i rugiadosi fiori,
E alle fole, che il mito aureo compose,
I nostri involïam superbi cori:
Il trono de l'amor son queste rose;
Tutti son ne la vita i suoi splendori;
È qui sovra la terra il ciel che agogni,
Qui ne le braccia mie tutti i tuoi sogni!

Vivi a la terra e a me: vivi al governo
Di questo amor, che fiamma è del pensiero,
Di questo universal giovane eterno,
Ch'è lume sol fra l'intelletto e il vero;
Egli ombra e luce, ei paradiso e inferno,
Tempo ed eternità, verbo e mistero,
Principio e fine del mortal cammino,
Fede, legge, virtù, vita, destino.

Vieni con me; per l'infinita via
L'Ozio non poltre, e non sbadiglia Imene;
L'opra e l'amor son la ricchezza mia,
Mio cibo il ver, la libertà il mio bene:
Aquila altera per l'aria natía
Al Sol va incontro, e schiva è di catene;
I nembi sfida, i turbini sovrasta,
Libera muor; la libertà le basta.

Noi liberi così, per vario corso,
Correrem, cimbe audaci, il mar crudele,
E il dio, che non indarno ha l'ali al dorso,
De l'ali sue ne rifarà le vele.
A lui, che sdegna, e sia pur d'oro il mòrso,
Piega, o dolce fanciulla, il cor fedele;
Chè, finchè l'occhio ha un guardo e l'alma un riso,
Ei solo è il Dio, la terra è il paradiso!—

Favellando così, giuso a la valle
Avean, senza saper, già vòlti i passi,
E incerti si seguían, qual due farfalle,
Ch'erran lente sui fior, su l'erbe e i sassi;
Ma quando s'avvisâr del vario calle
De l'assòrta fanciulla i guardi lassi,
Tremò, gelò, rieder volea, ma vinta
Da l'angoscia al suol cadde, e parve estinta.

Cadd'ella sì, ma non di fiori e d'erbe
Guancial trovò sul molle suol proteso,
Nè le miti verbene e le superbe
Rose andâr liete del vergineo peso:
Ben ei l'amante Pellegrin le acerbe
Forme accoglie su'l petto ansio ed acceso,
E gli spiriti erranti in su le chete
Labbra le avviva, e geme, e le ripete:

—Amiam, fanciulla, amiam: sia piano o monte,
Sia valle o mar, vivrem l'un l'altro appresso;
Non v'è serto miglior d'un bacio in fronte,
Non v'è laccio miglior d'un primo amplesso;
Ci specchierem dentro a la stessa fonte,
Sognar potrem sovra il guanciale istesso;
Come ad olmo consorte edera o vite
L'alme unirem sovra a le bocche unite.—

Ed Ebe amò. Fatto più forte e puro
Gioì l'Eroe, che ben conobbe il segno;
Lampeggiò tutto al suo sguardo il futuro;
Splender mirò de la Ragione il regno;
Vacillò de l'Error l'idolo impuro;
Svelto il Nume dal sonno arse di sdegno,
E, vôlto il ciglio a quella parte e a questa,
Empio ognun trova, e a fulminar si appresta.

Sconosciuta fra tanto a la ventura
L'innamorata coppia oltre cammina,
E or d'un côlto villaggio entran le mura,
Or cercano la valle, or la collina;
Posan or su la sponda, or ne l'oscura
Selva, e pronubi han gli astri e il ciel cortina:
La vita, il mondo, il ciel tutto è un accento
Per essi: amor; l'eternità un momento.

Ma poi che sovra a lor dieci albe e sei
Le nitide versâr perle dal crine,
Fra il Saronico golfo e i flutti Egei
Il sacro Attico suol videro alfine;
E, i Bëozii varcati e i monti Onéi,
Le Cecropie toccâr mura divine,
Che avean, benchè or le copra oblio profondo,
Sfidato il cielo ed abbracciato il mondo.

Siede Atene nel mezzo, e a lei nel grembo
L'urne riversa il vigile Cefiso,
Ove, caro a le Dee, su 'l doppio lembo
Crescea corone un dì l'aureo narciso.
Qui al Sol torreggia acuta, e sfida il nembo
La pelasgica rupe appo l'Illiso,
Or rupe incolta, ma d'illustre prove
Già campo a la fatal figlia di Giove.

Di pentelici marmi, in su la cima,
L'inconcusso delúbro alto sorgea,
E d'opre egregie e sagrificî opima
Ivi ebbe l'ara la terribil dea:
Fra l'argive falangi inclita e prima
Sovente essa l'invitta asta scotea;
E al lampo sol del venerando aspetto
Venía prode ogni vil, rupe ogni petto.

Ma, se scevra de l'armi, ond'era onusta,
Temprate in Lemno a le celesti incudi,
E libera de l'irto elmo l'augusta
Fronte splendea fuor dei funesti ludi,
Ne l'alta d'Erettèo sede vetusta
Spirava il riso di men ferrei studi;
E a l'ombra del vocal delfico alloro
Venían le Muse, e s'assidea fra loro.

Tra i ruderi famosi e le dirute
Moli anch'ei venne un giorno il mio Titano;
Pensieroso guardò l'are cadute
E i fòri e del deserto ágora il piano
E il monte del tremato Are e le mute
Stoe d'Academo e l'Erettèo sovrano;
E d'un dio su la testa infranta e nera
Umor versò, che nettare non era.

Sorge la notte; ei là, presso al Pecile,
S'asside; Ebe è con lui. Sparuta e scema
Pende la luna, e sovra a la gentile
Bionda testa di lei sorride e trema.
Pensoso egli è più de l'usato stile;
È in lei mestizia, oltre ogni dir, suprema;
E nuotando le vanno incerte e scure
Cento memorie in cor, cento paure.

Sovra i ginocchi ei se l'asside, e cuna
Del sen le fa con le protese braccia;
E ad ogni aura ei la bacia, e per ognuna
De le stelle del cielo essa l'abbraccia.
Velò la fronte ipocrita la luna,
Chè tanta voluttà par che le spiaccia,
Come vecchia pinzochera far suole
Al caro suon di lubriche parole.

Disse alfin la fanciulla:—Oh! se sapessi
Che paure ho nel core! Ai giorni miei
Ricchezza altra io non ho che i nostri amplessi,
E amore e vita ed avvenir mi sei.
Se un giorno abbandonar tu mi dovessi,
Come rondin deserta io mi morrei,
Io mi morrei così!—Tacque, e gli avvolse
Le braccia al collo, e il freno al pianto sciolse.

Poi riprendea piangendo:—Era fatale
Quest'amor, più di te, più di me forte;
Pria mi ridiede e poi mi bruciò l'ale,
E infranse e ribadì le mie ritorte.
Sento che tu non sei cosa mortale,
Ma ne le braccia tue sento la morte;
Nel foco dei tuoi baci il cor si strugge,
L'alma s'eterna, e il viver mio sen fugge.—

Non risponde colui: torbido, immoto
Per le tenebre lunghe il guardo intende;
Chè un agitar di strane Ombre e un ignoto
Di larve brulicar l'aria comprende:
Rizzansi i sassi, i marmi, e van pe 'l vuoto,
E incerta su di lor la luna splende;
E a lui d'intorno in apparenze strane
Prendon fogge e sembianze e voci umane.

Parla un'Ombra così:—Socrate fui,
E tra' mortali un'altra volta io vegno,
Chè contro a questi nebulosi e bui,
Che mal di saggi han nome, arde il mio sdegno.
Solo del vero io parlerò, di lui,
Ch'unico iddio su la natura ha regno;
E, perchè al fronte suo l'ombra sia tolta,
Beverò la cicuta un'altra volta!—

Sorge un'altr'Ombra, e dice:—Al vulgo iniquo,
Che tanto omai del suo poter presume,
Tal esempio darò, che da l'obliquo
Calle il ritragga d'ogni rio costume;
Chè ove manca a virtù l'ossequio antiquo,
Splender non può di Libertade il lume;
E ognun, che insorga al patrio onor rubello,
Sappia ch'io vivo, e Focïon m'appello.—

Sparve, e un'altra a dir prese:—O voi ch'eletti
Foste in terra a portar le regie some,
Al patrio ben primi volgete i petti,
E le stranie falangi allor fien dóme.
Codro son io; dei popoli soggetti
Fui padre, e l'aureo serto ebbi a le chiome;
Ma a salvar Grecia, inesorato e forte,
Gittai quel serto, ed abbracciai la morte.—

S'avanzarono altr'Ombre. A la fanciulla
Su le stanche pupille il sonno scese,
E sovr'esso a la terra arida e brulla
Le strenue membra il Pellegrin distese.
Gli aleggiò intorno un sopor dolce, e nulla
Per lo pian solitario o vide o intese;
Ma al dileguar de le notturne larve
Novo prodigio in su 'l mattin gli apparve.

Mostro ei mirò, che lungo e macilento
Viengli incontro per tòrto aspro sentiere:
Come punta di falce adunco ha il mento,
D'asin le orecchie e il naso ha di sparviere;
Tien l'ali a tergo, e le svolazza al vento,
Intrecciate di scope ispide e nere;
Gambe ha di ragno e membra irsute e viete,
E su la testa un gran cappel da prete.

Qual trampolier, che da la ripa a un tratto
Dentro al placido rio salta e gavazza,
Così intorno al dormente agile in atto
Balla quel mostro, e per l'aria svolazza;
Gracchia qual corvo, miagola qual gatto,
Sbuffa, ride, saltella urla, schiamazza;
Or tentenna, or sgambetta, or gira e aleggia,
E così lo deride e lo sbeffeggia:

—Questo dunque è l'ardir, questa la possa,
Di cui tremar dovean l'alme e le stelle?
Così la fede dei mortali hai scossa?
Così fatta hai la terra al ciel rubelle?
Oh! lotte, oh! pugne, onde ogni zolla è rossa!
Oh! il gran trofeo d'una fanciulla imbelle!
O eroe de la Ragione, o Re dei forti,
Torna meglio a regnar fra l'ombre e i morti!—

Si destò, balzò in piedi, al dir beffardo,
Lucifero, arse d'ira, i pugni strinse,
Minaccioso rotò d'intorno il guardo,
Vide Ebe, e di pallor muto si tinse.
Poi chinò il mento al petto, e mesto e tardo
Mosse, e il destin più che il suo cor lo spinse,
Mentre avvolta nei suoi sogni fallaci
Nuovi amplessi ella sogna e nuovi baci.

CANTO SESTO.

ARGOMENTO.

L'Eroe s'imbarca per la Francia.—Rivolge superbe parole alla Natura.—Aurora boreale.—Sermone di frate Iginaldo.—Tempesta e naufragio.—Isolina si raccomanda all'Eroe, che cerca invano salvarla.—Morte di frate Iginaldo.—Lucifero co'l cadavere della fanciulla si avvicina a forza di nuoto alla riva.—Iddio, che vuoi perderlo ad ogni costo, inveisce contro gli oziosi abitatori del cielo; armasi in fretta, ed è sul punto di scendere in terra per combattere il nemico, quando l'arcangelo Michele lo calma, e scende in sua vece alla pugna.—Sdegnose parole di Lucifero al nemico, la cui spada non riesce a ferirlo.—L'eroe afferra finalmente la riva, e dà sepolcro alla giovinetta.

Fra le chete e fiorenti isole o ninfe,
Cui bacia il flutto de l'icario mare,
Passa il Genio de l'uom sovra gli abissi
Tenebrosi de l'acque. Erto su l'ardua
Prora egli sta: spazia fra l'onde e il cielo
L'ala del suo pensiero; e per le ardenti
Regïoni dei suoi sogni, vestita
Di crescenti speranze e di fulgori
Non toccati giammai, vede una sponda,
Che, libera e temuta in fra le genti,
L'ampia de la Ragione arbore edùca.
Gallia ebbe nome un dì; Francia l'appella
L'abietta lingua popolar, ma schiva
Com'è d'umili cose, ella a buon dritto
Titol di capo assume e di cervello.
Ivi la tenda ei pianterà: superba
Patria di sogni ella a sè chiama e attira,
Qual per forza d'istinto, il venturoso
Arcangelo umanato, a cui nel petto
Con eterno bollor balzano i sogni.
Sotto al suo piè monotona fra tanto
Brontola la rotante èlica; fischiano
Gli euri a l'antenne; mormoran confuse
Voci di meraviglia e di vendetta
Le solcate, saltanti acque; al governo
Veglia il nocchier silenzioso, e avvolta
Nel suo madido manto alzasi al cielo
Coronata di muti astri la notte.
Mira il Dèmone il ciel vasto e le vaste
Onde, su cui passa leggera e certa
Con le fiamme nel sen quella nuotante
Fra tanta immensità piccola prora,
E ai solenni ardimenti inorgoglito
Dei suoi cari mortali, osa con questa
Baldanzosa jattanza alzar la voce:

—Piega al cenno de l'uom, piega la testa,
O superba di nomi Iside antica,
E leggi e ceppi a sopportar t'appresta!

V'è tale abitator su questa aprica,
Ultima sfera, che al tuo passo intorno
Volge ignorata, e tu scemi a fatica,

V'è tal, che dal raggiante aureo soggiorno,
Ove chiusa nei tuoi pepli ti assidi,
Ti scaccerà, sì come ancella, un giorno.

L'idra orrenda del male erra quei lidi,
Siede immoto l'affanno, e ferrea incombe
Prematura e fatal morte a quei nidi;

Ma dal sen degli affanni e de le tombe
Giovin sorge il Pensiero, e s'alza tanto
Quanto più giù la vil creta procombe;

E l'uom col serto del martirio e il santo
Peso del suo dolor, nauta immortale,
L'onde si accinge a navigar del pianto;

E, rompendo co'l petto il mar fatale,
Pur morendo, procede, e su l'impure
Salme a nuovi ardimenti agita l'ale.

E tu invan, fiera Dea, tu invan d'oscure
Sfingi hai custodia intorno; invan di tuono
Armi il tuo grido, e veste hai di paure.
Questo verme immortale ebbe tal dono,
Per cui scrolla are, ombre dirada, e altero
Su le rovine tue piánta il suo trono.

Tu di fulmini t'armi, e in tuo mistero
Minacciosa sorridi; egli al tuo sguardo
Il fulmin strappa, ed arma il suo pensiero.

Tu di flutti e d'abissi il tuo codardo
Regno precidi, o ver di lidi avari
Inciampo opponi periglioso e tardo;

Ed ei co 'l foco dei tuoi falsi altari,
Con l'onda tua nei suoi congegni occulta,
Fa mari i monti, e fa montagne i mari.

Che stai? Schiava a le tue leggi, sepulta
Ne l'ira tua tu cadi; al tuo governo
Egli si asside, e ai tuoi disdegni insulta
Libero, invitto, onnipossente, eterno!—

Udì il vanto oltraggioso e la superba
Sfida la Dea, che tutte cose impera,
E da le sedi adamantine, eccelse,
Ove, occulta al creato, erge il suo trono,
Chinò lo sguardo, e il rilevò, siccome
Commiserando a questa ultima sfera,
Bruna ed ultima tanto e tanto audace.
Prendea l'aure in quel punto ad ampie vele
L'ignifera carena, e fra' tranquilli
Miraggi de le fate argenteo il dorso
Scopríano a la notturna aere i delfini,
Pazzamente esultando; e già non lungi
Nereggiava agl'incerti occhi la sponda,
Che udì del tapinello Aci il lamento,
Quando il fiero Ciclope eragli sopra
Con geloso consiglio; e già tra' cupi
Firmamenti d'azzurro, erti ed immani
Spiccava agli astri, qual fumante altare,
Gli affocati cratèri Etna superbo,
Quando, gli alti corrucci e il lampeggiante
Sguardo sentendo de la Dea sdegnosa,
Di sulfureo vapor l'aria si tinse,
Mugghiò il mar dagli abissi intimi, e tutti
Scoppiâro a un tempo e con tutt'ira i venti.
Balzò dagli antri de la terra un vasto
Sanguinoso fantasma; in tortuöse
Rapide spire si elevò, diffuse
Per li nordici campi orrido il crine,
Sparse il cielo di sangue, e in fiammeggianti
Cerchi gl'impaüriti astri costrinse.
Guardò l'Eroe senza sgomento al petto
La boreäl meteora, e a le stupìte
Genti, che su la tolda erano accórse
A mirar tanto caso, e di paura
Avean gelido il core e verde il viso,
Insegnò, come seppe, in dir cortese
Il magnetico evento; allor che sorto
Da le funi riposte, ove grand'ora
Scialbo e sparuto era rimasto assiso
Certo frate Iginaldo, in modo strano
Trampolando sui piè, sciolse la lingua
Ai soliti sermoni. Era costui
Un fil d'omo, sottil, magro, ricurvo,
Pallido come cece, istrice al fronte,
Falco a lo sguardo: un subbio benedetto,
A cui tutta ravvolta era la trama,
Che ordita avea con fine arte il Loiola.
Corsa gran parte avea d'Asia; pescato
Con la rete di Pietro alme e moneta
Per la sposa di Cristo, e al Franco lido
Quinci movea per sovvenir le afflitte
Dai novelli cimenti anime pie.
Di Lucifero il detto e il paventoso
Mormorar de la ciurma, a quella strana
Apparenza di cielo, ei tosto accolse
Ne le vigili orecchie, e, tolto il destro
Di fulminar con la parola audace
L'alme corrotte e l'empietà dei tempi,
Gittossi a' piedi il brevïario, strinse
Ne la tremula destra il crocifisso,
Che tenea, qual pugnale, a la cintura,
E in questa guisa a favellar proruppe:
—Prostratevi, tremate; ululi e pianti
Alzate, o genti de la terra; il crine
Di polvere spargete! Ecco, si appressa
L'ora del gran giudizio; ecco, il Signore
Sbuca fuor da le sue stanze, e discende
Come nembo d'autunno. Ardono i cieli
A l'irata presenza, e piovon fiamme
Su le terre di Sòdoma; qual cera
Squaglian monti e palagi; orridi e neri
Bollon com'olio i flutti; apron le gole
I mille abissi de la terra, e inghiottono
Le falangi del tristo. Empî! di falsi
Idoli e di scïenze occulte e maghe
Mal vi fate voi schermo! Avete il tempio
Profanato del Cristo; il santo avete
Patrimonio di Pier fra voi diviso;
Gozzovigliato fra le stragi; aperto
Con mille punte di tortura il grembo
De la madre di tutti; i figli spinti
Contro al sen de la madre; e il latte e il sangue,
Con vile e frodolente arte spremuto,
Tracannando qual vino, ebbri e feroci,
Incoronati d'empietà, vi siete
Sopra l'ossa dei santi eretto il trono!
Ma tra' fulmini avvolto ecco, passeggia
Il Signor degli eserciti, e l'immondo
Trono di Belzebù, come vil coccio
Infrangerà! Questo che in ciel vedete
È il giudizio di Dio!—
—Questo è il rossore
Di Dio, che sul tuo labbro ode il suo nome!—Una
voce gridò.
—Questo è l'inferno,
Riprese il frate, che divora e strugge
Le falangi degli empî!—
—O forse il sangue,
Che han versato ogni tempo i manigoldi
Di Vaticano!—
—Odo fra noi la voce
De l'eresía; Satana è qui; perduti
Tutti siam noi: ci sarà tomba il mare!—
Dicea, quando dal mar torbido e negro
Mugulando una sconcia onda levosse,
Contro al legno proruppe, e lieve in guisa
L'alzò, che spinta noi vediam dal turbo
Una povera foglia. Orridamente
Cigolaron le antenne; urlâr concordi
I venti e i passaggier, le ciurme e il mare,
E, dal fiero sospinto urto improvviso,
Balenò, traballò, rovescion cadde
Il loquace profeta, e destò il riso
Ai mal fermi su' piè trepidi astanti,
Qual da la ferrea gabbia, ove a diporto
Con muta gravità saltando aggirasi
La rugosa bertuccia, o ver, seduta
Ad un raggio di Sol, prova l'aguzzo
Dente a spellar secco virgulto, e il guardo
Volge furtivo ai curïosi intorno,
Se avvien ch'altri l'aìzzi, essa d'un salto
Balza a l'opposto lato, i bianchi denti
Digrigna, batte le palpebre, e torna
Con guardinga incuranza al giro usato;
Così in piè balzò il frate, il sospettoso
Occhio intorno girò, forbì le sozze
Palme, scosse la tunica, e, l'adunca
Faccia a la tenebrosa aria levando,
Umile e grave accovacciossi; aprì
L'unto breviario, e mormorò latine
Forse bestemmie, che parean preghiere.
Giù dagli astri in quel punto, a par di scura
Aquila, che a l'ovil piombi improvviso,
Precipitava una procella, e il core
Discioglieva ai più fermi. Orride e gravi
Come monti di piombo, ingombran tutta
Del ciel la faccia le sulfuree nubi;
Mugghian lividi i flutti, e d'ogni banda
Saltan sul mare ad azzuffarsi i venti.
Quinci aquilon prorompe, e quindi irato
Si scatena il ponente, e in un sol groppo
Pugnan, come Titani: un le pesanti
Nuvole afferra, e contro al mar le scaglia
Con immenso fragor; l'altro dai fondi
Gorghi del mar l'onde travolve, e al cielo
Furibondo le avventa, e sfida Iddio.
Qual da robusto giocator, compulso
Dal dentato bracciale, a l'altro avverso
Il ben gonfio pallon balza e resulta,
Tal de l'onde in balía, dei venti in preda,
Di qua spinto e di là, s'agita e batte
Il rotante naviglio; ed or su 'l dorso
Del fiotto immane al ciel levasi, or piomba
Ruïnoso tra' flutti, e s'inabissa
Come cosa perduta. A l'aër nero
Fra lo schianto dei tuoni odi un confuso
Suon di strida e di preci, un disperato
Urtar d'opre e di cose, un fiero, orrendo
Battagliar con la morte, e inconsüeta
Fratellanza di pianti e di paure.
Tu sol, fra tanto perdimento, il petto
Non apristi a la tema, inclito amico
Degli arditi mortali; e l'alma e il braccio
Adoprando al governo, e da ogni parte
Con diva ressa esercitando il grido
Su le pavide ciurme, il cigolante
Pino a le voratrici acque contendi.
E là, dove nel mar libico schiude
La selvaggia di Sardo isola il seno,
Ben ridotto l'avresti, ove già fermo
Di tutti la madrigna Isi in quel giorno
Non avesse nel cor l'esizio estremo.
Suscitò co 'l suo fiato un vorticoso
Turbine, spalancò l'onde, in un mucchio
Avviluppò fiaccate arbori e sarte,
E fin dentro ai secreti antri, ove occulto
L'impellente vapor mugola e ferve,
Vïolento introdusse il flutto avverso.
Scoppian, travolti nei dedalei fianchi,
Gl'ingegnosi lebèti; in duo partito
Salta al cielo ad un punto, e s'inabissa
Il perduto naviglio; e orrenda, immensa
Fra le rovine e il mare urla la Morte.
Era fra tanti derelitti, a cui
Piomba certo su 'l capo il danno estremo,
La leggiadra Isolina; a le ginocchia
Del nostro Eroe si attenne, e fredda, bianca,
Scompigliata negli atti e negli accenti
Fra' singhiozzi pregò:—Deh! mi salvate,
Deh! salvatemi voi! Ch'io lo riveda,
Ch'io muoia almen fra le sue braccia!—Un'onda
In questo dir si sollevò; travolse
La giovinetta, e de l'Eroe lontano,
Come fiore divelto, in mar la spinse.
Diè Lucifero un grido, e d'Ebe a un'ora
Si risovvenne: aprì le braccia, e fermo
Di rapir la gentil preda a la morte,
Qual tempestoso augello, in mar lanciosse.
Trabalzati dal turbo erran gl'infranti
Pini su' flutti, e con sinistri e neri
Serpeggiamenti ingombrano gli abissi
Tenebrosi del mar: sembran natanti
Dèmoni, che al ghignar cupo de l'onde
Ballin pazza una ridda a far più triste
De' disperati naufraghi la morte.
Rompe i flutti Lucifero, e fra tanta
Desolata pietà sol di lei cerca,
Sol si affanna per lei, che tutte in core
Le sopite d'amor fiamme gli avviva.
Biancheggiar vede alfin come un'incerta
Forma, cullata abbandonatamente
Da men torbidi flutti, e sembra cosa
Di visïon, che tremoli a lo sguardo
D'oblique stelle, e tu non sai, se chiusa
Entro a un vel di canore acque e di spume,
Sia l'amor che tu sogni, o ver la morte.
Stranamente l'Eroe spinse la voce,
Pari ad artigliatrice aquila, quando
Disertar vede il nido, e da le nubi
Piomba, e co 'l grido il cacciator sgomenta;
E a quella volta ambo le braccia e il petto
Affaticò. La cara supplicante
Ben riconobbe, e in cor gioì: di peso
L'alza, l'impone al grande òmero, e forte
Serrandola co 'l braccio a mezza vita,
Con ambo i piè squarcia di forza il flutto.
Ella respira ancor; la fuggitiva
Pupilla per le vaste ombre dilata,
E un caro astro ricerca, il derelitto
Astro de l'amor suo.—Cessate, o venti,
T'accheta, o mar; risplendi, o Sol; venite,
Lontane terre, al cenno mio; ch'io possa
Serbar quest'infelice alma a l'amore!—
Girò in tal dir lo sguardo, e a lui da presso
Con le braccia convulse a una raminga
Botte aggrappato disperatamente
Scòrse il misero frate: un moribondo
Topo ei parea, che, a la grommata riva
D'un impuro padùle a ber venuto,
Vi trabocchi per caso: il miserello
Stride pietosamente, i neri e furbi
Occhi spalanca; or d'uno or d'altro verso
Si travaglia d'intorno a un galleggiante
Sughero, che da' piè sempre gli sfugge,
E, invan le gambe picciolette a un tempo
Dimenando e la coda, alza a fior d'onda
Tenero il muso, i grigi orecchi appunta,
Finchè, domato da la sorte acerba,
Riman su l'acqua tumido e supino.
L'Eroe lo vide, e contro a lui di punta
Si disserrò, qual su l'ingorda sula
Piomba il labbo animoso: a la codarda
Voratrice la vasta ala non giova;
Gracchia a l'aure fuggendo, e il mal digesto
Cibo a l'audace assalitor concede.
Tal sul frate l'Eroe piombò, nel punto,
Che a cavalcion su le cerchiate doghe
Con gran pena ei salía: per la pelata
Nuca agguantollo; al soverchiante flutto
L'abbandonò; su la girevol cimba
Pontò forte la destra, e su d'un salto
Vi si assise, e gridò:—Frate, il tuo regno
De la terra non è, non è del mare:
Io t'insegno il vangel!—Guaiva il frate,
Tapinandosi indarno, e rotte e fioche
Voci mettea:—Non vo' morir, non devo
Così presto morir! Come San Pietro
Tu solchi il mar; salvami tu!—
—Profeta
Non son, nè figlio di profeta, eppure
Veggio che in gran peccato esser tu devi:
Troppo temi il morir!—
—Sono in peccato,
Hai detto il vero, in gran peccato io sono:
Vo' confessarmi a te!—
—Volgiti ai santi;
Il demonio son io.—
—Sàtana, o Cristo,
T'adorerò, pur che mi salvi!—
—Assai
Facile è in ver la fede tua: rinneghi
Dunque la legge cui finor servisti?—
—Pur che sia salvo, io la rinnego!—
—In molle
Rèstati adunque, e non aver paura
De le fiamme d'inferno!—
Il moribondo
Sparì tra' flutti; al cor l'altro costrinse
La giovinetta; su la fredda e bianca
Fronte baciolla; le spirò su' labbri
Una dolce parola: ella era muta
Come la morte. Egli proruppe:—È bello,
Bello, o frate, è il morir: vedi? su questa
Bocca è la morte, ed io la bacio e l'amo!—
Era già piano il mar, taciti i venti,
Terso di nubi il ciel; roridi e bianchi
Tremolavan per l'aere i fuggitivi
Astri, e a specchiar la fronte aurea nei flutti
Con le perle su 'l crin venía l'aurora.
Correa spinta dall'aure a fior di spume
La cimba portentosa, e verso ai cari
Lidi movea; quando al tenace amplesso
D'un terribile sogno Iddio si tolse
Scapigliato ed ansante:
—Ove, ove siete,
Miei campioni, gridò? Qui a me d'intorno
Gli arcangeli non veggo e il formidato
Fulmin de l'ira mia! Tacciono i cieli
L'inno de la mia gloria; alzano il riso
Gl'increduli mortali, e l'inconcusso
Trono de la mia luce, ecco, diventa
Tenebroso sepolcro ai passi miei.
Rompete il laccio dei melliflui sonni,
Troppo ingenui Celesti! Orrido io sento
Sibilar per le vive aure lo strido
De l'umano Pensier; sorge di nuovo
Lucifero da l'ombre, e sotto ai chiari
Sguardi del cielo, in faccia al Sol, vestito
D'umane carni e d'ardimenti invitti,
Contro al nostro poter pugna co 'l riso.
Dormite pur, beate alme, sognate
L'albe eterne dei cieli e la ghirlanda
Mai consunta degli astri e le piovute
Manne del paradiso; e tu, dai regni
Contrastati del mondo, oltre il confine
De la fallibil creta alza l'imbelle
Tuo desiderio, e bamboleggia e trema,
Reo vegliardo di Roma! Io, benchè agli occhi
Nereggiar miri un crudo fato, e senta
Mormorar fra' consorti astri una voce
Di superba minaccia, io quel nemico
Spirto di libertà, ch'agita i petti,
Soffocherò!—
Disse, e l'usbergo usato,
Che tutto era di nebbie e di paure,
Stupenda opra, vestì; l'orrida assunse
Ègida, che le avverse anime impietra;
Strinse nel pugno la fulminea spada,
E d'immenso clamore il ciel confuse.
Balzâr dal sonno esterrefatti i Troni,
Gli Arcangeli balzar, tutte fûr deste
Le falangi de' cieli, e a frotte, a stormi
Alïando venían, simili a incerti
Pigolanti piccioni, ove tra' sonni
Del temuto falcon sentan lo strido.
Videli appena il Dio, che da le soglie
Polverose de' cieli il dubitante
Per lunghi ozî ed età passo togliea,
Con fier cipiglio borbottando; e, in petto
Mal frenando la gialla ira, tre volte
Rotò sovra la testa il brando ignudo,
—E, via di qua, sclamò, via dal mio sguardo,
Plebe del cielo infeminita! Ai molli
Suoni de l'infingarde arpe voi date
L'anima tutta, e le divine essenze
Seppellite nel sonno. Onta a voi tutti!
Mentre l'uomo laggiù s'agita, e invade
Ogni cosa crëata, e dio diventa,
Voi, d'ogni cosa e di voi stessi ignari,
Con pacifico studio divorate
I banchetti celesti, e con le belle
Figlie de l'uom gli ozii spartite e il letto!—
Girò, in tal dire, anco una volta il brando,
E partito saría, se da la folta
Dei trepidanti arcangeli non fosse
Sorto innanzi Michel, l'adamantina
Spada del cielo. A le incostanti aduso
Bizze del Padre, ei gli si pianta innanzi
Con ischietto sorriso, e,—Qual talento,
Gli dice, è il vostro di pugnar? S'addice
La pugna a voi? Lucifero ha vestite
Spoglie umane, ed a noi l'alme ribella;
Ma rotto è forse il brando mio? Su lui
Disagevole è tanto il mio trïonfo?
Ben altre volte io gliel provai. Smettete
L'armi dunque e lo sdegno; io, s'ancor sono
Il guerrier vostro, io pugnar deggio: a voi
Il comandar, a me il servir si aspetta.—
Così parlava, ed il canuto mento
Gli careggiava, e il rabbonía. Di forza
Volea prima da lui svolgersi il nume,
Poi fiero in vista e mal frenando un riso,
Ritrasse il piè dal limitar: le indotte
Armi svestì; senza mirarlo in fronte
Al diletto campion la pugna indisse,
E, calcando ai superbi astri la faccia,
Su l'aureo trono in maestà si assise.
Gemea l'Eroe fra tanto, e su la bocca
De la bella sua morta iva mescendo
Dal profondo del cor lagrime e baci.
Mestamente fendea l'onde, e nel raggio
Dei purpurei crepuscoli diffuso
Vagolava il suo spirto oltre la vita.
Saltò da l'etra in quell'istante il forte
Messaggero di Dio, tutto ne l'armi
Coruscanti precluso, e parea stella
Portatrice di stragi. A sommo il flutto
Contro al gagliardo nuotator piantosse,
Precidendogli il lido, e con superbe
Voci il tentò:
—Riedi, insensato, ai neri
Baratri tuoi; quest'aure e questa luce
Non son per te. Del tuo Signor dispregi
Il divieto così? Ben del suo sdegno
T'è noto il peso e del mio brando. Lascia
Quest'aure adunque, se non vuoi di nuovo
Provar l'ira del Padre e il braccio mio!—
Guardollo in fronte, e con sorriso amaro
Gli rispose l'Eroe:
—Superbo e vôto
È il tuo parlar, qual si conviene a servo
D'assoluto signor. Gonfio de l'aura
D'un fatuo nume, opre millanti e cose,
Che son, più che vittorie, onte e dispregi.
Ma inver semplici or siete, ove co 'l suono
D'una futil minaccia il pensier mio
Svïar provate da l'ardita impresa,
Per cui tutta cadrà da' vostri petti
La superba jattanza. Ebbri del fumo
Dei vaporati sagrificî, il guardo
Voi non drizzate oltre l'istante, e lunghi
Anni di gloria e non caduco impero
V'impromettete. Al par di voi, securo
Si tenea ne le ròcche ardue d'Olimpo
Il fatal Saturnìde; e pure ei cadde,
E favola e ludibrio oggi è il suo nome
Ai più vili del mondo. E voi, voi pure,
E non guari, cadrete; e su le vostre
Fiere cervici striderà la punta
Dei sarcasmi plebei. Stolti! che al volo
De l'umana ragion, che tutto arriva,
Presumeste por ceppi, e chiuder l'alma
Dentro al sepolcro degl'imposti errori;
Ma trono eretto su l'error non dura;
Al tuo cieco signor la terra il grida!—
Strinse al petto, in tal dir, la giovinetta,
E verso al lido si spingea. Tremendo
Fulminò l'aïzzato angelo il grido,
Raggiò d'ira e di lampi, e la funesta
Spada calò. Su la sua cara estinta
Piegò il nemico il petto, e nulla oppose
A la spada fatal destrezza o scudo.
Balena il mar sinistramente; a l'aure
Fischia l'acciar, ma, come ghiaccio in fiamma,
Tocco appena l'Eroe, sciogliesi e strugge.
Vide il portento, e scompigliossi in core
Il guerriero di Dio; nè però a mezzo
Lascia la pugna: smisurate, immense
Spiega l'ali gagliarde, e si disserra
Contro al ribelle nuotator. Qual suole
Orgoglioso tacchino, ove al guardato
Beccatoio appressar veda un digiuno
Ramingante mastin, smetter l'usata
Ruota d'un tratto, scolorir l'eretta
Caruncula, e assalir tremendo in vista
Il mal sofferto esplorator; s'aggira
Questo, e no 'l bada; e mentre quei su' fianchi
L'ale gli sbatte, e sbuffa, e stronfia, e grida,
E il bèzzica a la coda e lo flagella,
Tacito e imperturbato ei mette il muso
Ne l'accolto becchime, e fiuta e passa;
Tale il divo campion con le robuste
Penne il superbo Pellegrin combatte
Rotëandogli intorno.
Ai cari lidi
Questi si affretta, e con parole acerbe
Lo stanco assalitor punge e motteggia:
—Torna ai cieli, o fanciullo; e le lucenti
Soglie giammai de la magion paterna
Non lasciar quind'innanzi. È dura impresa,
Credi, il fermar sopra le vie del fato
Il pensiero de l'uom: pari a torrente
Ch'argini rompe, alberi svelle, ei corre
Per sentiero infinito, e, non che un solo,
Mille Dii non potrían romperne il corso!—
In così dir, prese la riva; irato
L'Angiol guardollo, e dileguossi al vento,
Come vapor di nebbia vespertina,
Che s'innalzi dal mar: vela un istante
I purpurei del Sol placidi occasi,
Poi si scioglie a la brezza.
Il Pellegrino
Diede un forte sospir; la cara estinta
Su l'arena depose; e poi che l'ebbe
Tersa, come potea, del flutto amaro,
La guardò lungamente; una leggera
Zolla le impose, e muto e senza pianto,
Pari a fantasma, in riva al mar si assise.

CANTO SETTIMO.

ARGOMENTO.

Storia d'Isolina.—Amore.—Sogno di felicità.—La lettera della madre.—Ultimo commiato.—Lontananza.—La giovinetta abbandona la famiglia e la patria; muove in traccia dell'amor suo, e perisce miseramente tra' flutti.—Sorge dal sepolcro, ed apparisce a Lucifero; il quale, non potendo ridarle la vita, languisce nell'oblío di sè stesso.—Una voce interiore lo richiama all'attività, e lo avverte della gran lotta preparata fra la Prussia e la Francia.—Egli ascende sulle Ardenne, e mira i formidabili eserciti che si avanzano.—Alla vista delle aquile imperiali alza inutilmente la voce contro l'ingiustizia di quella guerra.

Nè tu, dolce amor mio, saprai gli affanni
De la bella Isolina? Io, quando i cari
Giorni ripenso, che l'amor ne diede
Tutti sparsi di luce, e la promessa,
Che a l'incerto avvenir m'obbliga il petto;
E il ciel rigido miro, e con le cento
Ali del mio desir navigo il mare,
Calar veggio dal ciel, sorger dai flutti
Tanti negri fantasmi; un'infinita
Pena, un'angoscia indefinita e nova
S'apre ne l'ondeggiante anima, e a' mesti
Casi pensando de la pia fanciulla,
Tremo nel cor, chiamo il tuo nome, e piango.
Giovinetta infelice! Un cheto e lieve
Raggio di fuggitivo astro parea
Nei passi suoi; fior di dolcezza ell'era
Negli sguardi e nell'alma; ala odorata
Di vespertino venticello estivo
Somigliavan sue voci, e chiaro e santo
Era l'amor, che le accendea la vita.
Un giovinetto da la lunga chioma,
Esile e mesto e tutto alma negli occhi,
Era il dolce amor suo: povero ed egro
Vaneggiator, che le natíe contrade
E la terra dei suoi padri e le sante
Braccia materne abbandonava; e il nero
Vuoto d'amor, che gli s'apría nel petto,
Empía d'inclite forme illuminate
Da la fiamma de l'Arte. Un giorno, ei vide
La beltà d'Isolina. Era straniera
Agli occhi suoi quella beltà; straniera
Quella terra a' suoi passi; a ogni vivente
Cosa straniero il suo pensier; ma in core
Da gran tempo sedeagli, ospite ignota,
Quella forma leggiadra; e sentì allora,
Ch'ivi, da canto a lei, sotto quel caro
Sguardo di ciel, che le vivea negli occhi,
Era la patria sua, l'aurea contrada
Dei sogni suoi; non là, dove la morte
Sedea su le dilette ossa paterne,
Non là, dove, nei suoi lutti racchiusa,
Piangea la madre sua vedova e stanca.
Da quel giorno si amâr. Livide e torte
Lingueggiâr fra le care alme le sozze
Ironie de la plebe; ai giovanili
Passi, intèsta di fior, tese la rete
L'insidïosa ipocrisia; ma grande
Crebbe amor dai perigli, e fûr più saldi
Battezzati nel pianto i primi amplessi.
Scorrazzavano un dì, come fanciulli,
Per le aiuole fiorite. Entro a un sereno
Mar di tiepidi raggi e di fragranze
Nuotavano le cose, e tutto fiori
Salìa sui monti il giovinetto aprile.
Dolcemente anelando ella si assise
Sotto il bruno laureto; e lieta in core
Di tanto Sol, di tanti fior, di tanta
Giovinezza d'amor, con puerile
Malizïoso rampognar severo
Provocava l'amico.—A nulla buono,
Dicea, sei tu; girato ho in un istante
Tutto quanto il viale, e tutti ho colti
I suoi fiori più bei: guarda;—e su l'erbe
Sciorinava il suo bianco grembiuletto
Tutto colmo di fiori. Egli porgea,
Sorridendo, la bocca, e, a nulla buono,
Dicea, son io fuor che a rubarti i baci.
Furtivamente fra le foglie e i rami
S'insinua il sole, e di minute e lievi
Agitate da l'aure ombre ricama
Quelle giovani fronti e le diffuse
Vesti di lei, che in mezzo ai fior si asside.
—Quanto io devo a l'amore, egli diceva,
Quanto a la tua pietosa anima io deggio,
O mia buona Isolina! Agli occhi miei
Cangiato è il mondo; di mai visti fiori
Mi sorride la terra; una lucente
Indefinita regïon di sogni
Mi si schiude ne l'alma, e la più bella
De le speranze mie m'albeggia in core.
Altr'uom son fatto. Ombre funeste e gravi
Tedî, e incessante fluttuär d'ignoti
Dubbi e fallace illusïon di sensi
Mi sembrava la vita: inutil gioco
Di crudeli potenze, agli occhi occulte,
Ma paventate qual visibil cosa
Da la paura onniveggente. In mano
D'un fiero iddio balzar vidi la terra
Come inutil crepunda; ai sanguinosi
Ludi, a le prede con ferin costume
Correr le schiatte dei mortali; eterno
Gravar su le ribelli anime il piede
La matrigna Natura; e tra le spire
Di velenosi abbracciamenti, oppressa
Da ignoti e strazianti incubi, indarno
Tender la moribonda Arte a le stelle.
Rider dovea, ma forse piansi. Al bieco
Occhio de l'uomo m'involai; coi morti
Vissi, e vaghezza d'ogni morta cosa
Ebbi così, che i miei giorni infelici
Sol ne la speme de la morte amai.
Qual or mi sia, nè il so; stupito io guardo
D'intorno a me, dentro al mio cor, nè trovo
Me stesso in me: caro portento è questo
Ch'io sol devo a l'amor!—
Ne le tremanti
Mani, in tal dir, chiudea quella leggiadra
Picciola testa d'angeletta, e lunghe
Lunghe carezze le facea coi baci.
Dei còlti fiori ella scegliea fra tanto
I più freschi, e i più belli; e mormorando
Un'allegra canzon de le sue valli,
Li girava in ghirlanda, e col securo
Volo de la ridente anima il giorno
De le sue nozze precorrea.
—Di freschi
Fiori odorosi, io vo' la mia corona
In quel giorno beato: a par di questa
Tesserla io vo' di zàgare fragranti,
Che a me son tanto care, e simbol sono
Del nostro amor: te ne rammenti? il primo
Foglio che mi scrivesti un conteneva
Di quei teneri fiorì. Oh! come allora
Sarem felici! Andran confusi e tristi
I cattivi del mondo, e i nostri amplessi
Saran da Dio santificati. È amara
Cosa, me 'l credi, il mormorar del mondo
Fra due cori che s'amano: somiglia
Sibilo di serpente in mezzo al canto
Melodïoso di felici augelli;
Grido somiglia di sinistro augello,
Che rompa a sera l'armonia d'un primo
Giuramento d'amor. No, no; non voglio,
Che bieca, oscura intorno a noi si aggiri
La maledica turba, e ne sia d'uopo
Velar di mal sofferte ombre il sorriso
De l'amor nostro immensurato: io voglio,
Che testimòni a la letizia nostra
Sieno gli uomini e Dio; ch'arda di amore
Tutto il creato insieme a noi. Deh! affretta,
Giorgio, affretta quel dì! Non mi rincresce
Lasciar per te queste mie valli; il caro
Mio letticciòl, dove ho sognato e pianto
Tante volte fanciulla; i gelsomini,
Ch'ombran la mia finestra, e la gaggía,
Sai? la gaggía de l'orticel materno,
Ch'or principia a fiorir; non mi dà pena,
Che dir? non penso pur, che lasciar deggio
La mia povera mamma: io son cattiva,
Non è ver? ma per te!—
Gonfî di pianto
Gli occhi altrove volgea; sfogliava i fiori
Con inqueta mestizia, e riprendea
Poi con tremula voce:
—Io, sai? non voglio
Viver lontan da la tua mamma: un solo
Tetto ne accoglierà; seder mi è caro
A la mensa dei tuoi; guardar le stelle
Da le finestre de la tua stanzetta;
L'aure spirar che tu spirasti; assisa
Presso l'immagin del tuo caro estinto
Di te parlar con la tua mamma; seco
Portar la croce, e consolar d'alcuna
Speme di gioia il suo lungo dolore.
Questo è il mio sogno, questo sol; m'illude
Forse l'amor? Tanto sperar mi è dato?—
Giunse un foglio in quel punto:
—Unico mio,
Dal mio letto di spine, ov'egra e stanca
Di più lungo soffrir trascino i giorni
De la mia vedovanza, io ti sospiro,
Io ti cerco dovunque, e le deserte
Braccia protendo, e non ti trovo, e piango.
Dove sei, dove sei, che più non torni
A questo petto abbandonato, a queste
Case del padre tuo, che, di te prive,
Orbe son d'ogni luce, e fredde e mute
Sembran solo aspettar la morte mia?
Dove sei, figlio mio, che più non odo
La voce tua; che più non torni a sera
A sedermi da canto, a dirmi i cari
Sogni del tuo pensiero e i tenebrosi
Dubbi e l'ambasce d'un sorgente affetto?
Tutto, figlio, così, tutto oblïasti
L'affetto mio? Del genitor non serbi
Memoria alcuna? Ah! così poca e breve
Ala di tempo, e così nova terra
Covre quei suoi diletti occhi, che calde
Son le ceneri ancora, e, se tu il chiami,
Risponderà. Deh! così mesta e sola
Soffrir puoi tu, che da te lungi io cada?
Così dunque morire, anzi ch'io muoia,
Deve la mia speranza ultima, e al piede
Mirar deggio spezzato in un sol punto
L'estremo idolo mio? Già non fûr queste
Le tue promesse; e non cotal conforto
Da tanto amor m'impromettea! Lontano
Dai piangenti occhi miei, fatto straniero
Al materno cordoglio, il fior tu libi
De le gioie del mondo; io bacio i cari
Abiti tuoi; sfoglio i tuoi libri; il tuo
Letto, come solea, sprimaccio a sera
Con materno costume; al picciol desco
La tua seggiola appongo; al consueto
Uscio origliando, a tarda ora, il tuo passo
Scricchiar da lungi inutilmente aspetto;
E forse allor che tu beato in braccio
Dei tuoi rosei fantasmi erri i sognati
Campi de l'Arte, ed a l'amor sorridi
D'ogni umano conforto abbandonata
La madre tua ti benedice, e muore!—
Pallide e mute si guardâr negli occhi
Quelle due fulminate anime. Ei sorse
Freddo, anelante, scompigliato; al petto
Strinse l'amica: la baciò su 'l fronte
Mal frenando i singhiozzi, e una parola
Mormorò fra le labbra; ella il comprese;
E, gittandogli al collo ambe le braccia,
In lagrime proruppe, e cor non ebbe
Di contendere il figlio a una morente.
Ei partì con la notte. A la finestra
Ella balzò; tenne il respir; fra l'ombre
Perdersi udì i suoi passi; a l'aure tese
L'anima tutta; aspettò ancor; le parve,
Che pentito ei tornasse; a una lontana
Voce tremò, chiamollo a nome; e quando
Stendersi agli occhi suoi squallido e freddo
Vide il bianco viale, a la notturna
Brezza ondeggiar con murmure indistinto
Le due file d'acacie, e a la sinistra
Luna uggiolar sentì a la lunga i cani,
Sul freddo letticciòl, come perduta
Cosa, piombò; ne le deserte coltri
Si serrò paürosa, e pianse e pianse.
Toccò Giorgio il natío lido; anelando
Le vie percorse; a le paterne case
Volò; ma fredda era la soglia; al vento
Sbattean le imposte abbandonate, e nera
Regina per li vuoti anditi, avvolta
Ne le vesti materne, iva la Morte.
Ei l'abbracciò; dei cari abiti ignude
Mostrò le scricchiolanti ossa del petto
Quella fatal. Dov'è mia madre? ei disse,
Balzando indietro inorridito. Immota
Ella il mirò; da le profonde occhiaie
Balenò un fatuo lume; armò le vôte
Mandibole d'un fiero urlo, e rispose:
—La madre tua, tu l'uccidesti! Assisa
Ne la bianca sua fossa ella ti aspetta!—
Grido non diè, non diè gemito o pianto
Lo sventurato, e ne le grandi e fredde
Braccia gittossi di colei, che sola
Di sue vedove case avea l'impero.
Gravi fra tanto, angoscïosi, eterni
D'Isolina sul cor passano i giorni;
Passan sovra al suo cor gl'inganni alati
Del suo tempo felice, e più s'infosca
Co'l cader d'ogni dì la sua speranza.
Dov'ei n'andò? Perchè non torna ai dolci
Nidi de l'amor suo? Ne le materne
Braccia obliò le sue promesse? In preda
D'improvviso dolor s'agita, o il freddo
Calcolo sul gentile animo scende,
E a men umile preda il cor gli adesca?
Ella dubbia così: facil maestra
La lontananza è di sospetti, e fabro
Di torture il silenzio. Ai consüeti
Lochi si adduce; il solito viale
Percorre; ne la memore stanzetta,
Presso il camin, di fronte al caro specchio
Spïator di lor baci, a l'ora usata,
Tutti i giorni si asside; e poi che inganna
Lungamente così l'ore infelici,
E tutta sola, abbandonata, incerta
Ne l'oscuro avvenir l'anima affisa,
Co'l cor serrato indi si toglie, e al primo
Detto, che a consolarla alcun le porga,
Rompe in lagrime amare, e altrui s'invola.
Sinistramente al suo pallido volto
Irridevan le amiche; e la ben mesta
Anima cruccïando ivan co'l vezzo
Di maligni sussurri.
—Un venturiero
Era al certo colui!—
—Povera stolta!
Già toccar le parea gli astri co'l dito!—
—Altro! Prostrate e pallide al suo piede
Bice e Laura vedea!—
—Cinta d'alloro,
Come le anguille, in groppa al suo poeta
Credea varcar l'eternità!—
—Ma il remo
Dice a l'onda che passa: io ti saluto!
E l'ape dice al fior: verrò tra poco!—
—E l'ingenua sposina aspetta ancora
L'asin che voli, e l'amor suo che torni!—
Tanto dolor la povera Isolina
Onta cotal più non sostenne: ai cari
Tetti involossi; abbandonò nel pianto
La materna dolcezza; e, le notturne
Ombre spregiando e le natíe paure,
La dolente sua vita al mar commise.
O il mar pietoso, il crudo mar! Dei suoi
Freddi baci l'avvinse; addormentolla
Nei letti suoi, pria che donarla al novo
Ferreo dolor, che l'attendea sul lido.
Su la fossa di lei, presso a la sponda
Or Lucifero siede. Alta d'intorno
Spazia la notte; silenziosa e poca
Tremula su le grigie acque la luna;
Ei grandeggia fra l'ombre; occulte voci
Mormora il labbro suo: rupe il diresti,
Che, di fosco chiaror lambita ai fianchi,
Spinga ai venti la cresta, e di confuso
Scroscio risuoni al dirocciar d'un rio.
Scuro e immoto così pende l'Eroe
Su la zolla pietosa. Amor, che preda
Fa di giovani vite, e ne la cara
Lucida vita de le cose alberga,
D'ansie superbe e di grandi ale instrutto,
Dominar l'ombre ama talor; vïaggia
Oltre la vita; e, di regnar mal pago
Quanto al raggio del Sol vegeta o pensa,
Scende ne l'urne a interrogar la morte.
Tremò allor su le care ossa la luce
D'un'azzurra fiammella: incerta e lieve
Lambisce il suol, palpita a l'aura, ondeggia,
Color muta e sembianza, e ambisce al cielo.
Come al sole d'april, da le materne
Lucide foglie in vago giro inteste,
La candida magnolia alza il bocciòlo,
Così dal grembo de la fatua luce
Una bianca si svolge aërea forma,
A cui brune e diffuse erran le chiome,
E diffusi per l'aure i rosei veli
Dïafani a la luce. Il Pellegrino
Ravvisò la sua morta.
—Oh! così lievi
Son dunque i sonni tuoi, bella Isolina,
Docil così, buona così è la morte,
Ch'anco una volta agli occhi miei ti assente?
Bianco e freddo amor mio, parla: ti muove
La prece mia? pietà ti tragge a questa,
Che lasciasti anzi tempo, aere vitale?—
Tremava ella, e tacea; languide intorno
Volgea le luci pe'l deserto lido,
Come chi chieda ai circostanti oggetti
Una persona lungamente attesa,
E tutta in quel disío l'anima intenda.
—Oh! che chiedi a le mute ombre, che chiedi
Ai sordi astri, o fanciulla? Aprica e morta
È questa piaggia, e non ha fronda o fiore;
Crudo e vorace è il mar: vecchio omicida
Ei s'accovaccia ne la calma; infiora
D'albe spume gli abissi; ignudi e belli
Manda intorno a danzar silfi e sirene,
Che funesta han la voce; alita un cheto
Sopor sovra le sue vittime; e quando
Più sicure esse van sognando il lido,
Sbuca fuor dagli agguati orrido, e caccia
Su le rotte acque a gavazzar la morte.
Oh! che chiedi a la terra, al mar che chiedi,
Sconsolata fanciulla? Ha stelle e fiori,
Stelle e fiori ha il cor mio! Se amor tu chiedi,
Vieni, il cor mio ti dò; vieni, e saranno
Pe'l tuo morbido crin tutti i miei fiori,
Pe'l tuo picciolo cor tutte le stelle!—
Tremava ella, e tacea. Pallida e mesta
Cadea la luna; impallidía la bella
Sospirosa al partir; tendea le braccia
Egli, e gemea:
—Deh! non fuggir, t'arresta!
Son de l'amor, son tue l'albe dei cieli;
Tue son le perle del mattin; tue sono
L'armonie di quest'aure; è tua la vita!
Vieni, vieni con me, vivi, e trïonfa
Dentro un raggio di Sol, dentro i diffusi
Regni del mio pensier! Da le voraci
Onde non io le tue candide membra,
Non io la tua beltà tolsi agli abissi,
Perchè deserta, in peregrina stanza,
Ospite de le fredde ombre ti aggiri;
Nè alfin la morte al voto mio t'arrese,
Perchè al tornar de la dïurna luce
La negra terra ad abitar tu scenda.
No, non fuggir! Nè il suol, nè il mar, nè il cielo,
Nè la morte ti avrà: l'amor ti spira
Vita più bella, ed a l'amor vivrai!—
Dicea, come piangesse, e facea forza
Di caldi amplessi e di sospiri al fato.
S'alza fra tanto il sole; ed ei su'l petto
L'aure fugaci e il suo dolore abbraccia.
—Sorgi dal tuo dolor; cingi la veste
Degli ardimenti tuoi; di cose e d'opre
Non di futili sogni amor si pasce.
Opra incessante è Amor: vita a l'inerte
Polve non spira ei già, ma su l'inerte
Polve l'onor d'illustri fatti accende.
Non vedi tu qual turbine di guerra
Del provocato Reno agita i lidi,
E, al suon de le fatali armi di Brenno,
Tutte d'Europa impallidir le genti?
Mai viste imprese il Sol vedrà. Dai campi
Fulminati di Mario, ombre feroci,
Sorgon Teutoni e Cimbri, e infiamman l'ire
Dei nepoti d'Arminio. A gran tenzone
Due glorïosi popoli prorompono
Come oceàni. Mugola dai fondi
Tenebrosi la Senna; e da l'inulto
Elba i carri fulminei a le vegliate
Mura di Faramondo Arminio avventa.
Sorgi; uom folle è colui che l'alma e il braccio
Spreca in vôta fatica: a lui sembianti
Fûr di Dànao le figlie; uom saggio e forte
L'opra non gitta ad impossibil cosa!—
Sentì la voce del suo spirto, e il core
De l'Eroe fiammeggiò come un'ardente
Voluttà di battaglie. Il sommo attinse
De l'ondìsone Ardenne, e quinci e quindi
Le due genti mirò.
Pari a procella,
Che su'l mar piombi, le Borussie querce
Lascian le congiurate aquile al cenno
Del germanico Giove: immenso, orrendo
Mandan lo strido al ciel; scoton gli allori
Trïonfati in Sadòva; e un'omicida
Smania di pugne in tutti i cor si desta.
Quanti dal borëale urto sospinti
Sovra il campo del mar rotano i flutti,
Tanti e alteri così levansi i figli
De la rigida Odèra; e quei vi sono,
Che fermezza di membra e d'alma han pari
A l'Ercinia materna alpe, e l'audace
Sassone, che nel freddo Albi s'infianca,
E il fedele ai suoi re Bavaro, onore
Dei Vindelici piani; e quanta forza
Di strenua gioventù fra la superba
Vistola e il serpeggiante Emo si accampa.
Da l'onor di sì forte oste precinta,
Splendida come Sol, move la possa
Di Brandeburgo. Rigida e severa
L'augusta diva del pensier vien seco:
Prestantissima dea, che da le fredde
Mute vigilie, onde le cose indaga,
Vien de l'opre al fragor, però che vano
Senza l'opre è il pensiero; i radïosi
Regni abbandona e il puro ètere, dove
Son l'ignude sostanze, e a le nebbiose
Noriche selve, ov'ha più fidi altari,
Accorre, auspice dea; popoli e prenci
Duci ispira e guerrieri; inconsuëte
Armi rivela, ordigni nuovi appresta,
Terre esplora e nemici, e grande e prima
Sfida la morte, e del trïonfo è certa.
Udì il suon di tant'armi, e tremò in core
L'avoltoio d'Asburgo: il sanguinoso
Occhio, ove l'onta ardea di due sconfitte,
Rotò; scosse le cionche ali; ma rotto
Mirando al piè l'antico scettro e il brando,
A satollar l'ira e la fame, il rostro
Nel cor de l'adescato Ungaro infisse.
L'udì la borëal Dania, feconda
Genitrice di popoli, e ne l'armi
Tutta si strinse, e balenò. Nel fermo
Petto una tempestosa ira le rugge
Contro al superbo assalitor di genti,
Che, di numero prode e di cor vile,
La sconfisse nel sangue; i palpitanti
Visceri le cercò; chiamò la belva
Dormitante su l'Istro; e su le offese
Sedi di Sondemburgo, orridi in vista,
Piombare entrambi, e s'imbandîr la dape.
Ma nel cor non tremò, non trasse il brando
A far più salda la ragion dei forti,
La glorïosa Itala donna. Assisa
Su la sponda regal d'Arno, secura
Ne la fortezza sua, le genti e l'opre
E la fugace ora propizia e il fato
Sagacemente interroga; compone
Le impronte ire dei figli; obliga al giogo
Del suo voler le avverse anime; affrena
L'empia licenza popolar; flagella
L'ambigua turba, che nel dubbio annida;
Spregia il frollo garrir dei suoi tribuni,
Cui legge è l'ira e sola patria il ventre;
E, men d'acciar che di giustizia armata,
Sul petto al vil Giudeo pianta il suo trono.
Dentro la cerchia de le mura antiche
Non si contenne il valor Franco. Al grido
Del vandalico orgoglio, ai provocati
Campi volò, primo volò, nè volle
Misurar l'armi e interrogar la sorte.
Aquila, che dal curvo etere mira
Disertar su la negra alpe i suoi nidi,
Gli accorti agguati e le fulminee canne
Del cacciator non sa: piomba da l'alto
Con terribile strido, e pugna, e muore.
—Dove corri, o fatale aquila, al lampo
Del glorïoso tricolor vessillo
Lucifero gridò; figli de l'armi,
Dove correte voi? Grido di oppressi
Non vi chiamò, non amor patrio accese
Tanto vampo di guerra: inclita e grande
Sovra il trono del mondo alto si asside
La patria vostra, e sol co'l nome impera.
Chi snudò prima il brando? Il fier consiglio
Da che labbro partì? Chi le secure
Aure turbò di tanta pace, e immerse
In un mar di perigli il luminoso
Trono di Lui, ch'à di saggezza il vanto?
Fu la malnata Idra del vulgo, il destro
Livor dei vili. Abito assunse e volto
Di libertà; con tumida parola
Provocò le dormenti ire; commosse
Con sonante lusinga il cor dei forti;
Piaggiò con prostituta arte l'oscena
Turba armata di lingua e di cor nuda;
Ma dentro a la bugiarda alma un'obliqua
Ambizïon fea nido, e sotto al manto
Involava a mortal guardo il venduto
Stilo di Ravagliacco e il cor di Giuda.
Così strisciando tortuösamente
A l'aureo cocchio arrampicossi, dove
Sedea, temuto Automedonte, il senno
Del fatal Bonaparte. Ei nei dorati
Mòrsi reggea l'intempestiva foga
Dei volanti cavalli, e parea Febo
Portatore del giorno. A lui, da canto
Quella furia si assise; un sopor lieve
Gli suäse ne l'alma; oscurò il lume
Dei veggenti consigli; ond'ei le forti
Redini rallentò su le spumanti
Briglie dei corridori. Un urlo mise
L'empia gorgòne; in piè balzò; disperse
Co'l freddo soffio le veglianti cure,
Che custodían con cento occhi al governo,
E da l'altezza dei lucenti alberghi
Per la lubrica china i fieri alipedi
Abbandonò. T'arresta, empia e mentita
Furia! E tu, se alcun raggio anco ti avanza
De l'antica virtù, se t'arde ancora
L'onor di Francia e la tua gloria i polsi,
Sorgi, e tuona il tuo nume, o sir dei pronti
Accorgimenti e de le pronte spade!
Sorgi; a la furibonda idra le cento
Creste conculca; e a quella rea, che il freno
Con falsi nomi a l'oprar tuo contende,
La man caccia su'l volto, e la sbugiarda!
Ahi! che al vento io favello! Armi, armi, grida
Dal mar britanno a la regal Pirene
Ogni gente, ogni petto; orrido io sento
Il fragor de la pugna; e quando a mille
Divora i prodi la fulminea morte
Su le ripe contese, una linguarda
Turba su le fraterne ossa s'impanca,
E al vinto insulta, e al vincitor si arrende!—

CANTO OTTAVO.

ARGOMENTO.

La catastrofe di Sédan.—L'ombra di Turenna e la resa.—Lucifero entra in Parigi.—La babilonia delle gazzette.—L'assedio.—Gloria ed obbrobrio a chi spetta.—Un generale francese, trasformato in asino, è condotto al macello.—I Prussiani entrano nella città.—L'allocuzione del proletario.—La colonna Vendôme.—L'ombra di Federigo.—La petroliera.—Allo spettacolo di tanti eccidî Lucifero si parte, non senza dubitare un istante del suo trionfo.

Io l'ho visto cader, morir l'ho visto
L'aquila dei trïonfi, il fior dei forti;
Tutto sbucar di Teuta il popol misto
Da l'empie selve e dominar le sorti;
Correr, non pago, oltre il fatal conquisto,
Straziar le genti e gavazzar sui morti;
Piegar la fronte a l'ultime sconfitte
L'inclito Sir de le falangi invitte!

O sventura, e fia ver? Caduto in fondo
Di rea fortuna, che non tien mai fede,
Il gran popol vedrem, che, a niun secondo,
Di Quirino parea l'unico erede?
Colui vedrem, che impallidir fe' il mondo,
L'armi chinar d'un vincitore al piede?
Al piè d'un vincitor, deposte in guerra,
L'armi, che già dettâr leggi a la terra?

Ahi! così non solean rieder dal campo
Sotto duce miglior di Francia i figli!
L'afro Leon lo sa, cui nullo scampo
Fûr l'arse arene, e poca arma li artigli;
L'Istro lo sa, che, di lor pugne al vampo,
Abbondò al mare i flutti suoi vermigli;
Lo san le valicate alpi, lo sanno
L'ispido Scita e il mercator Britanno;

E il sai tu pur, che là su' fumiganti
Campi di Iena fulminato e fiâcco
L'orgoglio tuo vedesti, e lordi e infranti
Di Torgravia gli allori e di Rosbacco.
Ov'è, Francia, quel brando? Ove quei tanti
Prodi? È fatto ogni cor molle e vigliacco?
Sol di lingua son prodi i figli tuoi?
Vincer non san, morir non san gli eroi?

Morir volean, tutti morir! Dai colli
Cari a la Mosa, ove Turenna nacque,
Ruïnavano a morte, e facean molli
Di strage i campi, e rosse e gonfie l'acque.
Pallido, in suo dolor chiuso, mirolli
Il Sir de l'armi, ed aspettando tacque;
Vide la morte, e con terribil gioia
Spronò il destriero, ed esclamò: Si muoia!

E s'avventò. Da le sonanti Ardenne
Lucifero lo vide. Allora a un punto
Di Turenna balzò l'Ombra, e il rattenne,
Gridando: Il dì fatal non è ancor giunto!
Si volse il duce, il fier caval contenne,
D'ira non men che di stupor compunto,
—E, tu chi sei? sclamò: sotto ai miei sguardi
Cadono i prodi, e non vuo' giunger tardi.

Lasciami, sgombra: a la battaglia il loco,
La speme al petto, al dir l'ora già manca;
Mi assegna il fato un breve istante, e poco
Forse è a morir, ch'anco la morte è stanca.
Mira; in un cerchio di strage e di foco
Ne serra il vincitor da destra a manca;
Pria che cedere a lui questa mia spada,
Lascia ch'io pugni, ed imperando io cada!—

—Non è ancor tempo di morir, riprese
L'Ombra, e negli occhi balenò; gagliarda
Alma non ha chi de l'avverse imprese
Non sostien l'ira, e ad avvenir non guarda.
Uom, che a ferma virtù tutt'opre intese,
Spregia il fulgor d'una virtù bugiarda;
Cede, non fugge; e innanzi ad empia sorte
Viltà è la fuga, ed è fuga la morte.

Non io, che la superba alma fiaccai
Ne le mobili Dune al fermo Ibero,
Non io, quel dì che il mio destin mirai
Di Marindàl sui piani avverso e nero,
Piansi perduto il mio nome, o spronai
Negli abissi di morte il mio destriero;
Ma tenni fronte al fato reo; mi accinsi
Ad imprese più belle, e venni e vinsi.

Cedi così. Nè libero, nè solo,
Come al comando, oggi al morir tu sei:
Di generosi petti inclito stuolo
Pugna ai tuoi fianchi, e tu salvar lo dèi.
Freme la patria tua, che mira al suolo
I figli suoi; questi almen serba a lei;
S'ella ha piagato il cor, la fronte ha rossa,
Abbia almen chi per lei combatter possa!

Tu piega e va: la via del trono è chiusa;
Sorge ne l'ira il popol tuo rubello;
Gente vedrai, che lo tuo scettro accusa,
Far tue vendette con l'oprar suo fello:
Gente, che, al regno e a servitù mal usa,
Predica in piazza, e traffica in bordello;
Sovrani, che saran servi al più destro,
Frolli eroi da polenta, o da capestro!—

Disse, e ridendo un cotal riso altero,
Sporse le labbra, e ottenebrossi in volto,
E ratto s'involò come il pensiero
Dove il nembo di morte era più folto.
Stette il Duce, ondeggiò, tacito e fiero
Girò lo sguardo, in mar di dubbî avvolto,
Quando tra l'armi e il fumo e i morti e l'ira
Nuova vision, nuovo portento ei mira.

Cheta pe'l mar d'Atlante irto di scogli
L'isola illustre al suo sguardo apparío,
Splendida del fulgor di mille sogli,
Riverita sì come ara d'un dio:
Ivi, fiaccati a' Re l'ire e gli orgogli,
La fortuna posò del suo gran Zio,
Simile al Sol, che da l'eteree tende
In grembo a l'oceàn placido scende.

—Salve, allora esclamò l'alma dubbiosa,
E consolata al ciel la fronte eresse;
Han pur luce i tramonti, e glorïosa
Voce di fama han le catene istesse!—
Tal disse, e a la guaína disdegnosa
Il fiero acciar con man lenta concesse.
Un'orribile voce allor fu udita:
Reso è l'Imperator, Francia è tradita!

—Chi di resa parlò? L'empia parola
Chi proferì? Parola infame è questa!
Finchè una spada è in pugno, un grido in gola,
E guarda una pupilla, e un'alma è desta,
Finchè un palpito al cor, finchè una sola
Stilla di sangue ed un respir ne resta,
Vil, chi deporre il brando ai prodi indìce,
Traditor chi il suäde, empio chi il dice!—

Così fremeano i prodi. Immenso, orrendo
Ne la vittoria sua Teuta procede,
E i vinti eroi, che maledían morendo,
Strazia co'l ferro, e calpesta co'l piede.
Piega intanto il vessil franco, e tremendo
Piega, e fiammeggia, e n'ha stupor chi il vede;
Piega, si avvolge, al suol lento declina
Qual cometa, che volga a la marina.

Al fero, indegno, inusitato aspetto
Urlano i vinti; e qual leva le braccia,
Qual rompe il brando, e dal ferito petto
Strappa le bende, e fra' morti si caccia;
Chi tra gli estinti, su' gomiti eretto,
Leva in fiero e sdegnoso atto la faccia;
Chi schernisce al suo duce, e con amara
Voce gli grida: A morir, vile, impara!

Mandò allor la francese aquila un grido
Alto così che ne rimbomba il cielo;
L'ale staccò da lo stendardo infido,
Le scosse a l'aria, e ne fe' agli occhi un velo.
L'udì il Borusso, e il trïonfato lido
Guardò geloso, e sentì al petto un gelo;
Da l'ardua rupe, ove sdegnoso stassi,
Lucifero discende, e volge i passi

Pensieroso colà, dove l'irata
Aquila artigliatrice il vol protende;
Ov'ebbra di vendette e di peccata
La fortuna di Francia alza le tende.
Mille de la fatal Senna a l'entrata
Trova l'Eroe strane chimere orrende,
Sfingi fallaci e sozze furie immani,
Mostri di cento bocche e cento mani.

Vede la Ciarla in pria, gonfia e linguarda
Furia fra quante mai vivono al sole,
Che l'Assurdo brïaco e la bugiarda
Fola al mondo lanciâr, turgida prole.
Molta a lei diè l'Error stirpe bastarda
D'anfibî mostri e tumide figliuole,
Che, nutrite di fango e di vendette,
Nome portan di gazze e di gazzette.

Ruzzan torbide intorno, e son cotante,
Sì varie son di fogge e di favelle,
Di color, di costume e di sembiante,
Che tante voci non udì Babelle:
Quante locuste ebbe l'Egitto, o quante
Zanzare ha il luglio assai son men di quelle;
E ciascuna di lor tanto un dì gracchia,
Quanto un anno non fa corvo o cornacchia.

Gracchiano tutto dì folte, importune,
Voci e aspetti mutando e usanze e vie,
E al latrar de le vaste epe digiune
Aguzzan gli estri, e ruttan profezie:
Apostoli da piazze e da tribune,
Ch'àn di coniglio il cor, l'unghie d'arpie;
Bolle, che, di livor gonfie e di ciance,
Pensan coi labbri, e senton con le pance.

Or lisce e chete, or bieche, ispide, incolte
Non pur turban le vie, ma i sensi e i cori:
Inquiete, ansanti, curïose, folte
Corron, s'urtan le turbe a' lor clamori.
Sorgono a mille intorno a lor le stolte
Menzogne alate e i pallidi Timori
E il cieco Ardir, che ne l'error gavazza,
E il Dubbio inerte, e la Discordia pazza.

Libertà v'è; su l'abborrita reggia
Alza il suo trono, ed al caduto impreca:
Trono di nubi, in cui siede e galleggia,
E in tumide promesse il tempo spreca;
Nebbiosa Dea, che, non che senta o veggia,
Sorda alla legge, ed ai perigli è cieca;
Tremenda Dea, che a l'armi a lei funeste
Scudo oppone di frasi e di proteste.

Turba sta intorno a lei, che in lei si sfoga,
E d'idropiche ciarle impregna i venti,
E onor, giustizia e fin sè stessa affoga
In un mar d'aforismi e d'argomenti:
Aërostati eroi, rabule in toga,
Frontespizî di libri e cavadenti,
Tutti saltati a l'imperar supremo
Qual dal fòro mendace e qual dal remo.

Vince intanto il nemico; e l'armi e l'arte
Usa egualmente, e desta ire e litigi;
Fra' trïonfi procede, e d'ogni parte
Versasi, e irrompe a circondar Parigi.
Pugnano ancor, benchè deluse e sparte,
Le franche genti, e son tanti i prodigi,
Che dir non puoi, se sia de' due maggiore,
Chi pugna e vince, o chi pugnando muore.

Ahi! miracoli vani! E che mai giova
Disperato valor, cui manchi il forte
Senno, che le falangi ordina, e a prova
Le guida e regge a dominar la sorte?
Già il vincitor superbo di Sadòva
De la reggia di Francia urge a le porte,
E l'accerchia, e la serra, e con orrenda
Fame di strage intorno a lei si attenda.

Etna così, quando dai fianchi immensi
L'infocata trabocca onda vorace,
E di sabbie infiammate e zolfi accensi
I campi opprime, e l'aria accende e inface,
Al povero pastore, in men che il pensi,
Cinge di fiamme il campicel ferace,
E, fatta isola intorno a lui che fugge,
Lento e crudel tutto divora e strugge.

Muta e sdegnosa a quell'ardir nefando
Stette Europa e guatò; stetter gl'infidi
Regi, e nullo è di lor che snudi il brando,
E pace imponga, e il dritto invochi, o gridi.
Nè però il cor perdono i Franchi; e quando
Men lungi è il male, ognun par che più fidi:
Generosa fidanza, eroico inganno,
Che l'alme abbaglia, e fa più grave il danno.

Ferve il popol ne l'opre, e mai non resta
Per mutar d'ore o per mancar di giorno,
Ed armi e ordegni e vettovaglie appresta,
E boschi incide, e spiana campi intorno;
Di su, di giù, da quella parte a questa,
Gente industre che va, che fa ritorno,
E s'ingegna, e s'adopra a far sicuri
Le contrade, le vie, le case, i muri.

Fra cotanto agitar d'opre e di cose,
Cui segue il canto e mai non giunge al vero,
Ad accender vieppiù l'alme vogliose
Il popolar rimbomba inno guerriero:
Vecchi, infermi, fanciulli e madri e spose,
Forti ne l'ira, ardenti in un pensiero,
Mescon l'opre e l'ardir, l'anime e i carmi,
E incuorano alla pugna, e veston l'armi.

E rompendo talor, pari a torrenti,
Fuor da le mura, a tanto ardor già strette,
Gittansi in mezzo a l'avversarie genti,
E scompiglian lor piani e lor vendette.
Ben dei mille che uscîr non tornan venti,
E rimangon le madri orbe e solette:
Paghi son tutti, ove la patria possa
Un riparo innalzar di scheltri e d'ossa.

Quinci fulmina l'oste, e impiaga e uccide,
E fiamme ai tempî, a le magioni avventa;
Quindi fra le macerie alto si asside
L'orrida Fame, e gli ancor vivi addenta;
Quel che l'uno non può, l'altra conquide;
L'un vince i corpi, e l'altra i cor sgomenta;
Vola intorno la Morte, e in doppia guerra
Le mura oppugna, e i difensori atterra.

Pur, tra' morti e le fiamme, e dagli amati
Ruderi, e dai men noti ermi recessi,
Balzan novelli eroi, pugnan coi fati,
E sembran dal valore i fati oppressi:
O che pulluli il suolo armi ed armati,
O fecondin la vita i morti istessi;
O a difender la patria, integri e forti,
Per miracol d'amor, tornino i morti.

—Salve, o popol di prodi! A sorger primi,
Primi a pugnar, soli a morir voi siete;
Se fia che lo straniero oggi vi adimi,
Egli avrà l'onta, e voi la palma avrete;
Vestiti di valor, di gloria opimi
A le più tarde età splendidi andrete,
Sprone ed esempio ai generosi petti,
Rampogna ai vili, obbrobrio ai duci inetti.

Obbrobrio a voi, che con vostr'arte obliqua
L'ire svegliaste del natal paese,
E d'armi impari, in vana guerra iniqua,
Lo abbandonaste a le nemiche offese;
Obbrobrio a voi, che la temuta, antiqua
Gloria offuscaste de l'onor francese,
Pur che rotta la spada, e infranto e nero
Giaccia il vessil de l'abborrito impero!

Matricidi! A la patria, ai figli suoi,
Qual frutto mai de le vostr'opre avanza?
Duci, guerrier, francesi, uomini voi?
Voi del suolo natio gloria e speranza?
Capi senza cervel, scimmie d'eroi,
Spugne gravi d'invidia e d'arroganza,
Vernici di valor gonfie di vento,
Molluschi in campo e tigri in parlamento!

Oh! viva il nome tuo, viva il gagliardo
Tuo braccio e l'alma a tutte prove invitta,
Primo, solo, raggiante astro Nizzardo
Fra tant'ombre d'obbrobrio e di sconfitta!
Dove che fra le genti io giri il guardo,
Ne la lor libertà tua gloria è scritta,
Gloria miglior del buon sangue latino,
Cui sollevo il pensiero e il fronte inchino!

Oh! viva, unico eroe! Di': quest'altera,
Cui voti il braccio e il vasto animo e i figli,
Colei non è, che a la sorgente e fiera
Lupa de la Tarpèa ruppe li artigli?
Colei che fulminò la tua bandiera,
E fe' i campi del tuo sangue vermigli?
Colei non è, che la tua patria inulta
Co'l piè calpesta, e a la tua spada insulta?

No'l chiede ei già: d'un gran popolo oppresso
Balenan l'armi e il grido al ciel rimbomba;
E dal guardato suo scoglio inaccesso
Tremendo irrompe, e il brando snuda, e piomba;
E, vincendo del par gli altri e sè stesso,
Al superbo oppressor schiude la tomba;
Dal trono de l'error balza i potenti;
Dà spada al dritto e libertà a le genti!—

Così dicea l'Eroe, quando una strana
Vista mirò. Tratto al macel venía
Uno zoppo asinel, che in voce umana
Tapinavasi invan lungo la via.
Folta era intorno a lui la disumana
Turba, che il morso del digiun sentía;
E qual dicea ch'alto miracol fosse,
Chi d'insulti il pungea, chi di percosse.

Sordo da tanto urlar, da' picchi infranto,
E più dal senso del supplizio atroce,
Il poverel movea simile a un santo,
Che tra fieri Giudei porti la croce.
Con l'orecchie dimesse, in suon di pianto
A intenerir la turba alza la voce,
E ragli emette ora profondi or fini,
Ch'àn l'armonia dei versi alessandrini.

L'Eroe gli si fe' presso, e de la doppia
Sua bizzarra natura interrogollo;
Quei leva il muso, allunga gli occhi, addoppia
I sospiri, e fa il greppo, e scote il collo;
E poi che ragli e pianti e voci accoppia,
E di tanto preludio ha il cor satollo,
Digrigna i denti al ciel, gli occhi al ciel fisa,
Batte la coda, e parla in questa guisa:

—Uomo già fui, nè de la plebe: amici
Pria m'ebbi i fati; ai marziali ardori
Fei campo il petto, ed ai ben posti uffici
Non fûr tardo compenso i dolci allori.
Francia è la patria mia; contro ai nemici
Guidai gli altri e me stesso ai primi onori,
Fino a quel dì che prigionier si rese
Nei campi di Sedàn l'Augel francese.

Mi resi anch'io; ma con arguto ingegno
Ruppi la fede, e il Prusso irto delusi:
Fuggo, i campi divoro, e qui ne vegno
Per la patria a pugnar; chi vuol mi accusi.
Già s'appressa il nemico, e d'aspro, indegno
Feroce assedio i nostri muri ha chiusi;
Io vittoria prometto, e, oh! poco accorto,
Ritornar giuro o vincitore o morto.

Fuor proruppi, e pugnai; ma, com'è vero
Ch'asino or sono, io fui sconfitto e vinto;
Morir tosto pensai, ma in tal pensiero
Tremai, gelai, fui per cadere estinto;
Quando rinvenni dal terror primiero,
Qui mi trovai d'una vil turba cinto,
Che gridava, insultando al mio dolore:
Ritornar giuro o morto o vincitore!

Allor, gelo in pensarlo, io non so come,
Tutte raccapricciar le membra sento;
S'alzan lunghe l'orecchie in su le chiome,
E allungasi la testa, e cresce il mento;
Stendesi su pe'l dorso e per l'addome,
Questo cuoio abborrito in un momento;
Pendono a terra ambo le mani, e ognuna
In un zoccolo vil si chiude e aduna.

Credo sognar, cerco fuggir, me stesso
Fuggir che ognun, segno d'obbrobrio, addita;
Ma batter sento in suon quadruplo e spesso
Sul percorso terren l'ugna abborrita.
Sorge il sole, e dinanzi, a fianco, appresso,
L'ombra fatal veggio al mio corpo unita;
Rizzar mi vo', ma star dritto non vaglio;
Vo' domandar soccorso, e metto un raglio.—

Tacque, e poi che più fiera al fiero caso
L'affamata canaglia urla e s'avventa,
Da superbo furor l'animo invaso:
—Vil turba, esclama, or le mie carni addenta!—
Nè briciolo di lui saría rimaso,
Se l'opra del Demonio era più lenta;
Ei la turba contiene, e la captiva
Bestia discioglie, e vuol che soffra e viva.

—Viva, egli dice; e dal suo tristo esempio
Quindi a far senno ogni francese impari;
Oh! se ognun dei suoi duci, o inetto od empio,
Forma assumer dovesse a costui pari,
De la patria non più traffico e scempio
Farían, come finor, volpi e somari;
Che tosto ognun conoscería le vecchie
Golpi a la coda e gli asini a l'orecchie.—

Sorse un grido in quel punto. Il popol forte,
Da l'armi oppresso e da la fame infranto,
Schiude al superbo vincitor le porte,
Che a quest'orrido aspira ultimo vanto.
Egli entra, ei passa: è suo trofeo la morte,
Suo cibo il sangue, sua letizia il pianto;
Piega il ginocchio, e, crudelmente pio,
Chiama a le stragi sue complice Iddio.

Fan monti i morti; a rivi, a fiumi ondeggia
Per le rigide vie torbido il sangue;
Qui crolla un tempio, una magion fiammeggia,
Là un incendio che sorge, uno che langue;
Là un ebbro vil, che a lo straniero inneggia,
Qui un eroe che ancor pugna, e cade esangue;
Ed armi infrante e sparse membra ed adri
Globi di fumo ed ulular di madri.

Ahi sventura, ahi dolor! Stupido e folle
La polve degli eroi Teuta calpesta:
E sul terreno ancor fumante e molle
La fiera Idra plebea scote la testa;
Drizzasi e fischia, e le non mai satolle
Fauci spalanca, e l'aria intorno infesta;
E su la fossa dei fratelli inulta
La civile Discordia orrida esulta.

Sorge il vil proletario, e l'empia ed adra
Ambizïon la tôrta alma gli addenta;
Libertà invoca, e la man ferrea e ladra
Ne le sostanze altrui superbo avventa.
Fa tribune le piazze, ed orna e squadra
Fiere dottrine, e novo dritto inventa;
E scapigliato, in truce atto di sfida,
Snuda il pugnal, chiama le plebi, e grida:

—Lasciate le servili opre; le glebe
Abbandonate; il profetato giorno
Giunto è per noi, che come abiette zebe
Digiuni erriamo a le ricchezze intorno!
Vendette abbia e trïonfi anche la plebe,
Nè di sua servitù vada altri adorno;
Non più sparga sudor, sangue ed affanni
A crescer l'onta e ad educar tiranni!

No, non sparga, per dio! L'antiche some
Gittiamo alfin, leviamo al cielo il volto!
Le terre, il tetto, il pan, l'onore, il nome,
Tutto i vili patrizi hanno a noi tolto!
Ci hanno emunte le vene; infrante e dome
Le virtù, stôrto il senno, il cor sepolto,
Fatto de le nostre ossa argine e scudo
Al petto vil d'ogni giustizia ignudo!

Ov'è la patria nostra? I nostri figli
Ove son mai? Ce l'han tutti rapiti;
L'han trascinati fra' nemici artigli,
Carchi l'han di vergogna, e l'han traditi!
Geme un popol fra' ceppi e fra' perigli;
Essi spandon sui morti onte e conviti;
E le nostre deserte, orbe contrade
L'orgoglioso stranier devasta e invade!

Oh! sia fine a l'obbrobrio! Alta vendetta,
Anzi onor di giustizia il tempo chiede;
Tale un'opra da noi la patria aspetta,
Che le dia ferma in avvenir la sede.
Cada il patrizio altèr; cada interdetta
L'aurea fortuna, ond'ei si tien l'erede;
E, partiti ugualmente i censi avari,
Con noi soffra o s'allieti, e a noi sia pari!

—Pari sian tutti a noi! Con legge uguale
Il benefico Sol dispensa a tutti
Il vivifico suo raggio, ed uguale
Splende, sì come il Sol, l'anima in tutti.
Tal sia la legge e la giustizia! Uguale
A tutti ognuno, e uguale a ognun sian tutti;
Tutti un nome, un pensier, tutti un'insegna:
Il popol Dio, che a Dio somiglia, e regna!—

Tal parla; e come al boreäl flagello
Mugghian negre le nubi, e il mar si sfrena,
A l'audaci promesse, al parlar fello
Freme la turba, ed urla, e si scatena;
Dà piglio a l'armi; al vero, al giusto, al bello
Guerra incomincia inesorata e piena:
Quel che a l'ira fuggì de l'armi infeste,
Cieca nel suo furor, travolge e investe.

Com'è colui, che, d'improvviso ossesso
Da bieca furia de la mente insana,
La man, vana in altrui, volge in sè stesso,
E le proprie sue carni adugna e sbrana;
Il superbo così popolo oppresso,
Poi che su l'oppressor l'ira fu vana,
Ebbro d'odio feroce e di dispetto,
L'armi ritorce de la patria al petto;

E così ne la strage infuria, e immerge
Nel delitto così l'anima prava,
Che le macchie del sangue il sangue asterge,
E l'uno error l'altro disperde e lava:
Tutto vorría quanto risplende e s'erge
Spegnere ed adeguar la turba ignava;.
E d'ogni mal, d'ogni miseria in fondo
La patria seppellir, la Francia, il mondo.

O dal tempo e da l'armi invïolate
Moli, d'invidie oggetto e di stupori,
Ove accolser le industri Arti onorate
Tante illustri memorie e tanti allori,
O tempî de l'uman genio, crollate,
Date campo di stragi ai vincitori;
Già su voi la fraterna ira si sferra:
Titani, eroi, numi de l'arte, a terra,

A terra tutti! A la possente e nova
Aura di libertà, che altera incede,
Tremi dal trono suo Fidia e Canova,
E s'umilî del gran popolo al piede!
Al gran popol la molle arte non giova;
All'oro, al sangue, e non all'arte ei crede;
Degna luce per lui, ch'ai numi è pari,
Gl'incendî son, son le rovine altari!

Tu, colonna fatal, ch'ergi l'altera
Testa agli astri e co'l piè Francia calpesti,
E di rampogna tacita e severa
Le loquaci dei vivi alme funesti,
Crolla tu pur, bronzea colonna, e fiera
Su le rovine tue Francia si desti,
Si desti alfin; scoperchi i freddi avelli,
Schiaffeggi i padri, e il nome lor cancelli!

Ecco gli eroi. D'intorno a quel gigante
Trofeo di gloria, per lo piano immenso,
Vario di cor, di lingua e di sembiante,
Corre, brulica, ondeggia il popol denso.
Già s'alza a l'aura il vessil trïonfante
Tinto nel sangue e negl'incendî accenso;
E a tal segno di strage e di vendetta
S'allieta il volgo, e il fatal crollo aspetta.

Sta superba frattanto e indifferente
La colonna regal, pur come suole,
E del purpureo suo raggio occidente
Tranquillamente la saluta il sole.
Tranquillo a par sorge il Guerrier possente,
Che l'altera sovrasta inclita mole;
E di ghirlande glorïose onuste
Spandon l'ale tuttor l'aquile auguste.

S'ode un bisbiglio; al fiero assalto muovono
Gli ardui congegni; al ciel stridono; imbianca
Ogni volto; tentenna in su l'aërea
Reggia il Guerrier, piega da destra a manca;
Piega, balena; con fragor terribile,
Che il cielo assorda, ed ogni cor disfranca,
Cade, non già, ma su la rea canaglia,
Stanco di più soffrir, scende e si scaglia.

Trema la turba, e come avesse al dorso
De l'incalzante eroe l'ira e la spada,
Urla fuggendo, e l'ali impenna al corso,
E l'uno, avvien, che a l'altro inciampi e cada.
Frenate, o prodi, a la paura il mòrso;
Volgi la faccia, o terribil masnada;
O Erostrati, o tribuni, o genti indôme,
Non è un uom, che v'insegue, è solo un nome!

L'uom dei fati è colà: disteso, avvolto
Di negra polve, nel deserto piano
Poco ingombra di terra, e gli occhi e il volto
Vinti ha nel bronzo, e inerte è la sua mano.
T'accosta a lui; vittorïoso e folto
Corri a l'insulto, o gran popol sovrano;
E dir possa ciascun, se tanto egli osi:
Su'l fronte a Bonaparte il piede io posi!

Soli a l'oltraggio non sarete! Esulta
Dai vigilati balüardi il fiero
Nemico, e applaude a l'opra vostra, e insulta
A la caduta del fatal Guerriero.
Da la polve di Iena, or non più inulta,
Balza un popol di scheltri orrido e nero;
E su l'immago de l'eroe nemico
Poggia l'Ombra regal di Federico.

Sorge orgogliosa, e il ciel torbida e grande
Prende co'l capo, e al negro aere torreggia,
E le rotte al suo piè bronzee ghirlande
Conculca, e dai profondi occhi fiammeggia.
—Ch'io vi cancelli, esclama, orme esecrande
De la vergogna mia; ch'io più non veggia
Vôlti in trofei, cangiati in monumenti
Questi bronzi rapiti a le mie genti!—

Dicea, quando pe'l ciel rigido e scuro
Un sinistro baglior sorge e risplende,
E un piceo fumo, un odor crasso e impuro
Gli occhi travaglia, ed il respiro offende.
Ahi! qual cagion, qual destino empio e duro
Di nuova rabbia i franchi petti accende?
Tra le fiamme sepolta e la rovina
De la Senna cadrà l'alma regina?

Torna il dì. Sola sola, incerta, oscura,
D'un rosso nastro il crin sozzo costretto,
Le vie trascorre una strana figura,
Guardinga agli atti, agli sguardi, a l'aspetto;
Muta, veloce rasenta le mura;
La destra invola furtiva nel petto;
Sogghigna, ammicca la strada romita,
Fermasi, brontola, fugge, è sparita.

Ma dietro ai suoi passi, trascorsa appena,
Un suono scoppia di grida e di pianto;
Fra dense nubi l'incendio balena,
Stride, si spande da questo a quel canto;
Essa a la danza gli stinchi dimena,
Cionca co'l lurido suo drudo intanto,
Con pazzo volto, con gioia feroce,
Salta, e lingueggia con stridula voce.

Vide le fiamme e l'ultimo periglio
Lucifero e l'orrende ire e il gran lutto,
E, lo sdegno nel petto e il pianto al ciglio,
Fuor dei lidi infelici erasi addutto.
Qual uom che muova a volontario esiglio
Di fieri casi e di giust'ira istrutto,
Tal ei si parte, e la diletta e grama
Terra saluta, e dolorando esclama:

—Dove ti cercherò, se qui non sei,
O intemerata e splendida
Reggia dei sogni miei?
Luminosa Ragion ch'ardi e ravvivi
Ogni terrena cosa,
Se qui non regni, in qual region tu vivi?
Pur io da l'abborrite ombre ho veduta
La maestà dei tuoi passi e la luce,
Che dai vigili, acuti occhi tu spandi
Sovra il mar dei destini; io l'amorosa
Voce ascoltai, che l'anime riduce
Agli amplessi del Vero, io la solenne
Voce di libertà, che a voli arditi
Del pensiero de l'uom sferra le penne.

Di tenebrosi troni e di ferrati
Gioghi e di fronti umilïate e vili
Lieta non vai, bella non vai di fiori,
Che di pallidi servi il pianto edùca;
Nè tuo serto è il terrore. Inclita e ferma
Tu ne l'alme ti assidi, e l'alme e i fati
Previdente governi. Ardon nei tuoi
Limpidissimi sguardi
Quante spemi ha il futuro, e quanti ha raggi
L'onnipossente libertà, ch'è dono
Tuo primo e non caduca
Gloria di umani e tua miglior parola.

Tu di sensi gagliardi
Le umane alme alimenti,
E sè stesse a sè stesse insegni e sveli,
Perchè libere alfin corran le genti
A la vittoria di più fidi cieli.

È sogno il mio? M'illude,
Vôto fantasma, il desiderio, e fingo
Larve di spirto ignude?
Dai ciechi abissi invano
A combatter con Dio l'ultima pugna
Sorse il mio spirto? Ombra incompresa, ignota
Correrò questi lidi, infin ch'io piombi,
Fulminato Titano,
A divorar ne l'ombre il mio dolore?
Ne l'ombre io tornerò? Quest'infinita
Luce, che il mio pensier valica e pasce,
Questo perpetuo fluttuär di cose,
Quest' impeto di vita
Non son mio regno e vita mia? Non sono
Consorti mie le mobili
Genti, cui la vital morte rinnova,
Come opportuna piova,
Ch'apre la terra, e svolge
La ritrosa virtù del germe inerte?
E tu, tu che le incerte
Nubi diradi, ed ogni ben mi sveli,
Santa Ragion, tu indarno
Entro al petto de l'uom levi il tuo trono?
O forse ai regni tuoi,
Diva maggior, presiede
La tiranna Natura,
O, sconsigliato e inutile
Poter, che ne le ignare anime hai sede,
Fuor che altere lusinghe, altro non puoi?

Che dissi? Il dubbio indegno
Sperdano i venti, e il mar vorace inghiotta!
Qui sei, qui regni: io sento,
Unica dea, la tua presenza in questa
Splendida reggia degli umani affanni.
La terra è tua; su' simulacri infranti
Di sbugiardati iddii sorge la possa
Dei regni tuoi: da fiere alme son còlte
Le tue leggi inconcusse, e fermi e santi
Di perenni olocausti ardon gli altari,
Che cementan co'l sangue i figli tuoi!
O generosi, o cari
Apostoli, o gagliarde ostie ed eroi,
Voi non cadeste indarno! Ecco, su queste
Ingombrate di stragi inclite rive
La nova alba diffondesi
D'una sorgente età; spiran le meste
Genti educate dal dolor le vive

Aure di libertà; vigili e pronte,
Di fieri casi esperte,
Al sorriso del Vero ergon la fronte;
E dal sangue fraterno, onde coverte
Son queste piagge illustri,
Coronata di lauri e di baleni
Tu balzi, o dea; chiami la Pace, e vieni!—

CANTO NONO.

ARGOMENTO.

Curiosità dei Celesti e pietosa supposizione dei santi inquisitori alla vista dell'incendio di Parigi.—Pettegolezzi divini.—Profonda risposta di Dio; e confidenze che egli fa a santa Teresa; che perde improvvisamente la ragione.—-Lucifero, che ha lasciata la Francia, veleggia per l'America.—Apostrofa alla Spagna.—Arriva nel nuovo mondo.—Saluto alla libertà, madre di civili istituzioni.—S'interna in una foresta, di cui si fa la descrizione, e conversa con una scimmia, che pretende esser sorella del genere umano.

Con quest'alte speranze e queste cure
Si partiva l'Eroe, mentre più vasto
Per la rigida notte infurïava,
Turbinando, l'incendio. Arder parea
La terra intorno, e correr sangue i fiumi,
E, ad ingoiar tant'ira e tanti affanni,
Come abisso di morte, aprirsi il cielo.
Sentîr le fiamme inaspettate e il lezzo
Dei feroci olocausti, e balzâr tutti
Fuor del sonno i Celesti, a quella guisa
Che sbucan da le pingui arnie ronzando
Le pecchie industri, allor che il dispettoso
Villan, che con obliquo animo guarda
Al prospero vicin, l'aride ammucchia
Secce del campo, e presso agli alveari
Gitta la fiamma e, pago il cor, s'invola.
Sorser così l'alme beate, e primo
Al veroni del ciel, trepido, ansante
Di recidiva voluttà, la via
S'aprì quel di Gusmano, un tra' più forti
Zelatori del Cristo, e:—Li han bruciati,
Li han bruciati? dicea; son tutti rei,
Tutti eretici son; di roghi ha d'uopo,
Sol di roghi la terra!—
—Ah! ch'io li veggia,
Gridava dietro a lui, feroce in vista
Il terror di Toledo; e con aperte
Nari spirava quella crassa, impura
Mefite, che a le fiamme orride mista
Gli astri avvolve di fumo e ammorba il cielo;
Ch'io li veggia morir; ch'io l'odor beva
De le ree carni abbrustolate, ascolti
Il rantolo supremo, e sperda a' venti
Con questa man la polvere esecrata!—
Sporge in tal dir la gialla testa, in cui
Pochi, duri quai chiodi alzansi i crini;
Schizza sangue dai tondi occhi; le adunche
Scarne man vibra come artigli, e, tutto
Tremito i polsi, la sanguinea bocca,
D'un lungo, giallo e mobil dente armata,
Fra la bava spalanca, e rauchi e fieri
Urli interrotti da le fauci avventa.
A l'aspetto feroce inorriditi
Portan gl'innocui serafini al volto
Le miti ali e le palme; e solo allora
Che sentîro il clamor de le sorgenti
Dive, si diêro a sogguardar furtivi
Fra le dita e le penne. In simiglianza
Di pingui anatre, allor che da l'erbosa
Riva, ov'ebber più tempo ombre e pastura,
Al subito apparir d'un orgoglioso
Cigno, di laghi imperator, si danno
Clamorose a fuggir; sbatton le brevi
Ali pe'l lido, e tra le canne e i giunchi
Del padule vicin tuffansi in frotta;
Folte così, così confuse e punte
D'improvviso timor sorser le dive
Da le tiepide piume; e, tutta a un'ora
La rigida modestia e il curïoso
Sguardo dei circostanti angeli e il loco
Dimenticando, fuor dai nivei pepli
Libere consentían le rosee forme,
Che, fresche, acerbe e roride sì come
Pesche soavi che l'aurora imperla,
Inducean le celesti anime a un senso
D'indefinita voluttà. Le vide
Da l'antico suo seggio il profetante
Re di Sïonne, e abbandonata al piede
Caddegli la vocale arpa; nel petto
Fiammeggiò tutto; e già fuor dagli avari
Occhi e fuor da le labbra avide il senno
Senz'altro gli fuggía, se non che a tempo
Sopravvenne il divin Padre, e d'un cenno
Le impronte ansie ammorzò. Pensoso e stanco,
Di sotto il braccio egli venía soffolto
Da la diva Teresa: una vegliarda
D'Àvila, ossessa da Gesù, che al vano
Piacer, che le vulgari anime adesca,
L'involò tempestivo; ond'ella, esperta
Del futil gioco de la rea fortuna,
Al suo divo amator l'alma concesse.
Or fra gli astri ha dimora, e sacro in terra
È il nome suo. Ringiovanita e bella,
In pregio de le sacre estasi, al Nume
Dilettissima vive, e a lui sorregge,
Antigone pietosa, il passo infermo.
A l'appressar del Dio, taciti arretransi
I minori Celesti, e in duo partita
S'apre la folla riverente. Un aureo,
Morbido seggio ivi s'ergea: stupenda
Opera di ricamo, in cui la diva
Lucia, maestra d'ingegnosi uncini,
Esercitata avea tutta ad un tempo
L'ammirabil perizia. A lei ministre
Furon le vigilanti ore, e compagna
La rigida pazienza; e non di perle,
O di rari smeraldi e di rubini
La cara opra abbellì, ma, tutti presi
I riposti, ozïosi astri dal fondo
Dei forzieri di Dio, gl'infilzò a un refe
Adamantino, e al divin seggio intorno
Con sottile d'acciaro ago l'infisse.
Ivi il Nume si asside; il formidabile
Sopracciglio fatal tre volte inchina,
Scote tre volte l'ambrosia canizie,
Serra il valido pugno; e al cenno usato
Svegliasi da le sante arpe il concento
Dei melodici salmi. Apresi il varco
Tra' folti angeli allor la previdente
Brigida, e tutta rigorosa, in vista
Di profetessa, al vecchio Iddio d'innanzi
Piantasi; e il fren già già scioglie al facondo
Favellar, che Gesù destale in core,
Quando il buon Dio con subita rampogna;
—Brigida, figlia mia, le dice, smetti
Per carità l'antifona noiosa:
La san perfino i paperi: i soldati,
Che legaron Gesù, fûr centocinque;
Gli sputi, ch'ebbe su la santa faccia,
Novantadue; le prezïose stille
Del sangue, che sul Golgota egli sparse.
Due milïoni; centomila gocce
Di sudor; cinque piaghe, oltre la sesta
Rivelata al dottor di Chiaravalle…
Ma, per pietà, finiscila una volta
Quest'insulsa scilòma!—
Indispettissi
A tal parlar la vergine Maria,
E con umile sguardo e cor severo:
—Padre, figlio, esclamò, suocero, sposo,
In verità questo parlar non parmi
Degno di voi! Che! non vi par ben fatto,
Che si onori mio figlio?
—E figlio nostro!
Battendo l'ali e pipilando, aggiunse
Il Colombo divin; Brigida a dritto
Lo ricorda ai beati!—
—Aüf! rispose,
Sorgendo a un tratto il bilïoso Iddio;
Io non ne posso più di questo eterno
Bisticciar fra di noi! Non son padrone
D'aprir la bocca e darle fiato! Questa
Divinità, che non è tre nè uno,
Mi comincia a dar noia: un giorno o l'altro
Me ne sbarazzo! I dii stan bene in caffo,
E tre son troppi!—
Ammutoliron tutti
A l'acerba parola. Allor lo sguardo
Gittò il Dio su la terra; e poi che, a schermo
Del raggio dei vicini astri, la mano
Tremula pose tra la fronte e il ciglio,
E affisò lungamente, un sospir trasse
Dal cor profondo, e, in tuon grave e solenne:
—Quello, disse, è un incendio!—
Al suon temuto
De la voce di Dio restâro immoti
Gl'immoti astri, ondeggiâr l'aure ondeggianti,
E, pago il cor del rivelato enimma,
Tornò ciascuno a le celesti alcove.
Non però torna il re dei Numi, o al sonno
Crede le membra, abbenchè lasse: in parte
La più remota ei si ritragge, e seco
Vien la scorta sua fida. In sui ginocchi
Questa gli s'adagiò; tutto gli prese
Fra le morbide mani il capo augusto,
E il baciucchiò teneramente. Assòrto
In un triste pensier nulla ei sentía
La dolcezza dei baci; ond'ella in fronte
Li astuti gli figgendo occhi d'amore:
—Caro babbo, dicea, s'è ver ch'io leggo
Nel tuo pensier, mesto sei tu. Pensoso
E tacito così, mai non mi fosti
Da parecchia stagion. Ti vien vaghezza
Di sparger di novelli astri la faccia
Dei firmamenti? Ebben, parla: al tuo detto
Sorgeran soli e mondi. Arde i tuoi sdegni
La superbia de l'uom? Fulmina: è tua
L'eternità!—
Sorrise amaramente,
Scrollando il capo, il divin Padre, e,—Acerbi
Fatti, rispose, al mio pensier tu chiami,
E quasi punta di crudel sarcasmo
Tu ferisci il mio cor. Di sogni in sogni,
Credula come sei, porta la fede
La semplicetta anima tua; veleggi
I cari regni de l'amor, nè sai
Quanto abisso di morte e di dolore
Sotto a questi vegghianti astri si celi!—
Punse tal favellar l'orgogliosetta
Alma di lei, che tutti aperti e chiari
I misteri del ciel correr presume,
E, di vivo rossor la guancia accesa:
—E che dunque, esclamò, questa mi vale
Presenza tua, se al guardo mio si asconde
Parte alcuna del ver? Veggente e diva
Sol di nome son io, quando sostieni,
Che, di tenace error l'anima avvinta,
Qui in ciel, quasi mortal femmina, io viva!—
E a lei con dolce, carezzevol piglio,
Palpando il collo flessuöso e il crine
Rispondeva il buon Dio:—Già da gran tempo
Io'l so, ch'ésca tu sei! Docile e buona
Finchè si va a' tuoi versi, e ti si corre
Dietro senza neppur farti uno zitto;
S'apre bocca? si fiata? Ecco, senz'altro
Tu mi prendi una bizza! Ah! ma la colpa
È tutta mia! T'ho ridonato il riso
Di giovinezza; il cor t'ho schiuso a' facili
Vaneggiamenti d'un celeste affetto,
Tutti inutili doni! Altro or tu chiedi
Del mio paterno amor non dubbio segno?
Legger vuoi nel destino? Ebben, mi ascolta!—
Smesse il labbrino, e radïò d'un riso
La bellissima santa, e, poste al seno
Con garbo puëril le braccia in croce,
Si guardò, s'assettò, scosse la bruna
Testa, a svïar dal fronte piccioletto
La crespa ed odorata onda del crine,
E tutta ne l'udir l'anima accolse.
—Non sorrider così, cominciò il Nume
Con sospirosa voce; occulta, orrenda
Cosa io dirò, tal che nessun finora
Ascoltò dei Celesti. Ah! s'altri fosse
Di tal secreto e dei miei casi a parte,
Rubellarsi vedresti al regno mio
Le angeliche sostanze, e qual notturno
Spirto d'inutil sogno irne in dileguo
La mia superba autorità. Se dunque
Di tanta confidenza oggi t'eleggo
Secretaria e custode, e tu ten mostra
Degna co'l seppellirla entro al tuo petto.—
Co'l tenue capo d'assentir fe' cenno
La santa giovinetta, e portò al core
La man picciola e bianca. Il guardo in giro
Mosse il canuto Iddio; piegò la bocca
Su l'orecchio di lei; la man distesa
Fra la bocca e l'infida aria interpose,
E mormorò:—Nulla son io, non sono
Che un forte e secolare incubo, imposto
Da la paura al sonnecchioso Adamo!
Guai se si sveglia, guai!—
Balzò a tal detto,
Come da subitano estro compunta,
La dea, che bruno e inanellato ha il crine,
E pallida, stupita, senza voce,
Senza moto restò, tal che scolpita
Immagine parea. Sciolse ad un tratto
Al pianto insieme e a la parola il freno,
E, battendosi il petto:—Ah! disse, è vero,
Che Dio mi parla? E non è sogno il mio?
Iddio tu sei? Desta e in me stessa io sono?
O tremenda parola, ahi! s'è pur vero,
Che udita io t'ho, che nel mio cor t'accolgo,
Tosto in fiamma ti cangia, e questa mia
Vuota sostanza incenerisci e annienta!—
Poi riprendea:—Tu non sei Dio? Non sono
Opera di tua man questi diffusi
Mari di luce e questo ciel?—
Tal suona
La fama, è ver; ma in verità, te'l dico:
Assai prima ch'io fossi erano i cieli.—
—Ma la terra, ma l'uom?—
—Tu accenni al loco
Del nascer mio: l'uom, già mio servo, è fatto
Di Lucifero alunno!—
—E a che dormenti
Lasci i fulmini tuoi? Già nel terrore
Terra e cielo avvolgeano.—
—Ha tal d'acciaro
Il pensiero de l'uom scudo ed usbergo,
Che le saette mie sfida e dispregia!
Ahimè! vicino ai regni miei già miro
Torbidi sovrastar gli ultimi soli!
Già tapina esular di terra in terra
Veggio tra le fugate ombre la Fede;
Con flagello di foco insta, ed incalza
Lucifero; lo scherno odo e il sogghigno
De l'incredule genti; e s'io qui resto
D'ozî vulgari e di silenzio avvolto,
Qui tra poco vedrem superbo e forte
Sorger sovra il mio trono il mio rivale!

Tal parla Iddio, mentre a la pia fanciulla,
Fra il disinganno incerta e la paura
L'anima balza, e si scompiglia il senno.
Tutta a un punto scomposta il volto e 'l crine
Rompe in subite risa; il lembo estremo
De le candide vesti in su la bella
Testa rivolge, e così a mezzo ignuda,
Una strana canzon canterellando,
Per la reggia del ciel sgambetta, e ride.
Molte fiate tornò limpido e lieto
Su la terra il mattin; molti su' fiori
Versò brine dal grembo e rai dal crine
La bellissima Aurora; e chiuso intanto
Entro al mondo de' suoi splendidi sogni
L'alto oceán Lucifero trapassa.
Poi ch'a la rea città volse le spalle,
Non d'Albïon la tetra aere, o le cupe
Arti cercò, per cui rigida e avvinta
Nei suoi ferrei statuti il mar governa;
Ma a voi, genti d'Iberia, a voi, gagliarde
Stirpi, a l'onor di libertà ridéste,
Dal magnanimo cor volse un saluto.
—Voi felici, esclamò, quando su'l dorso
D'un ignifero pin credeasi ai flutti,
Voi più volte felici, ove, le impronte
Ire dimesse e le civili erinni,
Tutte verrete a far corona e scudo
Al sabaudo monarca! Ai suoi governi
Arti oblique e malfide armi, riparo
Di trepidi tiranni e d'alme imbelli,
Ei non invoca, anzi dispregia. Illustre
Germe di prodi, e prode anch'ei, la spada
Sovra il capo degli empî alza, e al consiglio
Di sola Libertà l'anima assente;
E, in bionda età senno canuto, alteri
Ai sovrani del mondo esempi insegna.
Oh! a lui, prodi, accorrete! A lui, se tanto
Dagl'iberici petti anco si cura
Libertà con giustizia, a lui d'intorno
Serratevi, e del cor, più che del braccio,
Custodite il suo trono! Ira di avverse
Parti, d'invidia alimentate e d'oro,
Romperà allor contro al suo piè, qual foga
Di torbidi torrenti ad ardua rupe;
Da le rive del Tebro, auspice amica,
Sorriderà l'itala donna al raggio
Del fraterno vessillo; e su la sponda
De l'orgoglioso Manzanàr la diva
Libertà, le robuste ali raccolte,
Gioirà l'ombra dei sabaudi allori!—

Così mescendo vaticinî e voti,
Varca i mari d'Atlante, ospiti al gregge
Degli ondivaghi mostri e a l'improvviso
Da l'uom domato imperversar dei nembi;
E tu, assiso a la prora, in simiglianza
Di grandissima fiamma eri, o Colombo.
Fuggon sconfitte al tuo cenno le ruote
Dei fiammanti uragani; urlano al vento
I segati cicloni, e nei profondi
Baratri incatenate, a l'uom che passa
Le procelle del mar piegano il dorso.
Salvete, inclite rive; e tu, gagliarda
Libertà, salve! O sia, che de l'aeree
Ande selvose ami la vetta, asilo
Del superbo condoro; o che ti piaccia
Spazïar le insegnate acque, o fra l'ombre
Di vergini foreste errar su'l dorso
Del corrente giaguaro, il cui ruggito
Quando sorge o tramonta, il Sol saluta;
Grande ognor, se dal doppio istmo le schive
Genti nei socïali ordini aduni;
Grande, se per deserti orridi il grido
Al perpetuo ulular mesci dei venti,
O più t'aggrada perigliarti al balzo
Di sonanti cascate, e dar concento
Di selvagge parole ai boschi e al cielo.
Tu nei golfi insüeti il pino ibero
Primamente accoglievi, e le ritrose
Stirpi, di vesti e d'ogni culto ignude,
Con lungo studio riducevi al rito
De' giapetici imperi. Onde fu visto
Spezzar lo strale e abbandonar le selve
Il fierissimo Pampa; e giù dai monti
De l'indomo Uraguai scender l'imberbe
Nomade che il color d'ambra ha nel volto;
E, al corpulento Patagòn commisto,
Dal profondo Orenòco erger l'ignude
Membra pasciute di schifose argille
Lo stupido Ottomàco, e sentir l'uopo,
Tua mercè sola, del civil convegno.
Per le vaste città, fra' popolosi
Commerci, a respirar l'aure vitali
Di quei giovani climi, al mondo ignoto,
Lucifero s'avvolse, ed aureo raggio
D'alte speranze e virtù nuova attinse.
Un dì per le sonore ombre movea
D'un'intatta foresta. Invïolate
Da umana scure, indocili al veggente
Raggio del Sol, gelosamente intesti
Tendon le secolari arbori i rami,
Ove di tutte sue virtù ad un tempo
Le sconosciute pompe Iside spiega.
Come in tempio infinito, ivi si aggira
La divina matrigna, e tutta appella
Sotto agli sguardi suoi dai varî climi
La numerosa vegetal famiglia,
La qual, superba de la dea presente,
Rigogliosa e gigante occupa il cielo.
Giovinetta immortal, sotto a' suoi passi
Balza la bella Primavera, e, stretta
Con insolito amplesso al fresco Autunno,
Tempra l'aure vitali; e quando i rami
Di mai veduti fior l'una inghirlanda,
L'altro, furtivo sorridendo ai fiori,
Con selvatica man gli arbori impoma.
Con temperie diversa al loco istesso
L'arborea felce ivi tu ammiri accanto
Al rigido lichene; a' molli orezzi
Dei vitali palmîzi, a l'odorate
Del profetico cedro ombre ospitali
Svolgon le foglie flessuöse e snelle
Le giganti gramigne, e sempre verdi
Spiega l'artico musco i suoi tappeti.
Qui l'indico banano apre le braccia
Provvide indarno di nettaree frutta;
Qui, impervio ancora al trafficante avaro
D'ingrati climi e da ogni ferro intatto,
Serba il purpureo sandalo odorato
Le rosee tinte e la gentil fragranza;
Qui, stupendo a saper, quella s'innalza
Pianta ingrata e vulgar, se tu la miri
Da le rocce infeconde erger la scarsa
Chioma e scovrir le povere radici
Fuor del sasso natío, mentre co' rami
D'ogni ombra avari si trastulla il vento;
Ma egregia pianta e prezïosa, allora
Che al nascente mattin, fuor dagli aperti
Libri deriva, e versa intorno un'onda
Di balsamico latte. A lei, se tanto
Gli è propizio il suo dio, ch'indi la scopra,
Corre il nomade adusto, e leva un grido
D'insolita letizia; trafelanti
I figliuoletti accorrono, e, d'attorno
Tripudïando al caro arbore, il labbro
Danno al buon cibo, e a tutta gioia il core.
E ove te lascio, o provvido e pietoso
Abitator di torride contrade
Stupendo arbor del cocco? Al ciel tu sorgi
Dirittamente come palma, e vinci
Pur la palma in virtù, ben che a lei pari
Sovra l'ispido tronco, a mo' di piume
D'orgoglioso pavon, spieghi le foglie.
Tu al dipinto Indïan, che nulla ha cura
Di curvi aratri e di lanosi armenti,
Non pure offri spontaneo asilo e cibo,
Ma, docil fatto ad ogni suo bisogno,
Di schietta acqua e di pan candido e dolce
E di liquido latte e di vin puro
E di vesti e di case e d'ogni adatto
Utensile il provvedi; ond'ei, null'altro
Studio avendo e ricchezza, a l'ombra amena
Dei rami tuoi beato i dì produce.

Ma chi tutta diría la pompa e i mostri
Di quei vergini climi? Ivi l'irsuto
Cacto grandeggia, come cereo immane;
Ivi a quella di Pesto emula ignota
L'odorato e gentil calice innostra
Di Belvèria la rosa; ivi quanti hanno
Onoranza e virtù di prezïosi
Medici succhi, o nominanza orrenda
Di fulminei veleni, indifferente,
O sien radici o fiori, Iside spiega.
Passa l'Eroe solo e pensoso. Ingombri
D'intrecciate vainiglie e di lïane
Lunghissime a le chete aure pendenti
Sovr'esso al capo suo chiudonsi i rami,
E or di cupole in guisa, or di cortine,
Or di fioriti padiglioni e d'archi,
Lussureggian di aspetti e di colori
Al queto occhio di lui. Di strane voci
E di strilli e di fischi e di pispigli
Suonan l'aure d'intorno; odi a la lunga
Romoreggiar di vaste acque, e tra' rami
Frusciar d'ale infinito; e, a far più viva
Quella solenne immensità, vaganti
Stormi, non sai se d'animate gemme,
O di fiori volanti, o ver di augelli,
Tra le foglie s'inseguono, o procaci
S'arrampican sui tronchi, e rauco e chioccio
Stupidamente al ciel mandano il grido.

Sente il superbo Vïator quell'ampia
Solitudin di cose; e al tanto aspetto
De l'eterna rival l'animo esalta,
Come rubusto ed animoso atleta,
Che pronto e fiero in sul diviso aringo
L'avversario mirando a lui di fronte
Qual fondato edificio alzar le membra
Valide e salde e provocar l'assalto,
Ne l'impavido cor crescer più sente
L'anima avvezza; agli allenati fianchi
Batte le palme; le nodose braccia
Brandisce, e, ardente di slanciarsi il primo,
Vibra a l'aure sonanti il pugno e il grido.
Precorreva l'Eroe gli anni; ed al volo
Di splendide speranze il cor donando
Nuovi trïonfi del Pensier vedea
Su l'immensa natura; e:—Verrà giorno,
Madre altera, dicea, che queste occulte
Tue sedi, onde ti piaci, e la selvaggia
Verginità di questi boschi al rito
Dei nostri aratri ubbidiran. Da queste
Sconosciute vallèe, mutati in lievi
A lo spiro dei venti ampii navili,
Quest'ardui tronchi correran su' flutti;
E rigogliose e riverite, assai
Più di queste a te sacre are romite,
Genti e città qui fioriranno al raggio
Di benefiche leggi. Altero e cinto
Di tutto ardir qui nel tuo grembo, aperto
Da l'industre fatiche, e monti e abissi
Sorvolerà l'uman genio; e tu, rasa
Di ciechi orgogli, ov'or superba e ignota
Spieghi ne l'ombre il tuo possente impero,
Sotto auspicio miglior sorger vedrai
L'opre e i commerci de l'Arìane genti.—
Così dicea, gli anni veggendo, allora
Che tra' folti cespugli, in capo al verde
Tortuöso sentiero un gli si offerse
Pensieroso pitèco. A un'indïana
Canna appoggiato, a lenti passi e gravi
Egli si avanza, a guisa d'uom che al peso
D'un ingrato pensier l'animo inchina.
Al rigido cipiglio, a la rugosa
Faccia, ov'ispida e grigia al muso intorno
Fa due siepi la barba, un lo diresti
Anacoreta pio: tal forse apparve
Il santo onor de l'arenosa Coma,
Quando, schivo del mondo, a' più deserti
Lochi a far guerra co'l dimòn si addusse,
Visto appena l'Eroe, forte uno strillo
Mise, e incontro balzògli, a quella forma
Che al petto del fratel corre il fratello,
Poi ch'oltre i monti e i mari errò lunghi anni
Fuor del tetto paterno. Si ritrasse
Lucifero, e al bizzarro ospite a mezzo
Con la riversa man lo slancio ardito
Troncò. Di subita ira egli s'accese,
La lunga coda saettò, battè
Rapidamente le palpebre bianche
E i labbri sottilissimi, e in acute
Voci proruppe:
—O to', non siam fratelli?
Non siam da un padre sol tutti discesi?
O che crede davver, che sia piovuto
Dal paradiso, e che il signore iddio,
Tolto il mestiere di burattinaio,
Sia sceso in terra a prendersi la bega
Di plasmarlo a su' immago? Ih! levi l'unto!
Le manca proprio il sale! E che cipiglio!
Che fumi! Si diría ch'ha il sole in tasca.
Guardi un poco il su' cranio e questo mio,
E poi mi sappia dir!—
—Molto sapiente
E molto ameno in ver tu sei, rispose
Lucifero, e fior fior del labbro arguto
Un sottil sorridea riso tagliente;
Or sì che possiam dir, che in ogni dove
Penetra il raggio di Sofia! Ma nulla
Meraviglia ho di ciò: molti a te pari
Han dottrina fra noi!—
—Nè meraviglia
Certo esser dee. Che! Forse a voi soltanto
È concesso il sapere? Oh! guarda un poco,
Che la madre natura abbia a lor soli,
In grazia de la lor vertebra ritta,
Nascosto fra la zazzera e gli orecchi
D'ogni cosa il bernoccolo! Ma smetta;
Le son borie, non più. Qui fra quest'ampie
Solitudini nostre anche sorride
De la Scïenza avvivatrice il raggio;
E fratelli siam noi! Da la materna
Asia, ad ambe le specie inclita culla,
Venne a catechizzar le nostre genti
Un vecchio, dotto e reverendo urango,
Dal cui labbro eloquente a noi fu tutto,
Dopo lunga ignoranza, il ver palese.
Bocca d'oro ei fu detto e adamantino
Senno. Ma poi che ad esplorar qui venne
Non so qual'orda di dottor tedeschi,
L'abbindolaron sì, ch'ei svelò tutta
E distillò nei lor cervelli adusti
La peregrina sua scïenza; ond'essi,
Gazze vestite de le penne altrui,
Or di tanto saper fan mostra al mondo.
Sì; fratelli noi siamo! Ei ce l'ha detto
Le mille volte, ed io te lo ricanto
Per tuo dispetto su la faccia: O figlio
Di scimmia, addio!—
—Per un par tuo, ragioni
A meraviglia. Una catena immensa
Iside ha in mano, e non avvien che mai
Nel crear s'interrompa: ogni vivente
Specie è un anello, ed un anel noi siamo
De l'immensa catena, il più perfetto
Finor, l'ultimo no. Ciò non vuol dire,
Con buona pace del dottor gorilla,
Che l'uom da voi discende, o ver ch'entrambi
Han comuni le doti e il nascimento.—
—Sissignor, vuol dir questo, appunto questo;
La non m'esca dal rotto de la cuffia:
Noi siam fratelli, siamo uguali, e uguali
Dritti abbiam su la terra. O sta' a vedere,
Che l'universo sia creato apposta
Per far comodo a loro! Un giorno o l'altro
Lei vedrà, mio signor gonfio di vento,
Se noi libere scimmie incivilite
Verrem fra loro a reclamar tal dritto!—
—Provatevi! Ci son gabbie e catene,
Fra cui strette per ben, sarete esposte
A dar di voi spettacolo ai fanciulli!—
—Lei non sa che si dica! Io le perdono,
Perchè sono evangelico! O che crede,
Che noi libere scimmie incivilite
Non siam buone a far nulla? Che mi ciancia!
Noi siam da più di loro! E le par poco
Saltar pei rami, saccheggiar foreste,
Gioir la voluttà per fin da soli
Senz'aiuto d'amica? Oh! s'è pur vero
Che il ver somiglia a l'olio e viene a galla,
Nostro sarà il trïonfo. Io pure, io stesso
Predicherò l'origine comune,
L'eguaglianza dei dritti in fra le specie
E la comune libertà! Dovessi
Suggellar co'l mio sangue il parlar mio,
Vuo' diventare apostolo; e, infilati
Giubba e guanti ancor io, salir su l'alta
Cattedra di Darvino a dar responsi!—

CANTO DECIMO.

ARGOMENTO.

Sorge la notte, e l'Eroe resta smarrito nella foresta, dove prova le sofferenze dell'umana natura.—Lotta con un giaguaro, di cui rimasto vincitore, abbandonasi al sonno.—Rivede Ebe nei sogni, e torna per poco ai dolci vaneggiamenti d'amore.—La giovinetta silenziosa si tramuta a un tratto in un orribile fantasma.—Iddio, vedendo così travagliato il suo avversario, crede agevole impresa il domarlo.—Lascia il letto, cavalca l'asino di Betlem, e scende in terra.—Trova Lucifero, e cerca da prima con superbe parole, poi con astute promesse venire a patti; ma questi tien fermo, e lo caccia da sè acerbamente.—Liberatosi indi a poco dalla foresta è ospitato dalla povera Sara.—La schiava nera e lo schiavo bianco.

Sorge fra tanto oltre ai terreni alberghi
Co' crepuscoli al piè la notte amica;
E di mille colori ornati e cinti
Le si sveglian sul capo astri e pianeti.
Malinconica e muta ella riguarda
Ai rei travagli de la terra, e spira
Le brezze ai fiori, ed ai mortali il sonno.
Salve, o splendida notte, inclita madre
Di dolcissima quiete, o che ti piaccia
Covrir d'ombre pietose amor furtivo,
O svelar tutta a uman guardo l'audace
Visïone degli astri e l'universa
Armonia, che ne fura invido il sole.
Da le cupe foreste, ove si aggira
Il signor de' miei canti, io chiamo indarno
La bellezza dei tuoi Soli e le gemme
Dei tuo' cento diademi: a Lui non uno
Splende dei raggi tuoi; sol dentro al petto
Gli arde la luce de le sue speranze.
In compagnia de' suoi fantasmi, a pena
Ei de l'ombre s'accorse; e, vòlto il passo
Fuor del dritto sentiero, a una deserta
Arida balza d'ogni vita priva
Era intanto venuto. Irte d'intorno,
Come a guardia del loco orrido e scuro,
Rupi e monti s'ergean squallidi a guisa
Di biancicanti scheletri; fuggía
L'ingrato aspetto e s'ascondea la luna
Fra le nubi correnti, e imprigionato,
Come chiuso leon che tenti un varco,
Tra l'aspre rocce ruggía rauco il vento.
Ivi l'Eroe si assise. Un'insüeta
Punta di fame gli mordea le parche
Viscere, e dentro al seno arido e stanco
Una brama di vive acque e d'aperto
Aere e di luce gli serpea. Sgomento
Non però n'ebbe al cor; ma con superbo
Animo accolse la terribil prova,
Poichè gli è grato comportar travagli
Pari a ogni altro vivente, a cui l'amica
Forza del pane il mortal corpo allena.
Vago di nuovi casi, occhio ei non piega
Ad alïar di lusinghevol sonno
Da la tacita e grave aere cadente;
Ma nel caro pensier volge le prove
Dei suoi buoni mortali, e traforate
Alpi vagheggia e aperti istmi e volgenti
Per lo seno del mar parlanti elettri.
Su per l'aride rocce ode in quel punto
Come un confuso affaccendarsi e rotto
Fruscío di penne e sibilar, che agguaglia
Suon che mandi uman labbro e noto segno
Di cacciator, quando tra' folti grani,
Di cui mareggia interminato il campo,
Modula il fischio a ravvïar l'amico.
Ma voci eran d'augelli, a cui concessa
È una strana virtù: fischiano al vento
Siccome uomini veri, e illudon l'alma
Di qualche afflitto pellegrin, che, pèrso
Ogni spirto di lena e abbandonato
D'ogni raggio di speme e di salute,
Su l'inospite landa il corpo gitta.
Ben al grido fallace a mala pena
Sul digiun ventre ei talor sorge; a l'aura
Tutta la fuggitiva anima intende,
E forse in quel momento al cor gli torna
Il dolce aere natío, l'abbandonata
Casa paterna e de la madre il pianto.
Sorge, aspetta, ricade, si strascina
Delirando fra' sassi; a un grido estremo
Schiude l'aride labbra, un rauco suono
Gli geme entro la gola; adugna e morde
L'avara terra; e il ciel rigido intanto
Sovra il capo di lui splende e sorride.
Così a le disperate anime insulta
La beffarda natura!
Al suon fallace
Sorse l'Eroe, nè stette in forse.—Or tutto
Convien, diss'ei, che il mio vigor s'adopri;
Arida e morta è questa valle, e segno
Di salute non ha; vadasi.—E preso
L'aspro sentier, non pria l'orme contenne,
Che un ampio fiume e la foresta attinse.
Chiare e sonanti dirompeano l'acque
Fra due tra loro opposti e coronati
Di negra selva smisurati monti,
Al cui piè si stendea facile e molle
D'erbe infinite ed odorose il piano.
Piomba il fiume da l'alto, e se tu il miri
Biancheggiar da la lunge al cheto sguardo
Dei radïanti plenilunî, un'ampia
Vela il dirai, che il marinar su' negri
Aprici scogli a rasciugar distese;
Ma se più ti fai presso, un fragor cupo
D'immense acque tu senti; al ciel, conversa
In polve minutissima, tu vedi
Balzar la ripercossa onda, e in un velo
Confonder gli astri ed annebbiar la valle.
Quivi l'Eroe non si appressò; ma in parte,
Ove men cupe si schiudean le sponde,
E avean meno di bosco ombre e paure,
La fresca linfa disïando, scese
Per la lubrica china; insinuössi
Fra' canniferi greti, e ne le cave
Palme attingendo i prezïosi umori
Ricrëò l'arso petto; ambe ne l'onda
Con giocondo piacer le braccia infuse,
E battendo le pure acque, più volte
Ne spruzzò, ristorando, il volto e il crine.
Ma non pria lasciò l'onda, e si rïebbe
Del cammin tanto e de l'ingrata arsura,
Che un vicino il percosse ululo e un lungo
Scoppio di strida e di commosse voci
Varie, acute, incessanti. Ad improvvisi
Urti crollavan bruscamente i rami
De la selva vicina, e quindi e quinci
Confusamente saltavan strillando
Le aggredite bertucce. Il piè ritrasse
Dal margo sdrucciolevole, e a la sponda
Lucifero balzò; lo sguardo in giro
Mosse esplorando: tenebroso intorno
L'aere gemea, mentre due roggi, acuti
Punti fendean, come infocati dardi,
Sinistramente de la notte il seno.
Muti muti pe'l negro aere procedono
Or cheti e lenti, or saltellanti e rapidi;
Or tra cespugli del sentier s'involano,
Or più vicini e più funesti appaiono.
Sta Lucifero intento; e, certo omai
Che insidiosamente a lui si appressa
Il terribil giaguaro (un'omicida
Belva, che, a par del tigre agile e grande,
Salta agli alberi in cima e a l'onde in seno,
E boschi e fiumi d'ogni strage infesta)
Tenea l'anima accorta in due sospesa:
O che indietro si tragga e si nasconda
Nel contiguo canneto; o su l'aperto
Sentier l'orrida belva aspetti al passo.
Senno miglior questo gli parve; e, tutta
Con alato pensier l'alma percorsa
E con subito sguardo il loco intorno,
A la lotta si accinse. Era in quel punto
Tra' fitti rami penetrato un fioco
Raggio di luna. Un aspro, arduo macigno,
Ivi a caso giacea: dai circostanti
Gioghi a valle caduto, una regale
Possa parea, cui da' superbi troni
Una vendetta popolar sconfisse.
A lui corse l'Eroe; con ambe mani
L'afferrò, lo levò: le ferree braccia
Sovra il capo distese; un dietro a l'altro
Pontò i validi piedi, e tal si tenne
L'irto mostro aspettando. Orrido un grido
Manda la belva, e caccia fuor dagli occhi
Sanguinosi baleni: a terra il bianco
Ventre ingordo distende; i fulvi arruffa
Peli del dorso, e di serpente a guisa
Strisciando si divincola. Qual suole
Paziente pescador, che, intento a l'amo,
Entro a le trasparenti acque del lago
Vede a un tratto guizzar cefalo o trota,
Quanto più può su' nereggianti sassi
Fermo, senza respir tiensi; l'avvezza
Destra, che regge la pieghevol canna,
Serra validamente, e, vista appena
Pullular l'onda e tendersi la lenza,
Fuor, con subita stratta, a l'aere avversa
Trae, guizzante ne l'amo, argenteo il pesce;
Così tutt'occhi e senza voce o moto
L'astuto Eroe l'orrenda belva aspetta,
Che con feroce voluttade allungasi
Su l'erboso sentier, vibra l'accorto
Sguardo, e sbuffa così che par che rida.
Ma quand'ei stanco d'aspettar l'assalto
Tentò un passo impaziente, e scagliar finse
L'elevato macigno, urlò, ritrassesi,
Il corpo agglomerò, sul ventre osceno
Strisciò a ritroso il mostro irto, e qual dardo
Si vibrò. Mugulare odi a l'intorno
La valle ampia e tremare arbori e rupi,
Non però il petto de l'Eroe: di tutto
Polso ei sostien l'ampio macigno; al fiero
Assalitor fermo l'oppone, e al petto
Gliel dà così che lo travolge, A terra
Piomba la belva, e non sì tosto il suolo
Sfiora co'l dorso, che di pria più fiera
Salta, e si avventa a più mortale assalto.
Sangue ha negli occhi, e sanguinosa bava
Vomita e sbuffa, e rugghia, e d'ogni verso
Pazzamente si vibra, e senza posa
L'Eroe tempesta, e gitta a l'aria i morsi.
Scaglia alfin questi il sasso, e tanta è l'ira
Smisurata del cor, che giù d'un crollo
Rovina anch'ei su la percossa belva.
Or più fiera è la lotta: in un sol groppo,
Corpo a corpo avvinghiati e braccia e branche,
Si avviluppan fra l'ombre; echeggia il cielo
Di rauche voci e di ruggiti; a rivi
Sgorga il sangue su l'erbe; ed essi avvinti
Ferocemente in amplesso di morte
Balzan, piomban, s'avvoltan, si precipitano
Fra le spine, fra' sassi e le nemiche
Tenebre. A l'orlo d'un burron vicino
Vengon così. Pende sul negro abisso
Una fitta boscaglia, a cui la foga
Dei sonori torrenti ignude lassa
Le nodose radici. Ivi, protette
Dai folti rami, e dal burron difese,
Godean sede tranquilla e secol d'oro
Una tribù d'amene scimmie. Il fiero
Caso le tolse agevolmente ai sonni,
E la lotta avvisando, a salti, a strilli
Facean pazza baldoria; e, qual con mano
Qual con la coda attorcigliata a un ramo,
Quale a un piè, quale ai fianchi a la vicina,
L'une a l'altre atteneansi, e fean pendente
Catena sui pugnanti ospiti, a cui
Or tiravan sul capo una selvaggia
Noce, e svelte fuggíano, or fin sul dorso
Di lor scendeano a provocar le due
Alme feroci a morsi, a sgraffi, a strilli.
Non però si ristanno, o svolgon l'ira
Color che in fiero abbracciamento avvinghiansi
Presso al burron. Preme l'Eroe co'l dorso
Il ciglion de la balza; a lui su'l petto
Insta la belva: con la bronzea destra
Ei l'abbranca a la gola; al perigliante
Corpo con l'altra fa puntello, e attiensi
A le dense radici. E già su'l volto
Qual d'aperta fornace il vampo ei sente
De le putide fauci; a caldi sprazzi
Piovegli sui schizzanti occhi e l'acceca
Una bava sanguigna; un rugghiar cupo
L'assorda; e già de l'arrotate zanne
Contro a le tempie sue crocchian le punte,
Quando tutta con fiero urlo chiamando
La rabbia al cor, la forza ai polsi, un lancio
Dà su'l dorso così, che sorge a un punto
Libero in piè, mentre da lui travolta
Precipita la belva, e giù nel fondo
Burron piomba rugghiando, e l'aere introna.

Lacero e stanco il vincitor si asside
Su le fresche erbe, appo la sponda. A rivi
Giù per lo collo gli discorre ai fianchi
Misto al sangue il sudor; corto e sonante
Dal suo petto affannoso esce il respiro;
Un cozzar di confuse opre e di cose
Gli turbina sugli occhi e il cor gl'ingombra;
Finchè a balzi, a sussulti, e tutto cinto
Di bizzarre faville e ceffi strani
Sopra gli piomba, e al suol l'avvince il sonno.
Come nei procellosi artici mari,
Quando aquilon più li flagella, a stormo
L'irte dïomedèe saltan su' flutti;
Gavazzano fra' nembi, e al mugghio orrendo
Del travolto oceàn mescono il grido:
Vede il nocchier fra le stridenti antenne
Svolazzar le sinistre ali, e maligni
Spirti le crede, e si raggriccia e agghiada;
In simil guisa de l'Eroe dormente,
Nel turbato pensiero orride e scure
Venían fantasme, e gli scoteano i sonni.
Ma come avvien ne l'incostante ottobre,
Mentre un subito nembo apresi e versa
Sopra a l'umile vigna acqua e gragnuola,
Fuor da le plaghe occidental si desta
Una provvida brezza; un chiaro e bello
Occhio d'azzurro si dischiude in cima
De la bruna montagna; a par di dardo
Da l'arruffate nubi esce un diritto
Raggio di Sol, che i sommi arbori indora;
Brillan le foglie susurrando, e tutti
Odoran timo e nepitella i campi;
Tal fra' torbidi sogni una tranquilla
Visïone d'amor tacitamente
Sorgea ne la commossa anima, e al cheto
Ventilar de le penne vi spandea
Il mesto raggio d'una rosea calma.
Come talor nei lucidi cristalli,
Che ne stanno di contro, una diletta
Forma veggendo, a lei con l'alma in festa
Drittamente corriam, nulla avvisando
La virtù del riflesso; in simil guisa
Entro a un candido sogno avvolta e viva
Nel pensier del dormente Ebe splendea.
Balzagli il core a tanta vista, e aperte
Le braccia:—Oh! vieni, le dicea, deh! vieni
Su'l petto mio, dolce alimento e pace
Dei travagliosi giorni miei! Sorride,
Sol ch'io ti guardi, nel mio cor la vita
D'ogni speranza mia; splendon più vivi
Gli ardimenti de l'alma, e più vicino
Nel mio baldo pensier veggio il trïonfo!—
Co'l perdono negli occhi ella assentía
Di sedergli d'accanto. Ei torna ai sogni
Del primo amor.
—Da pochi giorni il sole
Sul mio capo splendea: festa di fiori
Era tutta la terra; e tu, regina
D'ogni candor, mi sorridesti come
Sorridon l'alme, allor che un'amorosa
Forza le chiama ad apparir negli occhi.
Oh! che giorni d'ebbrezza!—
Ella a quei detti
Pensosa e scura divenía.
—Ricordi,
Ei riprendea con sospirosa voce,
Oh! ricordi quei dì? Facil conquista
Mi parve il ciel, poi che t'amai. Mi svelsi
Crudelmente da te; deserta e chiusa
Nei dïafani sonni ti lasciai,
Ma un trono eressi a l'amor tuo, che in petto
Portar vogl'io fin che no'l ponga in cielo!—
Ella piangea. Qual trepida fiammella,
Che s'assottigli a l'apparir del giorno,
Tal poco a poco si facea più bianca
La pietosa fanciulla, e a poco a poco
Il dolce aspetto e i rosei pepli e gli atti
Trasfigurando, un'orrida assumea
Mostruösa sembianza: ispide e negre
Di sozza barba ambe le gote; attorti
Di tizzi ardenti e di serpenti i crini,
E fra' serpenti, in mezzo al fronte, un vasto
Occhio, senza palpèbre immoto e tutto
Fiammeggiante a l'intorno. A questa guisa
Sorgea dal suol nera, diritta, immensa,
E un gemer lungo al sorger suo si udía
E scricchiar d'ossa e maledir. Non ode
L'irto fantasma, e ognor sorge e si spande,
E l'aria ingombra e il cielo ultimo attinge.
Tocca il cielo co'l capo, e con la negra
Pelosa man, che immensa apresi, afferra
L'etereo sole, e lo palleggia. Un denso
Nembo di notte si rovescia allora
Su la terra infelice; ingordi e vasti
Mille sepolcri si spalancan; passa
Sibilando la Morte; e s'ode un fiero
Gracchiar di corvi e sghignazzar di Numi.

Così il lungo digiuno e la fatica
D'una ad un'altra visïon trabalza
Il pensier de l'Eroe, quando, in lui fiso,
Il Signor dei celesti:—Ora è stagione,
Disse in cor suo, che il mio rival conquida!—
Gli aurei letti lasciò, senz'altro aiuto
Che il veloce desio; s'avvolse un manto
Ampio, turchino come ciel d'autunno;
A la fredda canizie un vasto impose
Tricuspide lucente, e, sotto al braccio
Un aureo accomodando orbe stellato,
Simbol de l'universo, al più vicino
Dei presèpi del ciel cheto avvïossi.
Ivi, poichè di Giosuè la verga
Del sole il cocchio a mezzo il ciel sostenne,
E impietriti restâr di sotto al giogo
I fulminei cavalli, una falange
D'umili sì ma intelligenti onàgri
Pasce in greppie d'argento orzi ed avene
Di tal virtù, che nel lor sangue infonde
Gaio tripudio e giovinezza eterna.
Non appena sentîr sovra la soglia
La presenza del Dio, tutti in un punto
Drizzâro i colli ed affilâr le orecchie
Lievemente anelando; e, a lui rivolti
Con dolci e riverenti occhi, la voce
Del comando attendean. Videli il Nume
Lucidi e belli, e ne gioì; ma il cenno,
Che tutto può, volse a te solo, o illustre
Asin di Betelèmme, a cui su'l dorso
(Premio dell'opra, onde immortal tu vivi)
Crescon due luminose ali, per cui,
Pregio da tutti invidïato, e solo
Da Dio concesso a le beate essenze,
Varchi il cielo senz'orme e l'aer fendi.
Tu presentisti il divin cenno, ed ambe
Le ginocchia piegando appo a la ferma
Con chiovi adamantini aurea predella,
Offeristi umilmente il dorso alato.
Fe' forza il Nume, e vi montò; si attenne
Con ambe mani a le pietose orecchie
Del diletto onigrífo; ai ben pasciuti
Fianchi gli strinse le ginocchia inferme,
Gli occhi serrò, diede la voce, e via
Lascia il ciel, passa l'aere, e giunge in terra.
L'Eroe trovò, che scosso il sonno, e, fermo
Più nel pensier che ne le membra affrante,
Ritentava il cammin. Presso a un cespuglio
Lasciò il volante corridor; si eresse,
Quanto potè, su'l curvo dorso; un grave
Cipiglio assunse, e a misurati passi
Movendogli d'incontro, in tuon solenne:
—Lucifero, gli dice, ov'io con l'ira
Dar fin volessi a l'ira tua, me stesso,
Che Dio di tutto e re del ciel pur sono,
Qui non vedresti al tuo cospetto: avvinto
Dal cenno mio sotto al mio piè, potría
Scatenarsi al mio cenno il saettante
Fulmin, che a par d'ogni superba altezza,
Le sdegnose e proterve anime adima.
Ma l'ira mia tu la conosci; or sappi
La mia pietà. Stanco non già, ma schivo
Di pugne io son: di nostre pugne assai
Travaglio ebbe la terra; assai di umane
Vite olocausto ebbe il mio sdegno. Io miro
Con paterno dolor quest'infelice
Schiatta de l'uom, che, lusingata e vinta
Dai tuoi falsi giudicî, erra perduta
Fuor de la via d'ogni salvezza, e il frutto
Di tue promesse e la vittoria aspetta.
Ma, stolta! indarno aspetterà! Smarrito
Fra queste ombre tu stesso, ecco ti aggiri
Tu, che da le fallaci ombre presumi
Redimer l'alme dei mortali, a cui,
Ira e invidia non già, ma provvidente
Consiglio mio gli ultimi veri asconde.
Sgombra adunque la terra; abbian riposo
Le genti alfin; torna ai tuoi regni, e intero
Scenderà su'l tuo capo il mio perdono.—
—Di perdon parli e di pietà, proruppe
Disdegnoso l'Eroe, tu che di tutte
Le sciagure de l'uom colpevol vivi?
Ma stolta è l'ira: ombra tu sei di nume,
Sol vivente in parole; ond'è, che irato
Non ti temo, e pietoso io ti dispregio.
Lasciami adunque a le mie cure: avranno
Pace le genti, e non da te; nè pace
Neghittosa e servil; di guerra stanco
L'uom non sarà pria di saper che vuota
Larva sei tu senza subbietto, e quale
Or t'addimostri al guardo mio. Potessi
Questi sordi, confitti arbori intorno
In uomini cangiar! Vedrían qual vana
Risibil cosa e imbelle ombra tu sei!—
Tacque, e torse le spalle. Un vampo d'ira
Salì al volto del Nume; e la bollente
Rabbia del cor tutta in un punto avría
Fuor versata nei detti, ove non fosse
Sopravvenuta al suo pensier la luce
D'un prudente consiglio. A mala pena
Ei si contenne, e gl'iracondi sguardi
Figgendo al suol, morse le labbra, e disse:
—Sei forte, il so; ma de la tua fortezza
La superbia è maggior, minore il senno.
Odimi; sai, che da nemico petto
Sorge talora util consiglio, e saggio
Io non dirò chi lo rifiuta. Ha un segno
Anche l'ira dei forti, e chi si ostina
A produrla oltre inutilmente, indegne
Sciagure ad altri, e a sè perigli ordisce.
Or credi a me: son paventose e fiacche
L'anime umane, e han di servir mestieri.
Ad uom cresciuto in servitù mal giova
Spirar liberi sensi: a sua rovina
Va tosto incontro; perocchè di tutti
Malnato istinto è il dominar; nè vale
Esser libero d'altri, ove ad un tempo
Di sè stesso è ciascun servo e tiranno.
Però, se il ben cerchi de l'uom, nè stolta
Ambizïon move i tuoi sensi, al mio
Giogo abbandona i servi miei: la forza,
Qual ch'ella sia, legge è del mondo; il resto
Altro non è che nome vuoto e nulla!—
Sorrideva Lucifero, e un sol detto
Non gli fuggía. Con subito consiglio
Pone allora il buon Dio l'aureo emisfero,
Dal manto ampio si svolge, e, simulando
Fra labbro e labbro un giovïal sorriso,
Per man prende il nemico, obliquo il guarda
Con gioconda malizia, e:—Inver, gli dice,
Vecchia golpe tu sei! Che tu mi cianci
Con codesti tuoi fumi? A par di me
Tu gli uomini conosci, e di sonanti
Nomi li gonfî, sol che a Dio ribelli
Spingan la fronte, e tu su lor ti assida!
Giù dal volto la larva! Hai di me al pari
Desio di regno; e, di regnar mal pago
Sovra il trono de l'ombre, una più bella
Sede nel mondo e maggior gloria ambisci.
Or ben: regnar vuoi su la terra? Affido
La terra a te. Vuoi che tremanti e prone
Pendan le genti dal tuo labbro? il fronte
Pieghin popoli e re sopra la polve
Del tuo santo calzàre? Abiti e modi
Cangia. V'è tal sovra la terra, a cui
Nullo agguaglia in poter: brando che uccide
È la parola sua, fulmine il guardo;
A lui d'umani sagrificî intorno
Vaporano gli altari; incatenato
Ai carri suoi geme il Pensier. L'aspetto
Di lui tu prendi, e nome e gloria e regno
Di pontefice avrai!—
Commiserando
Scotea l'Eroe la testa, e in cotal guisa
Con voci amare rispondea:
—Nemico
Che scenda a patti è mezzo vinto; e a patti
Non sol tu scendi, e vinto sei, ma involto
In una cieca illusïon mi desti
Ira insieme e pietà. Quella gagliarda
Possa d'uom, che tu vanti, io già la vidi
Regnar nel mondo: le facean sgabello
Le cervici dei re, luce la fiamma
D'umane ostie brucianti; or su la terra
La cerco invan. So che una turpe e vôta
Larva, inutile ingombro, occupa i templi
Di Vatican: stupida larva, il cui
Frollo capo cadente invan protegge
Co'l sozzo manto il precettor Loiola;
Ma in lei, me'l credi, è da gran tempo estinto
Il pontefice e il re!—

—V'è tal, che avviva
Anche la morte, Iddio gridò: tu puoi
Resuscitarlo. Torneranno i tempi
Di Gregorio e di Sisto!—

—Ai tuoi soggetti,
Se alcun pur n'hai, serba tal gloria: io sono
La libertà. Se udir non vuoi la voce
Del mio dispregio, a me parla siccome
Si conviene ad un Dio: fulmina!—

Un grido
Mise il Nume a tal dir; ne l'ampio manto
Fremebondo si chiuse, e, le beate
Groppe al divino corridor premendo,
Per li campi de l'aria alzossi e sparve.

Torna intanto il mattino, e un'aurea luce
Con lo sparir del Dio penetra in mezzo
A la densa foresta. Il luminoso
Auspicio accolse e giubilonne in core
Lucifero; tra' folti alberi un varco
Esplorò disïando, e il passo stanco
A un villaggio contenne: un mucchio informe
Di povere capanne, una su l'altra
Addossate su'l fianco a una montagna,
Che di bosco e di nubi il capo ombreggia,
E giù giù fino al mar scende e digrada.
L'abita e còle una diversa gente,
Varia d'usi e di lingua, a cui, nel nome
De la croce di Cristo, una pietosa
Missïone d'apostoli e di santi
Giogo impone di ferro e il pan contende.
Di doppia mèsse a lor biondeggia intorno
L'usurpata campagna; s'inghirlanda
Di gemina vendemmia il poggio e il clivo
Lussureggiante, e terre e mandre a gara
Recan primizie a le lor mense. Al solco
Durissimo fra tanto, a l'aere impura
Suda il magro colòno; e, se la verga
Del discreto signor non gli distende
Le bronzee terga e lo flagella a morte,
Ben felice esser dee, che possa un giorno,
Dai travagli consunto e dal digiuno,
Cader sovra l'aratro, e con le ignude
Ossa impinguar del pio padron la gleba.

Stanza ospitale il vïator non chiese
A signor ben pasciuto, e non sofferse
D'aver mensa comune ad orgoglioso
Trafficator. Fra poveri pastori
Breve asilo ei cercò; si assise al desco
De la miseria; e a te, povera Sara,
Assentì l'alto aspetto e la sdegnosa
Anima e il dir che umani petti infiamma.
Schiava infelice! Era remota e angusta
Presso al torbido rio la sua capanna;
Era nero il suo volto e nero il crine,
Ma aperto e grande era il suo core, e tersa
Come raggio di Sol l'anima avea.
Fra le miserie di sua vita un giorno
Le sorrise l'amor. Furon men leste
L'opere di sua mano; impazïente,
Immemore divenne; e, sì com'era
Schiava due volte, osò levar la fronte
E agli augelli invidiar libero il volo!
Fischiò sopra a le sue carni la sferza
De l'acerbo signor; percosso e vinto
Dal feroce digiuno a lei da lato,
Sotto agli occhi di lei, vittima cadde
Il giovinetto del suo cor. Qual belva
Ella ruggì; morse ruggendo i ceppi;
Avventossi d'intorno; e allor che in mesta
Calma si assise, e volse il guardo in giro,
S'avvide ognun, che a quella derelitta
Era insieme a l'amor mancato il senno.
Le consentîr la libertà: più tempo
Errò, libera pazza; un dì si accorse,
Che scevra era di giogo; e se di nuovo
Co'l pianger lungo a lei fece ritorno,
Qual fido augello, la ragion smarrita,
Tosto sentì che nel suo cor deserto
Vigile e santa una memoria ardea.
Visse d'allor limosinando, e, aperta
Agl'infelici più di lei, sorrise
Come pòrto d'amor la sua capanna.
Quando giunse Lucifero, sedea
Sovra un poco di strame, appo la sponda
D'un povero lettuccio. Un fanciulletto
Pallido, emunto e con la morte in core,
Disteso, ansante ivi giacea. Poggiata
A la scura parete eravi un'arpa
Lurida tutta e con più corde infrante;
A piè del letto un lacero fardello,
Un nero tozzo, e rovesciata a terra
Una piccola brocca. Il moribondo
Mosse il languido e dolce occhio d'intorno,
E, qual chi una pietosa alma indovina,
Affisò lo stranier tacito, e il biondo
Capo crollando, le sparute e bianche
Mani al petto portò; baciò più volte
Un abitin che gli pendea dal collo,
E:—Vedete, signor, disse, vedete
Com'han ridotto un misero fanciullo!—
E a mala pena sollevando un lembo
De la grezza camicia, insanguinato
Da recente flagel mostrava il petto,
E singhiozzando ripetea: vedete!
Mandò un grido l'Eroe; ferocemente
Rotò il guardo la schiava: il poverino
Mormorava piangendo:
—Eran pur belli
I monti e il cielo de la mia Cosenza!
Ero tanto bambin, povero tanto,
E mi parea d'esser felice! Un giorno
Mi diedero quell'arpa: io canticchiava
Con gli augelli del ciel. Quando lasciai
Il mio tugurio, luccicar su'l desco
Vidi alquante monete: era sì allegra
La mamma mia, ch'io le nascosi il pianto,
Nè le volsi un saluto. Uno straniero,
Ch'altri fanciulli al suo comando avea,
Con sè mi prese: eravam tanti! In giro
Strimpellando le nostre arpe si andava
Per le città, scalzi, soletti, stanchi,
Senza letto, nè pane, al sole, al vento
Alle piogge, alle nevi ed alla sferza
Del rio padron, cui parea scarso il frutto
Di quel nostro accattar cotidïano.
L'altrier, consunto dal continuo stento,
Un fanciullo moriva: e tanti e tanti
N'eran morti così! Ci amavam come
Due fratelli infelici: eravam sempre
L'uno accanto de l'altro. Un dì un allegro
Ritornello io cantava; ei con le scarne
Dita seguía su l'arpa a gran fatica
La mia pazza canzon. Tacquero a un tratto
Le monotone corde: il poverino
Cadde, nè più si rïalzò. Non ebbi
Più memoria di me: fuggii la vista
De l'odiato signor. Mi trovò il crudo
Presso al cantuccio d'una via romita,
Che l'amico piangea; mi picchiò tanto,
Che mi parve morir. Questa pietosa
Da la via mi raccolse.—
Ed additando
Quell'infelice, che gli stava a lato,
Fra' singhiozzi tacea. Tacea pur essa
La sventurata, e si stringea sul petto
L'affannato fanciullo.
In su la soglia
Splende un raggio di Sol; saltella e canta
Un'amorosa cingallegra. Al seno
Le tenui braccia il fanciullin compone,
Guarda in alto, e sorride.
—Oh! non lasciarmi,
Così fra' baci gli dicea la schiava,
Non partire sì presto! Abbandonata,
Vedi? son io; son poveretta e mesta;
Io t'amerò come una madre!—
Un balzo
Diè a tal nome il fanciullo; il moribondo
Sguardo avvivò d'un ultimo baleno,
E fieramente mormorò;—Mia madre?
M'ha venduto mia madre!—
A questa voce
Fuggì il vispo augellino, e a l'aere immenso
De l'oppresso bambin l'alma il seguía.

Tacita, con selvaggio atto, a la sponda
Del letticciòl si accovacciò la schiava;
E tutto ira e pietà fuori a l'aperto
Precipitossi il Pellegrin. Gli ferve
Sotto ai passi la terra; al mar si affida
Subitamente, e ne l'acceso petto
Le remote sospira itale sponde.

CANTO UNDECIMO.

ARGOMENTO.

Canto all'Italia: le tre civiltà; l'Alighieri; l'ultima guerra d'indipendenza; l'ossario di Solferino; il traforo del Cenisio.—Lucifero arriva; apostrofa al Po; scende in Toscana; è ricevuto nella casa d'Egeria, dove si adunano i più famosi genî dell'Arte moderna.—Le donne emancipate; il filologo Macrino; un poeta demagogo; un commentatore di Dante; Delio, gazzettiere; un camaleonte onniscibile.—Il poeta Olimpio e la sua dama.—Lucifero, creduto spiritista, finge evocar l'ombra del divino Poeta; il quale fulmina sdegnosamente poeti svenevoli e atrabilari, drammaturghi da scuola e da piazza, musici intronatori ed istrioni bastardi.—Olimpio, che si offende, sfida l'Eroe a un duello; ma questi si rifiuta con parole di superbo disprezzo.

Da le nevate cime
Di quest'alpe famosa io ti saluto,
Di gloria e di dolor magion sublime!
Ti veggio alfin! Qual suole
Nocchier che lungamente erra perduto
Per l'irata del mare onda funesta,
Se da lontan vede la terra e il sole,
Crede a speranza il petto,
Tale al tuo primo aspetto
Dice il mio cor: la nostra patria è questa!

Non io, perchè più terso
S'apra il ciel su' tuoi campi e il Sol sorrida,
D'egregie lodi accenderò il mio verso.
Fra gl'iperborei geli
Avvien talor che rigorosa e fida
Splenda virtù, quando per liete rive,
Ch'àn fragranza di piante e amor di cieli,
Superbe e infeminite
Volgon le umane vite
D'ogni ardito operar pavide e schive.

Chiede animosi petti
L'Eroe ch'io canto ed operosi ingegni,
A cui pari in virtù fervan gli affetti.
E tu che il doppio mare,
Coronata sovrana, inclita regni,
E fra il riso de l'arte e i fior t'assidi,
L'opre gentili e le gagliarde hai care
Così, che altera e grande
Per quadruple ghirlande,
Sorgi su le rovine, e il tempo sfidi.

Te di sottili e forti
Studi educâr gli Etruschi padri, il cui
Pronto ingegno temprâr gli Egizii accorti.
Splendea fra le temute
Armi e gli altari minacciosi e bui
L'aureo foco di Vesta, e fean leggiadre
L'ardue cure del ciel le Muse argute;
Fin che del Tebro al lito
Un fiero ululo udito,
Volâro in grembo a la Cecròpea madre.

Calò dal cielo estremo
L'augel fulvo di Giove, e le saette
A l'audace apprestò lupa di Remo.
Sorge Quirino; al lampo
Del suo brando forier d'aspre vendette
Crollano i troni; da la terra a l'etra
A le vittorie sue piccolo è il campo;
Mentre fra'l suon de l'armi
Echeggian d'Ennio i carmi,
Di Plauto il riso e di Maron la cetra.

Chi siete voi, che a guisa
Di affamati leoni or prorompete
Da le nordiche selve, e, a la conquisa
Madre squarciando il petto,
Sì fier costume d'ogni strage avete?
Ma qual non apre ad avvenir lo sguardo,
E de l'istante ha sol tema o diletto,
Impallidisca e gridi
Al suon dei matricidi
Brandi, e vesta di lutto il cor codardo.

Cantor, che a la palestra
De la vita allenò l'alma e l'ingegno,
I casi ad indagar la mente ha destra;
Spregia il parer fallace,
Che fa pago ed esalta il vulgo indegno;
Sol nume ha il Vero; ombre non teme; sfida
Del presente favor l'aura fugace,
E, profeta a le genti
Di ragionati eventi,
Guarda il passato e a l'avvenir le guida.

Ecco, fuggir dal truce
Cozzo vegg'io dei sanguinosi acciari
Faville che da poi diêr fiamma e luce:
Arde una forte e nova
Anima i petti; a non segnati mari
Gonfia immenso un desio le vele industri;
Fervon le menti e le fatiche a prova;
A chetar l'ire orrende
La libertà discende
D'armi gagliarda e di commerci illustri.

Sorge a la Diva accanto
Disdegnoso uno Spirto, a cui nell'ira
Divien foco il pensier, fulmine il canto.
Superba aquila al nembo
Fida il volo, e combatte; e allor che mira
L'etereo Sol, che d'amoroso dardo
Punge e ravviva al vasto essere il grembo,
Per l'aere ardente e pura
Spaziar gode secura,
E nel fuoco del cielo appunta il guardo.

Egli così le inferne
Sfere lasciando e le pugnaci erini,
Che mortali accendean l'ire fraterne,
E d'ombre orride e d'ossa
Tarda e incerta facean l'orma ai destini,
Errò, divo mendico; al ciel co' carmi
Surse, e attinta del Ver l'aura e la possa,
A inaspettati eventi
Chiamò l'itale genti,
Lor diè vita e parola e patria ed armi.

Dai maledetti avelli
Balzan gli eroi; splendono al Sol gli acciari;
Quei che avversi morîr, sorgon fratelli:
Arde la pugna; stride
L'Arpía de l'Istro; dai venali altari
L'irto Levita invan s'adopra e freme…
Viva il Sabaudo allòr; vivan le fide
Schiere dei nostri eroi,
Viva tu pur, che a noi
Desti i tuoi prodi, e a noi vincesti insieme!

Dove sei tu? Non odi
L'aura del generoso inno, che, schivo
Di tanti ingrati, osa innalzar tue lodi?
Leva dal tuo recente
Sepolcro il capo, e guarda ove ancor vivo.
Più del ricordo, è dei tuoi prodi il sangue.
Qui pugnâr, qui morîr, qui di fulgente
Serto ornò Italia il crine,
Qui le genti latine
Si unîr d'un patto in su'l nemico esangue.

Mira! Un sol tempio accoglie
L'ossa delle due genti, e a lor confuse
Del domato stranier dormon le spoglie.
Dormite! Una parola
Fremono i vostri sonni; e da le chiuse
Ombre di morte una gran luce emerge:
Vivono al raggio d'una fiamma sola
Le umane anime; ed una
Morte le gente aduna,
E ne l'onda del Ver tutte le terge.

Dormite! Al santo amplesso,
Che in una morte e in un amor vi serra,
Tragge Italia gli auspicî. Il brando ha cesso
A la guaína, e cinta
Sol di virtù suoi baluardi atterra.
Regna Amor l'alme, Amor varca gli abissi,
Penetra il mar: cade al suo soffio estinta
L'ira dai petti; e, al pari
Che nei confusi mari
Vedi gl'istmi cader squarciati e scissi,

Cedono al nume il passo
Le domate montagne; a lui da lato
Scende l'italo genio. Odo il fracasso
De le divelte rupi;
Rugghia per li rotti antri il vento irato;
Al martellar degl'inventati ordigni
Tuonan l'opre pe' negri anditi cupi:
Ecco, ne l'ardua gola
Fischia il vapor che vola;
Echeggian gli antri; gli ultimi macigni

Crollan; concordi e pronte
Gridan le ciurme; il Sol s'affaccia, e cinge
Due raggi a un tempo a due Gagliardi in fronte.
Oh! viva! In armi avvolto
Altri pugni e trïonfi: Amor costringe
In gara industre il genio italo e'l franco!
Ma qual fragor d'orridi bronzi ascolto?
Ne la sanguinea gora
Brenno gavazza ancora?
Di stragi ancor non è satollo o stanco?

Cessa! Di fatuo nome
Tal che ti aggira a l'oprar suo fa scudo,
Pur che la man ti cacci entro le chiome,
E al giogo ti strascini
D'onor, di libertà, di posse ignudo.
Speglio Italia ti sia, che la severa
Alma composta a' liberi destini,
Già spada, or cuore e mente
De la latina gente,
L'alpe dischiude, e ne la pace impera!

Mentre io canto così, fuor dal recente
Varco de l'Alpi glorïando passa
L'alto Amico de l'uomo, a cui ridonda
Di lampeggianti entusïasmi il petto.
Al meriggiar de le populee rive,
Da secreta virtù vinto, si asside
Là dove con selvaggio impeto corrono
Gli eridànei cavalli, e sveglian tanta
Pei settemplici campi eco di guerra.
Passan su le solenni onde, equitanti
Guerriere ombre di re; svolgesi al cielo
L'allobrogo vessillo, e, tutte chiuse
Ne l'acciar de l'altera indole invitta,
Brillan di pugna le sabaude schiere.
—Volgi, o padre Eridàn, volgi i tuoi flutti!
A piè de la famosa alpe, che pàrte
Le due genti latine, argentea e pura
La tua gemina fonte al Sol risplende,
E di origin comune e d'amistanze
Ne fa sacra la terra. Ivi il fuggiasco
Tra il fraterno furor Genio latino
Auspicando si addusse, e custodía
Bella e secura una speranza in core.
L'ombre cercò, di cheto obblio si avvolse,
Ma non così che al balenar del guardo
No'l ravvisasse una gagliarda e fida
Prole di Berengario, a cui fu grato
Di saggio culto e di pietose offerte
L'alma allegrar de l'esule divino.
Santo allor fu il suo scettro; ara divenne
L'alpe ospitale, e sovra il picciol trono
D'Ausonia il core e l'avvenir si assise.
Volgi, o padre Eridàn, volgi i tuoi flutti!
Ben che d'eccelsa e non ignobil fonte
A te accorrono i fiumi; a te dan vasto
Tributo di sonanti acque; a te, padre
Di feconde pianure, ove nei cheti
Argini la natía possa governi;
Padre d'alte rovine, allor che in ira
Terribilmente imperversando abbondi
Fuor degli ardui ripari, e fosco, immenso
Possiedi i campi, e sugli abissi imperi.
Pari a te da la doppia alpe ne venne
Di Libertà l'almo sorriso: al grido,
Che le pedemontane aure percosse,
Tutti echeggiâr gl'itali petti, e ad una
Sorsero a sgominar le schiere ostili.
Pari ai tuoi flutti è Libertà: feconda
D'anime educatrice, ove al governo
Sieda la Legge, e ne rattempri il corso;
Torbida madre di rovine, quando
Oltre ai segni prorompe, e gl'inconcussi
Campi del Dritto pazzamente invade.—

Così dicendo il Pellegrin, la terra
Bellicosa lasciava; e, la commossa
Alma schiudendo a la serena luce,
Che da l'italo ciel l'Arte diffonde,
S'avvïava colà dove tra' fiori
Gareggian di beltà le Grazie etrusche.

Ben avverso alle Grazie e al Bello in ira
Vive, Italia, colui che, su l'ingorde
Arche seduto, in tuon lugubre intuona
L'epicedio de l'Arte! Ignaro, al certo,
Fra la plebe ei si aggira, e mai non pose
L'orma su queste etrusche inclite rive,
Dove tanto su l'Arno arde e sfavilla
Glorïoso splendor, qual mai non ebbe
Ne le trascorse età. Quante su l'orlo
D'un angusto, ritondo orcio, che abbonda
Al sol d'agosto il liquefatto miele,
Con smemorato ardir giran le mosche;
E altre ronzan d'intorno impazïenti
Del ghiotto cibo, altre sparute e gravi
Strascinan le inveschiate ali pe'l vase;
Tanti, e con simil ressa, a l'Arno in giro
Stanno gl'itali genî; e qual più vivo
Del toscano Ippocrene il fonte attinge,
Quel sentirà qual siero entro ogni vena
Scorrere il sangue, e tramutata in latte
Dolce fluïr del fegato la bile.
O arëopago de la patria, o illustri
Apostoli de l'Arte, io vi saluto;
E tu accogli il mio culto e il canto mio,
Città sacra del fior! Chè se ancor vive
Entro a l'itale carte un qualche suono
De la celeste melodia, che corre
Spontanea al labbro de le tue fanciulle;
E s'han grido finor le vereconde
Muse d'Italia, a te dobbiamo il vanto,
A te il pregio, a te il nome. Aspre e robuste
Proli, de l'opre e de le pugne avvezze,
S'abbian Adige e Po; s'abbiano industri
Colòni e pingui campi ed auree mèssi
Le contumaci al culto arduo del bello
Sicule piagge, ed a l'ignobil remo
Sudi il Ligure audace: a voi, d'Etruria
Morbidissimi figli, unico vanto
Sia la storia dei padri, e pregio intatto
La lingua! A noi diseredati ed orbi,
A cui nascendo non ombrò le fasce
La gran torre di Giotto, a noi, se prude
Alcun genio villano entro al cervello,
Altra via non rimane, altra salute,
Che mendicar dietro al vostr'uscio il tozzo
De le vostre merende e qualche cencio
De la vostra di frange auree guernita
Ducal librèa. Qual poverame abietto,
Che per entro a l'altrui vigna, tremante
Dopo il ricolto a raspollar sen viene,
Noi veniamo tra voi, nudi e digiuni,
Cui l'avara fortuna ibrida e grezza
Assentì a mala pena la parola,
Duro e barbaro gergo, atto a fatica
A dir del male ed a non esser muti.

Ma qual prima dirò, qual dirò poi
Dei luminari, ond'ha corona e luce
Il sacro italo ciel? Seduti in giro
Nel tempio accolti d'una Grazia etrusca,
Come in magico specchio, ecco, me l'offre
La mia povera Musa, a cui vien dato
Varcar la soglia del gentil recinto.
E qual solerte domator, che spieghi
De le belve guardate entro a' serragli
La specie varia e 'l soggiogato istinto
E i costumi e le patrie: a bocca aperta
Stan gli attoniti astanti; in simil guisa
Dirò dei genî, ivi in gran folla accolti,
Le fogge, il favellar, gli atti, la fama.

Splende fra le notturne ombre l'augusta
Magion sacra a le muse; e avviluppata
Negli ampî giri de le sue pellicce
Siede l'inclita Egeria, ella, a cui dànno
Equivoca canizie e senno arguto
Le gazzette e la cipria. Ebbe un dì care
Le colombe di Pafo, e la furtiva
Ombra dei mirti e il sacro Erice tenne,
Finchè piacque a Dïona; or de le austere
Opre di Palla si compiace, e amica
Spira gli auspicî ai non vulgari ingegni.
Tien cospicuo al suo fianco il loco primo
L'Eroe ch'io canto. A mortal petto ignoti
Erano i casi suoi; bizzarre e strane
Favole il rivestían: dicean, che avesse
Con sotterranei spirti intelligenza,
E che al suon de la sua voce non fosse
Ombra antica di sofo o di poeta,
Che dal ciel non escisse o dagli elisi
A picchiar le vocali assi e l'arcane
Magiche tavolette, e dar responsi
Chiari e veraci agli ammirati astanti.
Pavide e curïose a lui d'intorno
S'affollano le dame; e tu superba
De l'altera parola anche ne andasti,
Pallida Elëonora, a cui non uno
Dei gelosi misteri Iside asconde;
E voi pur del gentil sesso custodi,
Antigone e Sofia, che, a le tiranne
Velleità d'un ispido marito
Rubellando la fronte, al dispregiato
Talamo nuzïal non inchinaste
L'altero grembo al solo Ver dischiuso.
—E che? l'ultima grida; a noi sul volto
Si chiuderanno ancor l'aule di Temi?
Sul nostro crin splender non dee giammai
L'inclita bacca dottoral? Giù alfine,
Giù alfin la benda obbrobrïosa e nera,
Cui di pudor mal diede pregio e nome
L'astuta crudeltà del sesso ostile.
Nostra è l'età, nostra la terra, è nostro
L'avvenire dei fati! Al cesto, al corso,
A la lotta alleniam le membra ignude:
Solo è libero il forte. Altra il sen porga
A l'esoso lattante, e il tergo inchini
Al feroce baston del suo tiranno:
Madre sarà di servi. A noi, del mondo
Parte migliore, opra miglior si addice:
Femmina è la virtù, femmine sono
A par de la beltà l'arti e le muse!—
Tacque, e fêr plauso ai generosi accenti
Le dame tutte e i cavalier. Tu solo,
Pensieroso Macrin, dal cor profondo
Un sospiro traesti, e, la sparuta
Faccia e i mïopi volgendo occhi, guerniti
Di doppie lènti, a la soffitta avversa
Il ciel cercasti, e ti piombò su'l petto
Tutta la gran pietà d'esser marito.
Degli aurei modi del toscan sermone
Gran maestro è Macrin: spruzzato il fronte
De le linfe de l'Arno in San Giovanni,
Tutti ei conserva ne la ferrea mente
Gl'invidiati lepori, e non soltanto
L'arguto frizzo e la condita burla,
Che scoppietta su'l labbro a la rubesta
Ciana camaldolese e l'aureo favo,
Che amor porge furtivo a l'improvviso
Stornellar degli amanti; anche le viete
Venustà di Cavalca e di Guittone
Con lungo studio egli pilucca e serba.
Tal l'industre formica al sole estivo,
Tratti per lungo tramite, ripone
Nel ben cavato asil bricioli e miche
Con previdente ingegno, paürosa
De l'inope vecchiezza; o tal nei sordi
Scrigni rammassa il trepidante avaro
Non pure ampio tesor d'oro e di gemme,
Ma di rotti serrami irrugginiti
E di chiovi e di cenci e di ciabatte
Nel cupo cassetton gran copia asconde.
Di simile ricchezza adorno e pago
Va per le vie Macrin, lungo, diritto
Qual sciorinata al sole entro la madia
Ben tagliata lasagna; ed ai trofei,
Che a lui su'l crin l'astuta moglie appende,
La gloria aggiunge d'emendati testi,
Di compilate moli e di comenti:
Filologico mostro, al qual s'inchina
Non sol l'ingenuo scolaretto, a cui
Imprime nel seder tropi e figure
Con la sferza eloquente il pedagogo,
Ma quanti son da Susa a Lilibeo
De l'italo sermon cultori e amici.

Ma chi è colui che truculento e instabile
Or da l'un fianco ed or da l'altro volgesi,
E scuote il capo ed agita la zazzera,
E in cambio di parlar gestisce ed ulula?
Demagogo e poeta ei tempra il filo
De la republicana ira a la cote
De l'appetito, e il giambo archilochèo
Spilla al vinifluo doglio, unico olimpo,
Da cui la sua spennata aquila avventa
I fulmini de l'estro. A lui da lato
Nel seggiolon che di sè stesso inzeppa
Posa Moron: rubizza e pettoruta
Mole, a cui da l'aprico orbe del viso
Raggia il fulgor di un cartellon francese.
Al picciol fronte, ai cheti atti, al sereno
Riso, al voluttuoso occhio natante
Tra il vino e il sonno, tra il demonio e Dio,
Frate il diresti, e forse il fu. Qual suole
Al tronco d'un'altera arbore, o ai fianchi
D'un illustre castello arrampicarsi
Co' torti rami la paffuta zucca;
Fatta superba de l'aggiunta altezza
Gl'indiscreti rigogli intorno spande,
E, guardando le magre erbe da l'alto,
Scorda l'umil radice e al Sol rosseggia;
Tal di Dante a la vasta ombra seduto
Sua fama impingua il chiosator Morene,
E la frase imbroccando e il verbo e il nome
Del poema divin, lancia d'intorno
Tal furia di cementi e di saliva,
Che scrocca il plauso al sonnecchioso astante.

Nè te lascia la Musa, o multiforme
Delio, a cui da le labbra, ampia e diversa
Copia di celie e di saver discorre.
Vedilo: come a l'agitar del vaglio
Va saltando qua e là l'arido cece,
Così da la balzana indole spinto
Tra la folla ei s'aggira, e quindi e quinci
Motti e sogghigni ed aforismi avventa.
Smettete, o voi che sovra illustri carte
Vi state a logorar l'ingegno e il tempo,
Perchè a l'arte natía decoro alcuno
E al viver vostro un qualche onor mai vegna:
Così agli astri non vassi! A voi maestro,
A voi speglio costui, che la mordace
Alma e il saper ne le gazzette attinto
Rivende a le gazzette un tanto il braccio.
Inchinatevi a lui! Non che a sè stesso,
Gloria perenne a chi gli par procaccia:
Oracolo solenne, al cui responso
La dotta greggia de le vie s'inchina;
Ampia ruota che gira, e stride, e schiaccia
Le perle a terra, e lancia a l'aria il fango.
Ungete, ingegni sconsigliati, ungete
Le carrucole a lui: propizio nume
Ei sorride a chi l'unge. Opra è da stolti
Venir seco a tenzon; più stolta impresa
Ai dardi di costui non dar più ascolto,
Che dar si soglia a le zanzare estive:
Son mortali i suoi dardi! E tu il sapesti,
Tu, più ch'altri, il sapesti, o amato capo
Di Dall'Ongaro mio! Nè ti fu scusa
L'anima intemerata e il pronto ingegno,
A cui tutte arridean le grazie amiche,
Nè la virtù di peregrini affanni
Saldamente sofferti e la tranquilla
Custoditrice d'onorati petti
Candida poverezza e il crin canuto!
Ben di fallace illusïon maestra
Ti fu la sconsigliata Arte, se ardía
Nei lunghi giorni de l'oscuro esiglio
Persüaderti una speranza, e al foco
Degl'itali trïonfi accender tanta
Giovinezza di carmi entro al tuo petto;
Nè ti dicea, che di venali incensi,
Non d'ingenue virtù, non d'animosi
Spregi usar dee chi vuol propizio il mondo!
Però a l'assiduo flagellar di amari
Scherni cadevi; e se a l'ingegno invitto
L'attico riso concedean le Muse
Fino a l'ultimo istante, ingorde arpíe
Ir vedesti e redir sul tuo morente
Capo, e la gloria insidïarti e il pane
Dei cari orfani tuoi! Su la tua fossa
La derelitta famigliòla or piange
Miseramente, nè le vien conforto
Dal tardo onor che al nome tuo si rende.

Or tu da quel romito angolo oscuro,
Gangetico Assalonne, esci, e la tua
Patetica parola ai salutari
Sbadigli i labbri e gli occhi al sonno inviti.
Dal curïoso sguardo dei profani
Un umile pudor forse t'esclude?
Virtù di debolette alme è il pudore,
E non solito a te. Nè, se arruffata
Su le groppe rachitiche ti ondeggia
La popolosa zazzera, nemica
Di baveri non unti e di severi
Pettini; o a mala pena entro al rapato
Abito puëril movesi il petto
Stento e gli attratti gomiti, indulgente
Men ti sarà chi l'alte doti apprezza
E de l'oppio e di te. Proprio da sciocchi
È il dar fede al parer: tal, che a l'aspetto
Sembra leone, asino è all'opre, e tanti,
Che l'improvvido volgo aquile estima,
Son, se provano il vol, men che tacchini.
Qui non regna la plebe; e qual tu sei,
Quel che vali e che puoi san tutti a prova.
Quanti mai sparge rami a l'aria immensa
De l'umano saper l'arbore augusta
Tutti hai tu ne la mente: arca infinita,
In cui, ridotta in pillole e in pasticche,
La densa folla de l'idee si pigia.
Terra e gente non è specie o favella,
Che arcani abbia per te, cosmopolita
Camaleönte, che, di tutti a un tempo
Ritenendo, esser puoi tutti e nessuno.
Ed ecco, or con meschina ala ti aggiri
Carezzevole intorno, or con obliquo
Serpeggiamento insinüar ti piaci
Entro a' facili cori il tuo veleno;
Or con voce melliflua a le tue reti,
Erudita civetta, i merli attiri,
Or, mutato ad un punto in cinguettiera
Gazza, i nomi più vili a l'aura canti.
Tu, Catone d'un dì, spregiar sai l'oro
Con tragico cipiglio, e tu con furba
Docilità di vertebra e d'ingegno
L'altrui scale affatichi e l'altrui tasche;
Oggi con infantil garbo a l'orecchio
D'un'aërea beltà beli il sonetto
Sentimental, doman, fatto più saggio,
Entro uno scrigno d'òr fabbrichi il nido.
Ma chi tutte può dir le peregrine
Doti, per cui, Proteo novel, tu cangi
Co'l mutar d'ogni dì forme e colori?
Chi l'operosa, infaticabil fonte,
Per cui, senza invocar madre Lucina,
Puërpera ogni dì s'alza la tua
Dïabetica Musa? Alcun per fermo
Dir non saprà, ben che sia noto a tutti.
Sorgi adunque, e t'appressa; e s'alcun mai,
Dal serpeggiante tuo venire illuso,
Oserà alzar, per calpestarti, il piede,
Lascial, dirò volgendo il guardo altrove,
Benchè sia serpe al cor, donnola è al dente.

Ma son costor le stelle tutte e i Soli,
Che ad onor de lo strano Ospite accolse
Dentro al suo tempio la gentil Carìte?
Così non piaccia al dio, che l'arte e il nome
D'Ausonia ha in cura! Fra cotanta luce
Non splende Olimpio ancor, colui non splende,
Che, la fiera spregiando arte dei padri
Che tutta chiusa nel vergineo peplo
Rigida custodía l'are di Vesta,
Una discinta Maddalena adduce
A susurrar detti svogliati e strani
Per le tiepide alcove, o a tesser balli
Vertiginosi fra le nubi, e un'onda
Versar quinci di nenie e di sbadigli
Sopra a le folleggianti anime umane.
Ecco, ei viene, ei risplende. Altero e bello
Ne la modestia sua con misurato
Passo s'inoltra; e, benchè svelto e lieve
Scivoli sovra i piè, pur non sostenne
L'arguto calzolar, ch'ei non proceda
Senza un qualche rumor; però ch'ei volle
Sotto al tornito stivaletto, a cui
Ròdope stessa invidierebbe, un nido
Porre di crepitanti e scricchiolanti
Genî, che possan dire anco ai lontani:
Ecco il nume, adorate! In simil guisa
Da l'Olimpo al boscoso Ida venía
Il saturnio signor, quando a l'incontro
Dolce ridente gli schiudea le braccia
La placata consorte, e sotto al passo
Gli stridean le selvagge aquile e il fascio
Dei serpeggianti folgori. A la soglia
Fermasi un tratto; la sottil mazzetta
Palleggia, ed il sereno occhio d'intorno
Muove in cerca di lei, vergine o sposa,
Donna o dea, ch'ai suoi lauri un qualche intrecci
Gentil fior di pensiero, e stilli unguenti
Sopra le nevi del ben culto crine.
Bice è là, che l'attende: ecco, si spicca
Dal picciol crocchio de le sue compagne,
E gli muove d'incontro e gli confida
Nel morbido candor del niveo guanto
La voluttà d'una manina ignuda.
O felice costei tre volte e quattro,
Che con l'aëreo balenar d'un casto
Languidissimo sguardo, o co'l profumo
D'un sospir ventilato in su la cima
Del piumato ventaglio apresi il varco,
Non agevole invero, ai luminosi
Estri di tanto vate! Oh! lei felice
E invidiata a buon dritto! Inutil pompa
D'ottuse forme e di bustin ricolmo
Ella, è ver, non ostenta: ignobil dote
Di vulgare beltà sien le ritonde
Polpe e l'adipe osceno, irriguo ai salsi
Sudori, e immane, o Dio, carcer de l'alma.
Ricchezza unica a lei sia la divina
Trasparenza del corpo e i delicati
Qual fil di gelsomino arti e il languente
Collo e le braccia cascanti. Qual face
Chiusa dentro a dïafani alabastri,
L'alma in lei splende; e simile a canora
Che si pasce di brine aurea cicada,
Le vaporose fantasie deliba,
Che dal plettro gemmato ad ora ad ora
Mollemente deriva il suo poeta,
Poeta a un tempo e cavalier. Sui molli
Tappeti, ai piedi de la sua regina,
Spesso ei numera in pianto i suoi pietosi
Nunzî di poesia primi vagiti
E i suoi gesti e i suoi cenni, unica scola
Ai protervi nepoti. Ella, commossa
Da l'ardor dei civili estri, i socchiusi
Occhi gli volge; e se ne le divine
Estasi le sottili in su la fronte
Labbra gli posa, e di cinabro tinto
Cader si lascia un indelebil bacio,
Dilungate di là, Momi impudenti
Dai mordaci sarcasmi, e non osate
Dar condito di burle al vulgo iniquo
Il mister di quei petti: a completarsi
Tendon l'alme per fato; e chi no'l crede
Ne dimandi a Platon!
Ma oscuro e muto
Sui soffici divani a poltrir forse
Venne il divo cantor? Tolgalo il casto
Senno di lei, che è sol suo studio e vanto!
Ai secreti colloquî, ai vaporosi
Veleggiamenti dei verginei ingegni
Serban le Grazie altr'ore: aman gli opachi
Vetri le Grazie e le socchiuse imposte,
Da cui, non dispregiato ospite, il solo
Profumo entri dei fiori, e a cui dan velo
Con fantastici giri i rampicanti
Convolvoli azzurrini e l'ampie tende
Non indocili a l'aure. Ora è codesta
Di saëttar co' glorïosi raggi
Gli sparsi in quella sala astri minori;
Ora è d'aprir con l'armonia dei versi
La rigid'alma del più rio marito.
Come soglion d'intorno a un'iridata
Bolla, che con sottil fiato da l'alto
Del suo balcone il fanciullino espresse,
Correre ed affollarsi e spiccar salti
Gl'irrequieti monelli; e mentre incerta
Pende quella su l'aëre, e al Sol si pinge
Di tremuli colori, impazïenti
Lanciano i berrettini, e fanno a gara
A chi primo l'aggiunga; in simil guisa
Corsero tutte, e s'attruppâr d'intorno
Al tonante cantor damine e spose.
Ecco, egli accenna, ei legge; attenti, udite:
—Egli ed ella eran due! Qual fulminato
Arcangelo superbo, orribilmente
Mugghiava per la torva aere sanguigna
Un moribondo temporal. Dai mesti
Pertugi de la terra ad uno ad uno,
Siccome frati ch'escon salmeggiando
Da le pallide celle, uscíano i funghi
Annusando l'autunno; e, co'l volubile
Mappamondo a le spalle, in simiglianza
Di pellegrini piccioletti Atlanti,
Le bavose lumache ardían mostrarsi
Saettando la corna. Essi eran soli!
Eran soli a mirar le rubiconde
Agonie d'un tramonto. A passi lenti,
Per la morte del Sol vestita a bruno
La sonnambula Notte discendea
Pe' gradini de l'etra, e mille e mille
Angeletti lumaj davan la luce
Ai fanali del ciel. Sotto i giganti
Rami d'un eucalipto, immenso figlio
De l'australiche selve, in su le barbe
Dei vellutati muschi e dei licheni
La giovinetta si assidea, struggendo
Le delicate fibre e gli otricelli
Del monocotilèdone embrïone
D'una dïoica pandanèa. Le braccia
Distese Arrigo, sospirò, fu sua!
O poverella ardita, o mendicante
Regina, o musa mia, sorgi dai tuoi
Papaverici sonni, e dimmi quanta
Febbre di voluttà bruciava i petti
Di quei lieti accoppiati, e i lampi e i tuoni
Dei sorrisi e dei baci e la battaglia
Degli eccitati muscoli!—
Un solenne
Scoppio di plausi e di femminee voci
L'aurea sala echeggiò; dal sonno scosso
Moron sorge, ed applaude; altri in disparte
Con la bile sul labbro e il guardo a sghembo
Dà il galoppo a l'invidia; il naso arriccia,
E fa il greppo Macrin; pago e beato
L'apollineo sudor terge, e carezza
Gli attorti baffi il morbido poeta;
E, sprofondato ne la sua poltrona,
Scrollando il capo il Pellegrin sorride.
Mosso poi da un mordace estro di sdegno,
In piè levossi, ed esclamò:—La voce
Degli spiriti or s'oda; a me gli usati
Alfabetici segni e le canore
Assi da cui, se tanto pur siam degni,
Del gran padre Alighier gli accenti udremo.—
Disse, e al cenno d'Egeria una ritonda
Tavola fu recata, a cui dei quattro
Ben atti piedi, che le fan sostegno,
Uno ha tanta virtù, che al flusso occulto
Dei magnetici spirti agile e destro,
Più del pensier degli ammirati astanti,
Scerne le note, ed il responso appresta.
La mirò, la tastò con le gagliarde
Nocche l'Eroe da tutte parti, e quando
L'ebbe assettata su le cifre, entrambe
Vi sovrappose con mirabil rito
Le aperte palme, e simulando un senso
Di riverenza e di paura in volto,
Vi fisse il guardo, ed invocò. Già scricchiola
Il fatidico legno; un dopo a l'altro
S'odon tre picchi; come Tiade invasa
Da la furia del nume, or quinci or quindi
Il sonnambulo piè lanciasi in volta,
Nota i segni soggetti, e sbalza e sguiscia
Ratto così, ch'occhio o pensier no'l segue.
Tace alfine, e s'arresta; attenti, immoti
Pendon tutti d'intorno; ecco il responso:
—Chi da le sfere luminose, ov'io
Libero spirto in grembo al Ver mi eterno,
Mi richiama al fatal lido natío?
Ben giunse a me nel mio loco superno
D'Ausonia il grido e il rimbombar de l'armi,
Per cui perfetto il pensier mio discerno.
Levai sdegnoso dai funerei marmi
L'onorato mio capo, e a le pugnanti
Schiere in mezzo piombai co'l brando e i carmi.
Oltre l'alpi esulâr monche e tremanti
Le teutoniche belve, e il profetato
Veltro regnò su' ceppi e i troni infranti.
Entro a l'are venali imprigionato
Urla fra tanto il traditor Giudeo,
Che a' danni nostri ed a l'insidie è nato;
Ma a l'onte occulte e al macchinar suo reo
Splender più bello e star più saldo io miro
Solo un vessil da Susa a Lilibeo.
Pur, se a l'itale muse il guardo io giro,
Tanta di lor m'assale ira e vergogna,
Che in volto avvampo, e dentro al cor sospiro.
Qual mendica erra; qual vaneggia e sogna;
E qual de l'Istro o de la Senna impura
L'onda attinge, e le sue membra svergogna;
E mentre una s'insozza e si snatura,
L'altra oziando sbadiglia; onde ai lor danni
Stride lo scherno, e il freddo oblio congiura.
Or leva, o genio mio, leva i tuoi vanni,
E tal su'l capo lor fulmina un telo,
Che la memoria sua viva negli anni.
Mostro vien fuor da l'iperboreo gelo,
Che la diva stuprando Arte dei suoni
D'orrido strepitío streper fa il cielo;
E strepitando in strepitosi tuoni
Strepita sì, che a nostre orecchie offese
Sembran dolci armonie bombe e cannoni.
Già si affaccia, già invade il bel paese:
Fuggon le Grazie; e n'han dal ciel spavento
L'angelo di Catania e il Pesarese;
Ma chi il senso de l'Arte in petto ha spento
E ferrea l'alma e assai più ferrei orecchi
Catechizza le turbe al gran portento.
O tu, se il genio tuo mai non invecchi,
Vivo onor di Busseto, a l'empie grida
Piegherai l'alma, e fia che in lui ti specchi?
Sorgi; a l'antica melodia confida
Gli estri, ond'uomini e tempi animi e crèi,
E lascia i dotti ragli al nuovo Mida!
Nè fia che in voi non vibri i dardi miei,
O de l'onnipossente Arte dei carmi
Sacerdoti non già, ma Farisei.
Sento tra una venal turba chiamarmi
Chi d'alma vuoto e d'onestà digiuno
Libertà grida, e il vulgo aízza all'armi;
E chi in aspetto di plebeo tribuno
Giambi saetta avvelenati e cupi,
E fuor di sè non trova onesto alcuno:
Idrofobo cantor, vate da lupi,
Che di fiele brïaco e di lièo,
Tien che al mio lato il miglior posto occùpi,
E veggio lo svenevol cicisbèo,
Che, d'ingegno ventoso e di cor frollo,
Gratta la cetra in suon di piagnistèo;
E, incipriato le chiome e torto il collo,
Co'l ciglio imbambolato e il guardo losco,
Va a confettar gli stronzoli d'Apollo.
E tu chi sei, che chiudi il viso fosco
Ne la larva di Plauto, e stenti e sudi
A condir vuote ciance in sermon tosco?
Ben altri stenti omai, ben altri studi
Chiede Talía, che infarcir motti e scede
Scevri di senso e di pudore ignudi.
Più d'una gazza razzola al tuo piede,
E manda il nome tuo da Battro a Tule,
Te proclamando di Goldon l'erede:
Gracchiano al vento come immonde sule,
Che di grida scomposte il ciel fan sordo,
Se han pinzo il ventre e molle il gorgozzule;
E tu di lauri e di nastrini ingordo,
Qual verme che si pasce in suo pattume,
Tanto sei fatto omai cieco e balordo,
Che ancor bianca la voce e il mento implume,
Piantando il pedagogo a mezza via,
T'alzi a maestro di civil costume.
Torna, o stolto fanciullo, al quare e al quia ,
E, se granel di sale anco ti resta,
Pulisci il socco, e rendilo a Talía.
V'è chi avendo di liti un guazzo in testa,
E faría meglio a strombazzar pe' trivi,
Calza il coturno, e le ribalte infesta.
Strillan le maghe; corre il sangue a rivi;
Surgon spettri e vampiri; urlano i morti;
Vivi i fantasmi son, fantasmi i vivi.
Pugne, stragi, rapine, incendî, aborti,
Suon di catene, parricidî, incesti,
Orgie d'alme e di carni e fusi torti,
I reconditi intingoli son questi,
Per cui Melpomenèa briaca e pazza
Fa che gli spettator rimangan desti.
O di zebe e di buoi stupida razza,
Se pur fra tante teste avvi un cervello,
Quel beccaio urlator cacciate in piazza!
Chè s'ei dona al suo genio altro rovello,
Per far la scena a voi stessi più viva,
Al collo vostro appunterà il coltello!
E tu d'irti istrïoni orda cattiva,
Che vendi e insozzi il sofoclèo coturno,
E vai d'oro superba e d'onor priva,
Smetti il traffico vil, per cui l'eburno
Trono de l'Arte e i sacrosanti altari
Covo son fatti a fornicar dïurno.
Varcan per opra tua montagne e mari
Le più turpi di Gallia ibride Muse,
Che lor facil beltà dan per danari;
E involgendo la colpa in auree scuse,
Coronando di fior chimere e mostri,
Scroccan l'applauso de le turbe illuse.
Stolte! nè san, che da quei sozzi inchiostri
Spandesi intòrno sì mortal mefíte,
Ch'alma e braccio prostrando ai figli nostri,
Li farà indegni de le glorie avite!—

Tal suonava il responso. Impallidîro
Donne e poeti, e si guardar negli occhi
Irrequieti, silenti. Arse di sdegno
L'altera alma d'Egeria; arse pur ella
La florivola Bice, a cui la punta
De la mal tollerata ira risveglia
Le isteriche trambasce e invola i sensi;
Arser su tutte inviperite e fiere
Antigone e Sofia, coppia gemella
D'emancipate amazzoni. Ribolle
Ne le lor vene il maschio sangue; in fronte
De l'audace Stranier figgon gli sguardi
Sinistramente; e certo avrían quel giorno
D'un gran fatto illustrato il nome oscuro,
Ove Olimpio non era: ei le contenne
Subitamente, e con gentile e ardito
Piglio di paladino: A me si addice
La vendetta, esclamò. Volse lo sguardo,
Così dicendo al Pellegrin, che muto
Fra cotanto armeggiar d'ire e di accenti
Del suo fiero sermon godeasi il frutto.
Poi replicò:—Lo spirto e la parola
De l'Alighier qui non si udì: mentite
Voci dal labbro di costui dettava
La rea calunnia ed il livor codardo!—
Balzò a quel dir l'Eroe. Pari a ringhioso
Stuol di mastini, che, a un rumor lontano
Desti tutti in un punto a la tard'ora,
Uggiolando prorompono a la siepe
Del custodito pecoril: l'un l'altro
S'aízzano co'l grido, e, a lo sbarrato
Limitare avventandosi co' morsi,
Raspano il suol rabbiosamente; allora
Ch'odono del pastor la voce e il passo
Si ramansano a un tratto; penzoloni
Gittan la coda, spianano le orecchie,
E muti, muti acquattansi; in tal guisa
Al sorger de l'Eroe tacque l'impronto
Bisbigliar degli astanti; e con furtivo
Pavido sguardo e con moto conforme
I suoi sguardi, i suoi moti ognun seguía.
Ei favellò:
—Qual che tu sii, nè al certo
D'infamia o loda il nome tuo fia degno,
Stolte parole or proferisti. Hai vôta
Alma e cervel gonfio di fiabe, ed altro
Che inutil fiato il labbro tuo non mette.
Di mutue lodi, e di vulgari incensi
Pago tu vivi, e teco il gregge: ingrato
Però il vero a te suona, a te che l'arte
E la natura e te stesso mentisci!—
Non si contenne a tal parlar superbo
L'offesa alma d'Olimpio, e:—Il nome mio,
Gridò, il saprai, ma con la spada in pugno,
S'hai fermo il core, e cavalier tu sei!—
Disse, e come a la cheta ora del vespro,
Se a' bruni aranci del giardin, da cui
Pendon purpurei ed odorati i pomi,
Cantarellando una canzon t'appressi,
Odi tosto un frusciar d'ali e un pispiglio
Di furbi passerelli a fuggir lesti;
Così d'Olimpio al favellar si sveglia
Sordo intorno un susurro: e chi gli audaci
Sensi condanna; chi l'ardir ne loda;
Chi la gagliarda valentía n'esalta;
E ognun gode in cor suo, che il novo evento
Nova materia a favellar gli appresti.
Tu sola dal profondo animo gemi,
O dïafana Bice, e a lui d'intorno
Trepidante ti serri, e invan ti adopri
Dal destinato petto a svolger l'ira.
In sua tranquilla maestà spartana
Ei si parte da te, ma non sì lesto
Da non udir queste parole acerbe
Che gli gitta l'Eroe:
—Gonfia a tua posta
Di sonanti minacce il dir tuo folle,
O menestrello paladin: non uno,
Ch'abbia intera la mente e sano il core,
Dirà men vero il mio parlar; t'indossa,
Se pur lo vuoi, maglia e lorica, e al filo
D'un sordo acciar la tua ragion commetti,
Ragion degna di ferro; io, finchè splenda
Agli occhi il Sole e a questa mente il Vero,
Ragiono e vinco, e i pari tuoi disprezzo!—

CANTO DUODECIMO.

ARGOMENTO.

Lucifero giunge in Roma.—La breccia di Porta Pia.—La festa del Colossèo; durante la quale ascolta l'Eroe alcune voci misteriose.—Voce di Ebrei.—Voce di Numi.—Voce di Sacerdoti.—Voce di Santi.—Voce di Diavoli.—Voce del Tevere.—Voce della Savoia.—Voce della Corsica.—Voce dell'Istria.—Voce di popoli slavi.—Voce della Germania.—Spavento dei beati alla nuova che Lucifero è in Roma.—Santa Caterina da Siena, rimproverandoli acerbamente, si offre di scendere in terra e di piegare con la sua eloquenza il nemico.—Iddio, benchè dubbioso del buon successo, glielo accorda; e, mentre ella si dispone a partire, Santa Teresa dà scandaloso spettacolo della sua pazzia.

Poichè avvolse così d'alti dispregi
Le parole d'Olimpio e il reo costume,
Che risibil comporta il secol nostro,
L'auree sale d'Egeria e le tranquille
Sedi d'Etruria abbandonò l'Eroe;
E a te si volse, o del suo cor supremo
Desiro e dei suoi passi ultimo segno,
Tiberina città, che tutta chiudi
Del popolo latin l'anima e 'l fato.

Date querce ed allori a le recenti
Brecce di Porta Pia, date corone
Al Sabaudo Monarca, itale genti;
E custode di lor l'inno risuone,
Che diêr braccia e pensieri
E la vita al grand'uopo! Are son fatti
Li trafficati e neri
Templi dei dieci colli,
Cui geme al piè, d'onta e di rabbia tinto,
Chi al ciel serva la terra, e a la codarda
Fede contenne il Pensier divo avvinto.

Saldo negli anni, occulto
Ne l'ombra e tutto cinto
D'armi e d'insidie, il piè dentro al profondo
Petto d'Adamo, il capo agli astri, il grido
Ai poli, eterno si tenea l'infido
Pescator Galilèo reggere il mondo.
Ma come avvien, che, rósa
Dai secoli e dal mare, entro il mar crolla
A nuovo urto di turbo ispida rupe,
Che negra e minacciosa,
Riprodotta da l'onda, al navigante
Pendea su'l capo, e gli oscurava il core;
Tal, pugnato dagli anni e più da questo
Eterno flutto del Pensier, che invade
Ogni creata cosa,
Trema, balena e cade
Il doppio soglio a Libertà funesto.

Dei primi onori il vanto
Miete al certo colui, che primo accoglie
Arduo pensier ne l'alma, e chi l'ignudo
Pensier ne la feconda opra traduce.
Dai domestici affetti e da le braccia
D'ogni più cara illusïon si scioglie;
E oltre ad uso mortal guardando in faccia
Ad inaccessi Veri,
Sordo dei figli e de la sposa al pianto,
Là sè stesso periglia ove più crudo
Ferve il conflitto; e a recar vita e luce
Corre colà, colà vince e procombe,
Dove più ferrei e neri
Pugnan fantasmi, e più la notte incombe.

Però, sola e più degna
Eternità che al gener nostro assente
La fatale Natura, a noi nel petto
Vivrete eternamente,
Quantunque siete, o eroi
De l'umano pensier; sia che mutando
La molle cetra in brando,
O in viva fiamma di Sofia l'acume,
O in fulmine la voce,
Nel più chiuso del cor portaste oltraggio
A questa vaticana Idra feroce,
Cui non giovò dar vostre carni a morte,
Quando la fiamma inesorata e il ferro,
Che brevemente il corpo vostro offese,
Ruppe il suo petto, e le sue membra incese.

Ma non senza gran laude a le venture
Genti andrà il nome e il grido
Di chi l'ultimo crollo a la superba
Mole impavido impresse, onde stupite
Mirâr le più gagliarde anime, e intorno
Tremar parve la terra. O benedetti
Voi, che la vita acerba
Fidaste, o giovinetti,
A l'onor del gran fatto, e benedetta
La destinata mente
Di Lui, che, custodita entro ai gelosi
Carceri Adrïanèi la vita inferma,
Inesorabilmente
Fulminò a morte indegna
L'italico vessillo e i vostri petti!

Veglian su l'infrequente
Uscio le madri abbandonate, o, accolte
L'anima tutta nel pensier di voi,
Lascian piangenti a mercenarie mani
Le vigilate masserizie, e vanno
Dove a lenir l'affanno
Una voce di ciel par che le chiami.
Ardono i ceri; un'onda
D'incensi e timïami
Vaporan l'are; una pietosa, incerta
Melodia le devote anime inonda;
E, dentro a un nimbo avvolto
Di profumi, di suoni e di splendori,
La sacra ostia consacra, e preci ignote
Mormora il sacerdote.

Qual improvviso e fiero
Tuono per li diffusi archi rimbomba?
Come dischiusa tomba
Putre e nereggia il sacro tempio; stride
Il percosso saltèro;
Illividito e nero
Guizzi sanguigni avventa
Ogni lume, ogni cero;
Rosseggia l'elevata ostia, ed infetta
D'orrida tabe, al volto
De le pie turbe e al cor dardi saëtta
Di sdegno e di vendetta;
Urla sui tormentati organi eretta
La cieca Morte, e invita
A fiera tresca il pallido Levita.
Ecco, spumeggia di sangue recente
Il benedetto calice; volteggia
Da feroce disio fatto più lieve
L'inebbrïato Prete…
Madri, madri, fuggite: il sangue è quello
Dei figli vostri; il santo vecchio ha sete;
Madri fuggite: il sangue
Dei vostri figli ei beve!

Ma di sangue che parlo? Ecco, fiammeggia
Sui debellati altari
Il vessillo d'Italia! Oh! salve, oh! viva
Nel tuo triplice raggio, iride santa
Di libertà! Da la percossa riva
De la tumida Senna ululi avventi
La piagata nel cor druda di Brenno,
Cui la vittoria altrui par sua sconfitta:
Fuor d'ogni modo e senno,
Ebbra d'invidia, esulti
Prostituta liberta, e d'impudenti
Minaccie a te, sacro vessillo, insulti,
E al nostro Eroe! Giorno verrà, nè incerti
O lontani presagi al carme io fido,
Che, ravveduta o stanca
Dal sozzo amplesso di plebei Caini,
Te chiamerà, come chi piange. Al grido
Risonerà l'irta Pirene; e quale
Iena sorpresa a l'avvenir del giorno,
L'iberico soggiorno e il reo pugnale
Lascerà urlando il bieco
Masnadier di Castiglia. Allor saprai,
Putta de l'Ebro infurïata, a quanta
Luce di libertà volgesti il tergo
Quel dì, che ai tuoi rissosi
Schiavi t'abbandonò l'italo Alunno,
E da le regie chiome
Strappò sdegnoso il serto,
Pur che la fronte altera
Erger potesse intemerata al sole,
E, monda del tuo sangue, al patrio albergo
Recar la spada ed onorato il nome.

Venga, oh! tosto, quel dì! Cessi il furente
Baccar di questa erine
Licenziosa, a cui
Vanto di Libertà danno i suoi drudi,
E quanti han voglia ardente
Del reo suo grembo e dei suoi fianchi ignudi!
Ecco, a piccola pugna un'immortale
Gloria succede: col pensier trïonfa
Roma, e regina del pensier si asside
Fra' redenti latini! In alto il guardo,
Popoli tutti: il Campidoglio è questo!
Roma è Ragione e Libertà; novella
Èra incominciai Sugli altari infranti,
Da un solo amor costrette,
Gridiam, genti latine: Avanti, avanti!

Così a l'entrar ne la Città famosa
Fremeano i sensi de l'Eroe. Solenne
Era quel dì: rinascea Roma. Ornati
Di ghirlande d'allori e d'orifiamme
Splendean ponti, obelischi, archi e teatri;
E dietro a le giganti Ombre dei morti
Ivano al Colossèo festosi i vivi.
Iva anch'esso l'Eroe. Su le rovine
Titaniche di Roma un fiammeggiante
Sguardo mandava alto a l'occaso il sole:
Un incendio parea, da lo cui grembo
Si liberasse una feroce e bella
Vergine che diceva: Io son la grande
Libertà dei Latini!
Immenso e solo
Sovra ai neroniani orti grandeggia
Il vastissimo Circo, a cui da strani
Colori e bizzarre ombre un magistero
Di bengalici fochi; ondeggia il folto
Popolo, e a' plausi armonizzate e agl'inni
Le gagliarde fanfare empiono il cielo.
Non udiva l'Eroe; ben altre voci
Gli suonavan ne l'alma: echi lontani
De le passate età, vaghe armonie
De l'avvenir, preci e bestemmie escluse
Ad orecchio mortal, ghigni e sorrisi
D'idoli nani e d'uomini giganti.

VOCE D'EBREI.

Dai traffici fecondi,
Unico asilo al pertinace ingegno,
Da le folte città, dai fremebondi
Flutti di gonfî mari,
Sempre io sospiro a voi, sempre a voi guardo
Con la speranza mia, rive dilette
Del Giordano natío, raggianti altari
Dei padri miei, terre da Dio promesse.
Come al Libano eterno, a cui ghirlanda
Sono i cari al Signor cedri vocali,
Drizza il fulmineo vol, come a sua meta,
L'aquila pellegrina,
Tal del disio su l'ali
A voi corre il mio core, e in voi s'acqueta.

Voi sul monte di Dio spargete al vento,
Cedri vocali, i rami annosi, e fermi
Sfidate i nembi e i secoli, mentr'io
Per terre e per età, ramingo eterno,
Il suol dei miei nemici
Bagno del mio sudor, del sangue mio;
E al flagel de le avverse ire, a lo scherno,
Che sibila su me freddo e funesto,
Piego le spalle inermi,
Spero, e pugno sperando, e mai mi arresto.

O cedri incliti, invano,
V'intendo, invan voi non mettete eterne
Entro al monte di Dio l'alte radici;
Però ch'eterna, a par di voi, si asside
La speme del trïonfo entro al mio petto.
Voi rivedrò! Da queste infauste arene,
Che del mio sangue tinse
Tito, delizia de l'umane genti,
Da ove sorge la notte e il giorno viene,
Da tutti e quattro i venti,
Quel divino voler, ch'indi mi spinse,
Richiamerà, nè fia lontano il giorno,
Il vincente Isdraello al suo soggiorno!

VOCE DI NUMI.

Esuli affaticati,
Senza speme di vita e senza regno,
Fuggiam, cadiam sotto al flagel dei fati,
Del pensiero de l'uom ludibrio indegno.

Il serto luminoso
Del poter nostro ov'è? Dove il raggiante
Trono del sole e i sempre verdi alberghi
De l'Ida? Ove il temuto
Folgore e le sedotte
Figlie de l'uom? Tutto d'intorno è muto
A noi; squarciasi il velo,
Da l'inganno tessuto,
Che lieve sosteneaci a mezzo il cielo;
Manca il cielo a nostr'orme: i fior, la luce,
L'amor, la giovinezza, il paradiso,
Tutto a un punto dissolvesi
Al fiero lampo de l'uman sorriso.

Esuli affaticati,
Senza speme di vita e senza regno,
Fuggiam, cadiam, sotto al flagel dei fati,
Del pensiero de l'uom ludibrio indegno.

O miserando e gramo
L'esser nostro di Numi, ove al talento
Di mortal plebe abietta,
Qual nebbia vana ad agitar di vento,
Sorgere a caso e dileguar dobbiamo!
Ove andrem noi? Di amici astri deserto
È il ciel; d'altari è brulla
La terra; inesorabile si avanza
La Verità; l'Oblio ne inghiotte e il nulla…
Oh! fosse dato almeno
A noi mutar sembianza,
Gioir l'aere terreno,
Scendere in terra e aver con l'uom possanza

VOCE DI SACERDOTI.

Tramonti pur, tramonti,
O fuggevole Iddio, la tua possanza;
Noi terrem contro al fato erte le fronti.

D'imbelli anime è stanza
La terra; e noi teniam su l'alme il piede:
A te il ciel manca; a noi la terra avanza.

Più che astuti noi siam, cieco è chi crede;
Cada Saturno, o Gèova,
Mai non cadrà dal petto uman la fede!

VOCE DI SANTI.

O misera e fugace
Vita de l'uom, che speri?
Non ha trïonfo e pace
Questo agitato vortice
Di affanni e di piaceri.

Come in silice abietta
Prigioniera scintilla,
Così l'anima, eletta
A miglior sorte, ascondesi
Ne la mortale argilla.

Dio ve la chiuse; al solo
Cenno del suo pensiero
Ella discioglie il volo,
Mesce il suo raggio a l'iride
Del sempiterno Vero.

Soffriam: de la romita
Alma, che piange e crede,
Cibo, lavacro e vita
Son la Speranza eterea,
La Carità e la Fede.

VOCE DI DIAVOLI.

Che val pascer di vuote
Fuggitive speranze il cor digiuno?
Navigar co'l desio regioni ignote
Derelitti nocchieri a l'aër bruno?

A noi prescrisse un segno
La diversa Natura, e mal n'è dato
Spinger oltre il poter l'audace ingegno,
Cercar ne l'ombre e battagliar co'l fato.

Han pur queste fugaci
Ore terrene alcun sorriso e fiore,
Ha battaglie il pensier, le labbra han baci,
Vita la terra, e inferno e ciel l'amore!

VOCE DEL TEVERE.

Molte sul dorso antico
Storie nefaste io porto,
Molte nei gorghi miei storie nascondo;
Ma, poi che per età son fatto accorto,
Freno il flutto iracondo,
E al mar mio grande amico
Al vecchio mar le vecchie storie dico.

Dal mobile soggiorno
De l'onde cristalline,
Coronate di perle e di coralli
Corrono a me le azzurre Ocëanine;
E melodia di balli,
Per quanto è roseo il giorno,
Voluttuöse a me tessono intorno.

Ond'io, fatto loquace
Da la vista amorosa,
Assiso in mezzo a lor canto le strane
Vicende de la mia storia famosa;
Mentre su l'onde piane
Con la sua mesta pace
Siede la stanca luna, e l'aura tace.

Tutta allor torna viva
Nel mio canto fatale
De le vetuste età l'aurea leggenda:
Quando la Fede a la Giustizia uguale,
E deïtà tremenda
Era la Legge, e diva
Cosa la Patria e chi per lei moriva.

Taccio però l'offesa,
Che a l'aquile di Giove
Recò una turba di feroci imbelli;
Taccio il baglior di queste genti nuove;
Però che sui ribelli
Flutti lasciata illesa
La croce di Gesù troppo mi pesa.

Ma un dì, se l'onte atroci
Non moveranno alcuno
Che in me l'affoghi e d'ogni onor la privi,
Io parlerò: sentirà allor ciascuno
Di questi rei malvivi
Tuonar con ferree voci
L'eloquenza dei miei flutti feroci.

Fuor dai percossi fini
Proromperò, indomato
Dèmone; stenderò l'onda funesta
Sui colli; segnerò l'ultimo fato
All'ara, al trono, a questa
Degna dei suoi destini
Plebea ciurma di Borgia e di Tarquini!

VOCE DELLA SAVOIA.

Dal trono de la gloria ove tu sei
Ricca d'armi, di mente e di fortuna,
Madre Italia, ricorda i figli miei,
Ora che amor tutti i tuoi figli aduna.
Pensa che nel dolor giace colei,
Ch'a' guerrieri tuoi re diede la cuna,
Da te divisa e serva a lo straniero
Lei che fu patria al redentor Guerriero!

Ben prudente consiglio esser potea
Gittar mie carni al fero augel francese,
Quand'anco incerto il tuo destin pendea,
E tronche a mezzo eran le patrie imprese.
Ei che il sangue per te versato avea,
Tarpò il tuo volo, e il sangue mio richiese;
Io, ch'ebbi il tuo più che il mio ben diletto,
Tacqui, ed offersi al sagrificio il petto.

Ma or che forte e secura e di te stessa
Donna, per propria via, splendida incedi,
Tanta virtù non m'è dal ciel concessa,
Ch'io taccia ancor de lo straniero a' piedi;
Di lui, che, d'ogni error l'anima ossessa,
Contro il suo petto infurïar tu vedi,
E dal reo brago, ove ognor più s'ingora,
Giudicar osa e minacciar tuttora!

VOCE DELLA CORSICA.

Già non dirò, che prima
Fra l'isole tirrene
D'ogni bellezza opima
Sono albergo di ninfe e di sirene:
Ad altri il debil vanto
Di molli aure e di fiori
Ed il femmineo canto
E i florívoli amori.

Cirno son io: de l'onda
Che mi flagella i liti,
Qual d'armonia gioconda,
Serbo nel seno i liberi ruggiti;
D'odio, d'amor, di sdegno
Facil s'accende il petto;
Pronto il braccio e l'ingegno
Al par del mio moschetto!

O madre Italia, e vuoi
Che da te svelta io giaccia?
Ch' io non aduni ai tuoi
I miei sensi, i miei fati e le mie braccia?
Chiedi gemme e tesori?
Gemme e tesori ho anch'io:
Gemme? I miei patrî allori;
Tesori? Il popol mio!

VOCE DELL'ISTRIA.

O tu, Sir del vetusto
Trono d'Asburgo, invano
Offri al Sabaudo augusto
Pegno d'alta amistà l'ambigua mano.
Credi, levar l'artiglio
Dal fianco mio, dov'hai la piaga aperta,
Saría miglior consiglio
E più regale offerta.

Tra noi di pace è questo
Unico patto e degno;
Chè il simular molesto
D'astuzia rea, non di fortezza è segno.
Placate allor, lo spero,
Sorrideranno al tuo regale albergo
Le nostre Ombre dal nero
Ciglion de lo Spilbergo.

VOCE DI POPOLI SLAVI.

Qual grido funesto risuona sul monte?
Qual gemito cupo si leva d'intorno?
È forse la Vila dal lucido fronte,
Che cinta di nembi si slancia nel ciel?
In cima a la rupe, nel niveo soggiorna
Riposa la diva le membra sue snelle;
Le danzano in giro le rosee donzelle,
La cullano i canti d'un astro fedel.

Fra l'ombre solenni, fra l'irte boscaglie
Forse urlan le belve pugnanti a la preda?
O, attorte agli abeti le rabide scaglie,
Di Bàlkan le serpi lingueggiano al Sol?
O figli di Serbia, se il cielo vi veda,
Balzate dai sonni, lasciate le selve:
Più fieri serpenti, più rabide belve
A l'aquila nostra tarparono il vol.

Ferita a Cossòvo dal turpe Islamita,
Perduto il remeggio de' giovani vanni,
Dai campi raggianti di gloria e di vita
Ne l'ombre di morte, stridendo, piombò.
Sbucâro i ladroni giurati ai suoi danni
Dai scitici ghiacci, da l'Istro interdetto;
La fissero in croce, sbranaronle il petto;
Chi men le diè strazio men prode sembrò.

Ah! dove in quel giorno, dov'era il tuo brando,
O Marco, o di Serbia speranza immortale?
Conosci e sostieni lo strazio nefando?
O il sonno e la morte ti avvinser così
Che nulla più curi? La morte? Il fatale
Momento di morte per lui non arriva:
Mutate la nenia ne l'oda festiva;
Ei dorme, si scuote, risvegliasi al dì!

Ei sorge, si appressa: de l'antro fatato
Risuona ai suoi passi la volta profonda;
Il negro cavallo gli scalpita allato;
Gli mette baleni lo sguardo e l'acciar.

Già monta in arcioni; la turba il circonda;
Il corpo squarciato si unisce e cammina;
La schiava spregiata si leva a regina;
La tomba dei prodi diventa un altar!

VOCE DELLA GERMANIA.

O prima reggia del Pensiero, augusta
D'idee madre e di genti,
Patria del gener nostro Asia vetusta,

A te col grido dei perfetti eventi,
Vetusta Asia, il saluto
La libera Germania alza su' venti.

Odi: stridono ancor su'l combattuto
Reno i miei plaustri; echeggia
Il mio vittorïoso inno temuto;

E con securo il vol come in sua reggia
Quant'è di cielo intorno
Di Brandeburgo l'aquila passeggia.

Sorgete, o voi dal feüdal soggiorno,
Tremende Ombre, sorgete,
Fiere stirpi d'Arminio, al novo giorno;

E voi che sul divin Tebro scorrete,
Secure Ombre, e la nova
Stirpe latina a magne opre accendete,

Venite: a la funesta ira non giova
Dar l'alma, or ch'ogni gente
Guida un solo pensiero a varia prova.

Voi condurrò nel mio volo possente
Dove com'aureo sole
Poggia di Brama la magion lucente;

Dov'erge l'Imalai l'intatta mole,
Ed a la Ganga in giro
Del loto degli Dei splendon le aiuòle.

Come giorno che irradia il vasto empiro,
Tal da le rive bionde
Sorger tranquilla una gran luce io miro;

E a la gran luce un'armonia risponde,
Da cui senso e pensiero
Prendon l'aure, le stelle, i fior, le sponde:

—Smetti, o figlio del Lazio, il vanto altero,
E tu, d'Arminio figlio,
Riponi il brando insanguinato e fiero!

Se l'un ne l'altro insanguinò l'artiglio,
Roma lo sa; lo sanno
De l'Elba i flutti e il Reno ancor vermiglio.

Troppo fra voi di servo e di tiranno
Voce sonò: gli avelli
Son anco aperti, ed ancor vivo è il danno.

Ma se i miei sensi al ver non son ribelli,
Io qui da questa sponda
Secura griderò: Siete fratelli!

Là sul vasto altipian radice e fronda
Pose l'Arìana antica
Pianta, che fu di molto fior feconda;

E se il turbo la svelse, e la nemica
Sorte ne infranse i molti
Rami, i germi educò la terra amica;

Onde sott'altro ciel giovani e folti
Sorser mutati, e fûro
Da inconscia man moltiplicati e còlti.

O gente cieca, a cui pur l'oggi è oscuro
Voi de l'Arìana pianta
Siete due rami, in faccia al Ver lo giuro.

L'un s'infrondò su'l Campidoglio, e tanta
Arbore al ciel spiegossi,
Che cadde alfin dal proprio peso affranta.

Tal su l'altro di nembi ira sfrenossi,
Che le pigre ombre e 'l gelo
Fuggendo e da pugnace indole mossi

I suoi fieri cultor sott'altro cielo
Ruppero, e fûro al corso
Tigri, e demòni al fulminar del telo.

Serrate, o stolti, a l'ire orrende il morso;
E più dei truci acciari
Abbia su'l vostro cor punta il rimorso!

Entro al fin dei suoi monti e dei suoi mari
Vigili ognuno, e il volo
Sfreni al pensier, che fa temuti e chiari.

Vedrete allor da l'uno a l'altro polo
Sorger le genti, e avranno
Per sentiero diverso un pensier solo;

E, spento prima ogni desío tiranno
Ed ogni error conquiso,
Fide a Giustizia e a Libertà staranno!—

Salve, o diva Scïenza; al detto, al viso
Che sopra ogni altro estimo,
Ai voli rutilanti io ti ravviso!

Per te del mio pensier l'ali sublimo;
Per te nei sanguinosi
Studî de l'armi il popol mio va primo.

Tu che, amica de l'opre, i neghittosi
Ozî diradi, e vivi
Vigil sempre ed eterna e mai non posi,

Tu che redimi a libertà i captivi,
I restii sproni, e godi
Sovra l'ombre versar la luce a rivi,

Tu, assidua e paziente il tempo rodi;
Tu i diradati stami
Dei popoli dispersi ordisci e annodi.

Da l'abisso dei morti anni richiami
L'ossa eloquenti: ritte
Composte in scheltri in sugli altari infami,

Gridan così, che a mezzo il cor trafitte
Da la parlante luce
Precipitan le sacre Ombre sconfitte.

Salve, o diva Scïenza; auspicio e duce
D'ogni grand'opra; ai santi
Regni del Vero e a Libertà ne adduce
La voce tua, che grida sempre: Avanti!

Poi che al veggente immaginar l'altero
Ribellator degli uomini si tolse,
E mirò intorno il vasto Circo, un alto
Silenzio s'assidea sui tenebrosi
Menïali titanici, e fra' rotti
Pilastri ed i corintî archi passavano
Lunghe file di mute Ombre e la luna,
Ei mirava e tacea. Ma tu nei santi
Penetrali del ciel già non tacevi,
Gran signor dei beati: acre e vorace
Ti rodea l'alma una gran cura; e come,
Se fra poche pareti arda un occulto
Foco, di quante masserizie ha intorno
In pria fa preda e cheto si alimenta,
Finchè di sua virtù gonfio e superbo
Tutto divora il chiuso aere, dirompe
L'avverso tetto, e al ciel, mugghiando, esplode;
Così del padre dei Celesti a un punto
Proruppe la repressa ira, nudrita
D'antiche onte e di cure; a mezzo i morbidi
Guanciali alti si eresse, e si folcendo
Del tentennante cubito, in tal guisa
Parlò ai beati ivi a consiglio accolti:
—O beati, se pur lecito è ancora
Con tal nome chiamarvi, or che le pingui
Mense e i tiepidi letti, unica gioia
Di voi sereni abitator del cielo,
Sparecchiar ne minaccia un rio destino,
Beati, a voi di gran stupore obietto,
E il vi leggo su'l fronte, è ch'io vi aduni
A insoliti consigli, io che finora
D'ogni assoluto mio voler fei legge
A le vostre cervici, a cui fu somma
Virtù il tacere e l'ubbidir. Se or muto
Al gagliardo agitar di venti avversi
I propositi miei, già non direte,
Che sopraffatto o paventoso io pieghi:
Fermo son io, siccome il sole; e questa
Picciola libertà, ch'oggi vi assento,
Vuo' che qual liberal dono s'accolga.
Di che perigli il regno mio sia cinto
È noto a voi, che spennacchiato e stracco
Redir vedeste un giorno ai nostri alberghi
L'Arcangelo Michel, lui, già tremendo
Fulmin di guerra e condottiero invitto
De le nostre legioni. A lizza estrema
Col superbo Lucifero si spinse
Ardimentoso, e gli ridea negli occhi
La securanza del trïonfo: inerme,
Rotto dal lungo battagliar co' flutti
Gli si opponeva il gran Ribelle, e un ghigno
Solo, un sol ghigno a debellar gli valse
L'adamantina ira celeste. Io taccio
L'altre sconfitte, e la più grande e indegna
Per avventura e più recente: io stesso,
Io l'eterno Signore, io… ma gagliardo,
Onnipossente ed infallibil sono
Siccome un dì! Solo provar voll'io…
Fu soltanto una prova; e alcun non osi
Ricercar con profano occhio gli abissi
Del mio pensier! Questo saper vi giovi,
Che il mio nemico, il gran ribelle è in Roma!—

Disse, e un sospir traendo, giù di peso
S'abbandonò su le soffici piume,
A cui di sotto scricchiolar compresse
L'agili spire dei cedenti ordigni,
Che di acciaro eran tutti, A quella guisa
Che fra un popolo avvien, che, scosso un ferreo
Giogo di servitù, sfrenasi ai novi
Deliramenti e a l'oblïosa ebbrezza
De l'acquistata libertà: risuona
D'inni ogni via; tuonan le piazze al grido
Dei Catoni d'un giorno; ardon le notti
D'assidui fochi, a cui tripudia in giro
Clamorosa la plebe; ove fra tanto
Spensierato tumulto odasi il cupo
Reböar del cannone, un improvviso
Pallor si sparge in tutti i volti; tacciono
Gl'inni, spengonsi i fuochi, in varia fuga
Mugghia qual mar l'immensa folla, sperdesi
Per le vie, per le piazze; odi a l'intorno
Un chiamar sospettoso; un concitato
Serrar d'usci, e suonar per la deserta
Via dei pochi animosi il passo e il grido;
In simil guisa al favellar del Nume
D'improvviso terror si ricoperse
L'anima e il volto dei Celesti, a cui
Solo è dolce allegrar gli ozî immortali
Di concenti, di danze e di conviti.
Si sgomentâro a la terribil nuova
Anco i pochi gagliardi; ed altri in volta
Diêrsi precipitosi, altri in querele,
Altri in preci. Piangean le vereconde
Dive, e al petto ed al crin faceano offesa;
Battean le picciolette ali indorate
I paffutelli Cherubini, e indarno
I bellicosi Arcangeli in piè ritti
Fan sdegnosa rampogna ai fuggitivi.
Scrollava il capo il divin Padre, e:—Imbelli,
Gridava, imbelli; ecco, qual pregio io traggo
Da l'aver per sì lunghi anni impinguati
I non mai sazî fianchi vostri! Avessi
Nudrito oche! Potrei nei delicati
Èpati almen delizïare il dente!—

Si chetarono alquanto, e vergognosi
Stettero. Allor dal radïoso scanno
Rizzossi in piè la diva Cate, illustre
Italo germe, e dei tuoi monti onore,
O belligera Siena, a cui più volte
Diè femmineo valor soccorso e grido.
Girò il guardo a l'intorno, e, nel capace
Petto premendo una gagliarda impresa:
—Arrossite, sclamò, voi non già eterni
Spiriti, non pur uomini nè donne,
Ma ventri e piedi senza sesso! Oh! foste
Tutti esclusi dal ciel! Ma già di voi
Cura io non ho: d'incliti spirti ancora
Forte presidio ha il paradiso, e quando
Fosse infranta ogni spada, infranta al certo
Non saría la mia lingua! Or tu mi ascolta,
Eterno Padre, e voi mi udite, alteri
Spiriti: in terra io scenderò soletta,
Inerme, come il dì, che a pace astrinsi
Di Pier le chiavi e di Fiorenza il giglio;
O come allor che a l'interdetta chioma
Di Clemente strappai l'aureo triregno,
E a schiacciar la fischiante Idra sospinsi
Sul carro de la Fede il saggio Urbano.
In Roma andrò; starò di fronte al fiero
Lucifero; e se ancor serba qualcuna
Di sue virtù questo mio labbro, ho fede,
O d'indurlo a tornar nel derelitto
Regno de l'ombre, o persüaso e vinto
Rendergli l'ali e ricondurlo in cielo.—

Tacque; e del suo parlar paga si assise
In sua beltà. Fremean d'assenso intorno
L'auree sedi del ciel; quando con voce
Di tutta tenerezza, e la mirando
Con dolcissimo sguardo:—Oh! che tu speri,
Che tenti mai? l'esperto Iddio rispose;
Lucifero domar? lui che de l'ira
Di tutto il cielo e di me pur si ride?
Tutta non fosse congiurata ai nostri
Danni la terra, agevol cosa invero
Il domarlo saría; ma come rupi
Stanno le fronti dei mortali erette
Contro ai fulmini miei; sfrenato e baldo,
Qual cavallo che irrompe a la battaglia,
Corre il Pensier, che, divorato il breve
Tramite de la terra, al ciel si lancia.
Annientarlo io potrei, ma me'l divieta
Un'occulta prudenza! Oh! sì ti fosse
Dato il frenarlo e ricacciarlo ai neri
Báratri, là dove il mio sdegno un tempo
Fitto l'avea con ferrei chiodi! Il cielo
Non avría stella mai che fosse degna
D'incoronarti! Ma timor mi accora,
Ch'opra vana tu tenti, e de l'ardito
Generoso tuo cor vittima resti!—
—E vittima sia pur, balzando disse
La divina Sanese: un dì potevi
Ricondurre vincente al patrio albergo
Una mortale di Betulia; io diva
Imploro a te pari soccorso, e parto!—
—Ma egli è un vecchio barbogio, egli è un fantoccio!—
Gridò in quel punto una stridula voce,
Bizzarramente modulando il verso.
Si conversero tutti a l'empio grido
Inorriditi, e ignuda in su la soglia
Videro sghignazzar ballonzolando
L'insanita Teresa. Era già il fiore
Del paradiso; ora istecchita e nera,
Rapata il crin, gli occhi sbarrati e pazzi,
Salti facea sugli spolpati stinchi,
Come scimmia strillando. Avvinto a un refe,
Che a' vizzi fianchi le facea cintura,
Giù pendevale un foglio, o fosse un brano
Del vangelo di Marco, o un'ispirata
Lettera, ch'ella avea nei suoi bei giorni
Fra l'isteriche ambasce a Dio già scritta.
Tremâr di sdegno a tanto osceno aspetto
Gli angioli santi, e gracidâr commosse
Le stagionate vergini, che assise
Qua e là pe' remoti angoli, a Dio
Biasciano tutto dì salmi e preghiere.
Drizzâro a stento l'aggobbite schiene,
E, sguardando di sopra a' tentennanti
Su la punta del naso argentei occhiali,
L'infelice avvisâr; brandîr con fiero
Piglio i lunghi rosarii e i crocifissi,
E già già si avventavano; ma stesa
Il buon Dio con pacato atto la destra:
—Perdonatele, disse, e a la sua cella
Dolcemente traetela. Infelice!
Troppo osò co'l pensier farsi vicina
A la fiamma del Vero, e in questa guisa
Del suo folle ardimento or paga il fio.—
Così dicendo, con paterno affetto
Schiuse le braccia, strinse al cor la bionda
Testa di Cate, e le concesse in fronte
Il caro bacio del commiato. Altera
Di cotanto favore ella si avvìa
Fra' plaudenti Celesti; inni e saluti
Le mandan l'arpe. Ai suoi custodi intanto
Sguizza di man la santa pazzarella,
E, sovra il naso il pollice appuntando,
Ghigna, sgambetta, e saltellando involasi.

CANTO TREDICESIMO.

ARGOMENTO.

Santa Caterina alla vista di Lucifero si perde d'animo, e, invece di convertire lui alla fede, converte sè stessa all'amore, e si abbandona ai voluttuosi abbracciamenti dell'Eroe.—Alcuni Angeli, sedotti dall'esempio, disertano il cielo, e cantano il desiderio della terrena voluttà.—Ultime ore di Pio IX; a cui apparisce l'Ombra di un solitario, che, non valendo a persuaderlo di rinunziare al dominio temporale della terra, lo lascia in preda a spaventose visioni.—Una vittima delle stragi di Perugia.—Due decapitati.—Straziato da queste apparizioni, il vecchio Pontefice muore, domandando inutilmente perdono.

Vestitevi di rose, aride arene
Del Colossèo! Se a fecondarvi, indarno
Scorse a fiumi su voi degli ostinati
Martiri primi e de le belve il sangue,
Valga a farvi fiorir la dïuturna
Prece di Pio: l'augusto veglio è padre
D'ogni portento, e tutto può. L'han chiuso,
Qual recidivo malfattor, nei templi
Transteverini; e, com'è ver, che al cenno
Del suo divo pensier struggesi in pianto
La sacra effigie di Maria, dai ceppi
Egli uscirà vittorïoso e forte,
E di vergini gigli incoronato
Ascenderà securamente al cielo.
Or, mentre aspetta il sacro giorno, e inqueti
Giacciongli al piè l'anàtema e la scure,
Volga ad altr'opre il non fallibil petto
Egli che, fabro di verginee madri,
I dolci nati de le madri uccide
Con serafico istinto. Un improvviso
April fiorisca il Colossèo; discende
A battagliar Lucifero l'altera
Amazzone di Siena, a cui più spade
Volse il facile eloquio e la virile
Beltà, che doma ogni poter. Chi vide
Entro al sereno immaginar del mito
Lieve il piè, cinta il vel, rosea le forme
Volger la fuggitiva Ebe fra' Numi,
Quei dirà qual fioría grazia e splendore
Di giovinezza e di salute in volto
De l'ardita Senese, allor che al guardo
De l'orgoglioso Apostolo ad un punto
Si appalesò. Muto ei sedeva in cima
A un dirùto pilastro, e la raggiante
Misterïosa immensità del cielo
Gli pendeva su'l capo: eran più vaste
Più chiare assai le sue speranze, e acuto
Più del guardo del Sole oltre a le cupe
Reggie d'azzurro il suo pensier vedea.
Meditava così: Dentro a l'audace
Spirto de l'uom fervida alfin si stampa
L'immagin mia; vantino uranghi e numi
A lui simile aspetto: il suo pensiero
A me rassembra, e il suo destino è il mio.
Libero già d'alte paure, scevro
D'ogni fallace illusïon di senso
Vuole, conosce e può; spezza il segnato
Limite del mistero, e dove è luce
Ivi il suo campo e il regno suo prescrive.
Così parlava dentro al cor; ma in quella
Che l'armato pensiero apríasi il varco
Ad alate parole, eccogli incontro
Sorger la Dea, che de l'eloquio ha il vanto.
Stupì l'Eroe di tanta vista, e, tutto
Ne la diva fanciulla il viso assorto,
L'ardimentosa giovinezza e gli atti
Securamente mansuëti e il lume
Di sì maschia bellezza iva ammirando
Silenzïoso. Anch'essa Dea non senza
Stupor mirava il gran Ribelle, e come
Una mesta pietà prendeale il core
Secretamente. Alfine in questa forma
Prese a parlar:
—Superbo e sventurato
Angiolo, nè so dir se in te più sia
La superbia tenace o la sventura,
E come puoi di tanto umile stato
L'aspetto solo comportar, tu primo,
Già primo, or fatto di pietade obietto,
Fra le schiere del ciel? Misero! e dove
Son l'ali tue? Dove la schietta luce
Del tuo fronte immortal? Scemo di tutte
Doti del cielo, a un passeggero e reo
Figlio d'Adamo io ben ti assembro, e nulla
D'eterno hai più, fuor che la tua sventura!—
—E la sventura è la ricchezza mia,
Bella figlia del ciel, così a dir prese
L'onor di Lui che da la luce ha nome;
Tesoro è il pianto, a cui null'altro agguaglia
Ne la terra e nel mar. Povero e gramo
Cultor l'arido solco apre a fatica,
Ed una al seme ed al sudor gli dona
Le speranze sue belle. Ispido e bianco
Sibila tra l'ignude arbori il verno,
Croscian piogge e gragnuole, e giù ridondano
In tumulto i torrenti: il poverello
Guarda tremando i duri prati, e al magro
Desco seduto a la sua donna a lato
Pur dolorando il bel tempo predice,
Finchè tutt'oro il crine e in man la falce
Esce il fervido giugno, i mareggianti
Campi sorvola, e generoso adempie
Di bionda mèsse i rustici abituri.
Così egregia mercede a l'uom prepara
L'esperimento del dolor. Dai solchi
Seminati d'umane ossa fuor balza,
Santa prole de l'opra e de l'affanno,
La Libertà, premio ai costanti: umana
Diva, ignota ai Celesti, ella inghirlanda
Dei raggi suoi l'ardue fatiche, e serba
Ad ogni affanno una vittoria. E quale
Dono è quaggiù, che non da lei derivi?
Per essa han luce ed armonia le genti
E veritade ed uguaglianza e vita,
Poi che vita non ha, nè veramente
Uomo è chi giace in servitù, ma ignaro
Bruto, ch'à in sorte il brago e la catena.
Vivon sol d'essa i generosi, ed io
Son la sua voce, e gli ozïati scanni
Del ciel per essa e volentier sdegnai.
O solenni cadute, o glorïose
Sconfitte, a cui libera vita io deggio,
Ricordando, mi esalto! E dovea forse
Crogiolarmi fra' sogni aurei del cielo
Eternamente, io re degl'irrequeti
Spiriti? Assiso ai tiepidi banchetti
In silenzio vorar le dispensate
Manne, io figlio de l'opra? Erger le palme
Supine a Lui, che, del suo nulla esperto,
Pur ne l'impero de l'error si ostina?
La terra elessi, ed ei cadrà! De l'ali,
Ch'ebbi inutili al dorso, armai la mente;
De la luce del fronte il petto istrussi;
Con l'uom piansi ed amai: scrissi co'l sangue
Le sue vittorie; e già n'è presso il giorno,
Che Dio dal regno e da la vita escluda!—

Rabbrividía come per febbre al fiero
Parlar la diva, e da' superbi accenti
Con la candida man schermía l'orecchie
Inorridita; nè risposta alcuna
Formar può, nè fuggire osa. Ben gli alti
Gesti de la sua vita e il dir facondo
E l'audace promessa a Dio giurata
Vergognando rimembra, e non sa quale
Fascino occulto or l'incateni innanzi
A l'avversario suo feroce e bello.
Dicea fra sè: Molti in virtù prestanti,
Molti in bellezza e in favellar maestri
Conobbi al mondo animi egregi; ha il cielo
Angeli molti, a le cui rosee membra
Vestimento è la luce e amplesso eterno
La giovinezza; or qual virtù ha costui,
Che sì mi svolge ed incatena il senno?
Così pensando, a l'anima dubbiosa
Fa forza; di rigore arma l'aspetto,
Cerca austere parole, e questi invece
Le vengono dal core umili accenti:
—Angelo, oh! soffri ch'io t'appelli ancora
Co'l tuo nome perduto; e che ti giova
Per questa ultima sfera ir pellegrino
Qui dove segue a la fatica il pianto
E ad entrambi la morte? Assai feroci
Detti hai parlato or or; ma una parola
Melodïosa, o che mi falli il senso,
Una dolce parola anche dicesti,
Che a perdonarti ogni fallir m'induce:
Pianto ed amato hai tu? Radice ha in terra
Ne l'empia terra anche ha radice amore?
Oh! come il viver coi mortali il senno
Pur dei forti travolge! Il paradiso
Oblïato hai così? Non sai che vita
E stanza e reggia ha solo in ciel l'amore?
Vieni, oh! vieni con me! Là, nel tranquillo
Regno degli astri al buon Iddio da presso
Vivrem vita serena; e in quella pace
Troverai la tua patria e l'amor mio!—
Tacque tremando, ed arrossía. Fu lieto
Di quei detti l'Eroe, però che vide
Su cotanta beltà certo il trïonfo,
E l'incalzò con queste voci:
—O chiara
Sopra a tutte le dive e la più bella
D'ogni terrena creätura, eguale
Solo a colei ch'è del mio cor regina,
E che parli d'amor tu che nel cielo
Al banchetto degli angeli ti assidi,
Ove straniero e dispregiato è amore?
Ben di tutta pietà degna t'estimo,
Se amore altro non sai, che la fallace
Larva impotente, che il gran nome usurpa,
E i parvi e non interi angeli illude!
Tutta ossessa di Dio, fiera dei molti
Trïonfamenti de la tua parola,
Da la terra passasti, e ti fu oscura
La vittoria miglior che donna ambisca,
La dolce voluttà de l'esser vinta.
Oh! cedi a me, cedi e trïonfa! Amore,
Terreno iddio, che fa pensier la creta,
Ti apprenderà come si vince: ei solo
Mi süase a pugnar contro a le cieche
Menti del cielo; ei qui mi addusse; ei muta
Ogni lagrima in fiore, e a le dubbiose
Anime ignare il vero Èden insegna!—
Parla, ed a lei che muta trema, e intorno
Päurosa si volge, apre le braccia
Supplicando con gli occhi, e in un amplesso
D'avidi baci l'anima le serra.
Cadea fra tanto il Sol; cheto e deserto
Era il loco; salían come invocate
Rapide al ciel le grandi ombre notturne,
E Amor lesto venía. Cedea la bella
Diva; e quando con man trepida e tutto
Fiamme e palpiti il cor, la virginale
Zona ei le tenta, ed ambi ansano, ignoti
Mondi ella vede: arde d'immenso aprile
La terra; giù dal ciel scendono in folla
Cento e cento lucenti angeli, e, fatta
Di sè fra terra e cielo ampia corona,
Sciolgono l'arpe al suon, le voci al canto:
—Stanchi di tesser danze
Di cento arpe al ronzío
Ne le lucenti stanze
De la magion di Dio,
Scender soleano un giorno
Gli angeletti scapati
Là nel mortal soggiorno
De le figlie de l'uomo innamorati.
Nei freschi antri, su' fiori
Tremolanti a la brina
Ponean l'ali e gli albori
De la fronte divina;
E, colto il bacio primo
Sovra le bocche ardenti,
Schernían gli astri, e da l'imo
Radïavan più belli e più possenti.
Lascia or l'eterea sede
L'inclito onor di Siena:
D'intemerata fede
L'alma loquace ha piena;
Al gran Ribelle incontro
Tumida sorge; e quando
Spera, che al primo scontro
Vinto egli fugga in volontario bando,

Ecco, dal labbro il detto,
Come spuntato strale,
Cadele; al dolce aspetto
Del gran Fattor del male
Pallida trema; al laccio
D'Amor l'anima assente,
Scorda sè stessa, e in braccio
Del rivale di Dio bello e possente,

Immemore del cielo,
Donasi, Oh! vaga, oh! bella!
Già del vergineo velo
Scevra, com'aurea stella,
Splende; da l'ansio viso,
Da le membra sincere,
Ignoto al paradiso
Spira in mille piacer solo un piacere!
O amore, amor! Sì forte
È il tuo terreno impero?
Sfida per te la morte
Del fango il figlio altero;
E, mentre a la tua rete
La voce tua ne incalza,
Ei l'ale irrequïete
Svolge dal fango, e contro al ciel s'innalza!

Scendiam, proviamo! A tutti
Zimbello è il Padre eterno,
E saggi e farabutti
Si ridon de l'inferno.
Scendiam, facciam baldoria
Tra' fiori e le donzelle;
Abbia l'Amor vittoria:
Vale un'ora d'amor tutte le stelle!—

Mentre i furbi angeletti in queste voci
Disertavano il cielo, e l'umanata
Senese, avvinta dal più dolce amplesso,
Primamente sentía la vita intera,
Su l'antica di Pio ferrea cervice,
Come sinistro augel, striscia la Morte.
Abbandonato su'l gelido letto
Luccicante di frange e di cortine,
Rabbiosamente egli vaneggia:
—Urlate,
Accorrete, soccorso! Il ciel, la terra,
L'inferno tutto ai cenni miei! Demòni,
Angeli, a voi: la forte anima mia
Per un anno di vita! I miei nemici,
Gli usurpatori impenitenti al mio
Piede un istante, e poi morir!—
Comparve
Pallido, immoto, macilente un Frate
Sovra la soglia:
—A questa Croce atterra
L'orgogliosa tua fronte!—
—Chi sei tu?
Che vuoi? Chi innanzi mi ti tragge? A l'ira
Non mi sforzare!—
—A la pietà ti sforzo,
A la pietà, se Dio, per maggior pena,
Non ti chiude la via d'esser pietoso.—
—Ma tu chi sei? Di vane ombre io non temo:
Son forte ancora!—
—Ombra, demonio, o Dio,
Quel che tu temi io sono. Ecco si appressa
L'ora; è scoccata: a le tue ferree porte
Batte il giudizio del Signor!—
—Che intendi?
Che oseresti tu mai?—
—Sgombra dal petto
La fallace paura: Iddio corregge
Pria di punire; e suo ministro io vengo,
Io, che di Dio non già, ma sol dovrei
Venir ministro de la mia vendetta!
E ancor forte ti vanti? A brani io veggio
L'inconsutile veste; ai fuggitivi
Tuoi passi il trono, il suol vacilla; e al cielo
Non ti rivolgi?—
—Al cielo, al ciel! Tu parli
L'eretica parola! Il ciel lo lascio
Ai miei nemici; a me la terra!—
—E quale?
Schiavo tu sei d'altri e di te! Mal tieni
Di Bonifazio e d'Ildebrando: hai l'ira
De l'un, de l'altro la superbia: il senno
D'ambi ti manca e i tempi. Il destin solo
Pari ad entrambi e in uno avrai: l'eterna
Città di Pier per te mutasi a un tempo
In Salerno ed Anagni: esule vivi,
Benchè in Roma; e a la tua guancia canuta
Stampano i Re più durature offese
Del ferrato manipolo di Sciarra.
Deh! rivolgiti al ciel!—
—Frate, pon fine
Al tuo sermone, e sgombra. Il cielo è patria
Dei deboli; la terra è mia! Già in armi
Sorgon Francia ed Iberia: il ceppo illustre
Dei Borboni immortali a l'aura nova
Mette nove radici, e fronde e rami
E fiori e frutta porterà: saranno
Frutti i trofei tolti ai nemici e il capo
Di quel Sabaudo avventurier tiranno,
Che, pur che copra le sue membra oscene,
Ruba a Cesare il serto e il manto a Cristo.—
—Vana speme è la tua! Dio, che a la terra
Dopo il gel manda i fiori, a l'uom consiglia,
Dopo lungo servir, la sacrosanta
Libertà del pensiero. E chi potrebbe
Co' suoi delitti attraversare il corso
De le leggi di Dio? Con l'empia destra
Ottenebrar l'indefinita luce,
Che da l'insetto a l'uomo equo dispensa
Di tutte cose animatore il Sole?
Credi tu, che ammucchiando ossa sovr'ossa
Tal diga innalzerai, che su la china
Si soffermi il torrente, a cui dan forza
I destini del mondo? Ah! il credi: amore,
Fede non si raccoglie ove non altro
Ch'odio e terror si seminò! Non sono,
Non sono, e Dio che tutto sa ne attesto,
Distruttor de la fede i rubellati
Spirti e l'ereticanti alme! Voi primi,
Voi soli, occulta d'ogni mal radice,
Voi co'l sangue versato alimentaste
L'idra de l'Eresia; questo malnato
Poter, che cinge Iddio d'ire e di sangue,
Ai quattro venti de la terra il grido,
Fu la prima eresia!—
—Frate! s'hai caro
Il viver tuo, non funestar l'estreme
Ore del poter mio. Smetti l'altero
Tuo cipiglio d'apostolo: la fame
Rende spesso profeti; avrai se 'l brami
Copia di tutto; or lasciami.—
—La mia
Vita è cosa del ciel; se dono alcuno
Vuoi che da te, vecchio feroce, accolga,
Dammi il rogo, o la scure. Odi l'estrema
Voce di Dio: rassegnati e perdona;
Già perdonando incominciasti.—
—Ardisci
Rammemorar la mia viltà? la fonte
D'ogni sciagura mia? Male incomincia
Perdonando chi regna! Al generoso
Uopo s'applaude in pria; povero e scarso
Indi appare ogni don, però che ingordo
È il cor di lui che a nullo bene è avvezzo:
Debito par la carità; diritto
La pretesa più stolta. Egual si tiene
A lascivo signor che la careggi
Meretrice proterva, e a lei somiglia
L'avida plebe: oggi le dài l'anello,
Doman ti chiederà manto e corona;
Alza dal fango la servil cervice,
Spezza il fren, rompe il cheto ordine, invade
L'altrui poter, dritti e doveri ingombra,
Tal che, sconvolto il socïal congegno,
Divien chi serve re, servo chi regna.
No, no: perde chi cede. Uom che securo
Tien l'alta riva, io non dirò che il senno
Abbia intero, se al torbido torrente
Perigliando abbandonasi. Tal fui
Un solo istante, e n'ho rabbia e rimorso:
Nel reo vulgo ebbi fede; osai l'esempio
D'Alessandro imitar!—
—Del pari infido,
Ma più debole fosti!—
—E qual mercede
N'ebbi dal mondo? Risvegliai l'orrenda
Idra dormente al mio piede; potea
Schiacciarla, e la svegliai. Stolto! i suoi primi
Sibili e i morsi avvelenati io primo
Sperimentai: mira qual sono!—
—Accusa
L'alma tua poca e infida. Esser potevi,
Rege non più (fra le vergogne e il sangue
Già da gran tempo era sepolto il trono
Su le vergogne e su le colpe eretto),
Ben regnar da l'intatte are potevi
Pontefice, e lo puoi! —

—Se crolla il trono,
Caggia anche l'ara: o tutto, o nulla! —

—E il dito
Di Dio non temi? —

—Il Dio che adoro è fatto
Ad immagine mia!

—Ben veggio: è indarno
Ogni mio favellar. Ma se in te morto
È il pontefice e il re, l'uomo ancor vive;
Odimi dunque, o sciagurato, e trema.
L'ara di Dio non crollerà: cadranno
Gli astri del ciel, la fede no. La terra
Stanca è d'ire e di stragi, e pace e amore
Cerca, e l'avrà. Dio tornerà su queste
Sedi, da cui tu lo cacciasti in bando;
Tornerà Pietro a regnar l'alme: assiso
Umilemente a Cesare da lato,
Avrà di lui non men possente impero
E più vasto d'assai. Tu muori intanto,
Implacabile vecchio; impreca, e muori
Impenitente; al tuo letto custodi
La tua memoria e la Coscienza io lascio! —

Disse, e disparve. Il bieco occhio e la voce
Mosse il fiero morente, e una tremenda
Vista mirò. Più sol non era: accanto,
A piè del letto, al capezzal, d'intorno
Un popolo sorgea di brulicanti
Scheletri: avean ne le profonde occhiaie
Come due fiamme che parean pupille,
E un tal verso facean con le dentate
Mascelle, che parea voce e sogghigno.
Trema, boccheggia il vecchio irto; l'infermo
Corpo giù giù tra le diffuse coltri,
Scivolando, rannicchia; e freddo, cheto,
Senza respir, con muto occhio furtivo
Segue dei suoi tremendi ospiti i moti.
Uno spettro parlò:

—Possa la voce,
Che un'altra volta acquisto,
Strazïarti così, vecchio feroce,
Trafficator del Cristo,

Che, incenerito il reo manto e la stola,
Di cui nascondi invan l'anima fella,
De le vive tue carni ogni parola
Un bran vivo divella!

D'ossa e di polpe ignuda
La negra anima tua sensibil resti;
Ch'io l'afferri, e nei miei pugni la chiuda,
E co 'l piè la calpesti!

Forse canuto a par di te non era
Vecchio cadente anch'io?
Non era tua quell'itala bandiera,
A cui tutto fu sacro il viver mio?

Ma tu, Giuda due volte, il bacio vile
A Cristo e al popol dato,
Tolto di sotto al manto il doppio stile,
Li trafiggesti entrambi al manco lato.

Sbucaron da li Elvezî antri le ladre
Turbe, che a libertà mal dànno il petto,
Se, liberate da la man d'un Padre,
A prezzo maledetto

Concedon l'alme, e li venali artigli
Affondano nei fianchi
De l'abusate vergini, ed i figli
Sotto agli occhi dei padri infermi e bianchi

Svenano. O voi, più dei miei pover'occhi
Cari lattanti e nuore giovinette,
Voi sedevate attorno ai miei ginocchi,
Come innocue agnellette,

Quel dì, che scatenate
Dal cenno di costui che il ciel promette,
Per le vie di Perugia insanguinate
Correan le sue vendette.

Cinti di ferro, e d'oro e sangue ingordi
Rupper ne le mie case in un momento
Gli sgherri di costui feroci e sordi
Come tigri in armento.

E i miei due figli, i miei leoni intanto
Non erano con noi!
Pugnando a l'ombra del vessillo santo,
Caduti eran da eroi!

Nè mi fu dato, oimè, baciar le care
Teste morenti e udir le voci estreme,
Comporre i corpi vostri entro le bare,
A voi morire insieme!

Ben dei pargoli vostri e de le amate
Spose lo strazio vidi
E il vitupero!… Oh! in me, in me sol vibrate,
Empî, i ferri omicidi!

Ultimo caddi. Or paradiso, o inferno,
Vedi? o vecchio feroce, io non aspetto:
Dio qui mi manda; e qui starommi, eterno
Fantasma, al tuo cospetto!—

Tacque, e due sovra gli altri orridi in vista
Fuor de la calca si avanzaron: muti,
Rigidi, ritti ritti, lenti lenti
A le due sponde del funereo letto
Stettero; e, del lenzuol freddo scoprendo
A viva forza del morente il capo,
Tentennâro i crocchianti omeri. Come
Da l'ultimo edificio, allor che trema
Sussultando la terra, e bianchi in viso
Fuggono i passegger, cade un divelto
Sasso, e paura ai fuggitivi accresce;
Così a quel poco tentennar divisi
Lor cascano li teschî rilucenti,
Che balzando e mettendo orrido un suono
Ruzzolan sul marmoreo pavimento,
Come vediam dietro ad arancia o mela,
Che per trastullo il genitor gli lancia,
Correre il fanciullin con passo incerto;
Quando più crede che le sia da presso
E già già la raggiunga, ad afferrarla
Gittasi, e quella, che ad avverso oggetto
Battuta è intanto, retrocede o volge
Per via diversa, e il seguitor delude,
Che il piccioletto cor gonfio di bizza
Carpon, carpon la insegue, e non si cheta
Pria che in pugno la stringa e la riporti
Al genitor, che sorridente incontro
Gli apre le braccia, e sopra al sen lo accoglie;
Tal dopo ai proprî teschî si lanciarono
I mutilati scheletri; da terra
Li raccattâr; fra' cricchiolanti carpi
Li strinsero, e con fiero atto al morente
Li avvicinâr, mostrandoli. Fremea
La turba, come avvien, quando improvviso
Sguiscia aquilon su l'arido scopeto
De la foresta; ma parola o voce,
O moto alcuno non mettea l'oppressa
Anima del morente: il dubitoso
Spirito avea tutto negli occhi; un cupo
Rantolo gli stridea per entro ai duri
Visceri, perocchè, simile a un ferreo
Non unto filo di dentata sega,
L'ultime fibre gli rodea la Morte.
S'avvivarono a un tratto i mozzi capi,
E battendo le labbra e le palpèbre
In terribile forma, e sangue e detti
Fuori gemean de la divisa strozza.
S'appressarono allor quanti d'intorno
Eran spettri e fantasmi, ed in quel sangue
Tutti tingendo fieramente il dito
Segnarono sul fronte il morituro,
E gridarono insiem: Sii maledetto!

A quel tocco, a quel grido, immantinente
Si scosse, si agitò, tutto si storse
L'irto veglio, qual suol malaugurosa
Nottola da le unghiate ali, qualora
Dispietato monel con improvvisa
Canna l'abbatte, ed al nemico lume
L'appressa sì, ch'ella bestemmî e strida.
Ma qual putida ràzza, che, di mano
Sguizzando al pescatore, agita al suolo
Le acute pinne e la scabrosa coda,
Finch'egli irato la riprende, e sbatte
Contro un sasso, e l'acqueta ne la morte;
Così fuor dal lenzuol frigido a terra,
Dibattendo le flosce membra, piomba
Il tormentato agonizzante; i gialli
Occhi stravolge, e mugola: Perdono!

Sparîr gli spettri; su la fredda soglia
Lucifero comparve, e disse: È tardi!

CANTO QUATTORDICESIMO.

ARGOMENTO.

Saluto di Lucifero al Sole; tra' raggi del quale rivede l'immagine di Ebe.—Attirato da mirabile fascino d'amore l'Eroe si solleva per l'aria; traversa gli spazî, giunge in Venere, si confonde con l'amor suo, e procede infino al Sole, da dove alza la voce dell'ultimo giudizio.—I morti d'ogni età e di ogni loco risorgono, e s'innalzano dalla terra per assistere al giudizio di Dio.—Rassegna di filosofi; d'istitutori di popoli; di riformatori.—Le vittime domandano vendetta.

Così moría l'alma implacata. Al Sole,
Che al meriggio splendea limpido e caldo,
Lucifero parlò:

—Re de la luce,
Odimi. O sia che il bruno orbe tu chiuda
Entro a un mare di fiamme, onde le negre
Cime dei monti tuoi sorgono, e dànno
Ombre indistinte al tuo nitido aspetto,
O sia che un vel d'opache nubi, amico
Di fulgidi riflessi, e una diffusa
Sfera di luce e di calor ti avvolga,
Te genitor d'ogni terrena vita
Io chiamerò, quando da te deriva,
O che vegeti immota, o inconscïente
Movasi, o pensi ogni creata forza.
A te le numerate ore d'intorno
Danzano; a te, padre di climi, il fronte
Volge amante di luce ogni pianeta;
E tu, di vita liberal, dispensi
Raggi e sorrisi a qual ti porga il volto,
E i più miti a la terra. Umile in vista
E ritrosa al tuo sguardo offre ella il grembo
Palpitante a la lunge, e non si attenta,
A par del fuggitivo Èrmete, appresso
Fartisi tanto, che mortal saetta
L'amoroso tuo raggio a lei diventi.
Tu per propria virtù dal mare insonne
Traggi i vapori, e in nubi atre li addensi,
Che indi, in pioggia disciolte, al vigilato
Solco dan biade e pomi al bosco e nuova
Freschezza a la vitale aere, da cui
Vigor nuovo di membra a l'uom deriva.
Nè i sensibili corpi orni soltanto
In visibile guisa, e ti compiaci
D'apparente beltà, però che in seno
Scendi a tutti i mortali, e, a quella forma
Che scaldi e svolgi il fecondato seme,
E del tuo sguardo il puro etere allumi,
Desti così ne l'ordinata mole
De le membra il pensier, ch'è de l'eterna
Ben disposta materia agile alunno.
Qual da le scarse gelosie d'un chiostro
Libera il guardo al ciel la verginella
Disïosa d'amor, tal da l'oscura
Compagine mortal di nervi e d'ossa
Si sprigiona l'amante animo, e, tutto
Di te, sovrano genitor, sentendo
L'occulto foco e la natía virtude,
Per li campi del vasto essere, in cerca
D'ignote sfere e di negati oggetti,
Lanciasi, e tanto si dilunga e sorge,
Che par sostanza spirital, che possa
Dagl'involucri suoi viver divisa.
Ma chi dirà, che viver possa il modo
Senza l'obietto, o ver da lui distinto?
Che fuor de la gagliarda arbore viva
L'occulta forza vegetal? Si schiude
Per valor de la terra il seppellito
Seme, germoglia, si divide e s'alza
In foglie, in rami; con robusti nodi
Stringe ed avvinghia la materna zolla,
Respira, ama, s'infiora, infin che un diro
Turbo lo schianti, o avversa scure il tocchi.
Forse quella virtù, che gli diè vita,
Morto lui, fugge altrove, e per sè vive?
Suon di melodïosa arpa, che il petto
D'indefinita voluttà comprende,
Quando i candidi rai piove la luna
Su le mute campagne, e i sonnolenti
Fiori deliba la fugace orezza,
Io già non penserò, che per sè solo
Le sonore de l'aria onde commova:
Frangi le corde del gentil strumento,
Tosto il suon cesserà. Simile in questo
È l'uman corpo a l'arpa: Amor risveglia,
Divo maestro d'armonie, le nostre
Facoltà, che nel cor siedon sopite;
E quanto in noi più gentilezza è posta,
Maggiore e più gentil n'esce un accordo
D'affetti e di pensier, d'opre e di accenti.
O Amor, sole de l'alma, ove io ripensi
Di che alata virtù doni il pensiere,
Scarso e povero assai sembrami il lume,
Che avviva ed orna ogni creato oggetto!
A te, come a la mite alba la schiera
Dei canori volanti, al nuovo aprile
La famiglia dei fiori, al Sol che torna
Tutte cose universe, alzasi in festa
L'umana vita, e al magistero intende
D'ogni nobile ufficio. Immota e cieca
Mole sarían le nostre membra, e inerte
Cosa il pensier senza di te: sembiante
A tardo bue, che il travaglioso ordigno
Del volubile bindolo raggira
Tutto il dì, senza posa, e non sa quanto
Sgorghi tesoro da la sua fatica.
Ma tu, di libertà padre, fai lieve
Ogni gravezza, ogni umiltà sublimi,
Ogn'inerzia dilegui, e di noi stessi
Conoscenza ne dài piena e sicura.
Tu de l'etereo Sol, da cui proviene
Quanto è d'uopo a la vita, il più fecondo
Raggio in noi custodisci, ed una al chiaro
Conoscimento, che da lui si nacque,
Un ribelle ne infondi altero istinto,
Per cui, divino matricida, a fronte
D'essa Natura l'uman genio irrompe
Con fiera sfida, e la tenzona a morte.
O solenni ardimenti, o generose
Pugne e vittorie senza fine, a cui
Deve l'uomo mortal meno infelice
Vita nel mondo, e sol per cui si eterna!
Sovra la fossa, ov'ei tutto discende,
La memoria di lui sorge, e qual face
Da mille spere riprodotta in giro,
Entro ai petti degli uomini risplende
Centuplicata, e si perpetua, e in guisa
Vive con noi, che, per superbo inganno,
Vita verace il ricordar si tiene
Ed anima immortal, ch'abiti altrove,
La memoria che d'altri in noi risiede.
Ma del credulo gregge e dei fallaci
Ciurmadori de l'Arte e di Sofia
Scevre serbate voi le nuove genti,
O Sol, re de la vita, o Amor, sovrano
Del pensiero mortal; voi de la vostra
Pura luce vital fate lavacro
Agli egri petti, e date ala ed acume
A qual dentro a l'error cieco si ostina
Siccome talpa sotterranea: ei senta
Stupefatto ad un'ora il vostro lume,
Mentr'io, già presso al mio trïonfo, a voi
Tendo le palme, e voi propizî invoco!—

Tal parlava implorando, e il guardo acuto
Più che punta di stral figgea nel volto
Radïoso del Sol, quando a un sol punto,
O che vero ei mirasse, o che a l'ardente
Spirto facesse illusione il senso,
Visto gli venne un portentoso aspetto,
Onde il cor gli balzò. Come ne l'ora
D'un purpureo tramonto, ove più ferve
A piè de la Scillèa balza il vorace
Turbo estuöso del latrante mare,
Sorger vede il nocchier vigile un roseo
Fantasima di donna, a cui ghirlanda
Sono i raggi di cento iridi, e molle
Guanciale il fior de le fioccanti spume;
L'affisa egli ammirando, e, se in quel tempo
Gli sorride ne l'alma un dolce amore,
L'oggetto dei suoi voti in lei ravvisa;
Così a fior del fiammante orbe del sole
Nuotar vede l'Eroe trepido un'ombra,
Incerta ombra da pria, che umana forma
Man mano assume e leggiadria cotanta,
Che la viva in suo core Ebe gli sembra.
Esultò giubilando, e in queste alate
Voci si effuse:

—Oh! ben t'è stanza il sole,
Ben t'è regno la luce, aurea bellezza,
Che il petto mio, vago di luce, imperi!
L'amor mio non sei tu? L'idolo amato
D'ogni speranza mia? L'ala e la possa
Del mio pensier? Deh! come fausto io deggio
Stimar l'auspicio, che da te mi viene
In quest'ora solenne! Ecco, già sento
Crescer lena al mio spirto; odo la voce
De la terra e dei secoli, che chiama
Al gran giudizio Iddio! Non altrimenti
Che fosco immaginar d'egro intelletto
De la rosea salute al giovanile
Soffio si sperde, io sperderò le larve,
Che ne usurpan dei chiari astri la sede:
Tutti i Numi cadranno; al ciel, da cui
Una fiera e tenace ira mi escluse,
Or mi solleva, e trïonfante, Amore!—
Ciò detto appena, un tal fascino il prese,
Che per lo spazio il sollevò: non punto
Dissimigliante a fuscellin, che avversa
Forza di calamita attira e regge;
Se non che, quanto più di contro al sole
Lucifero salía, tanto fra' biondi
Raggi del ben veggente astro la bella
Crëatura d'amor veníagli appresso.
L'un lasciavasi a tergo il montuöso
Arido aspetto de la varia luna;
L'altra il denso Cillenio; e già a la vista
Ridea d'entrambi l'acidalia stella,
Cara sempre ad Amor, sia che tra' fiori
Del candido mattin splenda, e le piaccia
Di Lucifero il nome, o che tra' rosei
Vespertini crepuscoli biancheggi
Dagli amanti invocata, e più le giovi
Che il penoso mortale Espro l'appelli.
Qui s'incontrâr l'alme felici, e un'onda
Di purissima luce e di colori
Si diffuse d'intorno, e parte n'ebbe
Ciascun pianeta e non minor la terra.
Tal, se indagine umana al ver s'adegua,
Versa tesor di colorati raggi
Sovra i cultori suoi Perseo superbo,
Perseo, che a l'alba Galassèa nel grembo,
Qual trïonfante eroe, splendido incede,
E trono e serto ha di due Soli: un, tutto
Fiammeggiante di porpora, vermigli
Dardi per l'aria, a par di Sirio, avventa;
L'altro in un vel di cupo indaco avvolto
Mestissimo risplende, e d'ambi al raggio
In cento iri d'amor l'aria si frange.
A l'aspetto di lei, luce costante
Del suo pensier, verbo non ebbe o voce
O sospiro l'Eroe; sol di quantunque
Forza d'amplessi a le sue braccia, e al ciglio
Splendor di sguardo a lui mai diede Amore,
L'abbracciò tutta quanta, e la comprese.
Ella parlò:
—Me non la luce, o il cielo,
Ma la terra natía covre e trasforma
Con benigna virtù: polvere io sono,
E su le membra, che l'Amor fioría,
Or l'argentea rugiada educa fiori,
Tra cui l'armonïosa aura susurra.
Però non ammirar, se agli occhi tuoi,
Siccome un dì, pur tuttavia risplendo
Dentro a la luce dei miei giovani anni:
Miracolo è d'Amor; palpito e vivo
Immortal vita nel tuo petto, e queste
Forme fiorite, che l'Amor mi dona,
Altro non sono che veder, per cui
L'anima tua pietosamente illude.—
Con questi detti eran venuti a l'auree
Case del Sol, che tutto vede. Agli occhi
De lo stupito Eroe di luce nuova
Balenò la fanciulla, e tanta prese
Parte di lui, che dentro a lui disparve.
Dritto sul fiammeggiante astro egli stette
Con eccelso pensier: fra quel deserto
Vastissimo di luce, immensurata
Granitica parea mole, che sfidi
La procella dei sordi anni e del cielo.
Dove figge lo sguardo? Al globo estremo,
Che i pensanti mortali alberga e nutre,
Veglian perpetue le sue cure. Orrende
Cose egli vede in quell'istante: oscure
Carceri e ferri cigolanti e ruote
Stridule sopra a vive ossa e cadenti
Sovra al collo de l'uom nitide scuri
E torbe fiamme crepitanti ingorde
D'umane carni e gorgoglianti abissi,
Da cui, fra un vasto popolo di morti,
Pochi, indomiti capi alzansi a guisa
D'incrollabili rupi e di Titani;
E, sopra tutto, galleggiante un'ara
Lucida ai roghi, e in cima ad essa un muto
Fantasima, che or dorme ed or sorride
Villanamente. Fiammeggiò negli occhi
Terribile l'uman Dèmone, e, tutto
Dal profondo del cor svegliando il grido,
Queste fiere avventò voci supreme:

—O voi, che ne la fossa
Da tanti anni dormite,
Vestite i nervi e l'ossa,
Fuor de la morte uscite;
Da l'una a l'altra riva,
O Morti, in piè levatevi:
Il gran giudizio arriva!

Su la temuta scranna,
Giudice inesorato,
Non siederà tra' fulmini
Siva feroce, o il nato
Da vergin grembo: in questo
Novo giudizio mio,
Morti, voi siete i giudici,
Il delinquente è Dio!

Porgi al vietato sorso,
Tàntalo, il labbro; scuoti,
O Encèlado, dal dorso
Il cupo Etna; dal fondo
Dei fiammeggianti inferni,
Tiféo, balza, e t'allegra:
L'adamantina Morte
Spezza del ciel le porte,
E, spazïando libera
Pe' vani antri superni,
Fischia, e s'apprende a l'egra
Canizie degli Eterni.

Novello Brïarèo,
Bronte novello al grido,
La voce alza e la faccia
Il Pensier numicido;
E, con più fauste prove
Che sul campo Flegrèo,
Strozza il mutato Giove
Con le sue cento braccia.—

Disse, e balzâr su dagli avelli i morti
D'ogni età, d'ogni loco. A quella forma
Che noi vediam, quando più ferve agosto,
Sorgere al ciel degli orizzonti in giro
Sparsi mucchi di nubi, a cui dà il vento
Strani aspetti di mostri e di giganti,
Che arruffando più e più le bianche creste
Sfidan mugghiando il sole: impaurito
Il parco agricoltor guardali, e trema
Non saettin dal grembo in su' compiuti
Grappoli il nembo d'una ria gragnuola;
Similmente s'ergean su da l'immensa
Folta alcune preclare Ombre, per cui
Prendea 'l cor dei Celesti alto sgomento.
Or tu, qual che tu sii, dèmone amico,
Ch'entro al cervello mio semini i forti
Carmi, a cui sol, più che ricchezza o nome,
Fieri conforti a la mia vita io chieggio,
Tu, poi che tanto il ricordar ne giova,
Le più illustri rammenta, onde non sia,
Chi, nel dì sacro a la ragion del Vero,
Degli eroi del Pensier non sappia i nomi.
Primi a tutti sorgean quanti fra un cieco
Gregge di paventose anime e l'ombra
D'insofferenti età la fronte audace
Spinser, chiamando a mortal guerra Iddio:
Sdegnose alme ribelli, a cui stiêr contro
La terra e il ciel, gli uomini e i Numi, e nulla
Fede giovò, nè culto altro che il Vero.
Duce e signor di questa schiera eletta
Empedocle insorgea, nome e decoro
De l'antica Agraganto; e a lui d'intorno,
Come ad avvalorar la sfida antica,
Tu fiammavi tuonando, Etna superbo.
Salute al foco genitor, salute,
Vecchio vulcano, a te! Fiammeggia e tuona,
Come in quest'ora ch'io ti guardo e canto,
O sepolcro di sofi e di titani;
Tuona, fiammeggia; ed a le sfatte genti,
Ch'invide o ignare a noi drizzano il dardo
Del meschino epigramma, e ne dàn nome
Di selvatiche proli, una favilla
Gitta, in pietà, de l'incorrotte fiamme,
Che bollon ne le tue viscere, e a noi,
Di lingua no, ma d'alma e di man prodi,
Superbamente ardono il petto: avranno
Forse vergogna di sè stesse allora
Che sentiran dentro a le fiacche vene
Scorrer men pigro e men putrido il sangue!
Secondo al Saggio agrigentin venía
L'amabil sofo di Gargetto, a cui
Fu scola e Dio la voluttà del bene;
E tu gli eri da canto, inclito vate
De la Natura, a la cui dotta voce
Scese del Tebro bellicoso in riva
Venere santa, e una divina infuse
Nel tuo petto gagliardo aura di canti.
Seppe allora di Marte il fiero alunno
De le cose il principio, il mezzo e il fine,
E maledisse a la feroce e stolta
Religïon, che d'ogni mal feconda,
Potea nel sen de la verginea prole
Spingere un padre a insanguinar la mano.
E già dietro a tal duci impazïente
Balza da terra, e contro al ciel si lancia
L'audace di Vanini ombra sdegnosa:
Scuro e bieco ei s'inalza, e nugol sembra
Nunziator di procella. Orridi in vista
Gli s'ergean sotto i passi il palco e il rogo,
Ed egli co' fiammanti occhi tremende
Cose dicea, ma fieramente muto
Era il suo labbro: ahi! la faconda lingua,
A cui diede Sofia nuovi argomenti,
Mozza gli avea chi dai venali altari
La luce e il detto di Sofia paventa.
Vien seco il Mantovan, che da l'augusto
De l'umana Ragion tempio immortale
L'anima e Dio securamente escluse;
E chi pria rubellando il dotto ingegno
A l'idolo inconcusso di Stagira,
Più vasto al pensier nuovo aere dischiuse,
Cui ratto con gagliarda ala discorse
Liberamente il prigionier di Stilo.
O voi del Crati fragoroso opache
Selve, così vi serbi intatte il nembo,
Proteggete almen voi d'ombre cortesi
Le sacre, inonorate ossa del vostro
Vecchio Telesio! Accanto a lui, che tutto
Splendido in suo candor cheto s'inalza,
Freme e lampeggia il precursor di Nola,
Dal cui fiero intelletto e dal cui rogo
Tanta infamia ebbe Roma e luce il mondo.
Ma forse il genio mio scorda il tuo nome,
Di Malmèsburi onor? La tua bizzarra
Fronte, entro a cui d'Albion tutta s'accolse
La superba ed acuta indole strana,
Certo non io fulminerò, se assisa
Sovra il collo ai mortali in ferreo trono
Vedesti, autrice universal, la Forza.
Forse il Dritto e il Sapere, adamantino
Brando e scudo, di cui s'arma e difende
Per natura chi umano ebbe il sembiante,
Forza eterna non è? Ben essa al volo
T'armò in tal guisa il prepossente ingegno,
Che, oltre a l'etra sorgendo, al vulgo illuso
Quinci gridasti: Un vuoto nome è Iddio!
Tal da l'Ande selvose al ciel sublime
Lancia la poderosa ala il condòro,
E le nubi calpesta, ed orgoglioso
Dei voli suoi sfida stridendo i nembi.
Ecco, appresso a costoro a cui d'intorno
Fa ressa e ondeggia una men chiara folta,
Rompe un fiero drappello, a cui son duci
Diderotto ed Holbacco, incliti entrambi
Risvegliator di popoli; vien terzo
Elvezio, e quarto Volney. Qual suole
A l'improvviso infurïar d'un nembo
Fendersi ai lampi il ciel, tremar la terra,
Crollare alberi e tetti, e scatenarsi
Dalle ripe con fiero èmpito i fiumi;
Così d'intorno a la tremenda schiera
Un fremito, un fragore, una ruïna
Terribile s'udía, mentre il solingo
Ginevrin, precedendo, iva due faci
Sanguinose agitando, e come strale
Il riso di Voltèro il ciel fendea.
Da l'altra parte, in cupa nebbia assorti,
Vengon color, che il falso al ver mescendo
Con sagace pensier, norme e governi
Persuäsero ai popoli, ritrosi
Ad ogni culto di civil commercio.
Da l'aurifero Gange, in simiglianza
Di marmorea colonna, ergeasi al cielo
L'antichissimo Brama; ed eran seco,
Co'l ben veggente istitutor dei Parsi,
Trismegisto e Confucio, e quei che miti
Dettò leggi ai Fenicî, inclita gente
Domatrice del mar; non che il divino
Germe di Clio, trïonfator di traci
Belve e de l'Orco, non di voi, gelose
Donne de l'Ebro, al cui baccar fu il biondo
Mozzo capo concesso e l'aurea cetra
Favellatrice di gentili affetti,
Non vivo il core a un solo amor devoto.
V'era inoltre Pompilio, anima ricca
Di scaltriti consigli, e finalmente,
Simile in tutto a l'Arabo Misèmi,
Il campato da l'acque astuto Ebreo.
Videli appena da l'opposta parte
Di Malmèsburi il Saggio, e li squadrando
Con traverso cipiglio:
—O voi di Numi
Fabbricatori e mercatanti, disse,
Qual maligno talento a noi vi mena
In quest'ora di gloria e di vendetta?
Stolti! che al sommo socïal potere
Sovrapponeste un fiero idolo, al cui
Temuto auspicio smisurate e salde
Sparse l'Error l'empie radici in terra.
Ma stagione or mutò: gli egri intelletti
Dal morbo rio, che li torceva al cielo,
La Ragione guarì: solo e severo
Nume e legge la Forza; e qual volesse
Novelli Iddii favoleggiar, d'infame
Morte morrà. Mal vi destate adunque
Di Lucifero al grido; al vostro Nume,
Gloria non già, morte e vergogna ei reca!—
— Inclito senno d'Albïon, rispose
Tosto l'Eroe, che pur nel nome ha luce,
Quale acerba rampogna or t'è fuggita
Da la rigida bocca? Impazïente
Del trïonfo de l'uom, ch'è mio trïonfo,
E sdegnoso di tutti idoli a dritto
Epperò degno mio campion tu sei;
Ma trasvolar quanta ragion mai possa
Proteggere costor d'un'aurea scusa,
Lodevol cosa io non dirò, nè giusta.
Allor che inconscî d'ogni ver, fra bieche
Fraterne ire e sospetti, una brutale
Vivean vita gli umani, e la Paura,
Despota d'ignoranti anime, orrende
Cose spirando, il ciel, la terra, i flutti
Popolava di Numi e di Chimere,
Chi avría, senza periglio e senza tema
Di gittar l'opra inutilmente, esposto
Scevro di veli ad uman guardo il Vero?
Il Vero è Sol, che i grami occhi abbarbaglia
Di chi vive ne l'ombre. Or chi di biasmo
Farà segno costor, se al radïante
Volto del Ver, perchè men dèsse offesa,
Posero un'ombra, a cui diêr nome Iddio?
Come in aprica e ben disposta aiuola,
Ove il buon giardinier, tutte a lei vòlte
Le rigid'opre de la ria stagione,
Depose i germi prezïosi, i solchi
Serpeggianti vi aprì, per cui non manchi,
Quando più punge il Sol l'arida terra,
La fresca linfa ch'ogni fior ricrei,
Al richiamo d'april vestesi a festa
Ogni pianta, ogni stelo, e tutto in giro
Ride il suol di colori e di fragranze;
Così a la voce di costor, che fûro
Primi maestri di civil costume,
Fiorîr genti e città, su cui da l'ara,
Perch'uopo avean di fede i rozzi ingegni,
Stendea la Legge il moderato impero.
Se non che, sòrta quella ria masnada,
Che, l'umana pietà mercanteggiando,
Usurpò i templi de la terra, e il cielo
Con chiave d'oro al fornicar dischiuse,
Non più di civiltà mezzi e stromenti
Ma tiranni de l'uom fûr fatti i Numi.
Nacque allor ne le oppresse anime, a cui
A tempo il Ver fatto avea chiaro il senno,
Fiero un disio di rubellarsi al plumbeo
Giogo del ciel; suonò per l'aria il grido
De la riscossa, e si pugnò. Non vinse
Per certo Iddio; vide fumar d'umano
Sangue innocente i mercenarî altari;
Ma le vittime han vinto. A poco, a poco
Scemò, come al mensil corso la luna,
La possanza del Dio, ben che di ferro
Tempra vantasse ed immortal. S'ostina
Pur tuttavia, quantunque imbelle, e inciampo
Ultimo ei resta al trïonfar del Vero.
Or, perchè l'uomo in sul fulmineo carro
Di Civiltà varchi ogni meta e segno,
Sovra il corpo di Dio convien che passi!
—Seguían queste parole; ed ecco incontro
A l'aureo Sol levarsi altra falange
Di pure e maestose Ombre, che a duci
Budda e Socrate avean. Per l'opalino
Etra sorgeano, e più ch'uomini e forme
Parean candidi rai d'alba nascente,
O visibili idee: tanto di luce
Avean d'intorno e tal purezza in viso.
Sorge anch'ei dietro a lor, ma bieco e solo,
Sopra cavallo indomito l'ossesso
Battaglier de la Mecca, a cui nel pugno
Nudo lampeggia e sanguinoso il brando:
Nembo ei par di tempesta, in quel ch'a' buffi
D'euro si squarcia, e tortuöse e rogge
Solfuree fiamme in su la terra avventa.
Ma già un nuovo drappel chiama la voce
Del canto mio. Come vorace fiamma,
Poi che tutte afferrò l'aride secce
Del vasto campo, il vicin bosco invade;
Terribilmente crepitando esulta
Con cento lingue sanguinose a l'etra;
Così questi venían dopo a un vessillo
Fluttüante a l'avverse aure, su cui
Con vivo sangue uman scritto è: Riforma.
Qual da l'Eolio mar, quando più cupa
Dorme sotto ai veglianti astri la notte,
Fra dodici fantasmi ispidi o scogli,
Cui morde la rabbiosa onda d'intorno,
Sorger tu vedi e lampeggiar, perenne
Ara di foco, la Vulcania ròcca;
Tal sorgea lampeggiante, in mezzo ai mille
Che premeansi a' suoi lati, il procelloso
Protestator di Vittemberga. Appresso
Muovongli il cheto confessor d'Asburgo
E il rigoroso Ginevrin, cui tardo
Par l'altrui passo e andar vorrebbe il primo;
Non che il prode di mano e d'intelletto
Novator di Zurigo, e i due di Praga,
Ch'ebber pari il supplizio e l'ardimento,
E duce entrambi e ispirator Vicleffo
Eversore di dogmi; e quanti osâro
A le voraci arpíe di Vaticano
Spennacchiar l'ale e rintuzzar li artigli.
Destossi anch'ei sul torbido Tamigi
Il lascivo Tudorre, e già già mezzo
Sorgea da l'acque, e s'apprestava al volo,
Quando piombâr su la sua testa, a guisa
Di rapaci avvoltoi, le trucidate
Sue concubine, e il regal manto e il petto
Gli addentaron, sbranandolo. Stridea
L'obliqua alma del Re, mentre, ravvolta
Nel casto vel, sdegnosamente il tergo
Gli volgea l'infeconda Aragonese
Commiserando; e tu da la lontana
L'incatenavi co'l tranquillo sguardo,
O grave ed incorrotta Ombra del Moro.
Eran queste le schiere e questi i duci,
Ch'oltre al Sole movean, mentre a lor pari
Dai quattro venti de la terra un grido
Terribile s'ergea, qual se sconvolti
Da una pazza procella a un punto solo
Mugolassero i mari, o scatenati
D'avversi poli s'azzuffasser tutti
Con forze uguali ed ugual rabbia i venti.
Tuonavan da le selve ime e dagli antri,
Già sacri al vorator d'uomini Odino,
Quant'ostie mai su'l suo tremendo altare
Caddero; urlavan fieramente anch'esse
Le vittime di Teuta, a cui, più care
Di rugiadosi vischî e di verbene,
Bionde teste mietea pei boschi opachì
La druïdica falce; un gemer lungo
Di greche madri in sugli oblati infanti
Prorompea da l'Idee valli, superbe
Del vagito di Giove; alto dal Tebro
Fremean l'espïatrici ostie ferite
A l'ingordo Saturno; e una selvaggia
Querela uscía dai seppelliti avanzi
De le Puniche ròcche, in quel che in armi
Sorgea sdegnoso il redentor d'Imera.
Ma chi tutte può dir le voci e i gemiti,
Che al ciel salíano a dimandar vendetta
Dopo secoli tanti? Opra più lieve
Faría colui ch'enumerar volesse
Del ciel le stelle e de l'oceano i flutti.
Dal braminico aurato Indo, dagli orti
Rosiferi d'Irano a le feconde
Trinacrie rive del geloso Egitto,
Da le terre promesse a una masnada
Di lebbrosi omicidi; dal sepolcro
Sanguinoso del Cristo a le funeste
Valli d'Alby; dai trïonfati fiumi
De l'industre Batavia, a cui sul petto
Gavazza ancor del fiero Alba il fantasma;
Da le Calabre valli a le solinghe
Nevi di Valtellina ergeasi un grido
Formidabil, concorde, a cui fean eco
Da la Senna e da l'Ebro urla più fiere.
Udía da l'alto il Nazzareno, e, il biondo
Capo scrollando amaramente:—O amore,
Dicea, per cui l'innocua vita io diedi,
Qual mar di sangue a la mia Croce intorno!—

CANTO QUINDICESIMO.

ARGOMENTO.

La voce di Lucifero spaventa i beati, che si danno scompostamente alla fuga.—San Luigi Gonzaga si sviene fra le braccia di Santa Teresa.—Gabriele, non potendo persuadere l'Arcangelo Michele alla pugna, ordinate alla meglio alcune schiere, disponesi alla battaglia.—Santa Cecilia ne lo dissuade; ond'egli, lasciato il fiero proposito, s'abbandona voluttuosamente nelle braccia di lei.—Loiola, Domenico di Guzman, Torquemada, Pietro d'Arbues, Sisto e Pio V ordiscono una frode a Lucifero.—San Pietro abbandona le porte del paradiso.—L'Eroe sventa la congiura, e prorompe luminosamente nel cielo.—I congiurati santi tentano la fuga, e periscono miseramente.—Lucifero arriva alla presenza di Dio, cui trova, già fuori di sè, abbandonato da tutti, fuorchè da alcune bestie fedeli.—Tornata vana ogni loro difesa, tramutatosi indarno in diversi aspetti, Iddio muore, mentre l'Eroe ridiscende sul Caucaso, ed annunzia a Prometeo la fine dell'impresa.

Appena il grido de l'Eroe percosse
Con sinistro rimbombo il ciel vicino,
E le prossime schiere e la funesta
Voce avvisâr dei minacciosi estinti,
Tremâr tutti i Celesti, e verdi il volto
Da la paura, si guardâr negli occhi
Silenzïosi. Avvertì anch'esso Iddio
L'imminente periglio, e sì com'era
Sfidato e triste e non del fato ignaro,
Sul primo che gli occorse eburneo seggio
S'abbandonò. Stupidamente in giro
Movea gl'inebetiti occhi, e non tosto
Pipilargli a l'orecchio udì il divino
Colombo, e sospirar, qual su la Croce,
L'incarnato suo figlio, in un dirotto
Pianto scoppiò, tutti adempiendo insieme
Di stupore i Beati e di sgomento.
Qual se dal fondo d'uno stagno, impuro
Suscitator di sitibonde febbri,
Leva un rospo un loquace inno alla luna,
Tutte svegliansi a un tratto, e gli fan coro
Le profetiche rane, onde a l'intorno
Di chioccio chiacchierio suonano i campi;
Tale, al pianger del Dio, per l'azzurrine
Vòlte del vacillante Eden destossi
Un suon di disperate urla e di pianti.
Piangean le poverette alme digiune
D'ogni gioia di nozze e d'ogni amore,
E tu primo fra loro, o immacolato
Fior dei Gonzaga. A un altarino innanzi
Tutto adorno di ceri e di ghirlande
Ei traducea l'eterne ore in ginocchio
Mormorando preghiere a un Crocifisso
D'indico dente elefantino. Il novo
Gemito udito, in piè balzò, le ceree
Mani protese, e, l'argentina voce
Spaventato cacciando, a correr diessi
Per li stellati corridoi del cielo.
Accoccolata a un angolo romito
La povera Teresa ivi giacea
Stranamente ghignando. In lei si avvenne
Il fuggitivo, e, qual fagian, che senta
Dietro di sè del cacciator la pésta,
Fra l'ovvie macchie il capo aureo nasconde,
Tutto ai colpi lasciando il corpo esposto,
Tal fra le gonne sbrindellate e conce
De la squallida pazza il mal completo
Garzon cacciò la paürosa testa,
Nè badò per la prima al sesso avverso.
N'ebbe gioia la diva, e a quella guisa
Che una grave bertuccia a' rai del sole,
Tolto fra braccia un piccioletto amico,
Tutta a forbirlo e a coccolarlo intende,
Così, strillando allegramente, al vizzo
Petto ella strinse il trepido fanciullo,
E tante gli tessè d'intorno al corpo
Con la lubrica man giochi e carezze,
Che a la fine ei sentì corrergli il sangue
Tale un'ignota voluttà, che a un punto
Sussultando fra' brividi si svenne.

Sveníansi ancor, ma per cagion diversa,
Molte vergini suore, a cui l'intatta
Orsola impera. Altre scorrono urlando
La reggia; altre stracciandosi le chiome
E battendosi il petto van d'intorno
Perdutamente; qual con vitreo sguardo
Siede come fantasma, e qual, deforme
Per isterici spasmi e di spumanti
Bave immonda la bocca, a simiglianza
Si contorce di frigido ramarro,
Cui, smessa a un tratto la pesante zappa,
Fiede il villan con infallibil sasso.

Fra il gridare, il fuggir, le preci, il pianto
Sorse l'invitto Gabrïel ne l'ira,
E, volato a Michel, che vergognoso
De l'ultime sconfitte i men frequenti
Lochi chiedea:—Qual mai desidia è questa
Che t'invade, esclamò? Muti ed inerti
Aspetterem l'esizio ultimo e il crollo
Di questo regno luminoso? È forse
Speme alcuna d'impero e di salute,
Che nell'armi non sia? Nel contumace
Ozio che il cor già impavido ti prostra,
Rea viltà, danno certo e infamia io veggio!—
—Di viltà non parlar, con disdegnosa
Voce proruppe il pro' guerrier di Dio,
Non parlar di viltà, se vuoi che amari
Non saëttin dal mio labbro gli accenti.
Vil non fui mai: fra le celesti schiere
Trono o arcangel non è, ch'ebbe mai vanto
Di vedermi ai perigli andar men lesto
Di te, che forza del Signor ti appelli.
Ma or che giova il valor? L'armi e la pugna
Chi incerto ha il fato ed ha speranze elegga:
A noi chiaro è il destino. Ombra di Nume
S'è fatto Iddio; l'uom tutto vince. Un tempo
Aquila io fui, che per l'eteree strade
Artigliai le saette; or, che ne falla
Con la fede de l'uom del ciel l'impero,
Notturna upupa io son, cui non già il sole,
Ma il silenzio e la fredda ombra sol giova.—
—Quanto mutato sei! quanto mutati
Tutti d'intorno a me qui nel felice
Regno de le beate anime, aggiunse
Fra disdegno e pietà l'angel superbo;
Questo è davvero il ciel? Qui regna Iddio?
Tutti d'umani scoramenti invasi
Trovo i petti immortali! Oh! non sì tosto
Io piegherò: spiri seconda o avversa
A la battaglia mia l'aura del fato,
Forza a forza opporrò; nè cadrò pria
Che l'avversario mio provi il mio brando!—
Spiegò in tal dir le penne, e, la fulminea
Spada traendo, alzò de l'armi il segno.
Come, uscendo a l'aperta aia dal nido,
La mal pennuta chioccia alza la voce:
Odono il noto crocidar materno
I pelati pulcini, e pipilando
Corronle intorno, e per l'accolto strame
Con piè inesperto a razzolar si dànno;
Così del bellicoso angelo al grido
Corsero i pochi, a cui mal noto ancora
Del conflitto de l'armi era il periglio.
Si sdegnò assai de la non folta schiera
L'animoso campion, pur, come seppe
La ordinò, l'attelò, la messe in punto;
E già, già si movean, pari a loquace
Frotta di gru, che la tempesta incalza,
Quando l'amor di Gabrïel, la bella
Cecilia, udito il suon de l'armi e il grido
Del guerriero diletto, a lui sen corse
Spaventata, anelante, e:—Dove irrompi,
Forsennato, gridò: qual cieco inganno
T'ombra il divo intelletto? Ah! non già un uomo,
Non un popolo sol, non tutta quanta
La terra hai contro e i rubellanti abissi,
Ma con seco i destini. È troppo orrenda
Cosa la pugna, e quando è vana, è stolta.
Cedi al destin; cedi a l'amor; non giova
Produrre a prezzo di perigli il regno;
Se tempo è di cader, cadasi: io teco
Stretta morrò, non già con l'armi in pugno,
Ma ne l'amplesso de l'amor sopita.—
Disse, e caddegli a' piè. Fra due sospeso
Dubitava il gagliardo Angelo, quando
Dal sen colmo di lei, fosse arte o caso,
Lieve lieve si scinse il roseo velo;
Ed ella in vista lagrimosa e tutta
D'amoroso pudor rorida, ai dolci
Studî d'amòr gli seducea la mente.
Strale fu questo, che andò dritto al core
Del divino guerrier: gli sfuggì il brando
Da la trepida destra; il vergognoso
Sguardo girò confusamente intorno,
E, balbettando futili parole,
Per man prese la dea, ne le lucenti
Stanze sacre ad amor trassela, e lei
Mal ripugnante degli ambrosei veli
Con mano carezzevole discinta,
Al talamo invitò, dove, il gagliardo
Proposito e il vicin fato e sè stessi
Dimenticando, a delibar si diêro
Del giardino d'amor l'ultime rose.
Come a l'odor di ramerino o timo,
Onor vago dei campi e amor de l'api,
Ruzzan gli agili gatti, e senton forse
Come un acuto stimolo, che il sangue
Fieramente gli assilla, onde su l'erba
Stropicciando il supin dorso flessibile
Con dolce miagolìo chiaman l'amica;
Così, ad esempio del lor duce e al viso
De la santa pulzella, arsero i petti
Dei celesti guerrieri, e, nulla ancora
De l'instante rovina conoscendo,
Si sparpagliâr, smesser celate e usberghi,
E quinci e quindi a saltar diérsi in traccia
D'auree fanciulle e morbidi angeletti.
Mentre così, del lor destino ignari,
Dansi questi bel tempo, entro a la cupa
Anima del Loiola un serpeggiante
Pensier guizzò. La macera persona
Raddrizzò a un tratto, e con volpina voce
Chiamò quanti nel cielo erano in pregio
Di sagace accortezza, e a lui ben atti
Parvero a l'uopo: il Montaltese, obliquo
Mastro di frodolente opere; il santo
Conversor di Gusman, la cui parola
Scrisse co'l sangue il masnadier Monforte;
Non che il fier Torquemada, anima acuta
Qual furtivo pugnal, che negli umani
Petti s'infisse ad indagar la fede;
Il ferino inventor d'ogni tormento
Manigoldo Arbuense; il pio Ghislieri
Tessitore di stragi, ed altri, a cui
Negò voce la fama. Eran costoro,
Poichè del fato avverso eransi accorti,
Tutti intesi a raccòr per le fulgenti
Aule del ciel quanto potean di ricche
Gemme e pregiate masserizie; e, fatto
Uno sconcio fardello, a quella forma
Che travagliansi attorno ad un osceno
Non ancor morto scarabèo le inopi
Formichette ingegnose, ad esso in giro,
Con le mani e co' piè forte spingando,
Trafelanti anelavano; e già già
S'involavan dal ciel, stolti! che fuori
Di quel regno di larve avean pensiero
Produrre oltre la vita; e negro intanto
Li batteva a le spalle il giorno estremo.
Li sorprese in quest'opra il conosciuto
Grido e l'aspetto del sagace amico,
Ed ascoso il furtivo ònere, a modo
D'astute gazze, e fatto al loco intorno
Di sè stessi gelosa ombra e tutela,
Aspettâr la proposta.
—Accorti e saggi
Siete inver più di me, disse il Loiola,
Se al bisogno del furto e de la fuga
Già date il tempestivo animo! Al certo
Periglioso è l'istante, e di tenaci
Nebbie ravvolto l'avvenir. Del Dio,
Che propugnammo, ogni splendor tramonta:
Immortale ei non era; e noi già primi
Lo sapevam, noi che sol Nume in terra
L'utile nostro e il nostro regno avemmo.
Scarsa è la schiera e del mio nome indegna
Che mi resta laggiù; qui non è alcuno,
Che a pugnar pensi, poi chè ottuse e vane
Le nostre armi son fatte; arbitro sorge
Il mortale Pensier, che in aurei nodi
Non a caso io distrinsi; ogni virile
Nerbo gli tolsi a poco a poco, e ucciso
L'avrei del tutto, ove più fine ingegno
Dato avesser le sorti ai miei fedeli.
Cederem noi per questo? A l'uom, già vile
Schiavo e strumento d'ogni mio disegno,
Noi, vili or fatti, piegherem la nostra
Già ferrata cervice? Oh! alcun non sia
Che in cospetto me'l dica! Uom, che a la prima
Faccia del mal muto s'accascia e trema,
Pusilla anima è detta; a noi, che tanta
Fama abbiam di sagaci, e siam beati,
Qual degno nome si addiría? Son troppe
Le dolcezze del ciel perchè a la prima
Si conceda al nemico! Abbiam rispetto
Prima a noi, poscia a Dio, da la cui larva
Già difesi imperammo. Inutil sono
Le braccia e l'armi? E che però? Ne avanza,
Possente arma, l'ingegno. È disperata
Cosa la pugna? Usiam l'arte e la frode:
Mal, che torni a vantaggio, al ben somiglia.—
Tacque, e le man si stropicciò.
—Son d'oro
Le tue parole, a lui rispose il senno
Del Pastor di Montalto, e assai per fermo
Io ne lodo il valor; ma la patente
Sconfitta che vicina e certa io sento,
E meco ognun, tu non dirai che sia
Sorte miglior d'una latente fuga,
Pria la vita, indi il regno. Io, sin che filo
Di memoria e di spirto il cor mi regga,
Non dispero acquistar quanto or si perde;
Campar dunque fa d'uopo.—
—Altra io non veggio
Via di salute, il pio Ghislieri aggiunse,
Che la via del fuggir!—
—Così ne fosse,
Gridò allor con schizzanti occhi il grifagno
Consiglier di Filippo, oh! sì ne fosse
Tosto dato in balía quest'incarnato
Sovvertitor di sacrosanti altari!
Tal rete intorno gli ordirei, che vano
Al districarsi torneríagli il tutto
Suo senno astuto e l'infernal possanza!—
—E chi sa?, ravvivando il serpentino
Occhio, soggiunse il Biscagliese obliquo,
Chi sa, che in nostra man da ver non caggia
Quest'audace Lucifero? Fin quando
Spirto alcuno d'ingegno oprar n'è dato,
Chiuder non dèssi a la speranza il core.
Ragno astuto, che vede in un sol punto
Disfatto il fine e pazïente ordito,
Torna a l'opra ben tosto, e in più sicuro
Loco, e con più sottile arte ed ingegno
Più certe insidie ai suoi nemici intesse.
Spero io così trar ne la rete il nostro
Burbanzoso avversario. Ardito e forte
Per certo egli è; ma un punto io gli conosco,
A cui se drizzi insidïoso un dardo,
Larga e secura gli aprirai la piaga.
Benchè spirito invitto e del pensiero
Apostolo sublime egli si vanti,
A la turpe materia il più profano
Culto ei professa; ed io più volte il vidi
Prostrato al piè d'una beltà terrena
Svestir l'orgoglio e gingillar la vita.
Udite or dunque un mio proposto. Appena
Ei si farà su'l limitar del cielo,
Niun lo scontri con l'armi: esperimento
Vano saría; vadagli incontro invece
Una, di quante sono ornate e belle,
Leggiadrissima santa (ed io fra tutte
Do la palma in quest'uopo a la divina
Prostituta di Màgdalo); gli abbracci
Supplicante i ginocchi, e sì lo svolga
Per qualche istante da ogni fier concetto,
Che a l'amplesso fallace ei si abbandoni
In una molle voluttà. Noi, quanti
Qui siamo ancor d'armi o d'ingegno instrutti,
A lui d'intorno in vigilanti agguati
Tutti pronti staremci; e quando il fiero
Debellator di Dio da l'iterate
Pugne d'amor giacerà stanco e assôrto
Nel più codardo e immemore abbandono,
Noi piomberemgli in un baleno addosso
Come stuol d'avvoltoi; di ferrei nodi
L'avvinceremo; e poi che osceno e carco
Sarà tutto di ceppi e di ferite,
Tal gli darem di tutto polso un crollo,
Che i neri abissi e il regno suo riveda!—
Piacque a tutti il consiglio, e alàcri e pronti
Diêrsi a l'opera intorno, in simiglianza
D'immondo strupo di codarde jene,
Che, fatte ardite dal favor de l'ombre,
Mute s'affrettan pe'l deserto campo
Dietro al sentore di lontan carcame.

Contro a le sedi dei Celesti intanto
Lucifero irrompea. De l'abusate
Porte del ciel stava a custodia il divo
Pietro di Galilea, l'inclito alunno
Del Nazzaren, pastor d'anime e chiave
Del paradiso. Udita avea la voce
Del nemico imminente, e, ben che molto
Fosse d'uomini esperto e di fortune,
Pur sentì scioglier le ginocchia, e a guisa
Di fragil canna, che tentenni al vento,
Ondeggiava diviso in due consigli:
O sguainar l'arrugginita spada,
Che pendeagli dal fianco, e alla difesa
Rimaner, benchè solo; o, abbandonata
La difficil custodia ad altri o al caso,
Svignarsela di furto.
—Audace impresa,
Dicea tra sè, nè a le mie forze uguale,
Tener fronte da solo a un tal nemico:
Certo ei val più di Malco. E poi, degg'io
Perigliarmi per tutti? Alcun non osa
Impugnar l'armi, ed io restar qui devo?
No, no; vadasi, e tosto: al proprio scampo
Volga ognuno il pensier. Se Dio non vale
A difender sè stesso, io lo rinnego,
In fede mia, canti o non canti il gallo!—
Così pensando, si sottrasse. Come
Al furïar di subito uragano
Cade svelta dai cardini la porta
D'un povero abituro: urla dal fondo
La famigliòla spaventata, in quella
Che ogni serbata masserizia in giro
Sparge, ammucchia, avviluppa il turbo avverso;
Spalancossi in tal guisa al primo tocco
Di chi porta la luce il vecchio albergo
Del paradiso, ovvio lasciando e vasto
Al guardo e al passo del Ribelle il varco.
Grande e securo e tutto lampi il volto
Su la soglia Ei piantossi, e parea sole
Di cotanto splendor, che incerte faci
Ben dir potevi a petto a lui le stelle.
Siccome spada folgorante, in pugno
Un raggio acuto gli splendea; tremenda
Arma, che squarcia il sen de l'ombre, e quanti
Ferrei fantasmi e fiere larve han vita
Con sovrana virtù spezza e dilegua.
Così l'Eroe proruppe; impazïenti
Del solenne giudizio a lui da presso
Si versano le schiere, e tutte in giro
Prendon l'aurea magione, a simiglianza
Di sonanti fiumane, a cui più freno
Non dànno argini e dighe, e l'una e l'altra
S'accavallando, fragorose e torbide
Divorano la valle e i campi affogano.
Come allor, che dai cupi antri improvviso
Il vecchio Mongibel mugghia e si scuote,
Trema intorno la valle; impäuriti
Fuggon greggi e pastori, a cui di sotto
Balzan globi di fumo atro, e sul capo
Piove di ardente e negra sabbia un nembo;
Così a la vista de l'Eroe si scosse
La gran reggia dei cieli, e quinci e quindi
Fuggîr senza consiglio i sacri armenti
Vociferando, e qual siede, o s'arresta,
Non già vanto ha d'ardire o di piè fermo,
Ma invalidi i ginocchi e l'alma infranta.
Questo fu il punto, che, disciolta i crini
Biondissimi e con piè trepido, in vista
Di verginella, al gran Ribelle incontro
Mosse la bella Maddalena. Il colmo
Petto le ondeggia sovra il cor, sicuro
D'un superbo trïonfo; entro ai non folti
Docili veli le tondeggian tutte
Le rosee membra riluttanti: un nimbo
Di reconditi incensi errale intorno
A la vaga persona, e di pungenti
Stimoli avvampa ai men lascivi il sangue.
Tal s'avviene a l'Eroe, mentre raccolti
Nei lor taciti agguati ansan parecchi,
Qual fidato a l'astuzia e quale al braccio,
Congiurati al Loiola. Intento e assôrto
Nel suo pensier quei trascorrea, nè punto
Abbadava costei, che del sedurre
Tutti ben sa gli accorgimenti e l'arte.
Ond'ella il passo gli precise, e:—O santo
Arcangelo, esclamò, ben si conviene
A la luce del tuo sguardo immortale
Questo splendido regno! E chi dir puote
Che nemico tu sei? che una superba
Smania di regno ti conduce al cielo
A sovvertir l'adamantina sede,
Di Dio? No, che per certo iniqua e indegna
Ti precorre la fama, e mal diritto
Veggion queste beate anime, a cui
Tanto incute il tuo nome alto spavento.
Luce ed amor sei tu: simile a novo
Raggio d'innamorato astro sorride
La tua fronte serena, e a dolci affetti,
Pari al mio Nazzaren, l'anime inviti.
Oh! ben torni fra noi; qui non mortali
Semina rose amor, qui sempre viva
Fonte di voluttà schiude il mio seno!—
Udì l'Eroe la subdola proposta,
E amaramente le gittò sul volto
Queste parole:
—O penitente eterna,
Nè pentita giammai, qual ti germoglia
Ne l'instabile cor postuma brama
Di novelle avventure? Un mi son'io,
Che al lascivo ozïare, a cui mi tenti,
L'aspre battaglie del pensier prepongo!—
Disse, e sdegnando procedea, già sciolto
Da l'inciampo di lei; quand'essa, a un punto
Tramutando tenor d'arti e d'accenti,
Ruppe in alto cachinno:—E ci voleva
Proprio questa, esclamò; state a vedere,
Ch'oggi che in terra dàn la caccia ai frati,
A questa vecchia golpe senza coda
Vien pizzicor di farsi anacoreta!
Ma fa' il piacer, Lucifero! Son donna,
Son figlia d'Eva, e non son senza macchia
Come la madre di Gesù: codesta
Mascheraccia d'apostolo su'l muso
Non ti sta, credi a me: cangiati in serpe
Piuttosto; ed io farò, come Dio vuole,
Il sagrificio di mangiare il pomo!—
Così dicea, ma seminate al vento
Si disperdean le lubriche parole.
Visto il colpo fallir, nè di salute
Più sperando altra via, fuori ad un tratto
Dagli agguati sbucò la tortuösa
Anima del Loiola, e si gittando
Di traverso a l'Eroe:—Salvami, grida,
O glorïoso Arcangelo! Per te,
Non già per Dio, sovra la terra io tesi
La rete mia!—Volea più dir, ma come
Non crudel passeggero, a cui di sotto
Venga un turpe scorpion, che velenosi
Lascia i morsi ove tocchi, immantinente
Alza il piede e lo schiaccia; in simil guisa,
Sporgendo il labbro, e torto altrove il viso,
Piantò il piede l'Eroe sovr'esso al tergo
Del supplice maligno, il qual diè un forte
Tonfo, e scoppiò, tutto ammorbando intorno
Di putida mefite il ciel sereno.
Questo fu il segno de la strage. Appena
Del suo duce la fin videro i Santi,
Tutti uscîr dagli agguati a la rinfusa,
Tal che frotta parean di saltellanti
Locuste ingorde, cui la fiamma incalza
Più vorace di lor. Più volte indarno
Una mano d'audaci angeli e santi
Far impeto tentâr contro a le schiere
Del luminoso Eroe; ma qual fremente
Cavallon che si franga a la ronchiosa
Rupe, spezzate contro a lor cadeano
L'avverse armi e l'ardire. E come avviene
Nel nebbioso novembre, allor che in dense
Falde piovon dal ciel l'umide brume,
E nereggian le vie, quasi colpite
D'occulta lue cadon le mosche esose,
Ch'or ti ronzan morenti in su la faccia,
Or sui fumidi cibi, onde a l'intorno
Sparse e brutte ne van le mense e i letti;
Così, al proceder de l'Eroe, da l'alto
Fioccan morti i Beati, e tu soltanto
Li ferivi co'l tuo sguardo immortale,
O trïonfante Verità. Fra tanto,
Con ogni forza ed ogni astuzia in salvo
Ricondursi volean Sisto e Ghislieri,
Torquemada e Gusman. Li precedea,
Stranamente strillando e mulinando
Sovr'esso il capo la ghierata gruccia,
Il feroce Arbuënse, e una mal viva
Folta di Santi lor tenea bordone.
Li riconobber da l'opposta parte
Co'l profondo veggente occhio i campioni
Del libero Pensiero, e un minaccioso
Mormorio si levò, come di vento
Precursor di procella. Ardean di cupo
Sdegno le generose anime, in quella
Che con flagel di sanguinosi motti
Mordea Voltèro ai fuggitivi il dorso.
Non però immoti ne le lor falangi
Stetter Bruno e Vanini; anzi a quel modo
Che una coppia di fulve aquile, altere
Dominatrici di profonde altezze,
Con pari volo e con funesto strido
Piomban sovra a la preda, essi al feroce
Fuggitivo drappel di tutta punta
S'avventarono incontro, e:—O manigoldi
De l'umano pensier, gridò con fiera
Voce l'ardito precursor di Nola,
Or sì che il fin di vostre colpe è giunto!—
Disse, e ghermendo con la ferrea destra
Torquemada a la strozza, in turbinoso
Modo il rotò, che spatola parea
In man d'esperto battitor. Lanciollo
Poi qual sasso di fionda; e non sì tosto
Da l'alto ei ripiombò, che in mostrüosa
Foggia si franse e si divise, a modo
Di crinato utensil d'impura argilla
Lanciato a l'aria da fanciul bramoso
D'udirne il tonfo e di contarne i cocci.
Cadde, e si franse ei sì, ma in braccio a morte
Non s'acquetò; chè in quante parti e brani
S'eran divise le sue membra, in tanti
Si spezzò la sua vita, onde ciascuno,
Che guizzando e serpendo invan tendea
A congiungersi a l'altro, era dannato
A soffrir sempre, e a non morir giammai.
Fra mani allora al pensator d'Otranto
Fieramente stridean Sisto e Ghislieri.
Ambi agguantati egli li avea, qual suole
Assiduo scardatore, il qual prendendo
Due manciate di canape, fra loro
Pria le sbatte più volte, indi le affida
Al nemico di lische ispido cardo.
Si mordevan per rabbia i duo percossi,
E sgraffiavan rignando, e parean due
Gatti rivali, a cui bollir fa il sangue
Nel rigido gennaio un caldo amore:
Sul colmo dei muschiosi embrici, in traccia
De l'amica ritrosa, a notte piena
Scontransi, e i peli rabbuffando a un tratto,
Soffian, sbatton la coda, alzano in arco
L'ispido dorso, e duri, intirizziti
Muovonsi con guardingo atto d'intorno,
L'arida lingua saettando: a bada
Si tengono così, fin che il più lesto
La granfia avventa e vibrasi a l'assalto.
Odi allora echeggiar di strilli acuti
La sacra notte, rotolar sul tetto
Smosse tegole e sassi, e chi del dolce
Sonno si svolge in quell'istante, umani
Gemiti e grida ascoltar crede al vento.
Così le due sinistre anime, a un punto
Fatte da l'ira e dal dolor nemiche,
Si sbranavan fra loro, insin che stanco
Di quel fiero piacer l'eroe nemico
Le scagliò da sè lungi. Urlâro i tristi
Da l'alto ciel precipitando, e ancora
Precipitan pe'l chiaro aere: li aspetta
Fremebonda la terra, ove un'eterna
Vita servile e in gran terror vivranno.
Scórsi muti e di furto eran fra tanto
L'Arbuënse e il Gusmano; e si tenendo
Fuor d'ogni attesa e d'ogni sguardo ostile,
Speculavan la fuga, o un nuovo inganno.
Si sferrò allor da la sua schiera il forte
Riformator di Vittemberga, in guisa
Di mortifero strale, e una tremenda
Voce vibrò. Stetter tremanti e bianchi
I fuggitivi, e balenâr perplessi
Fra la lotta e la fuga, in simiglianza
D'inseguito assassin, che fischiar senta
Presso a l'orecchio il mortal piombo. Vinse
Il primiero consiglio, e, vòlto il fronte
Subitamente, s'avventâro ai fianchi
De l'iracondo novator. Qual pura
Fiamma tendente al Sole e del Sol figlia,
Se a la putida pece arda vicina,
A lei tosto s'apprende: a poco a poco
Struggesi questa; in negre bolle impure
Gorgoglia, e più e più spandesi, fra tanto
Che giallo e crasso infesta l'aria il fumo;
Tal divenne Lutero, allor che intorno
Gli s'avvinghiâro ai poderosi fianchi
I due rabidi santi, a cui bentosto
Crepitando ei s'appiglia. Un fiero strido
Mandan gli audaci, e di balzar fan prova,
E staccarsi, e fuggir; ma appiccicati
Restano a lui così, che in foggia strana
Fan di tre forme un mostrüoso aspetto.
Corre pe'l ciel l'inesorabil fiamma,
Che li attacca, e li fonde, e meraviglia
N'han tutti intorno; ed ora i cornei crini
Gli avvampa, or gli erra su le picee terga
Con feroce pigrizia, or dentro ai vivi
Occhi gli siede, e nei precordii scende,
E i visceri gli mangia, e l'ossa ignude
Con lenta voluttà rode e consuma.
Seguían queste giustizie; ed ecco a fronte
De l'egro Nume il gran Ribelle arriva.
Solo il trovò nel più recesso loco
Del paradiso; e nullo era, di quanti
A le mense di lui s'eran nutriti,
Che a la difesa or vigilasse: ognuno
Che innanzi al passo de l'Eroe non era,
Futile inciampo, ancor fugato o vinto,
O il vol dava a la fuga, o in un furtivo
Ripostiglio del ciel, pallido, ansante
Scongiurava il destin. Voi soli in questo
Stremissim'uopo non lasciaste il trino
Padre deserto, o sovra ogni pietosa
Fida essenza del ciel pietosi e fidi
Quadrupedanti: a voi, se grazia alcuna
Merta ancora la fede, un chiaro grido
Non fallirà presso i venturi, a cui
L'alto cor vostro e i vostri nomi io canto.
V'era di Balaàm l'asino e quello
Che riscaldò di Betelèm la greppia
Col mirifico fiato; eravi anch'esso
L'accorto bue, che, abbandonato il duro
Solco e l'aratro, ad adorar sen corse
Il già nato Messia: meraviglioso
Di fede esempio, onde nei cieli assunto
Fu per nume di Dio, che la falcata
Fronte gli ornò di due vividi raggi,
Come un tempo a Mosè; v'eran del divo
Rocco i fidi mastini impazïenti
D'avventarsi a l'Eroe; v'era il modesto
D'Antonio alunno, che il signor perduto
Fra' grugniti piangea: sul nero grifo
Gli discorrean le lagrime cocenti,
Ed ei, la Dio mercè, fatto maestro
D'oprar le zampe come fosser mani,
Se le tergea con un candido velo,
Di ricami stupendo, opera e dono
De la diva Lucia. Ma visto appena
L'avverso Eroe, che procedea sembiante
A novo Sol, di subito disdegno
Arse, fe' biechi i picciolettì e tondi
Occhi verdastri, aggrinzò il grugno, a spira
Ravvolse ed agitò la scarsa coda,
Ed arrotando le spumose zanne
Con irto il dorso e con pendule orecchie
S'avventò, che parea critico arguto,
Che carico di norme e di sofismi
Al tallon d'un poeta avventi il morso.
Non fûr tardi a seguir l'eroico esemplo
L'altre bestie devote; anzi ad un punto
Per ogni verso si scagliaron tutte,
E, stupendo a ridir! correano a morte
Come a danza, o convito. Alti lamenti
Mettea dal petto il Nume; e a lui d'intorno
Per la reggia del cielo era un tedesco
Strano accordo di ragli e di grugniti.
Tentennava l'Eroe, commiserando,
La testa, e con un rigido sorriso:
—Ecco, o Eterno, dicea, qual poco armento
Di cotanti fedeli oggi ti resta!—
Toccò in tal dir co'l penetrante raggio,
Che nel pugno tenea, la nebbia densa
In cui tutto era chiuso il Dio morente,
E l'aprì tosto, e dissipolla in guisa
Che il ciel limpido apparve e la sparuta
Faccia del Nume agonizzante. Ai piedi
Morto giaceagli il divo augel, che il grembo
Visitò de l'Ebrea Vergine; e, sciolto
Dal trino amplesso, a cui lo strinse il mito,
Stette innanzi a l'Eroe tranquillamente
Gesù. Splendea nel mansuëto aspetto
Tutta umana bellezza, e una fragrante
Lucid'aura di pace e di dolore
Gli alïava d'intorno a la persona
Candidissima. Il vide, e il riconobbe
Lucifero, e parlò:
—Ben la catena
Di tua divinità spezzi in quest'ora,
Santo eroe de l'amore e del perdono;
Ben ritorni qual fosti al luminoso
Raggio del Ver, le cui vendette io segno!
Vedi le schiere mie? Là, fra quei pochi
Spirti di saggi, a cui Socrate è duce,
Loco a te caro, a niun secondo, io serbo!—
Disse, e insegnava con la destra. Innanzi
Fecesi, a questo dir, l'intemerata
Luce d'Atene, e fra le venerande
Braccia il pietoso Nazzareno accolse.
Or l'estrema ora tua dirà il superbo
Genio che m'arde, o mal temuto Iddio.
Quando l'Eroe ruppe la nebbia, involto
Di nero oblio, fuor d'ogni senso e moto
Tu giacevi; ma allor che con lo sguardo
Ti penetrò, ratto balzasti, a guisa
Di già morto batràce, a cui dà strani
Moti il valor del ricorrente elettro.
E, come già solea nel greco mito
Le sembianze mutar Proteo marino,
Quando immerso nel sonno, in mezzo al gregge
De le putide foche il sorprendea
Con ferree braccia alcun mortale o nume,
Tal sotto al ciglio de l'Eroe nemico
Cento apparenze e simulacri e larve
L'egro tuo corpo in ratta vece assunse.
E or di Brama, o di Teuta, or di Saturno
Usurpava gli aspetti; or Cristo, or Giove,
Ora Osiri appariva ed ora Anubi;
Or terribile e scuro e tutto cinto
Di tempeste e di morte, or fiammeggiante
Sole parea che l'universo avvivi;
Or fantasima inerte, or procelloso
Eversor di pianeti; e ferrea e cieca
Legge d'affanno, ed inesausta fonte
Di bontà, di clemenza e di perdono.
Fremean per lo profondo etra le schiere
Luminose dei Saggi; da l'opaca
Terra sorgean, che parean fiamme vive,
Le vittime dei Numi, e tutti a un grido
La giustizia chiedean. Pende dal labbro
Di Lucifero il Fato; a lui dintorno
Stanno i secoli. Al Dio, che si trasforma
Tranquillamente egli favella:
—È antica
L'arte, per cui forme tu cangi e nomi:
Rinnovarla or non giova! Assai sembianze
Sostenemmo di Numi, a cui la cieca
Fede de l'uom diè lunga vita e impero.
A l'un error l'altro successe; a un vôto
Fantasma altro fantasma; or tocca il fine
Questa vicenda rea: l'ultimo Iddio
Tu sei; con te, non pur la forma e il nome,
Ma il pensiero di Dio ne l'uom s'estingue!—
Così dicendo (ed additava il sole,
Che sotto ai passi gli sorgea), toccollo
De l'acuto suo raggio, e parte a parte
Lo trapassò. Stridea, come rovente
Ferro immerso ne l'onda, il simulacro
Fuggitivo del Nume; e, a quella forma
Che crepitando si scompone e scioglie
Fumigante la calce a l'improvviso
Tasto de l'acqua o del mordente aceto,
Tale al raggio del Ver struggeasi il vano
Fantasima; e in vapore indi converso,
Tremolando si sciolse, e all'aria sparve.
Così moría l'Eterno. Ai consuëti
Balli movean gli antichi astri; dal cielo
Luminose partían come in trionfo
Le Magne Ombre dei Sofi, e a tutti innanzi
Lucifero. Arrivò co'l Sol novello
Sul Caucaso nevato, ove al soffrente
D'adamantino cor figlio di Temi:
—Lèvati, disse, il gran tiranno è spento!—

FINE.

INDICE.

CANTO PRIMO Pag. 3

Silenzio di Dio.—I suoi ministri imprecano.—Gli uomini ridono. Lucifero s'incarna.—Proposizione del poema, ed apostrofe ai critici.—Avvenimento dell'Eroe sul Caucaso, da dove eccita gli uomini alle finali battaglie del pensiero.—S'incontra in Prometeo, che cerca da prima dissuaderlo dall'impresa ch'egli crede inutile e disperata; commosso indi dalle ardite parole di lui, lo prega a volergli narrare la sua storia.—L'Eroe si dispone al racconto.

CANTO SECONDO Pag. 21

Incomincia la narrazione.—La Natura e il Pensiero.—Stato primitivo degli uomini; primi e diffIcili avanzamenti, a cui si oppongono i Numi, creati dall'anima inferma degli uomini.—La gran Lite.—La guerra dei Titani: il pensiero e non la forza trionfa dei Numi.—Lucifero non si contenta del cielo; Dio lo fulmina; l'inferno lo accoglie.—Un istinto di amore lo chiama sulla terra.—L'albero della scienza.—La tentazione.—Percosso nuovamente da Dio, ripiomba nell'inferno.—Non mai contento dell'esser suo ritorna sulla terra.—Cristo predica l'amore.—Gli uomini desiderosi del cielo dimenticano la terra.—Lucifero ve li richiama, ed è malamente calunniato.

CANTO TERZO Pag. 41

Lucifero, continuando il racconto, accenna alla venuta dei barbari; ad Ario, che si ribella, fra' primi, all'autorità ecclesiastica, da cui viene scomunicato nel concilio di Nicea; a Telesio, che scote il giogo scolastico; alla stampa che propaga il pensiero nuovo.—La rivoluzione, filosofica in Italia, diventa religiosa in Germania.—Leone X e Lutero.—Il pensiero e la coscienza armano il braccio dei popoli, e la rivoluzione prende l'aspetto politico.—Tirannide monarchica e republicana: la libertà sta nel centro.—Rivoluzioni d'Inghilterra, d'America, di Francia.—Il canto della guigliottina.—Fecondità delle rovine.—Rassegna delle principali invenzioni del pensiero umano; dalle quali confortato l'Eroe, predice il suo vicino trionfo.—Finita così la narrazione, si parte, mentre una voce misteriosa annunzia agli uomini la sua venuta.

CANTO QUARTO Pag. 67

Lasciato il Caucaso, l'Eroe si dirige verso la Grecia; trascura molti luoghi favolosi, ma ricordasi di Ero, ed apostrofa all'amore e alla morte.—Descrizione di Tempe.—Le bagnanti sorprese.—Il palazzo incantato e la fanciulla misteriosa.—Lucifero arriva; ascolta il canto di Ebe, e le domanda ospitalità.—Accenna in brevi tratti all'esser suo e a quello di Dio, e la commuove di paura e di affetto.

CANTO QUINTO Pag. 87

Il fantasma di amore, che ha eternamente agitato l'Eroe, veste forme sensibili.—Ebe e Lucifero si amano: l'amore accerta l'Eroe del trionfo.—Si allontanano da Tempe, e giungono nell'Attica.—L'Acropoli di Atene.—Voluttà d'amore fra le rovine.—L'Ombre di Socrate, di Focione, di Codro.—Un bruttissimo e strano mostro appare in sogno all'Eroe, e lo beffeggia.—Onde questi, abbandonando la fanciulla nel sonno, si caccia impaziente ove il destino lo chiama.

CANTO SESTO Pag. 107

L'Eroe s'imbarca per la Francia.—Rivolge superbe parole alla Natura.—Aurora boreale.—Sermone di frate Iginaldo.—Tempesta e naufragio.—Isolina si raccomanda all'Eroe, che cerca invano salvarla.—Morte di frate Iginaldo.—Lucifero co'l cadavere della fanciulla si avvicina a forza di nuoto alla riva.—Iddio, che vuol perderlo ad ogni costo, inveisce contro gli oziosi abitatori del cielo; armasi in fretta, ed è sul punto di scendere in terra per combattere il nemico, quando l'arcangelo Michele lo calma, e scende in sua vece alla pugna.—Sdegnose parole di Lucifero al nemico, la cui spada non riesce a ferirlo.—L'eroe afferra finalmente la riva, e dà sepolcro alla giovinetta.

CANTO SETTIMO Pag. 131

Storia d'Isolina.—Amore.—Sogno di felicità.—La lettera della madre.—Ultimo commiato.—Lontananza.—La giovinetta abbandona la famiglia e la patria; muove in traccia dell'amor suo, e perisce miseramente tra' flutti.—Sorge dal sepolcro, ed apparisce a Lucifero; il quale, non potendo ridarle la vita, languisce nell'oblìo di sè stesso.—Una voce interiore lo richiama all'attività, e lo avverte della gran lotta preparata fra la Prussia e la Francia.—Egli ascende sulle Ardenne, e mira i formidabili eserciti che si avanzano.—Alla vista delle aquile imperiali alza inutilmente la voce contro l'ingiustizia di quella guerra.

CANTO OTTAVO Pag. 155

La catastrofe di Sédan.—L'ombra di Turenna e la resa.—Lucifero entra in Parigi.—La babilonia delle gazzette.—L'assedio.—Gloria ed obbrobrio a chi spetta.—Un generale francese, trasformato in asino, è condotto al macello.—I Prussiani entrano nella città.—L'allocuzione del proletario.—La colonna Vendôme.—L'ombra di Federigo.—La petroliera.—Allo spettacolo di tanti eccidî Lucifero si parte, non senza dubitare un istante del suo trionfo.

CANTO NONO Pag. 187

Curiosità dei Celesti e pietosa supposizione dei santi inquisitori alla vista dell'incendio di Parigi.—Pettegolezzi divini.—Profonda risposta di Dio; e confidenze che egli fa a santa Teresa; che perde improvvisamente la ragione.—Lucifero, che ha lasciata la Francia, veleggia per l'America.—Apostrofa alla Spagna.—Arriva nel nuovo mondo.—Saluto alla libertà, madre di civili istituzioni.—S'interna in una foresta, di cui si fa la descrizione, e conversa con una scimmia, che pretende esser sorella del genere umano.

CANTO DECIMO Pag. 213

Sorge la notte, e l'Eroe resta smarrito nella foresta, dove prova le sofferenze dell'umana natura.—Lotta con un giaguaro, di cui rimasto vincitore, abbandonasi al sonno.—Rivede Ebe nei sogni, e torna per poco ai dolci vaneggiamenti d'amore.—La giovinetta silenziosa si tramuta a un tratto in un orribile fantasma.—Iddio, vedendo così travagliato il suo avversario, crede agevole impresa il domarlo.—Lascia il letto, cavalca l'asino di Betlem, e scende in terra.—Trova Lucifero, e cerca da prima con superbe parole, poi con astute promesse venire a patti; ma questi tien fermo, e lo caccia da sè acerbamente.—Liberatosi indi a poco dalla foresta è ospitato dalla povera Sara.—La schiava nera e lo schiavo bianco.

CANTO UNDECIMO Pag. 241

Canto all'Italia; le tre civiltà; l'Alighieri; l'ultima guerra d'indipendenza; l'ossario di Solferino; il traforo del Cenisio.—Lucifero arriva; apostrofa al Po; scende in Toscana; è ricevuto nella casa d'Egeria, dove si adunano i più famosi geni dell'Arte moderna.—Le donne emancipate; il filologo Macrino; un poeta demagogo; un commentatore di Dante; Delio gazzettiere; un camaleonte onniscibile.—Il poeta Olimpio e la sua dama.—Lucifero, creduto spiritista, finge evocar l'ombra del divino poeta; il quale fulmina sdegnosamente poeti svenevoli e atrabilari, drammaturghi da scuola e da piazza, musici intronatori ed istrioni bastardi.—Olimpio, che si offende, sfida l'Eroe a un duello; ma questi si rifiuta con parole di superbo disprezzo.

CANTO DUODECIMO Pag. 281

Lucifero giunge in Roma.—La breccia di Porta Pia.—La festa del Colossèo; durante la quale ascolta l'Eroe alcune voci misteriose.—Voce di Ebrei.—Voce di Numi.—Voce di Sacerdoti.—Voce di Santi.—Voce di Diavoli.—Voce del Tevere.—Voce della Savoia.—Voce della Corsica.—Voce dell'Istria.—Voce di popoli slavi.—Voce della Germania.—Spavento dei beati alla nuova che Lucifero è in Roma.—Santa Caterina da Siena, rimproverandoli acerbamente, si offre di scendere in terra e di piegare con la sua eloquenza il nemico.—Iddio, benchè dubbioso del buon successo, glielo accorda; e, mentre ella si dispone a partire, Santa Teresa dà scandaloso spettacolo della sua pazzia.

CANTO TREDICESIMO Pag. 315

Santa Caterina alla vista di Lucifero si perde di animo, e, invece di convertire lui alla fede, converte sè stessa all'amore, e si abbandona ai voluttuosi abbracciamenti dell'Eroe.—Alcuni Angeli, sedotti dall'esempio, disertano il cielo, e cantano il desiderio della terrena voluttà.—Ultime ore di Pio IX; a cui apparisce l'Ombra di un solitario, che, non valendo a persuaderlo di rinunziare al dominio temporale della terra, lo lascia in preda a spaventose visioni.—Una vittima delle stragi di Perugia.—Due decapitati.—Straziato da queste apparizioni, il vecchio Pontefice muore, domandando inutilmente perdono.

CANTO QUATTORDICESIMO Pag. 341

Saluto di Lucifero al Sole; tra' raggi del quale rivede l'immagine di Ebe.—Attirato da mirabile fascino d'amore l'Eroe si solleva per l'aria; traversa gli spazi; giunge in Venere; si confonde con l'amor suo, e procede infino al Sole, da dove alza la voce dell'ultimo giudizio.—I morti di ogni età e di ogni loco risorgono, e s'innalzano dalla terra per assistere al giudizio di Dio.—Rassegna di filosofi; d'istitutori di popoli; di riformatori.—Le vittime domandano vendetta.

CANTO QUINDICESIMO Pag. 367

La voce di Lucifero spaventa i beati, che si danno scompostamente alla fuga.—San Luigi Gonzaga si sviene fra le braccia di Santa Teresa.—Gabriele, non potendo persuadere l'Arcangelo Michele alla pugna, ordinate alla meglio alcune schiere, disponesi alla battaglia.—Santa Cecilia ne lo dissuade; ond'egli, lasciato il fiero proposito, s'abbandona voluttuosamente nelle braccia di lei.—Loiola, Domenico di Guzman, Torquemada, Pietro d'Arbues, Sisto e Pio V, ordiscono una frode a Lucifero.—San Pietro abbandona le porte del paradiso.—L'Eroe sventa la congiura, e prorompe luminosamente nel cielo.—I congiurati santi tentano la fuga, e periscono miseramente.—Lucifero arriva alla presenza di Dio, cui trova, già fuori di sè, abbandonato da tutti, fuorchè da alcune bestie fedeli.—Tornata vana ogni loro difesa, tramutatosi indarno in diversi aspetti, Iddio muore, mentre l'Eroe ridiscende sul Caucaso, ed annunzia a Prometeo la fine dell'impresa.