The Project Gutenberg eBook of L'Olimpia

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Title : L'Olimpia

Author : Giambattista della Porta

Release date : April 26, 2008 [eBook #25183]
Most recently updated: January 3, 2021

Language : Italian

Credits : Produced by Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (Images generously made available by Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK L'OLIMPIA ***

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Proofreading Team at https://www.pgdp.net (Images generously made available by Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)

GIAMBATTISTA DELLA PORTA

LE COMMEDIE
A CURA
DI
VINCENZO SPAMPANATO

BARI

GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI

1911

PROPRIETÁ LETTERARIA

LUGLIO MCMXI—28246

L'OLIMPIA

IL PROLOGO.

Eccellentissimo principe, onoratissime gentildonne e voi generosissimi spettatori che tratti dalla fama della bellezza d' Olimpia —che cosí ha nome questa comedia—con degno apparato, con grato silenzio e con benigna udienza state attendendo questa sua venuta, eccola che mi siegue: non mai verrebbe fuora s'io prima di lei non uscissi. A me sta il menarla dove mi piace, le sono—per dirvela onestamente—come un ruffiano. Ella non pensando d'aver a comparir fra gran cerchi di sí ampio teatro né fra sí gran numero di nobilissimi spirti, di persone di tanta autoritá, né di troppo severi e scropulosi giudici di bellezze di donne, appena ponendo i piè su la scena che vedea i volti conversi in lei ed esser bersaglio di tanti occhi, come vergine non ancora informata da alcuno delle cose del mondo, vergognosetta si tirò indietro: per non porsi a pericolo d'esser passata per punte di picche e trafitta nel vivo cosí in secreto come in publico, avea determinato piuttosto farsi monaca e invecchiarsi in un monistero e contentarsi delle poche lodi ch'avea avute da chi la vidde in casa sua, che procacciarsene maggiori uscendo in publico. Al fin l'abbiamo forzata a comparire. Orsú, voi che armati di malignitá siete venuti per biasmarla, ponetevi gli occhiali che sian lucidi, accioché non vi mostrino una cosa per un'altra: ché a vostro dispetto l'invidia resterá occecata da' suoi raggi. Miratela dalle trecce insino a' piedi, vedete se i membri sian ben disposti, se corrispondono tutte le parti, se fanno fra sé armonia, e se tutta la testura del suo corpo è insieme dicevole e isquisitamente proporzionata. Vedetela caminare, con quanta leggiadria stende i passi; gustate la lingua che è melata e suave; uditene il parlare che è pieno di salsi scherzi e di gravi piacevolezze; ma il severo del volto non iscema il festevole di motti: cose ch'ave imparate a casa sua e non le sono state poste in bocca da altri. Però se non respira con quel fiato né sa di quel mele di Atene o di Roma, iscusatela, ché a tutti non è lecito di andare a Corinto. Porta una toga insino a' piedi, e giuro che sotto il grave della toga ricopre molte bellezze, che se ben non è isconcia nella faccia, è molto buona robba sotto i panni; è ancora piena d'onesti costumi e lontana da viziose azioni, onde non è men bella nella bellezza che buona nella bontá; e giovanetta, come una rosa spunta fuor della buccia; e tutta artificiosa, perché non ha veruno artificio. Il piú bello ornamento ch'abbia è che va senza ornamento alcuno: par che piaccia a se stessa piú cosí schietta come nacque, che con tutti i belletti che si pongono le donne altrui. Se qualche gioia le pende dal collo o qualche perla dalle orecchie e vi dispiacessero, toglietele via, ché non resterá men riguardevole la sua bellezza; se pur i specchi ch'ella suol straccare specchiandovisi dentro, che le han venduti certi maestri d'Africa e di Umbria, non le mostrano qualche isconcia macchia per neo. Se per avventura i capelli fussero scarmigliati over alcuno uscisse fuor dell'ordine delle trecce, o qualche festuca le fusse rimasta attaccata alla gonna, che per trascuraggine di chi l'ha spazzata la veste vi fusse restata, non per questo biasmate lei. Se fusse un poco vana o lascivetta, iscusatela, ché il bello e il buono non pottero mai imparentarsi insieme; ché se privaste una donna di tutte le vanitá, forse non vi restarebbe cosa veruna: non sarebbe piú donna. Io ve la do in preda: toglietevela con le man vostre, menatevela dove vi piace. E se pur biasmando lei la morderete, mordetela con discrezione, di modo che non appaiano nel volto o nel petto i segni delle piaghe e le lividure di denti cagneschi. E quando pur siate deliberati torle l'onor suo e borbottando dirne male senza risparmio alcuno e sfreggiarle il volto d'ingrata riconoscenza, fatele questo uffizio dinanzi, che rispondendo ella parimente se ne possa aiutare: ché se il dir male dietro le spalle fu sempre biasmevole, considerate quanto sia vituperoso ad una donna. Ma io non vo' tanto vantarla che voglia far parer d'una mosca un elefante e che di una giovane piccina, anzi uno aborto, voglia mostrarvi una gigantessa. Perché veggio fuor la sua balia, vi sodisfará meglio ella con la sua presenza che non farei io a dipingerlavi con le parole. A dio.

PERSONE CHE V'INTERVENGONO

Balia
ANASIRA commare
MASTICA parasito
OLIMPIA giovane
TRASILOGO capitano
SQUADRA suo servo
LAMPRIDIO innamorato
PROTODIDASCALO suo pedante
GIULIO studente
SENNIA vecchia madre di Olimpia
TEODOSIO vecchio marito di Sennia
EUGENIO suo figlio
FILASTORGO vecchio padre di Lampridio
LALIO paggio
Capitano di birri.

La scena dove si rappresenta la favola è Napoli.

ATTO I.

SCENA I.

BALIA, ANASIRA comare.

BALIA. Sempre ch'io ben considero gli andamenti di questa vita mi par proprio di vedere una comedia, che n'ho viste recitar molte a' giorni miei. Le cose riescono al contrario di quel che pensiamo: chi piú crede sapere manco sa, tal si crede avere una cosa in mano ch'altri poi gli la toglie, e si sta sempre in continuo travaglio.

ANASIRA. Buon dí, balia.

BALIA. O comare Anasira, mille buon anni, tu sei qui?

ANASIRA. Mi vedi e mi domandi si ci sono. Che cosa dicevi di comedia? è forse alcuna che si recita questa sera nelle nozze di quella tua bellissima figliana che fa ragionar tutta questa cittá della sua bellezza?

BALIA. Dio voglia che non ci sia altro che pianto!

ANASIRA. Che cosa mi dici? e come sta Olimpia?

BALIA. Eh! come sta la sfortunata giovane? non ci è piú segno di quella sua bellezza. Se la vedessi non la conosceresti: par un'altra, tanto è trasfigurata. Sta di sorte che s'avessi pensato vederla in questa sciagura, me l'arei affogata a lato quando era bambina.

ANASIRA. Balia, narrami alcuna cosa, ché ben sai che non hai comare né amica piú cara di me.

BALIA. È vero; ma a te non tocca di saperlo.

ANASIRA. Donde ti è nata tanta secretezza?

BALIA. Donde a te tanta curiositá.

ANASIRA. Se non fussi stata la prima a pregarti che lo dicessi, m'aresti pagata che t'ascoltassi, che poco anzi per aver carestia di chi t'ascoltasse, l'andavi raccontando a questa piazza.

BALIA. Chi ha gran voglia di udire ha gran voglia di ridire, e questa è cosa d'importanza piú che non pensi.

ANASIRA. Teh! ti sei fidata di me delle cose dell'onor tuo—ché ben sai che facesti in casa mia quando eri giovane,—e or tieni tanto secrete le cose altrui.

BALIA. E se tu m'hai narrate le tue vergogne, come posso sperare che tacci l'altrui? Noi femine siamo troppo novelliere e larghe di natura al parlare; e fra tante meraviglie che s'odono, mai s'udí che una femina nascesse muta.

ANASIRA. Or poiché è vizio di natura e siamo pur note a tutti, non ci vituperiamo noi stesse. Però comincia, su.

BALIA. A te non posso dir di no: però ti priego che non ne facci parola con persona. Olimpia s'è fidata di me e non ci è altro che lo sappi, e ogni cosuccia che si scoprisse estimarebbe subito che fosse uscita da me. Taci e ascolta.

ANASIRA. Taccio e ascolto.

BALIA. Sai bene come i mesi adietro Olimpia dimorò in Salerno in casa di Beatrice sua zia un certo tempo. Quivi vedendola a caso un gentiluomo chiamato Lampridio, ch'era venuto di Roma per studiare, s'accese dell'amor suo ardentissimamente; e non mancando di servirla e scoprirle il suo fuoco, Olimpia cominciò a vederlo assai volentieri e rendergli il contracambio; e confacendosi i costumi dell'una e dell'altro, si innamoraro sí fattamente che non fu mai inteso al mondo il piú ardente amor di questo: non amor no, ma rabbia. S'han dato la fede di nascosto d'esser marito e moglie; e non altro che la commoditá manca a dar fine agli affanni loro. E di questo amore Mastica, il servitore di casa, era il mezzano, che Lampridio l'avea corrotto con dargli benissimo da masticare….

ANASIRA. Questo deve essere il suo primo amore: però è cosí furioso.

BALIA…. Sennia intanto, la madre d'Olimpia, trattò matrimonio col capitan Trasilogo nostro vicino; e come quello che ne stava innamorato, s'accordò subito: talché s'inviò a chiamare Olimpia, ché fusse ritornata a Napoli. Come ella giunse, cominciò Sennia con belle parole a dirle che l'avea maritata, e pregandola ci consentisse e le desse quell'ultima consolazione che tanto tempo avea disiato da lei; percioché sapendo la ricchezza, il parentado e il valore di questo capitano, gli l'avea promessa da sua parte, tenendo per fermo che, come obediente figliuola che l'era stata sempre, non sarebbe stata contraria al voler suo. Olimpia sentendo questo, pensa tu, sorella, il dolore. Ella tramortí subito, restò con la faccia di color di cenere e stette buon spazio a riaver la favella. Pur facendo forza a se stessa, fingendo buon viso, con certe lusinghette rispose che non volea cosí tosto allontanarsi da lei, non avendo conosciuto né altro padre né altro fratello che lei; e che tanto sarebbe lasciarla quanto lasciar la propria vita, massime essendo vecchia, malsana e in etá da esser governata, e che avea bisogno d'una che le fusse stata serva e figlia insieme sollecita alla sua salute. E accompagnò queste ultime parole con certe lagrimette che si pensò la madre che fussero nate dalla pietá di lei….

ANASIRA. Che disse la madre? non si commosse tutta?

BALIA…. Lodò molto la sua amorevolezza, la baciò in fronte affettuosamente con dirle che non era nata per star sempre in casa. Cosí la lasciò per parecchi giorni; pur veggendola star ritrosa, l'ha fatta esortar da parenti, da amici e da vicini ancora; al fin conoscendola ostinata, l'ha fatto intendere che tanto vuol che sia sua figlia quanto l'è ubidiente….

ANASIRA. A che s'è risoluta la poverina?

BALIA…. La poverina non potendo piú con ragione resistere a' contrasti della madre, ha detto de sí, purché si trattenghi per tre soli giorni, quali son giá finiti; e s'è inviato a dirsi al capitano che s'appresti sposarla per questa sera….

ANASIRA. Perché ha detto de sí? che speranza poteva avere in sí pochi giorni?

BALIA…. Ha inventato il piú bello e colorito inganno che possa imaginarsi, non solo di schivar queste nozze cosí odiate da lei ma di venir al fin di questo suo amore….

ANASIRA. Che inganno è questo?

BALIA. Bastiti quanto t'ho detto.

ANASIRA. Non mi lasciare al meglio con la bocca sciapita, eh! Onde hai tu imparato cominciar una istoria de innamoramento e non venir al compimento fin al dolce?

BALIA…. Giá devi sapere che Sennia, la mia padrona, venti anni sono si maritò con Teodosio e di lui n'ebbe duo figli, Eugenio il maschio, Olimpia la femina. Teodosio togliendosi un giorno Eugenio in braccio per ischerzo, andò a diporto ad una sua villa a Pausilippo; e quivi fur presi di notte da una galeotta di turchi, e da quell'ora non mai piú se ne è potuto saper novella se sian vivi o morti. Ma Sennia tien gran speranza che sien vivi, ché una zingara vedendole la mano le indovinò ch'eran vivi e ben presto tornerebbono; ed ella dice che se li sogna ogni notte che vengono….

ANASIRA. Che mi curo di saper questo io?

BALIA. Se prima non ti dico questo, non potrai capir l'inganno.—… Olimpia da che venne a Napoli per provar l'animo della madre come stava saldo alla trama ordita tra lei e Mastica ministro del tutto, ha finto certe lettere come le mandasse Eugenio di Turchia, scrivendole ch'era morto Teodosio e che esso avea rotto la prigionia e la catena ed era in camino per venirsene a casa; e fece portar queste lettere alla madre da un certo turco fatto cristiano lor conoscente. Il che Sennia non solo se l'ha creduto ma n'ha preso un'allegrezza cosí grande che non cape nella pelle e va scalza per le chiese e fa gran voti. Or da questa credenza Olimpia ha pigliato piú fidanza di seguire….

ANASIRA. A che effetto cotesto?

BALIA…. Or vuol che Lampridio si vesta da turco col ferro al collo e con la catena a' piedi come se fusse scampato di man loro, perché è giá di venti anni, conforme all'etá che potrebbe avere Eugenio; e con dir che sia suo fratello, entrará in casa nostra, disturberá le nozze di questo capitano, e niuno potrá negargli che non stia solo e accompagnato con la sua Olimpia come gli piace. Ecco son arrivata fin al dolce, fin al fine; vuoi piú?

ANASIRA. Or sí che l'intendo, ed è certo un inganno accortissimo; e sento tanta dolcezza che questa gentil giovane resti contenta, che par sia Olimpia io e ancor io ne senta la mia parte. Ma dimmi: se Lampridio fusse riconosciuto in Napoli, non si scoprirebbe l'inganno?

BALIA. Egli non mai fu in Napoli; e Olimpia l'ha fatto intendere per un certo Giulio studente, amico comune, che per quanto ha cara la grazia sua, per una cosa importantissima non venghi a Napoli prima che sia avisato, accioché non fusse riconosciuto da alcuno, come dici.

ANASIRA. Come Sennia non s'accorgerá che questo non è suo figlio?

BALIA. Non t'ho detto io ch'appena era di due anni quando le fu tolto? e io le ho inteso dir mille volte che se lo vedesse non lo riconoscerebbe.

ANASIRA. Iddio le faccia succedere ogni cosa come desidera. Ti vo' lasciare, a dio.

BALIA. Tienlo secreto, sai: tu vedi quanto importa.

ANASIRA. Se non l'hai potuto tener secreto tu che t'importa, come lo posso tener secreto io che non mi si dá nulla?

BALIA. Deh, per amor di Dio!

ANASIRA. Io scherzo cosí teco. (Ma chi può contenersi, se trovo il capitano, di non rivelargli cosí bella trama?).

BALIA. Ti farei compagnia, se non avessi a ragionar con Mastica su questo fatto; e però son uscita e giá lo veggio venir in qua.

SCENA II.

MASTICA parasito, BALIA.

MASTICA. Dicono i medici del mio paese che si trova una infermitá che si chiama «lupa», che dá una fame tanto affamata che quanto piú mangia piú s'affama. Io stimo esser nato con questa malattia non solo nelle budella ma nelle midolle dell'ossa, né tutti i sciroppi, medicine e servigiali del mondo non la possono cavar fuori….

BALIA. Mastica Mastica!

MASTICA…. Io sento—che lupi, che cani—piú di cento leoni nello stomaco; io non vorrei far mai altro che mangiare, non mi veggio satollo mai, anzi quanto piú mangio piú cresce la rabbia. La fame ha preso tanto dominio sopra di me, che quanto piú cerco torlami da dosso piú vi se attacca.

BALIA. O Mastica Mastica!

MASTICA. Chi chiama Mastica non chiama me: chiamimi «digiuno» se vuol che gli risponda. Non vo' esser Mastica, ché non mastico se non sputo e vento.

BALIA. Oh che affamata risposta!

MASTICA. Oh che sciapita chiamata!

BALIA. Non sei Mastica tu?

MASTICA. Cosí tu fossi un pasticcio, ch'al primo ti porrei mano al cappello e mi ti tranguggiarei in un boccone!

BALIA. Parea che non mi conoscessi.

MASTICA. La fame m'avea cosí offuscati gli occhi che non ti conosceva.

BALIA. Hai fame cosí mattino?

MASTICA. Non sai tu che la mattina apro prima la bocca che gli occhi?

BALIA. Ho bisogno del fatto tuo; odi un poco.

MASTICA. Che vuoi tu ch'oda? «Ventre che non rode, mal volentier ode».

BALIA. Lascia questi scherzi.

MASTICA. Lascia questo braccio.

BALIA. Vien qua e fai bene.

MASTICA. Non trascinare e fai meglio! Oh, che avessi incontrato la carestia piuttosto questa mattina che te! sai come mi piacciono le tue pari!

BALIA. Fa' questo piacere a me.

MASTICA. Non vo' far questo dispiacere a me né alla mia persona; so ben quel che tu vuoi. Per parlarti chiaro, balia, se ben tutte le donne son insaziabili di natura, la tua non ha né fin né fondo. Star morto di fame, stracco, fastidito e donne intorno, pensalo tu.

BALIA. Non vo' quel che tu pensi.

MASTICA. Io pensava quel che tu suoli volere. M'hai ritornato l'animo: lasciami respirare un poco. Ho preso tanta paura che non sará ben di me tutto oggi.

BALIA. Cosí ti dispiacciono le donne, eh? che maggior piacer si può trovare che star con una donna bella come un agnolo?

MASTICA. Se tu avessi detto «come un agnello», aresti detto assai meglio, ché questo ti pone in corpo la sanitá, non ne la cava, né col tempo ti viene a noia. La donna piace per un poco, poi viene a fastidio; ma questo quanto piú invecchiamo piú ne piace. Lasciam questo: che cerchi da me?

BALIA. Ho da farti un'ambasciata di Olimpia.

MASTICA. Che fa?

BALIA. Eh! che fa la povera martorella? piange e sospira sempre, né so come gli occhi possano supplire a tante lacrime e il petto a tanti sospiri. Io ho visto femine innamorate, ma non mai come questa. È venuta in odio a se stessa: volge gli occhi spaventosi di qua e di lá, ragiona sola fra se stessa come se vi fossero persone d'intorno. La notte non dorme mai: or si volge su questo or su quell'altro fianco come se il letto fusse d'ortiche o di spine, e se pur per stanchezza chiude gli occhi, si sveglia subito; non mangia né beve….

MASTICA. Or questo sí che è cattivo e il peggior di tutti.

BALIA…. Sta attonita e sospesa d'animo, e quando vengono quelle ore nelle quali era solita star in conversazione in Salerno con Lampridio, tramortisce; e come torna in sé si straccia i capelli, grida e fa cose da spiritata: e ché la madre non la senta, si morde le labbra e le braccia. E sta tanto fitta su questi pensieri e s'affligge tanto amaramente che farebbe compassione alla crudeltade: par che d'ora in ora me la veggia morire in braccio. Coltello di questo core!…

MASTICA. Se tu mi avessi dato da bere t'aiuterei a piangere, ché gli occhi mi stanno cosí asciutti che se gli ponessi in un torchio non ne potresti cavar fuori una lacrima. Ma che vuol da me?

BALIA…. Dice ch'ora è tempo dar ordine allo inganno ordito per turbar queste nozze del capitano, però desia parlarti su questo fatto or che la madre è in letto; che entri in questo vicolo che ti parlerá da quella fenestra secreta.

SCENA III.

OLIMPIA, BALIA, MASTICA.

OLIMPIA. Balia balia!

BALIA. Figlia eccomi, ferita dell'anima mia!

OLIMPIA. È qui Mastica? ecci alcun per le fenestre o per la strada che mi veggia?

BALIA. Non appar anima nata. Accostati, Mastica.

OLIMPIA. Mastica!

MASTICA. Padroncina mia dolce!

OLIMPIA. Ricordati che non ho mai lasciato far cosa per tuo servigio, però ti priego m'aiuti in questo mio estremo bisogno.

MASTICA. Son vivo per amor vostro, ché sarei morto di fame mille volte; e per farvi piacere starei un giorno intiero in tavola a mangiare sempre e mi beverei un baril di vino ad un fiato, se ben andassi a pericolo di scoppiare.

OLIMPIA. È bisogno ch'or ora tu vadi a Salerno a trovar Lampridio mio e dargli questa lettera dove è scritto l'inganno ch'abbiamo ordito, e che non manchi tosto esseguirlo. E digli a bocca che l'ho amato assai piú in assenza che non l'amai in presenza, e che solo un refrigerio ho avuto in questa lontananza: che mi sono trasformata in pensiero e stata tanto sospesa in lui che mi sono dimenticata di me stessa e dell'affanno dove viveva, che non l'ho lasciato scompagnato un sol passo, che gli sono stata sempre intorno come l'ombra sua: e che si dimentichi Idio di me se per un sol punto mi sono io dimenticata di lui; e per quanti momenti di piacere ho avuti lontano da lui, tanti mille anni n'abbia di discontento; e se per merito d'altra persona son cambiata mai di fede, cada nel piú basso stato di miseria che si trovi….

MASTICA. E come mi potrò io ricordare di queste parole letterate?

OLIMPIA…. E digli che mia madre mi vuol sposare ad ogni modo col capitano, che ho fatto dalla mia parte quanto ho saputo e potuto e che non posso far piú per esser costante in amarlo e osservargli la fede che l'ho data d'esser sua eternamente, e che mai non vedrá persona Olimpia viva ch'abbia altro marito, ch'io non voglio né posso amare altra persona che non sia lui: che il capitano sollecita e s'affretta, la mia volontá non ci consente; l'obedienza di mia madre mi sforza, Amor con forti catene mi tira a sé; la mia libertá è in poter d'altri, la mia vita nelle sue mani: che consideri in che vita e in che inferno mi trovo, che sto come quella che sta confessandosi che d'ora in ora aspetta giustiziarsi; che se sono forzata maritarmi con questo capitano, m'ho serbata una carta di soblimato, che s'usa ne' lisci della faccia, per avelenarmi. Onde s'è vero quello amore ch'ha detto portarmi, e se non ha sepolto con la lontananza la memoria di chi tanto mostrò d'amare, ch'or è tempo mostrarlo; non lo spaventi periglio o fatica, che solo a chi ben ama ogni affanno è legiero….

MASTICA. (Giá è cominciata la predica, non finirá sí tosto).

BALIA. Ascolta, Mastica.

OLIMPIA…. Arei molto che dirti. Per finirla, apriti il petto, mostragli il cor tuo in scambio del mio; ché sapendo egli il cor mio, vedendo il tuo vederá appunto il mio.

MASTICA. Tacete, che s'apre la porta del capitan Mastrilogo o
Trasilogo, e vien fuori: che non ci senta parlare di queste cose.

OLIMPIA. Aggiongivi altro tanto del tuo, Mastica, sai.

MASTICA. Será bene se gli dirò la metá di quanto m'avete detto.

BALIA. Mastica, son tua schiava.

MASTICA. E io tua chiave.

SCENA IV.

TRASILOGO capitano, SQUADRA suo servo, MASTICA.

TRASILOGO. Olá, o di casa! Pestamuso, Franginaso, Pelabarba, Rompicollo, Spezzacatene, Cacciadiavoli! O che dormono intorno al foco o stanno distesi in stalla a grattarsi la pancia. Non posso vedermi intorno questa razza di poltroni infingardi.

SQUADRA. Che comandate, signor capitano?

TRASILOGO. Ordina a Pestamuso e a Franginaso che spazzino le camere e la sala, attacchino gli arazzi a' muri e mettano in ordine il palazzo;…

SQUADRA. Si fará.

TRASILOGO…. Fracasso e Spezzacatene racconcino l'armaria, poliscano l'armatura e forbiscano ben bene la mia «passacuori», che sia piú splendente che il sole in leone, che calando di sopra il colpo, il lucido paia il lampo e la caduta il tuono;…

SQUADRA. (Penso che la ruggine se l'abbi divorate).

TRASILOGO…. ancora: che i cavalli fresoni, ginetti di Spagna e quelli del Regno sieno stregliati e forniti di tutto punto, e fra gli altri lo stornello che si chiama «il capitano», che s'assomiglia tutto a me d'animo, di forza e di gagliardia.

MASTICA. (E di discorso ancora).

SQUADRA. Perché questo apparecchio, padrone?

TRASILOGO. Questa sera mi sposerò con Olimpia, che iersera me lo fe' intendere la madre; e tu sai bene come io sia morto e sbudellato per amor suo.

MASTICA. (Tanto abbi l'anima quando l'arai!).

SQUADRA. È pur contenta Olimpia, e quando venne di Salerno ne stava cosí ritrosa!

TRASILOGO. Ella fingeva cosí per fare mona Onesta con la madre; ma ella si strugge e spasima per amor mio. Oh, non sarebbe una sciocca se ricusasse me per qualsivoglia? non sono io il primo uomo del mondo?

MASTICA. (Costui deve essere Adamo. Ma il pecorone s'è ricordato di tante cose e non ha fatto ancora parola della cucina).

TRASILOGO. Ascolta, m'era dimenticato il meglio: fa'…

MASTICA. (Che s'apparecchi benissimo da desinare).

TRASILOGO…. che si cuopra quel mio ritratto che sta in quello atto fantastico e bizzarro e con quegli occhi sfavillanti, ché sarebbe impossibile che vedendolo Olimpia, che è una fanciulla, non le venghi lo spasimo. Ho tanta virtú in questi occhi che stando irato non è persona di sí intrepido core che vi possa fissar lo sguardo….

MASTICA. (Oh! come fa bene a farlo coprire, ché non è uomo che non cali giú gli occhi per non veder quella faccia di stregone).

SQUADRA. Che sète forse basilisco?

TRASILOGO…. Non sai tu ch'ovunque vado vien meco la morte e lo spavento? e ovunque volgo lo sguardo fo tremar l'istesso ardimento, sí come proprio fusse il terremoto?…

SQUADRA. Perché vien la morte con voi?

TRASILOGO…. Perché ha piú facende venendo meco che s'andasse con la peste e con la guerra accompagnata. Chi tronca piú teste? chi taglia piú gambe e braccia? chi scavezza piú colli? chi apre piú uomini per mezzo che questo mio braccio gagliardo?…

MASTICA. (Certo costui deve esser boia, poiché squarta uomini, taglia teste e scavezza colli).

TRASILOGO…. Di' a Pelabarba, se venissero sergenti, capitani, colonnelli, maestri di campo o altre persone di conto a dimandarmi, gli dica che son ito a Palazzo, che S. E. tien Consiglio di Stato questa mattina. Tu compra robbe accioché s'apparecchi per questa sera, poi vieni a trovarmi dove tu sai.

MASTICA. (Poiché compra robbe me gli vo' scoprire; forse ne carpirò una colazionetta questa mattina).

TRASILOGO. Ma io veggio Mastica. O Mastica mio galante!

SCENA V.

MASTICA, TRASILOGO.

MASTICA. Eccomi, fior della cavalleria, re di paladini, gloria di rodomonti!

TRASILOGO. Dove si va?

MASTICA. Dove mi sento trascinar dalla gola.

TRASILOGO. Tu vuoi dir che vorresti mangiar meco, eh?

MASTICA. Fareste una opera pia: all'altro mondo ve la trovareste all'anima.

TRASILOGO. Orsú vo' che desini meco.

MASTICA. O principe, o re, o capitano strenuo e valoroso!

TRASILOGO. Che dice Olimpia di me?

MASTICA. Che questa notte s'è sognata con voi e che voi le parete il piú bel gentiluomo del mondo.

TRASILOGO. Haile tu detto che se ho un viso d'angiolo ho un cuor di diavolo? in somma la mia bellezza mi rubba gran parte della fama delle mie pruove; ché le genti vedendomi cosí bello non si ponno imaginare che sia quel satanasso, quel gran diavolo ch'io sono. Haile tu raccontato le cittá che ho prese, le tante volte che ho combattuto in steccato e le battaglie terribili c'ho fatte?

MASTICA. Quali?

TRASILOGO…. Non devi esser di questa cittá o sei nato sordo, poiché non hai inteso per ogni cantone le mie pruove. Ascolta, che vo' raccontartene una spaventevole che un tempo ebbi con la famosa Alitia. Questa è piú valorosa d'una Angroia, d'una Marfisa bizzarra, e siamo stati sempre capitalissimi inimici. Un dí bandimmo giornata: a lei vennero in aiuto i popoli grínei, dinamèi e dícei; a me i popoli alopecèi, epitáli ed epismirni….

MASTICA. Oh che nomi da scongiurare spiriti! e sonovi questi popoli sul pappamondo?

TRASILOGO. Tu sei poco prattico nelle guerre, però non li conosci.

MASTICA. Io non conosco se non i popoli panettari, piscatori, tavernari e salcicciari che mi donano da mangiare: con questi prattico e fo le mie scaramucce. Ma che seguí della guerra?

TRASILOGO…. Combattendo seco, quantunque l'avessi dato diecimilla stoccate non la poteva uccider mai, perché era fatata come Orlando. Al fin per torlami dinanzi, le attacco una pietra al collo e la sommergo nell'Arcipelago….

MASTICA. Crudel battaglia fu questa!

TRASILOGO…. Ascolta quest'altra ch'ebbi con gli uomini marini….

MASTICA. Che uomini marini?

TRASILOGO. Questi sono mezzi uomini e mezzi pesci; e cosí scorrono per lo mare come gli uccelli per l'aria, e son coverti di piume molli che dando loro con la spada cedono al taglio, che non fa ferita. Né si può loro appressar con navi, perché portan fuoco e le bruggian tutte….

MASTICA. Voi come l'uccideste?

TRASILOGO…. Prima tesi una rete tessuta di gomene di navi tra certi scogli, poi feci carri di soveri e vi posi delfini a briglia; e dando loro la caccia gli feci cadere nell'imboscata, poi tenendogli sospesi dall'acqua gli lasciai morir di fame come cani….

MASTICA. Oh che morte crudele! or non v'era altra sorte di farli morire che di fame? Ma dimmi, non ci fu alcun testimonio che lo vidde?

TRASILOGO…. I miei compagni tutti moriro all'impresa e di loro non rimase niuno vivo. Ma io te ne racconterò delle piú brave….

MASTICA. Bastan queste: non piú, di grazia.

TRASILOGO. Ascolta, che poi anderemo a pranso.

MASTICA. Vo' piuttosto star senza pranso che ascoltar queste bugie.

TRASILOGO. Io non so dir mensogne, né son di questi squassapennacchi che con le loro frappe accrescono le cose loro piú di quello che sono. In fatti son piú fiero che non mostro con le parole. Va' e racconta queste cose ad Olimpia, che ti donarò una alfangia spagnola vecchia….

MASTICA. Che cosa è «armangia»?

TRASILOGO. Dico «alfangia» non «armangia».

MASTICA. Che m'importa alfangia o armangia! vi domando s'è cosa da mangiare.

TRASILOGO…. È una scimitarra che tolsi al capitan don Juan Manrich
Caravaschal cara de Pamplona….

MASTICA. Gran scimitarra dovea esser questa che ci ponevano la mano tante persone!

TRASILOGO. Che tante persone?

MASTICA. Questi «tric», «varric», «varra», «varrone» che avete detto.

TRASILOGO…. E ave un bel manico d'avorio posticcio.

MASTICA. Pasticcio? questo si che l'accetto.

TRASILOGO. Ti lascio, ch'io vo' partirmi.

MASTICA. E quando pransaremo?

TRASILOGO. Io vo a desinare con S. E. questa mattina, che iersera ne volse la fede mia di non mancarle. Questa sera cenerai nel banchetto della tua padrona, ché ben sai che dove la sera si fan nozze la mattina non vi si mangia.

MASTICA. Disgrazio tal legge e chi la compose!

TRASILOGO. Tu sei in còlera meco: non ti partire, ch'adesso ritornerò, che giá non è ora di pranso.

MASTICA. In casa tua mai non è ora di pranso mentre ci sono io. Temerario vantatore, capitan di ranocchi, mi fa ascoltare e parlar quattro ore, poi me ne manda assordito e diseccato, senza mangiare e senza bere. Si pensava che le sue parole m'entrassero in corpo e mi servissero per cibo, o forse mi voleva far morire come quelli suoi popoli. Mi voleva dar l'alfangia, come s'io avessi bisogno di queste armi per combattere con la fame: ché non ho altra nemica al mondo, né è piú gran pericolo che combatter con lei; e se non mi difendessi a piatti di lasagni, di maccheroni, caponi, faggiani e fegatelli, m'ucciderebbe. Orsú, me n'andrò ratto a Salerno per trovar Lampridio e gli darò la lettera, che per mancia non mi mancherá un banchetto da imperadore.

ATTO II.

SCENA I.

LAMPRIDIO innamorato, PROTODIDASCALO suo precettore.

LAMPRIDIO. Ecco pur veggio quell'ora, che per troppo desiderarla mai non parea che venisse. Quanto pensi, o Protodidascalo precettore, mi sia dolce Napoli?

PROTODIDASCALO. Pol, aedepol, mehercle, quidem, Lampridio, che al fin ti será molto amarulenta. Nota «aedepol» col diftongo.

LAMPRIDIO. Pur la buona sorte ha voluto che ci venissi.

PROTODIDASCALO. «O terque quaterque beatus» se non ci fosti venuto mai!

LAMPRIDIO. E come desiosa farfalla corre intorno l'amato lume, cosí vo io ratto a pascermi gli occhi dell'amata luce del mio sole!…

PROTODIDASCALO. La fiamma ti comburerá l'ali, caderai deplumato e ustulato come il Dedalide—patronimice loquendo: Icaro figliuolo di Dedalo.

LAMPRIDIO…. da cui per esser stato cosí lontano, non so come le tenebre non m'abbino accecato e spento in tutto.

PROTODIDASCALO. O quam melius non stuzzicassi i carboni semivivi, semisopiti sotto la cenere, che ogni favillula dandole fiato cresce in gran fiamma. Però smorzalo.

LAMPRIDIO. Oimè come vuoi ch'io lo smorzi se tutto ardo? e Amor sí fattamente soffia nelle faci che m'ave accese nell'alma, che sono avampato di sorte che son tutto di fuoco.

PROTODIDASCALO. Rivolvendo le tue cure altrove, Amor insufflando ne' tuoi igniculi non fará altro che fumo. Ma se tu non volessi ignescere piú di quello che sei, non saresti venuto Neapolim versus. Non sai quel famulo terenziano:

Accede ad ignem hunc, iam calesces plus satis ;

che il fuoco arde piú vicino che lungi?

LAMPRIDIO. Anzi l'incendio d'amore arde e si fa sentir di lontano piú che da presso. Ma io vo' palesarti il mio pensiero: le cose vietate sogliono piacere e le possedute rincrescere; io con l'esser venuto qui in Napoli, veggendola di continuo, per la troppa abondanza mi verrá in fastidio e mi levarò da questo amore.

PROTODIDASCALO. Falsum, idest falsa imaginatio est che la vista d'una cosa amata voglia rincrescer giamai; anzi non è cosa piú melliflua e piena di dolcedine ch'un polcrissimo aspetto, e quanto gli oculari radii piú reciprocano meno si saziano. Concludo ergo che questo tuo venir a Napoli non è altro che addere ignem igni.

LAMPRIDIO. Questa será veramente l'acqua ch'estinguerá il mio foco.

PROTODIDASCALO. Será come l'acqua che spruzza il fabro ferrario su' carboni per fargli piú flagranti ed escandescenti.

LAMPRIDIO. Non fará il tuo dire ch'io perda la sua grazia, poiché l'ho acquistata.

PROTODIDASCALO. Oh miserrimo e deperdito te, che chiami acquisizion d'altri la iattura di te medesimo! Rememora che quando pervenesti a Salerno non v'era giovine d'intelletto piú terso né di indole piú elegante di te. Sempre col Cantalicio e con lo Spicilegio alle mani; appena diceva: «arrige aures», che subito ti ponevi in ordine e aprivi le orecchie; non ti dava dettato cosí grande che non l'avessi capito e posto ben bene entro i meati dell'intelletto. Ed io vice versa tutto mi congratulava di tanta obedienza. Or piú non prezzi i fatti miei, « cepit te oblivio » d'ogni buon costume, e ti sei posto ad amplectere l'amor d'una donna. Odi Marone: « Varium et mutabile semper femina »; dove l'Ascensiano interprete enucleando quelle parole dice: « Femina nulla bona ». Ella si ricorderá di te appunto come se non t'avesse conosciuto mai. Ma stimi che s'alcun formoso la chieda in copula matrimoniale, per amor tuo voglia giacer frigida nel lecto?

LAMPRIDIO. Protodidascalo, non far questa ingiuria al bello animo suo, ch'io nol comporterò.

PROTODIDASCALO. Ma penso fin ora ne sará fatto cerziore tuo padre Filastorgo—che è nome greco, « apò tû philin, apò tû astorgin », «ab amando filium», «che ti ama molto»;—onde o ti richiamerá a Roma overo un giorno tel vedrai: « Quem quaeritis? adsum »; ché non solo verrá qua equester o pedester ma navester ancora.

LAMPRIDIO. Il fuoco d'amore si consuma piuttosto da se stesso col tempo che con ricordi o solleciti avedimenti: però andiamo a Capovana a trovar Giulio studente che conoscemmo in Salerno, ché quel certo mi rallegrará con alcuna buona novella di Olimpia mia.

PROTODIDASCALO. Non ti ha scritto Giulio che Olimpia non voleva che tu fussi venuto a Napoli? e non ci fu detto nel diversorio che Olimpia si maritava con un certo capitano famigerato?

LAMPRIDIO. È bugia, nol credere.

PROTODIDASCALO. Niuno crede a quel che gli dispiace. Ma io mi dimentichi tutti i modi di dire ciceroniani e non possa finire il sesto di Virgilio che ho cominciato, se non ti succederá quel che ti dico; « obtestor deûm —pro 'deorum'— atque hominum fidem »!

LAMPRIDIO. Questi che viene in qua non è Giulio quel nostro amico?

SCENA II.

GIULIO studente, LAMPRIDIO, PROTODIDASCALO.

GIULIO. Se mal non veggio, questi mi par Lampridio; egli è desso. O
Lampridio dolcissimo!

LAMPRIDIO. O Giulio fratello, ché persona piú desiderata non arei potuto incontrar oggi!

GIULIO. Dio vi salvi e vi dia mille buon giorni!

LAMPRIDIO. Un solo basteria a farmi felice.

GIULIO. Se soverchiano a voi siano per i vostri compagni; a voi,
Protodidascalo.

PROTODIDASCALO. Oh come optatissimo ti obietti agli occhi nostri!

LAMPRIDIO. Che sai d'Olimpia mia?

GIULIO. Rispondete al saluto prima e dite:—Dio vi aiuti e salvi!—e poi mi dimandate d'Olimpia.

LAMPRIDIO. Come può mandarvi salute chi è privo d'ogni salute?

GIULIO. Or dite come stiate.

LAMPRIDIO. Dillomi tu, fratello, com'io stia, che lo sai meglio di me.

GIULIO. Come?

LAMPRIDIO. S'Olimpia m'ama io sto benissimo, se non m'ama io sto assai peggio che morto: non sai tu ch'ella è l'anima mia? non amandomi come potrei viver senz'anima? sarei un che vivesse morendo sempre.

PROTODIDASCALO. Larva d'uomo.

LAMPRIDIO. Lasciam questo: che sai d'Olimpia mia?

GIULIO. Nulla di nuovo se non che venne a casa Mastica e mi pregò caldamente che vi scrivessi che per quanto amor portate ad Olimpia e se avete a caro il suo piacere, non foste venuto a Napoli per una cosa importantissima.

LAMPRIDIO. Che cosa importantissima è questa?

GIULIO. Non saprei.

LAMPRIDIO. Che imaginate?

GIULIO. Non saprei che imaginarmi. Parmi che sii contristato: sei tutto mutato di colore.

PROTODIDASCALO. A questo nunzio oltre ogni suo cogitato dispiacevole, il freddo pavore di zelotipia ave invaso la fiamma comburenteli i precordi e l'ha fatto essangue e pieno di pallore. Segno di amore: « Palleat omnis amans », disse Nasone.

LAMPRIDIO. Per dirti la veritá, non avendomi detto la cagione m'hai posto l'animo non so come in suspetto.

GIULIO. Vuoi tu attristarti del male prima che sia?

LAMPRIDIO. Par che l'animo se l'indovini.

GIULIO. Forse è per ritornarne a Salerno di corto e vorrá ella istessa darti la nuova della sua venuta e risparmiarti questa fatica.

LAMPRIDIO. Non mi quadra, mi batte l'occhio dritto; e mi fu referito nel viaggio che si maritava con non so chi capitano suo vicino.

GIULIO. Io non so nulla di ciò: questa è la casa del capitano che dite, e questi che viene è suo servidore; volete che gli ne dimandi? Non rispondete? volgete l'animo a me.

LAMPRIDIO. Non l'ho meco.

GIULIO. Richiamalo a te.

LAMPRIDIO. Non posso, sta in gran tempesta, ondeggia. Ridillo, che non t'ho inteso.

GIULIO. Vuoi ch'io ne dimandi questo servo?

LAMPRIDIO. Me ne faresti piacere.

GIULIO. E vedrai quanto t'è stato detto tutto esser bugia.

PROTODIDASCALO. Festina i celeri passi, vien alacre, baiula un simposio sive un convivio intiero, ch'è infausto augurio per voi. Vi son colombe, animal di Venere: dinota coniugio. Lampridi Lampridi, timeo actum esse de te.

SCENA III.

SQUADRA, PROTODIDASCALO, GIULIO, LAMPRIDIO.

SQUADRA. Sia benedetto Idio che siamo usciti di tanti «voglio e non voglio» e «che si facevano e che non si facevano»; ché al fin s'è voluto e si fanno queste nozze.

PROTODIDASCALO. Rumina un certo quid de nupzie e ringrazia l'altitono
Giove che sian pur fatte.

GIULIO. Fermati, Squadra.

SQUADRA. Chi spensierato trattien un carico e che ha che fare?

GIULIO. Un che ti spedirá tosto. Volgiti.

SQUADRA. Non posso volgermi: ho la schiena troppo dura adesso. Paga un che ti ubedisca.

GIULIO. Dimmi, Squadra, donde vieni, dove vai e che robbe son queste?

SQUADRA. Vengo da comprare, vo a casa per apparecchiare il banchetto, ché il capitano s'ammoglia questa sera. Ecco t'ho detto donde vengo, dove vado e che robbe son queste.

GIULIO. Se tu m'avessi detto con chi, a me aresti tolto fatica di dimandare e a te di rispondere.

SQUADRA. Con Olimpia figliuola di Sennia, questa nostra vicina.

GIULIO. Questo è vero?

SQUADRA. Piú vero del vero.

LAMPRIDIO. (Mi par che da buon senno si mariti Olimpia, e di quanto ho sospetto, che sia vero).

PROTODIDASCALO. (Etiam ti pare? non bisogna che piú ti paia perché è maritata; se ben hai ruminate le recensite parole, non hai piú diverticolo d'allucinar te stesso. È maritata, plus quam maritata).

LAMPRIDIO. (Taci col tuo malanno!).

SQUADRA. Non mi date piú fastidio, di grazia.

GIULIO. Te ne darò mentre non mi dici quanto desidero.

SQUADRA. Non vedete che sto carrico, ho fretta, ho da far molte cose e ho poco tempo?

GIULIO. Mentre hai detto cotesto, aresti risposto a quanto voleva.
Mastica sa queste cose?

SQUADRA. Come non le sa, s'egli ha portato e riferito l'ambasciate e ogni giorno mangia col capitano?

GIULIO. Mi sapresti dir dove fusse?

SQUADRA. Ove si mangia o si tratta di mangiare.

GIULIO. Tutto questo sapevo io.

SQUADRA. Perché dunque ne me dimandi?

GIULIO. Va' in buon'ora carico e c'hai faccende; eccoti spedito.

SQUADRA. A dio, trattenitor degli affacendati.

SCENA IV.

GIULIO, LAMPRIDIO, PROTODIDASCALO.

GIULIO. Lampridio caro, oggi troveremo Mastica e c'informeremo meglio del negozio: forse non será cosí.

LAMPRIDIO. Questo «forse» non mi rileva nulla.

GIULIO. Intanto andiamo a pranso.

LAMPRIDIO. Andate a pranso voi, ch'io non pranserò né cenerò piú mai.

PROTODIDASCALO. Vuoi tu per questo appeter la morte?

LAMPRIDIO. Assai meglio che mal vivere. Sendo mancata la mia fé nel cuor di quella di cui l'imagine è piú viva nel mio che non v'è l'anima istessa, ed essendo morta per me chi era cagione che a me fusse cara la vita, non mi curo piú d'anima né di vita.

GIULIO. Sei tu disperato?

LAMPRIDIO. Eh, Olimpia Olimpia, non son queste le parole che mi dicesti partendoti da me: che piuttosto il sole sarebbe mancato di luce che tu giamai di fede, o che il tempo bastasse ad intepidirti l'ardore che mostravi tener acceso nel petto per amor mio! Ed è possibile che nel cuore, donde sono uscite queste parole, or vi sia entrata tanta oblivione? Sia maladetto tal core e sia maladetta, Amor, la tua potenza, che in quel core ove piú regnar dovresti ti lasci come vil servo vincere e dispreggiare….

PROTODIDASCALO. Lasciategli essalar gl'ignicoli accensi nell'intimo del suo core, che exarso dalla concupiscenza abbi l'egresso per questi respiracoli.

LAMPRIDIO…. Capelli, questo mio braccio non è piú vostro luogo! Verde seta, quanto mal fosti intrecciata con essi: mi promettesti speranza ma è giá morta ogni speranza per me. Voi m'avete ingannato; ma chi non areste ingannato se ci foste avolti da quella con tante belle maniere e tanti baci? Io calpesto cosí voi come ella ha sprezzata e calpestata la mia fede. Anello, tu non starai piú in questo dito: mi mostravi due fedi gionte, che se ben la lontananza o la morte ne parte i corpi non partirá l'alme in eterno che sieno legate d'amore….

PROTODIDASCALO. Oh, utinam, che concomitante il celeste favore questo fusse proficuo rimedio che lo vedessimo sospite di queste intricabili erumne!

LAMPRIDIO…. Ahi donne perfide e infideli—delle ingrate parlo io,—tutte sète macchiate d'una pece, tutte sète ad un modo! Non perché vi si mostri piagato il core in mille parti, non perché si spenda la vita mille volte per onor vostro, si può acquistar tanto merito appresso voi che in un punto non vi si dilegui dalla memoria. L'instabilitá è ogetto del vostro cuore, la leggerezza è nata nel mondo dalla vostra condizione….

PROTODIDASCALO. Oh che tu cernessi con gli occhi miei queste donne petulche Pasife, queste trisulche vipere!

GIULIO. Lampridio caro, non avete ragione biasmar tutte per una che vi dia cagion di dolervi: ci sono delle cortesi e delle gentili sí. Ben si conosce che vi sopravince la còlera.

LAMPRIDIO…. Ah Mastica Mastica, non senza cagione volevi che non fossi venuto a Napoli, accioché non vedessi che mi tradivi; della tua infedeltá non devo punto maravegliarmi, perché hai fatto da quel che sei! Ma io mi masticherò questo tuo core.

PROTODIDASCALO. Non t'ho io da gl'incunabuli animadvertito con mille ciceroniane auree sentenze, che in questo abietto hominum genere v'è sempre carenzia di fede? e hai sempre floccipeso le mie parole. Che vuol dir Mastica se non « mastix », « verbero », vulgari vocabolo «sacco di bastonate» e «truffatore»?

GIULIO. Orsú, date fine a tanta còlera.

LAMPRIDIO. Amico, se mai mi facessi piacere, vattene, lasciami qui solo, lasciami sfogare e dolere a modo mio.

GIULIO. Non è vergogna qui nella strada publica dolersi come figliuolo? Andiamo a casa, serratevi in una camera e qui a vostra posta doletivi quanto vi piace.

LAMPRIDIO. Né in casa vostra né in Napoli starò un sol punto; andrò a farmi monaco per disperato in un eremo. Anzi fammi una grazia, fratello: menami al Molo grande, ch'io voglio or ora buttarmi in mare.

PROTODIDASCALO. Oh miserrimo chi segue questo giovenecida Amore! Germanule, andiamgli dietro, ché non incida in qualche discrimine della vita.

SCENA V.

TRASILOGO, SQUADRA.

TRASILOGO. Dunque un romano ará tanto ardimento da farmi un simile inganno?

SQUADRA. Chi v'ha rivelato questa cosa, padrone?

TRASILOGO. Anasira, quella mia conoscente; e vogliono con questo inganno tormi Olimpia mia sposa. Son uscito per incontrarlo e ammazzarlo.

SQUADRA. Per dirlovi, padrone, a me parea impossibile che Olimpia v'amasse mai, perché alla vista conosceva che ne stava molto aliena.

TRASILOGO. O Dio, che queste feminacce del diavolo fanno sí poco conto d'un cor tremendo e foribondo! Mirami un poco in viso: è faccia questa da sprezzarsi da Olimpia? Io mi ho inteso lodar di bellezza e ho fatto morir le migliaia delle donne d'amore a dí miei; e chi m'avea a dormir seco lo riputava a molto favore, per aver razza d'un par mio per uomini da guerra.

SQUADRA. Olimpia è come l'altre: s'attacca sempre al peggio.

TRASILOGO. S'ella mi vedesse in mezzo un essercito di nemici, dove non si vede altro che spronar cavalli, abbassar lancie, sonar tamburri e trombe, scaricar archibuggi, bombarde e artegliarie, e io con questa mia Balisarda aprir elmi, forar corazze, romper teste, tagliar colli e infilar cuori; s'ella mi vedesse con una lancia in resta e prima che si pieghi buttar in terra almen sette persone, mi giudicarebbe un fulmine di guerra; ed ella e tutto il mondo impararebbe a far altro conto di me che non ne fanno.

SQUADRA. Or questo sí che desiderarebbe veder Olimpia prima che si pieghi: di buttar sette persone in terra.

TRASILOGO. Ma oimè, che la gelosia m'ha posto un verme nel core che mi rode tutto e mi scompiglia: che verme, che verme! Io sento Amore che con cento cannoni mi dá la battaria all'anima. Giá sono abbattute le cortine e occecati i belovardi, ecco mi dan l'assalto; ahi spada, che mi consigli? ahi Durindana, tu non mi servi a nulla!

SQUADRA. Padrone, veggio non so chi in finestra.

TRASILOGO. Mira se mi guarda.

SQUADRA. Non vi move gli occhi da dosso.

TRASILOGO. Deh, che m'attaccassi ora alla scaramuccia con mille persone, ché in tre colpi ne vorrei far cento pezzi di tutti; che non vorrei mai tirar colpo che non andasse a pieno, né volger sguardo che non mi facessi fuggir dinanzi una compagnia. Vien qua che ti vo' mostrar certi colpi di spada. Al primo sfodrar della spada fatti innanzi con questo mandritto sul capo, con questo roverscio alle tempie, poi caricagli sopra con un piede inanzi, che passaresti una torre da un canto all'altro.

SQUADRA. Padrone, riponete la spada or che siete in furore, che non m'ammazzate.

TRASILOGO. Orsú, poni effetto a questo falso filo, ché saresti per sbarattar la scrima.

SQUADRA. Avertite che non vi scappi da mano. Diavolo! che Olimpia ha serrato la fenestra.

TRASILOGO. Ahi, capitan Trasilogo, rovina degli esserciti, distruggitor delle cittadi, eversor degl'imperi, tu devi esser stimato cosí poco! Vien qua, spezza la porta, entra, sali e di' ad Olimpia che ho preso piú cittá e castelli e che ho piú ferite nella persona ch'ella non ha posto punti d'ago su la tela in sua vita, e che ho cento gentildonne che spasimano per amor mio; e se non fusse che è una vil feminella, non la scamparia il cielo che non avesse a partirsi una cappa meco e ucciderci dentro un steccato. Che tardi?

SQUADRA. Non saria meglio, padrone, sfogar questa còlera sopra Mastica o sopra quel romano, e lasciar questa casa? chi può saper che vi sia dentro!

TRASILOGO. Dici bene, mi vo' appigliare al tuo consiglio; potrebbe esser qualche stratagemma, che ci fusse qualche imboscata dentro. Será bisogno venirci ben provisto e tôr prima le difese. Andiamo, ché vo' spianar questa casa da' fondamenti.

SQUADRA. Fermatevi, padrone, ché vien Mastica e un giovanetto, qual stimo il romano. Ascoltiamo un poco: forse ragionano su questo fatto.

SCENA VI.

MASTICA, LAMPRIDIO, PROTODIDASCALO, SQUADRA, TRASILOGO.

MASTICA. Anzi or veniva insino a Salerno a recarti la piú lieta novella che tu avessi avuta giamai.

LAMPRIDIO. Perdonami se a torto mi sono adirato teco.

MASTICA. Conosci tu questa lettera?

LAMPRIDIO. Oimè, d'Olimpia mia!

MASTICA. Ti porto cosa miglior di questa.

LAMPRIDIO. Che cosa mi potrá esser piú cara e miglior di questa? Parla presto: che nuova m'apporti d'Olimpia?

MASTICA. Nulla, ma lei tutta insieme.

PROTODIDASCALO. (Me miserum, io arbitrava che fusse paulo minus che evaso da questa egritudine: or questa speranza sará un suscitabulo, ché di nuovo la fiamma si pascerá delle sue midolle!). Lampridio, perpendi gl'inganni, non credere, son tutte nughe.

LAMPRIDIO. Dimmi, Mastica, dove mi porti Olimpia?

PROTODIDASCALO. Se non la porta dentro quel suo tumido ventre, ignoriamo dove la porti.

MASTICA. Questo ventre è che te la porta.

PROTODIDASCALO. Dunque bisogna invocar: «Iuno Lucina fer opem», che tu partorisca, o chiamar un lanista che ti squarti per cavarnela fuori?

MASTICA. Anzi mantenermelo grasso e grosso, onto e bisonto.

LAMPRIDIO. Mira che gran ventre che ha fatto!

PROTODIDASCALO. Come può esser gracilescente se dentro vi sono i
Bartoli e Baldi, i testi, l'arche e la supellectile ch'avevi in casa?

MASTICA. Che testi, che archi, che tele?

PROTODIDASCALO. Quei che saepicule abbiam pignorati e venduti per pabulare con munificentissima largitade la tua hiante bocca ed empir di vino cotesta tua absorbula gola.

LAMPRIDIO. Lasciam questo: mostrami Olimpia mia.

MASTICA. Scostiamci di qui, che non siam visti ragionare insieme.

LAMPRIDIO. Eccomi.

TRASILOGO. (Ascolta, Squadra).

SQUADRA. (E voi stiate ancora intento).

MASTICA. Sappi che quando la vecchia mandò a chiamare Olimpia da
Salerno, la voleva maritare con un certo capitano sciagurato….

TRASILOGO. (A dispetto di…, potta del…!).

SQUADRA. (Fermatevi, ché ci sará tempo a questo).

MASTICA…. Ella negando sempre non volse mai consentirvi; pur volendo la madre che vi consentisse per forza, si serrò in una camera, si stracciò i capelli, si batté il petto, né fece altro che piangere e sospirare….

LAMPRIDIO. Questa è la lieta novella che m'apportavi? Mi hai mezzo morto!

MASTICA. Ascolta se vuoi.

LAMPRIDIO. O cielo, come consenti che gli occhi, sole d'ogni tuo sole, or sparghino tante lacrime? o Amore, come tu soffri che si straccino quelle trecce dorate con che tu suoli legare ogni persona? o cuor mio, anzi non cuore ma pietra, come non scoppi di doglia in sentir questo?

MASTICA. Tu piangi? e che faresti vedendo rotta una pignatta in mezzo il foco vicino l'ora di mangiare?

PROTODIDASCALO. Sempre sta l'animo in saziar l'inexplebile aviditate del suo elefantino corpo e pascer l'ingluvie di quella vorace proboscide.

LAMPRIDIO. Presto, finisci d'uccidermi.

MASTICA…. Ella sempre che mi vedeva in presenza della madre, mi volgeva gli occhi con certo atto pietoso che parea che mi dicesse:—Mastica, abbi pietá di me….

LAMPRIDIO. Beato te!

MASTICA. Per che cosa? perché ho fatto forse collazione?

LAMPRIDIO. Che collazione? Perché puoi trattare e ragionar con Olimpia e vederla quanto ti piace.

MASTICA. Dieci di queste beatitudini le venderei per un bicchier di vino.—… Poi quando alla sfuggita mi potea parlare, diceva:—Mastica, sai tu novella di Lampridio mio?—e finiva le parole che le portavano l'anima in sino a' denti….

LAMPRIDIO. O vita dell'anima mia, o somma allegrezza di questo cuore, ben serbi l'animo tuo generoso in ricordarti di chi promettesti d'amare! oh come uccidendomi m'hai risanato!

MASTICA. Tu ridi adesso? o cervellaggine d'innamorati!

PROTODIDASCALO. Ecco ristorate le prosternate passioni.

LAMPRIDIO. Segui.

MASTICA…. Al fin per tôrsi da questo intrico, ha inventato il piú bello e colorito inganno che si possa imaginare, facile a fare e piú facile a riuscire….

LAMPRIDIO. Dillomi di grazia.

MASTICA. Leggi questa lettera e rispondi da te stesso alla tua dimanda e raccontati la trama ordinata.

LAMPRIDIO. Perché non me la dái? Non la stringer cosí forte, ahi come la tratti male! Dammela ché me la pongo nel petto, anzi nel core anzi nell'anima.

PROTODIDASCALO. Eh! Lampridio Lampridio, tu dispreggi le mie parole, eh? non ti lasciar deludere.

MASTICA. Adaggio, ché abbiamo a far un patto tra noi. Subito che serai entrato in casa, vo' che si bandisca la guerra mortale a sangue e a foco al pollaio, che si dia la rotta a tutt'i fiaschi, pignatte, bicchieri e piatti piccioli che sono in casa; vo' che mi sieno consignate le chiavi della cantina, dispensa, casce e d'ogni cosa: vo' essere il compratore, il cuoco e il maggiordomo; vo' la parte di tutto quello che si pone in tavola, che non vogli vedere il conto di quel che spendo né che mi facci levar mattino, ma che mangi e dorma quanto mi piace; e sopra tutto che questo pedantaccio non accosti in casa.

PROTODIDASCALO. Menti, lurcone, nugigerolo, sicofanta!

MASTICA. Menti tu, che sia tuo fante.

PROTODIDASCALO. Heu, heu, heu!

MASTICA. Guai ti dia Dio, che hai?

PROTODIDASCALO. Mi doglio all'antica. Da dolentis? heu, ah et cetera.
Ma «o tempora, o mores», o aurea etá, dove sei transacta, ove sei! o
Cicerone che increpavi i tuoi tempi! Siamo in questo esecrando secolo,
in questa etá ferrea a garrir con questo petulante.

MASTICA. Vuoi disputar meco? e se vincerai vo' star un giorno senza mangiare, e se perdi vo' farti un cavallo, ché non sai accordare il geno mascolino col feminino.

PROTODIDASCALO. Va' e disputa con i tuoi pari dell'arte tua, de re culinaria.

MASTICA. Anzi questa è l'arte tua.

PROTODIDASCALO. Dico «culinaria» seu «coquinaria», cioè di cocina; questo è un sinonimo.

LAMPRIDIO. Maestro, di grazia pártiti di qui, ché non può esser ben di me se mi stai d'intorno.

PROTODIDASCALO. Leggi un poco questi endecasillabi che t'insegnano a non farti deludere.

LAMPRIDIO. Va' col nome del diavolo tu e tuoi versi: che seccaggine è questa!

PROTODIDASCALO. Heu misera, negletta e profligata virtude!

MASTICA. Orsú, mi prometterai tu quanto ti ho detto?

LAMPRIDIO. Eh, Mastica, conoscerai in altro modo la mia liberalitá.

MASTICA. Eccoti la lettera, leggi piano che non sii inteso.

LAMPRIDIO.—«Sola speranza d'ogni mio bene,…». Oh dolcissimo principio! Beata carta, quanto tu devi tenerti piú felice dell'altre, poiché ella s'è degnata appoggiarci le belle mani! Mentre bacio questi caratteri parmi che baci quelle mani che l'han formati, quella bocca che gli ha dettati e quell'animo che gli ha concetti.

MASTICA. Non tanti baci sopra baci; e che faresti a lei se cosí baci l'ombra delle sue mani?

LAMPRIDIO. Oh, che parole dolcissime! O bello inganno, ben veramente mostra esser uscito dal suo ingegno divino!

MASTICA. Non piú, basta: non l'hai letta, vuoi tu leggerla un'altra volta?

LAMPRIDIO. Deh, lasciami leggere tutto oggi, ché mentre leggo questa parmi che ragioni seco!

MASTICA. Fermati, dove vai?

LAMPRIDIO. Vo a casa di Giulio a trovar le vesti per vestirmi da turco e venir or ora a casa vostra.

MASTICA. Ascolta, aspetta.

LAMPRIDIO. Presto, ché l'allegrezza mi scorre per tutte le vene di trovarmi con lei e disturbar il matrimonio tra lei e questo capitano furfante.

SCENA VII.

TRASILOGO, LAMPRIDIO, MASTICA, SQUADRA.

TRASILOGO. Oimè, non posso piú tenermi che con un pugno non gli rompa la testa e non li schiacci quell'ossa.

LAMPRIDIO. Mastica, chi è questo rompiosse e schiacciateste?

MASTICA. È quel capitano che vuol prender Olimpia tua per moglie.

LAMPRIDIO. Poiché questi cerca privarmi d'ogni mio bene, cercherò prima privar lui della vita.

TRASILOGO. Io darò tal calcio dietro a questo furbetto che lo farò andar tanto alto che, se ben portasse seco un fardello di pane, gli sará piú periglio di morirsi di fame per la via che morirsi della caduta. E quest'altro vo' che assaggi un pugno delle mie mani, ché so che non è duro il suo osso come la mia carne, e li farò tanto minuta la carne e l'ossa che non será buona per pasto delle formiche….

SQUADRA. Non con tanto impeto, padrone.

TRASILOGO…. Io lo spaventerò con la guardatura, che non será altrimente bisogno di por mano alla spada….

LAMPRIDIO. Mira che passeggiar altiero, mira che bravura!

SQUADRA. Lasciatelo andar, padrone, ché alla ciera mi par di buono stomaco.

TRASILOGO…. Io gli darò a ber un poco d'acqua di legno, che gli lo sconcierá di sorte che per parecchi giorni non gli verrá voglia di mangiare. Ma será meglio che gli parli prima.—Dimmi un poco, conoscimi tu?

LAMPRIDIO. Io non ti conosco né mi curo di conoscerti. Ma tu conosci me?

TRASILOGO. Non io.

LAMPRIDIO. Orsú, vo' che mi conoschi, perché vogliam fare questione insieme.

TRASILOGO. Poiché io non conosco te né tu me, non accade far questione altrimente.

LAMPRIDIO. Su, poni mano alla spada.

TRASILOGO. Non la vo' ponere se non dove piace a me: vuoimene forzar tu? sei tu padrone delle mie mani? sto io con te che mi comandi?

LAMPRIDIO. Sí, perché ci vogliamo romper la testa insieme.

TRASILOGO. La testa mia io la vo' sana; se la vuoi rotta tu, battila in quel muro.

LAMPRIDIO. Per parlarti piú chiaro, dico che ferendoci tra noi ci vogliamo cavare un poco di sangue.

TRASILOGO. Sangue ah? ne ho poco e buono; se soverchia a te, vattene ad un barbiero che con poca spesa te ne caverá quanto vuoi.

MASTICA. (Uomini che abondano assai di parole mancano assai di fatti).

LAMPRIDIO. Hai paura di me?

TRASILOGO. Ho paura di me, non di te.

LAMPRIDIO. Pecora, asinaccio!

SQUADRA. Rispondetegli, padrone.

TRASILOGO. Il malanno che Dio ti dia, non mi chiamo cosí io!

LAMPRIDIO. Tu fuggi, eh?

TRASILOGO. Io camino presto.

MASTICA. (In cambio di menar le mani mena piedi).

TRASILOGO. Oimè, oimè!

SQUADRA. Ancor non vi ha tócco e voi gridate.

TRASILOGO. Se gridassi dopo, a che mi giovarebbe?

LAMPRIDIO. Mastica, mira se è sciocco: non ha voluto venir all'esperienza dell'armi con me.

MASTICA. Anzi è savio, ché ha voluto prima credere che provare.

LAMPRIDIO. Andiam per i fatti nostri.

MASTICA. Andiamo. Ecco mi vedrò le vene gonfie, i nervi distesi, allisciarsi la pelle della mia pancia che pareva la faccia della bisavola mia.

TRASILOGO. Son partiti, Squadra.

SQUADRA. Sí, sono.

TRASILOGO. Mira bene.

SQUADRA. Non vi è persona, dico.

TRASILOGO. Io non ho voluto porre a rischio un par mio con lui, ché a me ogni minima ferita m'ucciderebbe perché son tutto cuore; ma egli è tutto polmone. Né gli ho voluto rispondere perché non aveva còlera.

SQUADRA. Perché non vi serbate la còlera per lo bisogno?

TRASILOGO. Ma or che la còlera m'è salita al naso e mi fuma il cervello, ti farò conoscere chi son io.—Pecora, asinaccio sei tu. Menti per la gola: questa è mentita data a tempo, non te la torrai da dosso come pensi. Mondo traverso, perché non vieni qua ora? ché ti romperei la testa e ti cavarei col sangue l'anima: tif, taf. Hai paura di me? Fuggi dovunque tu vuoi, ch'io ti troverò e cavarò gli occhi e farò che tu stesso li veggia nelle tue mani.

ATTO III.

SCENA I.

MASTICA, LAMPRIDIO, PROTODIDASCALO.

MASTICA. Camina sicuramente, ché non è uomo che vedendoti con questo ferro al collo, col turbante in testa e con queste vesti, non ti giudichi or ora scampato di man di turchi, ritratto dal naturale.

LAMPRIDIO. Amor, favoriscimi a questo inganno, ché non si può far cosa buona senza l'aiuto tuo.

MASTICA. Hai la catena ne' piedi?

LAMPRIDIO. Vorrei che ti potessero rispondere le mie gambe che appena la ponno trassinare.

MASTICA. Io vado: or vedrai la tua Olimpia desiderata.

LAMPRIDIO. O braccia mie aventurose, dunque voi cingerete il collo della terrena mia dea? o bocca mia, tu bascierai le guancie delicate e gli occhi del mio sole? O Amore, se ti piace ch'io ottenga cosí desiderata felicitá, donami tanta forza che la possa soffrire: ché dubito che vedendomi Olimpia in queste braccia, non mi muoia di contentezza.

MASTICA. Lampridio, tieni le parole a mente. Subito che serai intrato in casa, comanda che si tiri il collo a quante galline ci sono e che mi siano dati dinari per comprar robbe.

LAMPRIDIO. Eccoti dinari, spendi ciò che tu vuoi, non me ne render conto.

PROTODIDASCALO. È stato supervacuo admonircelo, egli lo fa indesinenter; non è oggi il primo giorno che cognovisti eum.

MASTICA. Ricordati dimandar quello che ti ho detto, per mostrar che sei figlio a Teodosio.

LAMPRIDIO. Non me lo dir piú, ché lo so cosí bene che ricordandomelo piú, me lo faresti smenticare.

MASTICA. Tu sei tutto mutato di colore.

LAMPRIDIO. Questa insperata speranza d'allegrezza m'ha tolto fuor di me stesso. Non so che m'abbi: cuor mio, sta' fermo; tu par che non mi capi nel petto, tu dibatti cosí forte come se ne volessi saltar fuori.

MASTICA. Con questo colore tu saresti piuttosto per sconsolarle che rallegrarle con la tua venuta.

LAMPRIDIO. Farò migliore viso se posso. Va' tu presto e recami da vestire.

MASTICA. Lo farò. Io entro prima, darò la buona nuova e le farò uscir fuora a riceverti.—O di casa, allegrezza allegrezza, mancia, buona nuova!

SCENA II.

LAMPRIDIO, PROTODIDASCALO.

LAMPRIDIO. Protodidascalo, tu stai di mala voglia.

PROTODIDASCALO. Taedet me et misereor del caso dove sei per incidere.

LAMPRIDIO. Se tu avesti pietá di me, me lo mostraresti in altro.

PROTODIDASCALO. Che magior granditudine di cosa si può autumare, che per un tantulo di oblectamento ti poni in pericolo che discoprendosi è per apportarti il maggior dedecore che mai s'ascolti?

LAMPRIDIO. Non si può scoprire se non lo scopriamo noi stessi, ché non ci è altro al mondo che lo sappi.

PROTODIDASCALO. Lo sa Mastica, or l'ará detto a cento: non passará una ebdomada che lo saprá tutto Napoli. Ascolta Virgilio:

Fama, malum quo non aliud velocius ullum, mobilitate viget viresque acquirit eundo.

LAMPRIDIO. Mastica, non lo dirá, perché li terremo la bocca otturata con migliacci e maccheroni che gl'ingozzeranno, né potrá parlar se ben volesse.

PROTODIDASCALO. Un altro li dará da ingurgitar vino, manderá giú quelle polente mileacee suffrixe che tu dici e vomiterá con quella ingluvie quanto saprá di voi. Ma come diresti latinamente i maccheroni? Ascolta: è una certa radicula detta «macheronium», che anticamente si commendava ne' panefici; però quelli pastilli farinacei si direbbono eleganter «macheronei».

LAMPRIDIO. E quando si scoprisse, non saremo uomini da fugir di
Napoli, di Roma e tutto il mondo?

PROTODIDASCALO. Il medesimo dicono i malefici e facinorosi, e senza avedersene si trovano il carnefice sugli umeri, alle tergora.

LAMPRIDIO. Se tutti avessimo il gastigo de' peccati che facciamo, non si trovarebbono tante fune per far tanti capestri.

PROTODIDASCALO. Forse a coloro favorisce la sorte. Ma ascolta questo duodecasticon che consta di anapesti, coriambi e proceleusmatici in favor della sorte:

O sors mala….

LAMPRIDIO. Non, no di grazia, non è tempo adesso di queste baie. Non mi turbar la presente allegrezza con questi tuoi amari ricordi, ché l'animo determinato non ave orecchie.

PROTODIDASCALO. Voi gioveni, eccitati dall'illice d'amore, d'ogni cosa volete scapricciarvi, e la voglia v'impiomba cosí l'orecchie che non vi fa animadvertere cosa alcuna. Questa frode che usi per fruir la clavigera del cuor tuo, non è altro che seminar il canape per tesserne un laccio con che il prelibato carnefice ti chiuda la vita. Sai quanto in Napoli s'osserva la giustizia, e tu sei forastiero.

LAMPRIDIO. Taci, vattene vattene; ecco Olimpia mia.

SCENA III.

SENNIA vecchia, OLIMPIA, LAMPRIDIO.

SENNIA. O Eugenio pianto e sospirato sí lungo tempo!

LAMPRIDIO. O Sennia madre, ché l'odor del sangue mi ti fa conoscere per madre!

SENNIA. Olimpia, abbraccia il tuo fratello: come stai cosí vergognosa?

LAMPRIDIO. O sorella, dolcissima anima mia!

OLIMPIA. O amato piú che fratello, non conosciuto ancora!

SENNIA. Io tutta ringiovenisco e in avervi cosí subito acquistato, figliuol mio, parmi che t'abbia or partorito. Mira, Olimpia, come nel fronte e negli occhi ti rassomiglia tutto.

OLIMPIA. Il resto dovea assomigliare a suo padre.

SENNIA. Non pigliar a tristo augurio, figliuol mio, ch'io pianga, ché l'allegrezza ch'io sento di tua venuta, tanto piú cara quanto men la sperava, mi fa cader le lacrime dagli occhi.

LAMPRIDIO. O madre, io ancora non posso tenermi: sento il cuor liquefarsi di tenerezza. Raguagliami: è viva Beatrice mia zia di che molto si ricordava Teodosio mio padre?

SENNIA. Vive e si sta maritata in Salerno molto ricca.

LAMPRIDIO. Eunèmone suo fratello come vive?

SENNIA. Son dieci anni che si morio.

LAMPRIDIO. Duolmi di non poterlo veder vivo. Ditemi, mia sorella
Olimpia è maritata?

SENNIA. L'abbiamo giá per maritata e questa sera abbiamo destinata alle sue nozze: aremo doppia allegrezza.

LAMPRIDIO. Poiché non è maritata fin adesso, lasciate che ancor io ne abbi la parte della fatica: me ne informerò di costui, poi informerò bene mia sorella del tutto.

OLIMPIA. Mi contento che mio fratello facci di me ciò che gli piace.

SENNIA. Prima che entriate in altro ragionamento, parmi venghiati a riposarvi, ché per la fatica grande ch'avete sopportata la notte e il giorno stimo che non possiate regervi in piedi.

OLIMPIA. Andiamo, fratel mio.

SENNIA. (Quante carezze ti fa, Olimpia, il tuo fratello).

OLIMPIA. (Oh come è amorevole! deve essere usato in quelle parti della Turchia dove i fratelli e sorelle devono conversare con questa domestichezza).

SENNIA. Vo innanzi, Eugenio figliuol mio.

LAMPRIDIO. Ecco il vostro schiavo in catene che ave esseguito quanto dalla sua divina padrona gli è stato imposto, acciò conosca l'ardentissimo desiderio c'ho di servirla e mostri il simolacro del cor suo qual stia avinto intorno di catene.

OLIMPIA. D'oggi innanzi cominciarò ad avervi in piú stima e gloriarmi di questa mia bellezza, poiché è piaciuta a persona tale che è posta in tanto pericolo per amor mio.

LAMPRIDIO. La contentezza che ho di mirarvi a mio modo e di servirvi, seria stato ben poco se l'avessi comprata con pericoli di mille vite.

OLIMPIA. In me non conosco tal merito, ma ringrazio di ciò il cortese animo vostro.

LAMPRIDIO. Ringraziatene pur colui che vi creò di tal pregio che sforza ognun che vi vede a servirvi e onorarvi.

OLIMPIA. Desidero non essere intesa da' vicini o da quei di casa, e sopra tutto bramo vedervi sciolto da queste catene che temo non v'offendano, ché a questo collo delicato e a questi fianchi ci convengono le braccia di chi vi ama a par dell'anima e della sua vita.

LAMPRIDIO. L'offesa me la fate ben voi, anima mia, con dir che queste m'offendano: che mentre mi stringono appo voi mi fanno piú libero dell'istessa libertade; e che sia vero, ecco che da me stesso son venuto a farmevi prigione. Ma quelle che mi stringono nell'amor vostro, sempre ch'io pensassi disciorle m'allacciarebbono in duri ceppi e in amarissima prigione.

OLIMPIA. Ho tanta speranza ne' meriti dell'amor mio che con mille catene piú dure di queste ci legheremo con nodi d'inseparabil compagnia, né basterá alcun accidente schiodarle se non la morte.

LAMPRIDIO. O Dio, non è questa Olimpia mia? non è questa la sua figura angelica? non la tengo abbracciata io o forse sogno come ho soluto sognarmi altre volte?

OLIMPIA. Sento gente venir di su. Caminate, fratello.

LAMPRIDIO. Andatemi innanzi, sorella.

OLIMPIA. Io vo, fratello carissimo.

LAMPRIDIO. Vi seguo, sorella. O dolcissima conversazione!

SCENA IV.

MASTICA solo.

MASTICA. Non dubitate, fratelli e sorelle: giá da ora cominciate a far entrare in suspetto Sennia dell'amor vostro. Lo stomaco di Lampridio è come la pignata che bolle: Olimpia standogli intorno gli stuzzica il fuoco; poco potrá tardare che non bolla e non mandi la schiuma fuori. Iddio voglia che perseveri d'andar bene e la cosa resti qui. Io, poiché l'arte del ruffiano m'è riuscita, non dubito morirmi piú di fame. Oh che mercanzia muta, oh che alchimia non conosciuta, dove con poche parole si fanno molti scudi! E poiché son consapevole de' fatti d'Olimpia, la terrò sempre soggetta e la farò fare a voglia mia; e come Lampridio pone la botte a mano, ne faremo bere qualche voltarella da alcuno di tanti assassinati dall'amor suo. A che se ne accorgerá Lampridio? che quanto piú se ne beve piú ce ne resta: è forse la nostra botte della cantina che bevendo vien meno? E se ben si scopre, che potrá farmi Sennia? potrá altro che spogliarmi questi panni che m'ha fatto ella e cacciarmi fuora? Almeno se ho da mostrar le carni nude, le mostrerò grasse e liscie. Fratanto attenderò ad empirmi la pancia ben bene e massime questa sera che, per esser sposi novelli e la prima volta che mangiano insieme, staranno vergognosetti, appena assaggiaranno le vivande con la punta delle dita che le manderanno via. O Dio, potessi allargarmi questo ventre altro tanto per verso, spalancarmi questa bocca, accrescermi un altro filaro di denti, allongarmi questo collo, che se mai fui Mastica ci serò questa sera, che non cessarò di masticar mai finché non toccherò con le dita che son pieno fin alla gola. Lascierò le parole, ché non cenino senza me.

SCENA V.

ANASIRA sola.

ANASIRA. Troppo è misera la condizion delle donne, poiché ne bisogna tòr marito a voglia di parenti, col quale abbiamo a vivere fin alla morte. Sia benedetta l'anima di mia madre, che per aver tolto un marito per forza a voglia di suo padre, se ne tolse cinquanta a voglia sua, e a me ne fe' provare prima dieci e poi mi diede l'elezion di tormi qual piú mi piacesse! Lo dico ad effetto, ché se mai mi son rallegrata del ben d'altri, or me ne son rallegrata piú che mai, che uscendo poco fa di casa d'una amica, intesi dir per la strada ch'erano gionti doi cristiani scampati di man di turchi: me ne rallegrai vedendo che le genti lo tengono per vero e Olimpia ottenghi il suo desiderio. Caminando piú avanti, trovai una calca di persone raccolte insieme: dimandai e mi fu risposto che stavano mirando certi che erano stati schiavi di turchi. Desiosa veder questo Lampridio, ché non mi scappi il manto, me lo piglio a due mani, e spingo innanzi finché vedo due persone, una di venti e l'altra di sessanta anni, vestite da turchi con le mani piene di calli e ne' piedi si conosceva il segno del cerchio della catena: niuno di loro mi avea ciera d'innamorato, e mi meraviglio come vogli Lampridio comparir in quel modo innanzi la sua innamorata. Me ne andrò a riposare, ché ho tanto menato le gambe per compir presto il viaggio che par che abbia una fontana di sotto.

SCENA VI.

TRASILOGO, SQUADRA.

TRASILOGO. Che il capitan Trasilogo, sgombrator di campagne, destruttor di belovardi, ruina di muraglie e desolator de cittadi patirá che gli sia fatta cotanta ingiuria?…

SQUADRA. Veramente lo merita questo gastigo.

TRASILOGO…. e che un romano abbia a tormi la sposa promessami?…

SQUADRA. E il peggior è che Olimpia non vi può sentir nominare.

TRASILOGO…. Tagliarò Sennia per mezo; Olimpia la prenderò per lo collo e senza toccar terra la porterò prigione in casa mia; a Mastica ficcherò un spiedo per sotto che gli lo farò uscir per la bocca; a questo romano spezzarò su la schena dieci fasci di bastoni, né lo difenderan dalle mie mani cento muraglie o bastioni….

SQUADRA. Bene!

TRASILOGO…. Se non spianarò questa casa dal basso suolo, non vo' portar piú spada a lato. Onde spero per tale essempio agli occhi di ciascheduno che non aran piú ardimento d'offendermi….

SQUADRA. Benissimo!

TRASILOGO…. Orsú, fatevi inanzi, soldati! olá, Pelabarba,
Cacciadiavoli, Rompicollo, Spezzacatene….

SQUADRA. Tutti siam qui apparecchiati.

TRASILOGO…. ponetevi tutti in ordine, perché ne vo' far la rassegna. Fermati tu, dove vai tu? Sta' dritto tu! Che arme è questa? or non avevi altre arme in casa, che venir fuori con una scopa? che mi pari piuttosto un spazzacamino che soldato….

SQUADRA. Buon pensiero, padrone, per nettar il sangue e le cervelle, le braccia, le mani e l'altre membra, che si troncheranno per la scaramuccia.

TRASILOGO…. Tu perché con questo spiedo?

SQUADRA. Per infilzar Mastica, come avete detto, accioché non ingoi piú fegatelli.

TRASILOGO. E Olimpia e Sennia insieme con lui.

SQUADRA. Non tanto male a' poveretti: è troppo gran vendetta.

TRASILOGO. Io per minor cosa di questa rovinai la Capestraria, l'Arcifanfana e la Cuticulindonia.

SQUADRA. Dove sono queste cittá, padrone?

TRASILOGO. Nell'India del Mondo nuovo. Suona il tamburo, Squadra.

SQUADRA. Io non ho né naccheri né tamburi.

TRASILOGO. Suona con la bocca mentre costoro caminano in ordinanza.

SQUADRA. Tup, tup, tup .

TRASILOGO. O bestia incantata, non vedi che guasti l'ordine? Tu, porta queste mani a' fianchi; tu, alza la testa, che mi pari un bufalo o barbagianni; tu, con questa fionda sta' in questo luogo, e se alcuno cavasse la testa fuor dalla finestra o tetto, ferisci con essa e togli le difese; tu, Squadra, fermati innanzi la porta, che hai questo cuoio di dante.

SQUADRA. E questa spada di Petrarca.

TRASILOGO. Con questa spada poniti in portafalcone.

SQUADRA. Io non so se non portagallina.

TRASILOGO. Sai maneggiar questa spada a due mani?

SQUADRA. Meglio assai quella a duo piedi; però seria bene che mi locaste nella retroguarda.

TRASILOGO. Quel loco è del capitano acciò possa soccorrere dove è il bisogno, e dietro questo cantone sosterrò l'impeto della battaglia.

SQUADRA. E voi, savio, vi ponete al sicuro.

TRASILOGO. Questa non è paura ma avertenza di guerra per poter provedere in ogni luoco. Dammi tu questo scudo. Orsú, state in cervello, ch'io vo' dare l'assalto. Alla prima botta col piede farò andar la porta per terra, con le smosse le mura e la casa.

SQUADRA. Tanta avete forza, padrone! TRASILOGO. Io farei scotendo cader la torre di Babilonia: farò piú io solo che gli arieti, le catapulte, bombarde e l'artiglierie.

SQUADRA. Sento genti, signor capitano…. Non è nulla, non è nulla.

TRASILOGO. Taci, codardo! ché avilisci costoro. Su, mano all'armi, calate i ferri, ah capitan Trasilogo, innanzi innanzi!

SQUADRA. Oh come fate bene! dite:—Innanzi innanzi!—e vi fate indietro indietro!

TRASILOGO. Sciagurato, fo come il castrone che si fa indietro per ferir con maggior impeto dinanzi. Ah capitano, innanzi innanzi!

SQUADRA. Padrone, sento piú di mille uomini che calano con arme…. No no, è stata una gatta.

TRASILOGO. Facciamo una bella ritirata, che non è men bella che un forte assalto. Fermatevi!… con ordine, con ordine. O ciel traverso!

SCENA VII.

LAMPRIDIO, MASTICA.

LAMPRIDIO. Dove mi cacci? ho il bene in casa e mi meni altrove; se ben mi meni fuori, l'anima resta in casa. Ben è misero colui a cui la troppa abondanza gli è di carestia. A questo modo sarebbe stato assai meglio non avermici fatto entrare.

MASTICA. Ben si dice che le cose simulate poco tempo ponno durare; ché questa mattina per i tuoi poco onesti portamenti se ne sarebbono accorte le pietre, non che le persone che hanno cervello, di questo tuo amore.

LAMPRIDIO. A torto ti duoli di me che in tutti gli atti mi sono mostrato la modestia stessa.

MASTICA. A te pare cosí. Perché sei cieco tu, pensi che tutti gli altri sian ciechi. Tu non stai appresso Olimpia un momento che non ti trasmuti di cento colori; non mai te le distacchi da lato. In tavola stavi sempre come stupido a contemplarla, non mangiavi se non delle cose che mangiava ella, non bevevi se non da quella parte dove ella poneva le sue labra, né ti nettavi la bocca se non col salvietto con che si aveva nettato la sua; poi facevi un menar di piedi sotto la tavola che l'hai fatto scappar la pianella dieci volte; e usavi certe zifoli che li intendevano i cani che rodevano l'osso sotto la tavola. Tu devi avertire che Sennia è vecchia prattica delle cose del mondo, e queste cose le devono esser passate piú volte per le mani: so che non passerá una settimana che se n'accorgeranno le fanti, la famiglia e tutta la casa.

LAMPRIDIO. Che sará dunque bisogno di fare?

MASTICA. O che ella fusse cieca per non veder ciò che fai, o tu stropiato e mutolo per non toccarla e parlar tanto.

LAMPRIDIO. Come non si può volere quel che si vuole? pure se non si può come si vuole, faccisi come si può.

MASTICA. Queste parole mi danno ad intendere che il tuo amore será per scoprirsi tosto; però prima che ciò avenga será bene avisar Sennia che proveda a' fatti suoi.

LAMPRIDIO. Eh Mastica, tu sei troppo crudele.

MASTICA. A te è una pietá esser crudele. Togliti il tuo Lampridio, tornaci il nostro Eugenio e vattene a studiare a Salerno come prima.

LAMPRIDIO. Orsú, il mio caro Mastica, eccoti questi danari per comprar robbe per la cena, e t'impegno la mia fede esser storpiato e mutolo come dici e star proprio in casa come un santo.

MASTICA. Cosí, me ne dái la fede…

LAMPRIDIO. Eccola.

MASTICA…. di non star in casa tutto il giorno?…

LAMPRIDIO. Come vuoi.

MASTICA…. di non parlarle dentro l'orecchie?…

LAMPRIDIO. Sí.

MASTICA…. di non mirarla dalla strada?…

LAMPRIDIO. Bene.

MASTICA…. né mostrar atti onde stimar si possa che tu l'ami? E questo lo dico per tuo bene, accioché per troppo goder del bene nol perdi, over come mosca tanto ti tuffi nel latte che ti anneghi. Quanto piú dura a scoprirsi questo tuo amore tanto piú goderai.—Dove ti volgi? parli meco e non m'ascolti, tu miri alla fenestra sua, non sei ancor sazio di mirarla? Su su, partiamoci.

LAMPRIDIO. Or ora.

MASTICA. Togliti i tuoi danari, che vo' far quanto ho detto.

LAMPRIDIO. Lasciami salutarla; non la vedi per i buchi della gelosia?

MASTICA. Come puoi tu veder tanto?

LAMPRIDIO. Che stella è in cielo che splenda a par degli occhi suoi?

MASTICA. Oh che dura battaglia è contrastar col piacere!

LAMPRIDIO. Ti ubedisco.

MASTICA. Vien Trasilogo e Squadra e parlano in secreto: qualche cosa hanno inteso di questo fatto. Starò se posso ascoltar qualche cosa.

SCENA VIII.

TRASILOGO, SQUADRA, MASTICA.

TRASILOGO. Son risoluto i matrimoni non doverli trattar con arme ma con inganni come altri. Squadra, tu pur sei nato tra marioli e truffatori e hai fatto star piú tristi uomini che non son questi: perché manchi a te stesso? Hai dormito fin ora, risvegliati, piglia il tuo ingegno usato: squadra, pensa, fingi, machina qualche cosa.

SQUADRA. Questo qualche cosa non será intento. Io non so che squadrar, che pensar e che fingere, perché l'inganno che han fatto è tanto verisimile che par piú vero della veritá; e una verisimil bugia è piú creduta d'una semplice veritá.

TRASILOGO. Non sconfidarti per questo, ché non è dritto che non abbi il suo riverscio. Chiama in consiglio le tue astuzie, fa' la rassegna delle tue forfanterie. Di cosa nasce cosa, e da un pensiero ne nasce un altro migliore, ché non è inganno che non si vinca con inganno.

SQUADRA. A me duole che quel romano col suo Mastica abbino tanto ben saputo tessere questa trama che gli sia riuscita meglio che desiavano, e voi siate scorto per buffalo; e la metá di questa vergogna è mia che non sappi in questo bisogno aiutarvi. Io son stato gran pezza fantasticando con alcuna trapola scomodar essi e accomodar voi; e non mi soviene cosa a proposito. Giá me ne va una per la fantasia che è la vera contracava del loro inganno, che col medesimo laccio che han preso altri, restino lor presi per la gola.

TRASILOGO. Dimmi l'inganno che hai tu pensato e s'è difficile ad esseguire.

SQUADRA. Ogni cosa è difficile a chi fugge fatica, è bisogno porsi a pericolo chi vuole. Voi vorreste che Olimpia vi fusse portata in camera e vi fusse spogliata e posta in letto, e che un altro vi ponesse…,

MASTICA. (Un capestro alla gola e l'appiccasse!).

SQUADRA…. quasi mel facesti dire.

TRASILOGO. Lascia parlar a me dove bisogna.

SQUADRA. Bisogna por mano a fatti, non a parole, ché i fatti son maschi e le parole femine.

TRASILOGO. Però lascia tante parole: comincia.

SQUADRA. Cominciarò.

TRASILOGO. Se avessi cominciato non aresti tolto questa fatica a dirlo.

SQUADRA. Dammi l'orecchio.

TRASILOGO. Eccoti l'uno e l'altro.

SQUADRA. Poiché questo romano si è finto Eugenio e sotto nome di fratello di Olimpia è intrato in casa di Sennia con dir che Teodosio sia morto dieci anni sono,…

TRASILOGO. Vorresti avisar Sennia di questa trama e scoprire i secreti d'Olimpia.

SQUADRA. I secreti d'Olimpia l'ará scoperti Lampridio.

TRASILOGO. Tu burli.

SQUADRA. E voi non mi lasciate parlare.

TRASILOGO. Pòi.

SQUADRA…. a questo colpo useremo questo rimedio. Troveremo due persone disconosciute, l'una vecchia di sessanta anni e l'altra giovane di venti, conforme all'etá che potrebbe esser stimato Teodosio ed Eugenio; i quali informeremo del fatto benissimo: come a dir che sappino ben fingere di piangere, abbracciare e mostrar tutti quegli atti e passioni che sieno verisimili; in somma siano tali che, dicendoseli il principio, sappino da loro quanto s'abbi a fare. Poi li vestiremo da turchi e li faremo sbarcar in casa di Sennia con dire che sia suo figlio e marito….

TRASILOGO. Questo a che effetto?

SQUADRA…. Voi sapete che un che ha rubbato o fatto qualche mal'opra sta sempre in suspetto, e d'ogni cosa che si ragiona pensa che si dica di lui e pargli d'ora in ora vedersi il boia sopra le spalle….

TRASILOGO. (Buon ladro deve esser costui! lo deve sapere per esperienza).

SQUADRA…. Il romano che ha la coscienza lesa dell'inganno usato, in veder comparir questi, col suo Mastica pensaran subito che sieno i veri, né stimeranno che altri abbino saputo quanto loro o che abbino pensato a quello che essi pensaro prima; per non esser còlti in frode lascieranno l'impresa e fugiranno di Napoli per téma di qualche malanno….

MASTICA. (Che Dio ti dia!).

TRASILOGO. Ben: che n'avverrá per questo?

SQUADRA…. Prima impediremo che la cosa non passi piú inanzi di quello che è adesso; poi i nostri, estimati da Sennia verdadieri, potranno senza altro concedervi Olimpia per moglie; all'ultimo poco importa che si scopra l'inganno che ha sortito buon fine, ché será bisogno Sennia contentarsi di quello che, non contentandosi, non per questo non sará fatto….

TRASILOGO. Questa mi pare una ingegnosa trama, né se ne potrebbe imaginar altra migliore; e piacemi sovra tutto che moiano con le loro armi, che sará doppio morire: cosí chi pensava guadagnare perderá e chi perdere guadagnará.

MASTICA. (Cosí a ponto intravenerá a voi, che pensate guadagnare e perderete).

SQUADRA…. E se non fusse per altro ti vendicherai di Mastica, quel furfante….

MASTICA. (Menti per la gola!).

TRASILOGO. Ben li farò conoscere chi son io! Ma chi seranno costoro che ti potranno servire a questo?

SQUADRA…. Troveremo il Simia vecchio o il Trappola giovine o il Truffa: o che eglino ne serviranno o ne troveranno uomini al proposito.

TRASILOGO. Andiamo a ritrovargli, ché è ben tentare ogni cosa prima che si venghi a por mano alla spada.

SQUADRA. Ecco Mastica.

SCENA IX.

MASTICA, TRASILOGO, SQUADRA.

MASTICA. Ecco questo che mangia pan di ferro, insalate di chiodi, minestre di corazze, beve piombi e li caca acciaio.

TRASILOGO. Mastica, Mastica!

MASTICA. Padron mio, padron mio!

TRASILOGO. Sai che ti dico?…

MASTICA. Non, se nol dite prima.

TRASILOGO…. il meglio che tu possi fare,…

MASTICA. Che cosa?

TRASILOGO…. che compri un capestro…

MASTICA. A che effetto?

TRASILOGO…. e che t'appicchi,…

MASTICA. Se vuoi esser mio compagno lo farò, ché ambiduo ne abbiam ciera.

TRASILOGO…. ché non altrimenti potrai scappare!

MASTICA. Che?

TRASILOGO. Un canchero…

MASTICA. Che Dio non mi dia!

TRASILOGO…. che ti possa venire,…

MASTICA. Per che cagione?

TRASILOGO…. acciò ti spolpe insino all'osse!

MASTICA. Io non v'intendo.

TRASILOGO. Un giorno ti taglierò il capo, ti straparò il naso dalla faccia, con un pugno poi ti farò spuntar denti fuor della bocca; haimi tu inteso o vuoi che te lo dica piú chiaro?

MASTICA. Io v'ho inteso benissimo. Ma un capo meno o piú non importa: lo lascierò in casa quando esco fuori per amor vostro. Ah ah, io so che volete scherzar meco.

TRASILOGO. Pezzo d'asino!

MASTICA. Voi mi lodate, ché sempre mi ho conosciuto asino intiero.

TRASILOGO. Tanto è.

MASTICA. Non è tanto, no: misurate bene che senza cagione volete rompere l'amicizia meco.

TRASILOGO. Dio voglia che non ti rompa la schena insieme con acqua di legno come infranciosato.

MASTICA. Io ti voglio esser servo o che ti piaccia o no: se ben m'uccideste, per l'affezion che vi porto non potrei stare di non venire a casa vostra e mangiarmi in tavola vostra un pasticcio caldo caldo.

TRASILOGO. Un malanno arai tu caldo caldo!

SQUADRA. A te dice, Mastica.

MASTICA. A tutti dui rispondo io, che ve lo cedo.

TRASILOGO. Fa' che non venghi piú a mangiar con me.

MASTICA. Perché?

TRASILOGO. Perché sei come la mosca: mangi con noi e poi ne cavi gli occhi.

MASTICA. Non posso piú soffrire. Venghi il canchero a tanta superbia! Che mi puoi far tu giamai? Stimi da senno ch'io creda queste tue bravarie, o dubito che non mi mandi quei popoli arcinfanfari o uomini maritimi ad uccidermi? Assai fo stima di queste tue minacce!

TRASILOGO. La farai dell'opre, e ben tosto te ne pagherò.

MASTICA. Ho tempo, ché non sète cosí presto pagatore a chi dovete.

TRASILOGO. Fa' che la tavola mia ti paia foco.

MASTICA. Pensi da vero che non possa vivere se non mangio in casa tua? Tu bevi ad un bicchiero cosí picciolo che bevendo par che pigli il siroppo. Due fette di prisciutto; due di formaggio tanto sottili che traspaiono come lanterne, che te ne potresti servir per occhiali; due oncie di carne tanto minutata sottile come se volessi dar a beccarla a losignuoli; pan duro di dieci giorni che ci bisogna la fame di tre settimane per divorarlo. E appena si comincia a mangiare che ti senti dare in capo il «buon pro ti faccia», «abbi pazienza», «fu all'improviso», «l'acconciaremo un'altra volta».

SQUADRA. Non dir questo, Mastica, ché in tavola sua mai ti mancaro né galline né polli.

MASTICA. Si, certi polli che appena aveano la pelle come se avessero avuti tutti i pensieri del mondo o fussero ettici o avessero avuto la quartana dieci anni; o qualche cornacchia vecchia che fattala bollir tutto un giorno non si potea masticare.

TRASILOGO. Taci, ruffianello macro, morto di fame.

MASTICA. Io morto di fame? se mi porrò mano in gola, vomiterò tanta robba che potrò dar a magnare a dieci di pari tuoi.

TRASILOGO. Squadra, porta qua dieci some di bastoni, ché non posso sopportar piú. Poltron, non parlare se non quanto le tue spalle ponno sopportar bastonate.

MASTICA. Non ti mette conto che m'uccidi.

TRASILOGO. Perché?

MASTICA. Perché morto che serò io, tu serai il piú gran poltron del mondo.

SQUADRA. Taci, Mastica. Vuoi tu ucciderti con lui?

MASTICA. Non ci uccideremo, no: poltron con poltrone non si fa male, «corvo con corvo non si cava gli occhi».

TRASILOGO. Partiamci, Squadra, ché non è ben che un par mio stia a contender con lui, né io uso armi con la canaglia: lascio che gli ospedali e i pidocchi faccino la vendetta per me.

MASTICA. E io che la fame la facci per me e che ti strangoli la gola, poiché sempre in casa tua si fa dieta come gli ammalati. Si pensava questo asino che se non mangiava in casa sua che mi morissi di fame: vo' che mi preghi. Será piú quello che butterò questa sera, che quanto egli ha mangiato un anno in casa sua. Avisarò Lampridio e Sennia di questo inganno che voglion fare, acciò quando verranno gli diamo la baia.

ATTO IV.

SCENA I.

TEODOSIO vecchio, EUGENIO suo figlio.

TEODOSIO. O patria dolce, o case tanto desiderate di rivedervi! Oh quanto mi parete piú belle del tempo passato! Che ti par, Eugenio figlio, di questa cittade?

EUGENIO. Piú bella assai di quello mi avete raccontato, padre mio.
Populosa cittá e piú d'ogni altra d'ameno sito e di nobilissima aria.
E mi sento le carni non so come risentirsi, pensando che sia nel luogo
dove sia nato.

TEODOSIO. Tu eri appena di duo anni che, tenendoti in braccio e andando a diporto per lo capo di Pausilippo, fummo disavedutamente presi da' corsari. A me parendo aver un pegno dell'amor grande che portava a Sennia mia consorte carissima, mi son ito sempre teco disacerbando la passione che ne soffriva.

EUGENIO. Chi avesse potuto imaginarsi, padre, che cosí facile ne fusse stato lo scampar di man di turchi dove eravamo guardati con tanta custodia, e ancora senza esser usi a vogar il remo la notte e il giorno, e senza mangiar quasi nulla ci siamo sostentati di sorte che quasi poco sentiamo della passata fatica?

TEODOSIO. Figlio, il vederci liberi di man di quei cani e il desiderio di riveder la patria ci soveniva di cibo e di riposo, e sopra tutto il voto fatto di portar sempre questi ferri al collo. E se trovassimo Sennia la tua madre e Olimpia sorella vive, che gioia sarebbe la nostra! O Dio, fa' per pietade che se ebbi trista fortuna in goderle, l'abbia almen buona in ritrovarle vive!

EUGENIO. Io penso che sian morte, ché di tante lettere che l'abbiamo inviate non mai di niuna n'abbiamo ricevuto risposta.

TEODOSIO. Potrebbe essere che le mie con le sue si fussero disperse per lo lungo viaggio; e poi non abbiamo mai avuto persone a cui sicuramente fussero state commesse. Almeno Olimpia ritrovassimo viva, che è giovane e del tuo tempo. Ma andiamo dimandando costoro: forse ne potranno dar qualche ragguaglio.

SCENA II.

PROTODIDASCALO solo.

PROTODIDASCALO. O mi Deus, ché per aver molto accelerato il passo non so come non sia cespitato e caduto in qualche scrobe. Il diafragma e l'organo del pulmone sono cosí quassabondi come se si volessero divellere. Io ho visto hisce oculis sbarcar Filastorgo padre di Lampridio, di che un repentino tremore m'invase cosí forte che non sapea se retrogrado dovea rimeare i passi o antigrado fugire.

Obstupui steteruntque comae et vox faucibus haesit .

Vorrei confabular con Lampridio, acciò di quello che l'ho presagito ne veggia properar l'evento piú tosto di quello che pensiculava. Nam—pro «quia, quare, quamobrem»,—perché le ruine quanto meno si sperano piú tosto vengono, e con questo importuno nunzio l'intercida le sue dolcedini. Ma eccolo, mi si fa obvio: fuggirò per questa strada.

SCENA III.

FILASTORGO vecchio solo.

FILASTORGO. Oh che magnifica cittá è questa Napoli! non è cosa da lasciarsi di vedere. Oh che bei giardini, oh che amenitá d'aria, oh che bel mare, oh che spiagge, oh che colline! parmi che non assomigli se non a se stessa e che avanzi ogni umana imaginazione. E se non fusse il desiderio che ho di veder Lampridio mio figliuolo, mi vorrei torre un poco di spasso vedendo questi palaggi e ornate chiese. Ma egli mi fa star l'animo non so come suspetto, per esser stato avisato che non attende agli studi altrimente ma si sia dato agli amori; e questa mattina giongendo in Salerno mi fu detto che allora era partito per Napoli. Io senza prender fiato o riposarmi, a scavezzacollo son qui venuto per lo desiderio c'ho di vederlo e che egli medesimamente deve tener di veder me: andrò dimandando per saperne qualche novella.

SCENA IV.

TRASILOGO, SQUADRA, TEODOSIO, EUGENIO.

TRASILOGO. Caminando di su e di giú siamo ornai stanchi. Sará bisogno all'ultimo di ricorrere al Truffa, ch'io non saprei a chi piú sottil barro di lui commettere il fatto in mano.

EUGENIO. Padre, caminiamo senza far nulla.

TEODOSIO. Se mal non mi ricordo, vicino questi archi stava la casa nostra.

EUGENIO. Dimandiamo costoro.

TEODOSIO. Giovani, siete voi di questa contrada?

TRASILOGO. (Squadra, mira: costoro mi paiono al proposito).

SQUADRA. (Non si potriano trovar migliori, l'un vecchio e l'altro giovane, con quelli stracci adosso come se proprio fussero scampati di man di turchi).

TEODOSIO. Di grazia, datene risposta.

SQUADRA. (Lasciate che gli ragioni io). Ditemi, siete voi forestieri?

TEODOSIO. Siamo e or ora sbarcati qui in Napoli.

SQUADRA. (Oh che ventura, padrone!).

TRASILOGO. (Presto! narragli il fatto, fagli capire il negozio, accioché lo sappino ben fingere).

SQUADRA. (Lasciate il carico a me). Volete voi farne un servigio di che non vi saremo discortesi?

TEODOSIO. Che piacere possiamo noi farvi, poveri e forestieri?

SQUADRA. Lo potrete fare agevolmente.

TEODOSIO. Eccomi all'obedire.

SQUADRA. Vo' che tu, vecchio, fingi chiamarti Teodosio, e tu, giovane, Eugenio e che sii suo figlio; e vo' che diciate che siate or ora scampati di man di turchi, e che abbiate rotto la prigionia e siate venuti a Napoli per veder se fusse viva una tua moglie chiamata Sennia e una figliuola Olimpia….

TEODOSIO. A ponto questo?

TRASILOGO. Tacete di grazia, non interrompete: ascoltiate prima, poi rispondete.

SQUADRA. E vo' che entrando in casa diciate, tu, vecchio:—O Sennia, consorte cara, tu sei pur viva?,—e tu, giovane:—O Olimpia, sorella diletta, o madre cara!;—e che vi abbracciate e lasciate cader dagli occhi due lacrimette come per tenerezza, e simili gesti e parole che sogliono farsi a parenti non visti; e bisognando sappiate rispondere a queste cose….

TRASILOGO. Entrati che sarete in casa, vo' che mi diate per isposa Olimpia—quella sua figlia, che tu dirai esser tua sorella e tu tua figlia;—ch'io vi darò tal mancia di questo che non avrete bisogno mentre siete vivi d'andar piú mendicando.

SQUADRA…. E accioché la cosa vada meglio ordinata, arei a caro che consertaste un poco gli atti e le parole, accioché incontrandovi con esse la cosa riesca piú verisimile e naturale.

TRASILOGO. Cominciate su.

SQUADRA. (Come sta attonito!).

TRASILOGO. (Deve pensare come ave a fingere e far il doloroso).
Cominciate di grazia.

SQUADRA. (O Dio, falli cominciar tu).

TEODOSIO. Dunque sei pur viva, o Sennia mia consorte cara!

SQUADRA. Buon principio! riesce bene, piú meglio ch'io non pensava.

TEODOSIO. Io veramente son Teodosio padre di Olimpia, e questo è il vero Eugenio mio vero figliuolo!

EUGENIO. E siamo stati venti anni in man di turchi e abbiamo rotta la prigione e siamo venuti a Napoli per saper se fussero ancor vive.

SQUADRA. Oh oh, come risponde quest'altro a tuono, alle consonanze!

TEODOSIO. O Sennia molto amata, o Sennia poco goduta e molto sospirata!

EUGENIO. O sorella Olimpia, quanta bellezza m'ha raccontato il padre, ch'era in te!

TRASILOGO. (Oh che solenne barro, non si potria far meglio! appena ha inteso il fatto che l'ha subito capito e posto in esecuzione. Non ti dissi io che alla ciera mi sentiva di furbo?).

TEODOSIO. O moglie, o figlia, che v'ho stimate morte, poiché di tante lettere che v'ho inviate per saperne qualche novella, non mai ne abbiamo ricevuta risposta.

SQUADRA. (Piú di quello che gli abbiam detto: ci giongono del loro ancora).

TRASILOGO. (Se fussero nati in Grecia? E il buono è che non bisogna altrimente accomodargli di vesti, ché paiono or ora usciti da una galea).

SQUADRA. Non piú, che dite benissimo.

EUGENIO. Io non posso capir tant'allegrezza e par che venghi meno, ché tutte le preghiere che ho fatto a Dio, son state che doppo aver veduta mia madre e il luogo dove sia nato, morrei sodisfattissimo.

SQUADRA. Basta, basta. Vedete voi quella casa? quella è la casa di
Sennia.

TEODOSIO. Chi t'avesse detto, Teodosio, scampato di man di turchi, venir alla tua patria, trovar la moglie viva e la figliuola?

TRASILOGO. (L'abbiamo pregati che comincino, or sará bisogno strapregarli che taccino).

SQUADRA. Sento venir genti, ed è Mastica e il romano: scostiamci ché non ci veggano e ci prendano per suspetti, e ascoltiamo da canto la riuscita.

TRASILOGO. Meglio sará che ci partiamo, ché potremo dimandargli il successo a bel aggio.

SCENA V.

LAMPRIDIO, MASTICA, TEODOSIO, EUGENIO.

LAMPRIDIO. Chi son questi che stanno dinanzi la porta nostra?

MASTICA. Son poveretti che devono dimandare la elemosina.

TEODOSIO. Olá, o di casa!

MASTICA. Ché batti? vuoi tu spezzar questa porta?

TEODOSIO. È forse tua madre, ché temi che sia battuta?

MASTICA. Non ti morrai di fame tu per non essere importuno e prosontuoso.

TEODOSIO. È importuno e prosontuoso chi batte le porte di casa sua?

MASTICA. È dunque questa la casa tua?

TEODOSIO. Dimmi prima se questa è la casa di Sennia.

MASTICA. Questa è la casa di Sennia: è per questo la tua?

TEODOSIO. Io son Teodosio suo marito che sono stato venti anni in man di turchi, e or scampato la Dio mercé dalle lor mani me ne ritorno a casa mia.

LAMPRIDIO. (Mastica, costoro son quelli che manda il capitano, che poco anzi mi dicesti).

MASTICA. (Quelli sono certissimo, ah ah! non ti accorgesti che subito veggendoci fuggiro via?).

LAMPRIDIO. (Racconta il fatto a Sennia e digli che venghi a tôrsi un poco spasso di fatti loro).

TEODOSIO. O di casa! Tic, toc .

LAMPRIDIO. Fermatevi, non battete, ché or ora verrá qua Sennia tua moglie. (Non posso tener le risa in vedergli cosí ben travestiti. Dal natural certo. Vedrò se sapran fingere come io ho fatto).

TEODOSIO. Rallegrati, Eugenio mio, ch'or vedrai la tua madre e tua sorella. Oh con quant'allegrezza ci riceverá e bacierá! penso si dileguará dall'allegrezza.

EUGENIO. Mi par ogni momento mill'anni d'incontrarci insieme.

SCENA VI.

SENNIA, TEODOSIO, EUGENIO, LAMPRIDIO.

SENNIA. Ove è questo mio marito nuovamente resuscitato?

LAMPRIDIO. Eccovi, madre, il bello sposo.

TEODOSIO. O Sennia moglie cara, giá giá vi riconosco alle fattezze se di te non mente il vivo ritratto che n'ho sempre portato nel core; giá ti conosco alla sola vista.

SENNIA. Questo altro giovane chi è?

TEODOSIO. Eugenio vostro e mio figliuolo, che insieme con me fu rapito da' turchi.

LAMPRIDIO. (Quanti Eugeni facesti, o madre?).

SENNIA. (Ah ah, figlio, questi è un altro te. Mi dolea di aver perduto un figlio e in un medemo tempo n'ho racquistati duo).

LAMPRIDIO. (Guardate che viso di ribaldo, che faccia di cuoio! come sta saldo!).

TEODOSIO. Ah Sennia, come non mi raffiguri tu ancora? o forse lo strano abito in che mi vedi o i disaggi sufferti m'hanno talmente mutato il sembiante che non mi riconosci? Poiché sei mia moglie, deh lascia che t'abbracci!

EUGENIO. O madre, ho pur visto chi m'ha generato.

TEODOSIO. Voi vi discostate da me, voi mi schivate, dubitate forse che non mentisca? Non è vivo alcun di nostri parenti? ove è Beatrice mia sorella, ove è Eunèmone mio fratello? forse mi riconosceranno meglio di voi….

LAMPRIDIO. (Non vedete le lacrime che gli cadono dagli occhi? mirate che affezion di piangente, che piangere naturale!).

SENNIA. (Naturalissimo).

TEODOSIO…. Ti sei a torto, Sennia, dimenticata di tanto nostro scambievole amore, ché in quel breve tempo che stemmo insieme non ebbe il mondo duo sposi che s'amassero piú di noi….

SENNIA. (Eugenio, figlio, al mover della bocca e al ragionare fa certi motivi che, se ben mi ricordo, eran propri di mio marito).

TEODOSIO…. Non avete un neo nell'ombelico con certi peluzzi biondi?

SENNIA. (Come, figlio, ha potuto saper questo?).

LAMPRIDIO. (I furbi che vanno a torno per lo mondo, da' nèi che vedono nella faccia, indovinano gli ascosti nella persona: lo sa per questo che v'ha visto nella faccia. Ma diamogli un poco la baia).

SENNIA. Ditemi, quando vi sète riscattati?

TEODOSIO. Avendomo inviato molte lettere per lo riscatto, ha voluto la nostra disgrazia che di niuna ne abbiamo ricevuto risposta; cosí abbiam rotta la prigionia e siamo scampati.

LAMPRIDIO. Voi dovete esser usi a star in prigione; non deve esser questa la prima volta che l'avete rotta.

SENNIA. Come sète venuti a Napoli?

EUGENIO. In poco tempo, vogando il remo la notte e il giorno.

LAMPRIDIO. (N'han ciera da vogar bene: mirate che braccia sode, proprio nate per stare ad una galea!). Che strada avete voi fatta al venir di Turchia?

EUGENIO. Niuna, l'avemo ritrovate fatte.

LAMPRIDIO. Che si fa, che si dice in Turchia?

EUGENIO. Si fan mercanzie, palaggi e navi, e si dicono delle veritadi e delle bugie, come qui ancora.

LAMPRIDIO. Mi risponde da filosofo.

EUGENIO. E tu mi dimandi come se mi volessi dar la baia.

LAMPRIDIO. (Al sicuro ragionar di costoro e a' segni che mostra Sennia, dubito da dovero che questi sieno i veri Teodosio ed Eugenio, e io stesso m'arò dato l'ascia nelle gambe in fargli conoscere Sennia). Ma rispondetemi: quanto avete allogato questi ferri e questi cenci che avete adosso? e quanto v'ha promesso il capitano ché lo vogliate servire a questo effetto?

EUGENIO. Che promesse, che servire, che capitano?

LAMPRIDIO. Ché foste venuti con dir che siate Teodosio ed Eugenio, accioché Olimpia mia sorella gli fusse data per moglie?

TEODOSIO. Io non so che tu dica: io sono il vero Teodosio e questi è il vero Eugenio mio figliuolo.

LAMPRIDIO. Voi fingete cosí, ma non sète quelli che dite. Andate a ritrovare il capitano e ditegli da mia parte che è stato tardi, ché il vero Eugenio è prima gionto del suo falso.

EUGENIO. Chi è questo Eugenio?

LAMPRIDIO. Io son desso.

EUGENIO. Di chi sète figlio?

LAMPRIDIO. Per non tenerti a bada, io son tutto quello che poco anzi costui ha detto che sei tu.

EUGENIO. Voi potete chiamarvi del mio nome ed esser figlio a Teodosio, ma non potete esser me giamai.

LAMPRIDIO. Mirami un poco in viso. Sta' fermo. Non vedi che diventi rosso e che cominci a tremare?

EUGENIO. Vi paio io uomo da tremare se ben sto mezzo nudo?

LAMPRIDIO. Come sei venuto cosí appunto oggi come io? Siamo ancor noi andati per lo mondo e sappiamo di malizia la parte nostra.

EUGENIO. Che volete dir per questo?

LAMPRIDIO. Che non sei Eugenio.

EUGENIO. Che son dunque?

LAMPRIDIO. Un truffator di nomi e delle altrui autoritá.

EUGENIO. Forse con piú veritá si potrebbe dir di te.

LAMPRIDIO. Dici dunque ch'io sia uomo da far truffe?

EUGENIO. Te lo dicono l'opre.

LAMPRIDIO. S'io non facessi torto al boia che ti aspetta, ché ti veggio le forche scolpite negli occhi, ti sfreggiarei cotesta faccia bugiarda, accioché ogni uomo da questo segnale si guardasse non farsi ingannare da te.

SENNIA. Eugenio, figlio, non gli far male; mi paiono di buona ciera.

LAMPRIDIO. Ma sono di cattivo mele.

TEODOSIO. Andiamo, figlio, che difesa possiamo far noi quasi nudi e disarmati?

EUGENIO. Come posso patir questo torto, o padre?

TEODOSIO. Ove è forza, è bisogno che ceda la ragione: ci perderemo la vita.

EUGENIO. Quasi ch'io stimi vita dove si tratta d'onore.

LAMPRIDIO. (Questi sono i verissimi). Su, andate per li fatti vostri.

EUGENIO. Questi sono i fatti nostri, cercar i parenti e la casa nostra.

LAMPRIDIO. Partitevi di qui: andate a gridare al mercato.

EUGENIO. Andremo a gridare dove s'ascolteranno le nostre ragioni e si scopriranno l'altrui vigliaccherie.

LAMPRIDIO. (Se non gli scaccio di qui, non será ben di me tutto oggi).

SENNIA. Lasciategli andare, Eugenio mio, che giá si partono.

TEODOSIO. Ricordati, moglie, che quando mi desti le tue primizie, mi desti il possesso ancora della vita e del tuo core.

SENNIA. Oimè, che questa parola m'ha veramente passato il core, ché giá mi ricordo avergli io detto questa parola in quel tempo, né penso che altra persona l'ha potuto saper giamai che accadette fra noi duo soli. Io non so a chi creder io. Dio mi liberi di qualche sciagura!

SCENA VII.

FILASTORGO, LAMPRIDIO, SENNIA.

FILASTORGO. Son giá fastidito d'andar dimandando, e dubito se non l'incontro a caso, di non averlo a ritrovar giamai; e in cosí populosa cittá è appunto l'andar cercando lui come un ago nella paglia.

LAMPRIDIO. (L'ho cacciati in malora!). Andiamcene su, madre.

SENNIA. Andiamo, ma questo forestiero che or mi par gionto in Napoli, figlio, non ti muove gli occhi da dosso.

FILASTORGO. (Se il desiderio che ho di veder mio figlio non mi fa parer ogni uomo lui, questi è Lampridio mio).

LAMPRIDIO. (Se la rabbia e la còlera non m'hanno offuscati gli occhi insieme col core, questi mi par Filastorgo mio padre).

FILASTORGO. (Egli è certo. Oh come l'ho ritrovato a punto! non l'arei potuto ritrovare a migliore).

LAMPRIDIO. (Oimè ch'egli è certissimo; o Dio, a che ponto viene! in presenza di Sennia! non l'arei potuto incontrare a peggiore: or serò discoverto del tutto).

FILASTORGO. (Non so se debbo salutarlo o se debbo correre e abbracciarlo).

LAMPRIDIO. (Non so che fare, misero me! debbo fuggire oppur fingere di non conoscerlo?).

FILASTORGO. (Lo saluterò, poi con insperato gaudio vo' abbracciarlo).

LAMPRIDIO. (Vo' fingere di non conoscerlo; perché se mi parto, porrò
Sennia in maggior suspetto).

FILASTORGO. O Lampridio, figliuolo carissimo, Iddio ti salvi!

LAMPRIDIO. Oh oh, chi sète voi?

FILASTORGO. Non mi conosci?

LAMPRIDIO. Non mi ricordo avervi giamai visto.

FILASTORGO. Mirami bene in faccia. Che dici ora?

LAMPRIDIO. Né tampoco mi ricordo.

FILASTORGO. Hai fatto la vista cosí corta o forse l'aria di Napoli è cosí grossa che non ti fa veder bene?

LAMPRIDIO. Non ti conosco né mi curo conoscerti.

FILASTORGO. Non sei tu Lampridio?

LAMPRIDIO. Forestiere, m'avete tolto in cambio, perché chiamate
Lampridio un che si chiama Eugenio.

FILASTORGO. Il nome e i panni t'arai potuto cambiare, ma l'effigie è quella istessa che avevi in casa mia.

LAMPRIDIO. Tu sei troppo fastidioso: vuoi a forza ch'io ti conoschi non conoscendoti.

FILASTORGO. Non conosci tu Filastorgo?

LAMPRIDIO. Non ho inteso nominar tal nome giamai.

FILASTORGO. Che nieghi me non me ne maraviglio: maggior maraviglia sarebbe se, avendo negato te stesso, volessi accettar di conoscer me per padre.

LAMPRIDIO. Che arroganza è la tua far ingiuria a chi non conosci?

FILASTORGO. L'arroganza è pur tua a non rincrescerti della tua perfidia cominciata. Pur aspettava che qualche segno di vergogna lo manifestasse. Tu pur sei Lampridio mio figliuolo che ti ho mandato di Roma per studiare a Salerno.

SENNIA. Costui si dimanda Eugenio ed è mio figlio ed è stato venti anni in Turchia e non attese a studio mai.

FILASTORGO. Che Eugenio, che Turchia, che parole son queste che ascolto?

LAMPRIDIO. Vo' partirmi, ché la tua perfidia cominciata non finirá sí tosto. Andiamo su, madre.

SENNIA. Andiamo.

FILASTORGO. O Dio, che infideltá ho ritrovato in un figlio! negar se stesso, il padre, e finger di non conoscerlo. Ite, padri, affaticatevi in nodrir figli, in allevargli nobili e delicati; ché all'ultimo che dovrebbono con ogni loro sforzo essere il sustentamento della nostra vecchiezza, o stanno annoverando i giorni che finisca il termine della nostra vita, o ne fanno morir di doglia innanzi tempo. Lasciate la robba a quei che desiano piú la nostra morte che la propria lor vita. Oh come m'ha ben ricevuto, oh che bel riposo ha dato alla mia stanchezza del viaggio, oh che consolazione alla mia vecchiezza! Ma perché affligo me stesso? io non lo vo' piú per figlio, poiché egli non mi vuol piú per padre: farò conto di non averlo mai piú generato o che fusse morto duo anni sono. Che figli che figli!

SCENA VIII.

PROTODIDASCALO, LALIO paggio.

PROTODIDASCALO. O Dio, come potrei far cerziore Lampridio dell'advento di suo padre acciò non lo colga all'improviso, e impremeditato non sappia che risponderli; come potrei io vederlo? Ma veggio un puello ludibondo uscir dalle sue edi.

LALIO. Madonna, che mi tira, che mi tira?

PROTODIDASCALO. Alloquar hominem. Heus, puer! «Adesdum; paucis te volo».

LALIO. Chi è costui che vola?

PROTODIDASCALO. Heus, olá, a chi dico io?

LALIO. Se non lo sai tu a chi dici, né tampoco lo so io.

PROTODIDASCALO. «Tibi dico, Pamphile».

LALIO. Parlate con me?

PROTODIDASCALO. Optime quidem, sí bene.

LALIO. Chi sète voi?

PROTODIDASCALO. Ego sum Protodidascalo gimnasiarca, ludimagistro, restitutore e reintegrator del romano eloquio all'antica candiditate «fama super aethera notus».

LALIO. (Questi deve essere qualche pedante, «cuium pecus» che sputa «cuiussi» e parla in «bus» e «bas»). Magister, bonum sero.

PROTODIDASCALO. Et tibi malum cito.

LALIO. Che comandate protomastro, patriarca?

PROTODIDASCALO. « Prius te salvere iubeo ».

LALIO. Io non v'intendo.

PROTODIDASCALO. Dico che siate salvo.

LALIO. E voi salvo e contento.

PROTODIDASCALO. Per mostrarvi la mia largitade vi vo' fare un munuscolo di cinquanta vocabuli ciceronei abstrusi e reconditi.

LALIO. Che ceci conditi son questi che mi volete dare, di mele o di zucchero?

PROTODIDASCALO. Dico vocabuli ciceroniani.

LALIO. Questi vocali son buoni da bere?

PROTODIDASCALO. Son cose che quando sarete in etá piú provetta vi faranno onore nella scuola.

LALIO. Io non vo' scola, altrimente…. Che volete da me?

PROTODIDASCALO. Paulo ante vi ho visto uscir da questo ostio.

LALIO. Che «ostia»?

PROTODIDASCALO. Ti allucini, figliuolo, perché «hostia» con «h», aspirazione, viene «ab hostibus», che è un animale che s'immolava dall'imperadore proficiscente alla guerra per impetrar da' celicoli vittoria contro gli osti, cioè nemici. Onde il sulmonese poeta:

Hostibus a domitis hostia nomen habet .

LALIO. Voi volete dir gli osti che stanno nelle taverne?

PROTODIDASCALO. Ma «ostio» sine aspiratione vuol dir le «valve», le «gianue».

LALIO. Barbagianni a me, maestro! mi parete voi un barbagianni da dovero. Parlatemi cristiano se volete che vi risponda.

PROTODIDASCALO. Vorreste che dalla latina mi rivolga testé alla etrusca favella? Son contento. Dico che vi ho visto uscir da questo ostio, cioè da questo uscio; dico se stiate in cotesta casa.

LALIO. Se sto qui adesso, come sto in questa casa?

PROTODIDASCALO. Argutule argutule. Se mi vuoi far un piacere ti farò un presentuculo.

LALIO. Che vorresti? va' via, va', conosco i pari tuoi.

PROTODIDASCALO. Ferma costí, ascolta quaeso due paroline.

LALIO. Parla da lungi, di' presto, che vuoi?

PROTODIDASCALO. Non è venuto un certo forestiero, advena, oggi in tua casa?

LALIO. Sí bene. (O Dio, che avessi il mio schioppetto!).

PROTODIDASCALO. Vorrei dirli duo verba.

LALIO. Vorresti per sorte che lo chiamassi? aspetta che tornerò adesso adesso.

PROTODIDASCALO. «Heu mihi! discedens oscula nulla dedi». Oh che indole maiestale di fanciullo! gli quadra un volgare epigramma che i giorni preteriti feci in lode d'un mio scolare.

LALIO. (Aspetta che l'arai).

PROTODIDASCALO.

O piú formoso del troian giovencolo subrepto dall'uccello fulminifero….

LALIO. Eh! fermati un poco.

PROTODIDASCALO. Heu Iuppiter altitonante, belligero Marte, armipotente Bellona con l'anguifera egida, soccorrete! che fulgetri, che terrifichi bombi son questi? Questo è il rispetto alla venerabil toga? questo merita chi ha sublevato da' solecismi e dalla esecrabil barbarie il tesoro del latino sacrario, e locupletata la romana facondia? O detestabil secolo, qual immanitá l'ha impulso a cosí facinoroso atto? Un insolente fanciullo con nefario áuso attacca a me nella posterga parte i scoppicoli di pagina ignivomi, fumivomi, e mi dá in preda del foco! a me tanto nemico e prosequente, che in tanto pavore prolapso sono che non è atomo in me che non tremi, e lo spirito par che voglia migrare! Ma dove è sublato dagli occhi miei questo fugaculo? l'andrò cercando con occhio scrutatorio, e se mi vien obvio lo farò col capo arietar in un muro. Meglio será ne vada al mio cubicolo e mi vendichi con invettive di iambi ed endecasillabi che sapranno della lucubratrice lucernula, che mai dall'edace tempo seran consumpte: queste lo trafigeranno piú d'ogni cultrato mucrone. Immorigerato puerolo, ficoso catamito, inter socraticos notissima fossa cinaedos!

SCENA IX.

TEODOSIO, EUGENIO.

TEODOSIO. Mai suole venir una grande allegrezza che non si tiri appresso una grande amaritudine. Oimè! che l'allegrezza dell'acquistata libertá non mi fu tanto dolce quanto or m'è amaro vedermi scacciato dal luogo dove sperava essere disiosamente ricevuto.

EUGENIO. Siamo entrati in una sventura maggior della prima; ché se ogni travaglio e affanno era leggiero con speranza al fin di riposare, quanto or mi è grave pensando esser al fin pervenuti e siamo nel cominciare!

TEODOSIO. O fortuna, io ti disgrazio che ne rompesti la prigionia e ne facesti scampare, ché ci era piú dolce soffrir la fame, la sete, la prigionia e l'ingiuriose parole che abbiamo sofferte da quei cani, che quello che abbiamo inteso in casa nostra. O mar, la tua pietá ne è stata crudele avendoci condotti salvi: quanto mi saresti stato pietoso se in quel giorno che n'avemmo tanta paura tu n'avessi sommerso, ché sarebbomo morti contentissimi! n'hai condotto in porto per farci battere in questo scoglio crudele, per farci provare una morte piú acerba e piú dolorosa!

EUGENIO. Padre, forse questa non è la casa vostra e quella donna non è
Sennia vostra moglie.

TEODOSIO. Io l'ho ben riconosciuta. Ma questo giovane si será finto Eugenio. Sennia è amorevolissima, e il desiderio di veder suo figlio l'ará appannato di sorte gli occhi che l'ará occecati, e ce l'aranno aiutato i servi. Onde la sua astuzia, l'ardir della gioventú, la credulitá di Sennia, la malignitá di servi l'aranno servito per ruffiani.

EUGENIO. In questa cittá, dov'è tanta giustizia, si trovano le genti cosí cattive?

TEODOSIO. Le genti cattive si trovano in ogni luogo.

EUGENIO. Padre, lasciate tanti dolori, ché questi non vi restituiranno la moglie e la figliuola; e forse Iddio, che mai suole dismenticarsi de' miseri, ne dará qualche rimedio.

TEODOSIO. Il rimedio sarebbe una morte che ambiduo ne togliesse di vita; ella è il medico e la medicina di tutti i mali. S'ará goduto Olimpia, che rimedio può farsi che quel che è fatto non sia fatto?

EUGENIO. Almeno faremo che non la goda piú: andiamo alla giustizia, facciamolo carcerare, e quivi provi come sia me.

TEODOSIO. Andiamo per mostrar che facciamo alcuna cosa; e poiché abbiamo perduto le robbe e le carni, poco sará se perderemo questo poco di vita che n'avanza.

SCENA X.

LAMPRIDIO, PROTODIDASCALO.

LAMPRIDIO. Mai comincia una sciagura che non ne seguano mille, ché la fortuna non si contenta d'una sola. Appena cominciò la prima che seguí la seconda, poi la terza; e mi getta sopra monti ardenti di mali, che appena mi dá tempo di piangere, non che rimediare alla mia disgrazia. All'ultimo, per non lasciarmi tantillo di speranza, fa venir Filastorgo mio padre, onde m'è stato forza finger di non conoscerlo, burlarlo e cacciarmelo dinanzi. Con che faccia gli potrò comparir piú dinanzi? Deh, perché son vivo? perché non moro? che fa in questa vita? Ma il tempo fugge e io lo sto perdendo in parole. Ecco Protodidascalo: cercherò qualche consiglio.—Che ci è, Protodidascalo?

PROTODIDASCALO. Siam rovinati.

LAMPRIDIO. Questo vada a chi ci vuol male.

PROTODIDASCALO. A voi è toccato in sorte.

LAMPRIDIO. Che ci è? parla presto.

PROTODIDASCALO. Che faresti se ti portassi bene, se con tanta fretta mi dimandi il male? Ma tu ancora ignori i tuoi guai: t'apporto nuovi guai.

LAMPRIDIO. I miei guai son tanti che non se ne trovano piú per accrescerli.

PROTODIDASCALO. Tuo padre è venuto.

LAMPRIDIO. Giá lo sai?

PROTODIDASCALO. Ti ricerca.

LAMPRIDIO. Sai troppo.

PROTODIDASCALO. E fra poco tempo tel troverai dinanzi.

LAMPRIDIO. Sai soverchio. Ma non sai che, avendomi trovato in presenza di Sennia, ho finto non conoscerlo e cacciatolo via. Ci è di peggio: che è venuto il vero Teodosio ed Eugenio e l'ho scacciati di casa, ed eglino sono andati alla giustizia a lamentarsi.

PROTODIDASCALO. Heu, che non ti potea accader cosa piú mala, peggiore e pessima—positivo, comparativo e superlativo.

LAMPRIDIO. Oh con quanta difficultá s'acquistano le cose e come poi facilmente si perdono! il mio giorno ha visto la sera al far dell'alba.

PROTODIDASCALO. Ricordati questa mane che per la via una sinistra cornice, oscine inauspicato, crocitando—per onomatopeiam, « apò tû onomatos » idest « nomen », et « poios » quasi « factum », idest « factitium nomen »—ti predisse con infausto omine questo fatto. Giá la fortuna comincia a visitarci con le sue disgrazie, né per altro te si mostrò cosí fautrice ne' primordi che per farti periclitare et explorare questa caduta maggiore.

LAMPRIDIO. Il superar la fortuna non è altro che sopportar i suoi colpi.

PROTODIDASCALO. A questi colpi non ci è clipeo che li facci obstaculo, perché ubicumque ti volgi trovi nuove erumne da superare.

LAMPRIDIO. Tante piú ne soffriremo. Che difficultá può patire chi non estima la vita? Ma di grazia, facciam collegio della mia vita e cerchiamo qualche rimedio;…

PROTODIDASCALO. Etiam atque etiam cogitandum.

LAMPRIDIO…. ché ben conosco che sono alle mani d'un medico che volendo saprá rimediare al mio male.

PROTODIDASCALO. Poiché m'hai eletto per medico al tuo male benemerito, eccoti un opportuno e proficuo rimedio: fuggi di questa cittade.

LAMPRIDIO. Oimè, tu m'hai ferito, son morto!

PROTODIDASCALO. Perché dici cosí?

LAMPRIDIO. Perché parli coltelli e pugnali e spade che m'han peggio che morto.

PROTODIDASCALO. Questo è un buon rimedio.

LAMPRIDIO. È cattivo rimedio per me.

PROTODIDASCALO. T'apporta salute.

LAMPRIDIO. Odio salute che viene con tanto dolore. Se stessi un'ora senza veder Olimpia non potrei vivere.

PROTODIDASCALO. È cosí gran paradosso questo! L'egroto che non vuol obtemperare al medico, come dice il princeps medicorum Hippocrates, o perirá o patirá una egritudine diuturna.

LAMPRIDIO. Tu sei medico troppo crudele.

PROTODIDASCALO. Il medico pio fa marcir lo apostèma e trucida l'egro. Per uscir dal termine dove sei bisogna suffrir alcuna cosa contro l'animo tuo. Fa' conto che questo star orbato di lei sia uno di quelli alexifarmaci, alexeteri che purgano i mali umori.

LAMPRIDIO. Fuggir io, star senza vederla io? piuttosto potrei vivere senza la vita. Taci, ché questa tua medicina será piú atta ad uccidermi che la malattia.

PROTODIDASCALO. Se perseveri in questa ostinazione adamantinale, serai in discrimine di essere obtruso in carcere e d'esserti obtruncato il capite, e perderai Olimpia e la vita.

LAMPRIDIO. Vo' piuttosto che fuggir esser menato in prigione e patir ogni supplizio sino alla morte. Amore è cosí insignorito di me e con sí forti catene mi tiene avinto che non mi lascia partire.

PROTODIDASCALO. Io dunque, imponendo coronide al mio dire, ti lascio senza medico e senza medicina. Vale.

LAMPRIDIO. Io me ne andrò a casa, ché se ben sto col corpo fuore, l'animo è dentro. Oimè, chi sono costoro che vengono?

SCENA XI.

TEODOSIO, CAPITANO di birri, LAMPRIDIO.

TEODOSIO. Questi è l'ingannatore, signor capitano. Birri, prendetelo.

CAPITANO. ¡Alto a la corte! Sois preso; o vos, atadle.

LAMPRIDIO. Che ho fatto io, che feci mai?

CAPITANO. Lo sabrás como serás en carcel.

LAMPRIDIO. Aspettatemi un poco, lasciatemi parlare.

CAPITANO. Habla cuanto quieres.

LAMPRIDIO. Non stringer cosí forte, lasciatemi parlare.

CAPITANO. Ya no hablas con las manos.

LAMPRIDIO. (O Dio, come scamperò dalle mani di costoro?). Ascoltate, signor capitano, due parole all'orecchio.

CAPITANO. ¡Valame Dios! clerigo sois. Dejadle, dejadle.

LAMPRIDIO. Signor capitano, costui, che forse non conoscete, è scemo di cervello e va dicendo a ciascheduno che è venuto di Turchia e che ha trovato in casa sua un non so chi, che dice esser figlio a sua moglie e fratello a sua figlia, e mille altre filastroche; e si piglia diletto di dar la baia a tutta questa cittade. Mirate che stracci da mascalzoni.

CAPITANO. Por cierto yo me lo he imaginado da mi mismo viendole llorar y echar gritos tan altos por todo. Venid acá, ¿que quereis vos de este?

TEODOSIO. Questi, sotto nome d'Eugenio mio figlio vero, è intrato in casa d'una mia moglie; fingendo esser suo figlio e fratello d'Olimpia, una mia figlia, s'è fatto falso fratello e vero innamorato.

CAPITANO. Yo no entiendo que diga de mujer y de hermano, ni de falso ni de veras.

LAMPRIDIO. Mirate che faccia rossa, che gesti strani: l'aria proprio d'un pazzo.

TEODOSIO. Io pazzo? pazzo pari tu a me.

LAMPRIDIO. Ad un pazzo tutti gli altri paiono pazzi: e che sia vero dimandiamogli alcuna cosa e vedrete come risponde a proposito.

CAPITANO. Dime ¿que has comido esta mañana?

TEODOSIO. Che dimande son queste? Un canchero!

CAPITANO. Por ti es buen pasto que has comido.

TEODOSIO. Cacasangue!

CAPITANO. Buen provecho.

TEODOSIO. Voi vi fate beffe di me: cosí s'adempie l'uffizio della giustizia?

LAMPRIDIO. Vòltati qua, gli alberi che fioriro l'estate che verrá, che frutti produrranno la primavera passata?

TEODOSIO. Produrranno una forca dove fosti appiccato!

LAMPRIDIO. Io mi fo la croce: non dice parola che non meriti un anno di prigionia.

TEODOSIO. O Dio, che questo ribaldo mi fa proprio divenir matto.

LAMPRIDIO. Non diverrai tu matto, perché sei matto giá. Signor capitano, si trova una spezie di còlera che movendosi per lo corpo fa ferneticare: non vedete la faccia sparsa di macchie nere? giá si muove la còlera nera.

CAPITANO. En verdad, que este me parece loco.

LAMPRIDIO. Discostatevi, ché non pigli alcuna pietra e ve la tiri. Non vedete gli occhi come sfavillano? giá li mali umori l'assaltano e lo cominciano a stimulare.

TEODOSIO. Mi rodo di rabbia che non trovo una pietra per romper la testa a costui.

LAMPRIDIO. Non vedete che va cercando una pietra per trarvela? discostatevi, signor capitano, ché non v'uccida.

TEODOSIO. (O Dio, che questo truffatore ha dato ad intendere a costoro ch'io sia matto; e se lo credono). Capitano, vorrei dirvi due parole da solo a solo.

LAMPRIDIO. Guardatevi, signor capitano, ché come gli sarete vicino, vi strapperá il naso dal viso con i denti; e i morsi di pazzi son velenosi. Questi sono i guadagni che si fanno con i pazzi.

CAPITANO. Yo no me acercaré; habla á la larga.

TEODOSIO. Non son cose queste da dirsi alla larga.

CAPITANO. Ni yo soy hombre de dejarme coger á la estrecha contigo.

TEODOSIO. Ascoltate, non temete; questi vi burla.

LAMPRIDIO. (Se questi l'ascolta io son spacciato). Signor capitano, se non lo fate ligare e strascinar in prigione, storpiará alcuno e fará piú strane cose di queste.

TEODOSIO. Ascoltatemi, di grazia: due altre parole.

CAPITANO. Y de missa tambien. ¡Válgame nuestra Señora! Tomad este y arrastradle. Gentilhombre, váyase V. M. en buena hora; y le beso las manos.

TEODOSIO. Son uomo da esser cosí ligato e strascinato? questa è la giustizia?

CAPITANO. Gentilhombre, me perdonarás si no conosciendole le he offendido.

LAMPRIDIO. Non fa offesa chi non pensa di farla. (Vo' seguirli per veder che succede di questo fatto).

ATTO V.

SCENA I.

LALIO, SENNIA.

LALIO. O tristo me, perché mi battete?

SENNIA. Per farti proprio tristo come dici.

LALIO. O Dio, che volete che dica?

SENNIA. Non t'ho lasciato con Eugenio e Olimpia nella camera?

LALIO. Sí, ma poi me ne uscii fuora.

SENNIA. Perché ne uscisti?

LALIO. Perché viddi….

SENNIA. Che vedesti?

LALIO. Nulla.

SENNIA. Prima dici che vedesti e poi dici nulla. Non posso cavarti di bocca una parola di questo fatto. Perché mi parli cosí mozzo? parla col tuo malanno!

LALIO. O Dio, che se lo dico, Olimpia ha giurato di volermi ammazzare.

SENNIA. E se non lo dici, ti ammazzarò or ora. Quello d'Olimpia ha da venire, ma il mio sará adesso, al presente.

LALIO. Io non lo dico, avertete. Quando voi mi diceste che stessi in camera, io me ne uscii per vergogna.

SENNIA. Di che cosa?

LALIO. Di quel che viddi.

SENNIA. Dimmi, che vedesti? Oh quanto mi fa penar questo ghiottarello! presto, che ti possi fiaccare il collo!

LALIO. Avertete ch'io non dico che il fratello e la sorella stavano abbracciati insieme; né mai Olimpia diceva:—Fratel mio!—che il fratello con un bacio non le togliesse di bocca le labbra, la lingua e la parola insieme. Poi dissero che si volevano far fratelli e sorelle carnali.

SENNIA. E come facevano?

LALIO. Che so io? Si serrorno a chiave entro la camera.

SENNIA. Quando apersero poi, che facevano?

LALIO. Nulla: l'avevano fatto giá.

SENNIA. Menti per la gola! se la porta stava serrata a chiave, come vedevi che si facessero?

LALIO. Dava qualche occhiatina per le fissure e per lo buco della chiave. Quando apersero, stava Olimpia avampata di foco in faccia e s'accomodava i capelli; e mi domandò di voi e, io dicendole che non l'avea vista se non io, giurò che, se diceva alcuna cosa di questo fatto, m'ucciderebbe: e però non ho voluto dir niente, avertete.

SENNIA. Taci, vattene su e non cicalar a persona del mondo ve', se non che ti trarrò la lingua insin dalla gola, sai.

SCENA II.

SQUADRA, SENNIA.

SQUADRA. A tempo vi veggio, Sennia.

SENNIA. M'indovino la nuova.

SQUADRA. Voi dovete saper che voglia.

SENNIA. Che si mariti mia figlia questa sera col capitano.

SQUADRA. Tutto il contrario: a rinunziarla e sciorsi dalla promessa.

SENNIA. Come questo?

SQUADRA. Me ne dimandate ancora? non si sa per tutto Napoli che un romano sotto nome d'esser vostro figlio s'ha goduta vostra figlia?

SENNIA. Come sai questo tu?

SQUADRA. L'ho visto or ora menar prigione da' birri; e di questa trama
Mastica ne è stato il mezzano.

SENNIA. Ah traditore!

SQUADRA. Avete il torto ingiuriarmi.

SENNIA. Non parlava con te.

SQUADRA. Trasilogo ha preso Cornelia, di che era stato stimulato da' parenti; e or si fanno le nozze con contento d'ambedue le parti. Ho fretta, ti lascio in pace.

SENNIA. Anzi in tormento e angoscia. O vita mia, serbata in sino a tanto che avessi visto cosa di che fussi forzata a dolermi mentre io viva! O vecchiezza viva mia, perché non mi manchi? or conosco che col lungo vivere si sopportano molte adversitadi. Oh con quanto pericolo si guardano le cose che piacciono a molti! Un giovane insolente sotto nome di figliuolo onorato mi rubba l'onor mio e di mia figliuola, nelle cui nozze era tutta la speranza della mia contentezza. Ecco la cosa risaputasi per tutto Napoli: si divolgherá per tutto il mondo. Bisognerá fugirmene di qui e vivere disconosciuta dovunque vada, per non aver piú fronte di comparir fra le persone onorate. O onor mio acquistato e serbato con tanta fatica per sí lungo tempo, come t'ho perduto in un ponto! quando piú spero di ricovrarti?

SCENA III.

MASTICA, SENNIA.

MASTICA. Padrona, la cena è in ordine e vi potrete sentare quando volete.

SENNIA. Fa' che non manchi nulla, ché verrò poi.

MASTICA. Non bisogna tardar piú perché le vivande stanno a disaggio, si guastano.

SENNIA. Non mi dar fastidio.

MASTICA. Come volete si serva: alla francese o alla italiana?

SENNIA. (Emmi venuta questa bestia dinanzi per non farmi dolere quanto vorrei).

MASTICA. Volete condisca la carne col petrosemolo, col coriandolo o col petrotimo.

SENNIA. (Dio mandi malanno a te e alle tue minestre!). Vien qua, uomo da bene.

MASTICA. Non chiami me?

SENNIA. Non ci sei dunque?

MASTICA. Questo nome non convenne mai né a me né ad alcuno di miei antecessori.

SENNIA. Vien qua dunque, ribaldo piú d'ogni ribaldo.

MASTICA. (Questa vecchia sta con gli occhi rossi come avesse pisto cipolle: non so che se l'aggira per lo capo. Certo ará scoverto qualche cosa di Lampridio e n'ha rabbia e dispetto. Oh che tutta la casa fusse a questo modo e che a me solo toccasse una volta empirmi la pancia a mio modo!).

SENNIA. Vien qua presto! che borbotti?

MASTICA. Avertete, padrona, ch'io non ho colpa nessuna nelle cose di vostra figlia, avertete.

SENNIA. L'escusarsi senza bisogno è un manifesto accusarsi. Dimmi un poco: ti par cosa convenevole che tu, nato e allevato in casa mia e sempre ben trattato, m'abbi tradito nel modo che hai tu fatto?

MASTICA. Io traditore? questo non si troverá mai.

SENNIA. Portarmi un prosontuoso dinanzi, con dir che sia mio figlio per farlo adultero di mia figlia!

MASTICA. Oh! che io perda l'appetito per dieci giorni e il gusto del vino se so nulla di ciò che dite.

SENNIA. Lo nieghi ancora?

MASTICA. L'arciniego ancora. Ti giuro per questo stomaco e questa gola come non so nulla di quanto dite.

SENNIA. Dunque non sei stato tu?

MASTICA. Voi proprio il dite.

SENNIA. Cosí cotesto stomaco ti sia aperto e a cotesta gola ti sia posto un capestro dal boia, che non mangi né bevi piú mai, come tu sei stato cagion d'ogni cosa!

MASTICA. Se trovarete tal cosa, voglio esser squartato e attaccato per li piedi alle dispense come presciutto, e i miei quarti come carne salata.

SENNIA. Ma io non vo' darti altro castigo se non che in questa casa, che tu hai sí poco onorata, non habbi piú mai da mettervi il piede.

MASTICA. Voi burlate! io me n'entro.

SENNIA. Ti lascierò fuor io, e non far piú pensiero d'entrarvi.

MASTICA. Lasciatemi cenar prima, ché me n'uscirò domani.

SENNIA. Ti lascierò fuor io.

SCENA IV.

MASTICA solo.

MASTICA. Oimè, l'uscio è serrato a chiave. Sia maladetta la mia sciocchezza a farmene cavar fuora senza mangiar prima! O padrona, o padrona! Oimè, perché non cavarmi gli occhi, perché non tagliarmi il naso e l'orecchie e non cacciarmi digiuno fuori? Il carriar delle legna, il soffiar del foco mi hanno talmente diseccato il polmone che è fatto piú arido d'una pomice. Questa è stata la mia speranza in esser tutto oggi cuoco e facchino? Quando credeva che la pancia avesse a gonfiarsi duo palmi fuora, sento il ventre che mi tocca la schena; par che sia una donna figliata di fresco, una vessica sgonfiata. Oimè, che le budella mi ballano in corpo! Dove andrò a cenare, ché l'ora è tarda e ho fatto questione con tutti? O vitelle, o porchette, o lasagni, o sguazzetti, o saporetti che odoravate cosí suavemente; o liquore, o vino che tornavi l'anima dentro i corpi morti, dove sète andati? Sono venuti i lupi e s'hanno ingoiato la cena che son stato tutto oggi ad apprestare. Mi sento l'anima venire a' denti: ben sará se questa sera non m'impicco con le mie mani!

SCENA V.

PROTODIDASCALO, FILASTORGO.

PROTODIDASCALO. Se le cose optimamente disposite sogliono conseguir reprobi eventi, quando quidem, ché la fortuna vuol esser participante delle umane azioni; quanto piú pessimo evento aranno quelle che si fanno properanter e destitute di consilio? Ecco l'esempio. Teodosio dal capitan de' satelliti riputato fatuo, riconosciuta la sua giustizia, è stato liberato; e Lampridio, irretito dalle illecebre amorose, inopinatamente è collapso un'altra volta in mano della giustizia e in discrimine della vita senza un modiolo di speranza, se il divino suffragio per sua perenne grazia, per farlo evadere da questi travagli, non avesse condotto in questa cittá Filastorgo suo padre. Vae mihi, che lo veggio venir tutto queribondo in vista! Orsú, per riconciliarlo col figlio mi bisogna funger l'ufficio di buon retore, in che io ho versato molti lustri. Mi servirò del genere deliberativo per commoverlo e vi mescolerò un poco del demonstrativo. Deh, perché non ho ora il mellifluo eloquio di Demostene o del moltiscio Cicerone? Ho giá l'invenzione: ecco la disposizione. L'elocuzione l'ho sicurissima. Cominciarò l'essordio e captarò benevolenza.—Filastorgo here, patronorum patrone, incolumes sis, hospes sis: la tua radiante celsitudine bene veniat!…

FILASTORGO. Quanto sarei stato ben meglio in casa mia!

PROTODIDASCALO…. Lampridio, il vostro figliuolo, iterum atque iterum se gli commenda.

FILASTORGO. Che figlio? io non ho figlio veruno: suo padre è morto venti anni sono in Turchia.

PROTODIDASCALO. Lampridio inquam, quel vostro unigenito.

FILASTORGO. lo non conosco Lampridio alcuno; quel che tu dici si chiama Eugenio né vidde me né Roma pur mai.

PROTODIDASCALO. Vi bisogna reminiscere che gli sète padre.

FILASTORGO. Egli ha un'altra madre a dispetto del padre e della vera madre sua.

PROTODIDASCALO. Vi fu—preterito,—vi sará—futuro,—vi è—presente: tria tempora—sempre morigerante e obtemperante.

FILASTORGO. Chiami tu ubidienza il finger di non conoscermi? Da chi spero io essere onorato se il mio figlio mi schernisce? Giá m'ha fatto chiaro quanto sia vana la speranza d'aver collocato in esso la quiete della mia vecchiezza, in dimostrarmesi cosí iniquo e discortese….

PROTODIDASCALO. Bona verba, quaeso.

FILASTORGO…. Che? se tu avessi visto gli atti e le parole, aresti giurato o che egli non fusse egli o che io fussi un altro.

PROTODIDASCALO. Udienza per due verbicoli.

FILASTORGO. Hai tu forse animo d'iscusarlo?

PROTODIDASCALO. (Dopo l'essordio alla narrazione). Io non vo' inficiare che il temerario áuso non sia grave, né se gli potrebbe coacervar pena che non ne meritasse il doppio; ma di questo s'incolpe l'arcigero che gli aveva sauciato il petto, dilaniato il core e fatto devio l'ufficio della mente. Il famoso Marone: « Omnia vincit Amor ».

FILASTORGO. Che ha dunque fatto?

PROTODIDASCALO. (Qui non va exagerazione ma escusazione). Un paulolo di errore solamente: mutatosi il nome di un figlio esule di una matrona, è entrato in sua casa per fruir la sua figlia pulcrissima di cui l'animo subbolliva d'amore.

FILASTORGO. Ahi mentitor perfido! ahi temerario esecutor di tanta nefanditade che fa ingiuria al padre, alla patria e a se stesso! Ma tu, pedante, piú d'ogni altro da poco e ignorante, questi sono gli ammaestramenti che tu gli hai dato? Di che mi devo fidar io, se avendoti tolto dalla zappa e dalla vilissima pedanteria t'ho fatto padron della casa e di mio figliuolo, e or me ne rendi cosí iniquo guiderdone?

PROTODIDASCALO. Here, non detestare la famigerata mia arte. Non sète conscio che Dionisio re, expulso dal suo regno, non volse evadere filosofo indagando i secreti della vasta e profonda natura; ma spargendo il fecondo seme della viride virtude ne' teneri meati intellectuali e nelle interne viscere di putti, divenne ludimagistro? Ma se al tuo figlio con blandi colloqui, pieni di mille apoftegmi e auree sentenze, l'ammoniva che tutto era frustratorio, che gli ultronei piaceri s'amplexano e fan parvipendere ogni animadversione, mi insultava e minitava; che potea far io decrepito e micròpsico, che appena la fluctuante anima hos regit artus? bisognava succumbere. Però perpendi il mio animo insonte e la bona qualitas mentis.

FILASTORGO. Io vo' che impari esser figlio da chi veramente sa esser padre, vo' che sia essempio a tutti i figli del mondo, vo' piú tosto esser detto severo destruttor di figliuoli che padre che abbi consentito alle sue sceleraggini.

PROTODIDASCALO. (Qui va la commiserazione). Quando l'ira obtemperará alla ragione, poenitebit te del commesso facinore, ché non conviene ad un padre tanta truculenzia, ché per ogni fallo sufficit che al figlio se gl'imponga picciola pena. Ché se voi non condonate al vostro figlio, a chi condonarete voi? E dovete tanto piú volentier farlo quanto che, irretito da questo suo novizio amore, è cespitato e pentito del temerario incepto. E se….

FILASTORGO. Dimmi un poco.

PROTODIDASCALO. Non interrompete la veemenzia dell'orare.—… E se non fusse per suo merito, fatelo per amor di sua madre, la qual moritura rememoratevi con quanti gemiti vi rogò, genuflexa e provoluta ne' vostri piedi, che l'amor sviscerato che portavate a lei si fusse coacervato con l'amor che comunemente portavate a questo unigenito.

FILASTORGO. Menami dove è, ché vo' vederlo.

PROTODIDASCALO. (La commiserazione è riuscita bene supra existimationem: bisogna exagerarla). V'è intercetto poter vederlo, perché sta chiuso in un carcere orcico.

FILASTORGO. Che «carcere orcico»?

PROTODIDASCALO. In poter della giustizia che sopra questo fatto ci viene pede plumbeo; e credo…

FILASTORGO. Che cosa?

PROTODIDASCALO…. che sará…

FILASTORGO. Appresso.

PROTODIDASCALO…. per esser il caso grave et exemplare;…

FILASTORGO. Parla presto!

PROTODIDASCALO…. perché dicono i legislatori che la giustizia deve inrigorirsi ne' casi exemplari. Et Iustinianus in titulo De usurpata iurisdictione , nella legge Malum exemplum , nel titulo De suppositione , paragrafo Si supponatur , dove la glossa enucleando quel passo dice:…

FILASTORGO. Che será di questo mio figlio?

PROTODIDASCALO. Lasciatemi dir due parole.

FILASTORGO. Lascia tu in nome di Dio queste tue filastroche!

PROTODIDASCALO…. giustiziato con miserando et plorabile exito.

FILASTORGO. Mio figlio giustificato?

PROTODIDASCALO. Dico «giustiziato» non «giustificato». Nam « iustus est qui ius non deflectit », però «giustiziato, gastigato dalla giustizia»; ma « iustificus est qui iustitiam facit », e «giustificato», «chi ha fatto la giustizia».

FILASTORGO. Con queste tue pedanterie mi fai salire tanta rabbia che, se non importasse la vita di mio figliuolo, mi faresti uscir da' gangheri. Che importano a me queste tue disutili chiacchiare?

PROTODIDASCALO. Che importano eh? Non si devono parvipendere i vocabuli patri e vernaculi; e Quintiliano celeberrimo scrittore dice: « Perscrutandas esse a fideli praeceptore origines nominum ».

FILASTORGO. (O Dio, quanto mi fa penar questa bestiaccia!). Narrami la ragione.

PROTODIDASCALO. Dicovi che tunc temporis è venuto il vero Teodosio, marito di quella matrona, con Eugenio suo figliuolo; sono stati expulsi di casa, ed essi pensiculando l'inganno machinato son iti a Sua Eccellenzia e fatto obtrudere in carcere il tuo figliuolo.

FILASTORGO. Oimè Lampridio, oimè figliuolo mio caro, quanto piú desiava vederti meno ti potrò vedere; a tempo ch'io pensava goder teco questo poco di vita che mi avanza, violenta morte me ti trarrá da queste mani. O Laudomia moglie cara, quanto felice fu la tua morte passata per non trovarti a questo dolor presente! A cui ricorrerò io per favore? chi mi aiuterá in questa terra ove non conosco nessuno? almeno avessi portato dinari assai che mi aiutassero in questo bisogno.

PROTODIDASCALO. Ove è il rimedio l'egritudine si deve piú patienter sufferre.

FILASTORGO. Che rimedio potrei ritrovarsi a questo?

PROTODIDASCALO. Convenir questo Teodosio, alloquere a questa Sennia madre della giovane e trattar coniugio con sua figlia, non potendo il fatto altrimente rimediarsi; ché forse vi rimetteranno la querela.

FILASTORGO. Che genti son queste? son forse pari miei?

PROTODIDASCALO. Son de' primati e degli optimati di questa cittá: anzi vi fia difficillimo ottenerlo. Ma eccoli: questi sono.

FILASTORGO. Questi mascalzoni son forse pari miei?

PROTODIDASCALO. Non v'ho detto che iam dudum erano venuti di Turchia e Lampridio gli avea espulsi di casa e non han potuto cambiarsi le vesti?

SCENA VI.

TEODOSIO, EUGENIO, FILASTORGO, PROTODIDASCALO.

TEODOSIO. Giá l'han preso prigione e non gli è giovato il far credere al capitano ch'io fossi matto.

EUGENIO. Ecco, patirá la pena del suo fallire.

FILASTORGO. Ecco colui ch'è per rifarvi ogni danno.

TEODOSIO. Chi sei tu per rifar cosí gran danno?

FILASTORGO. Padre di colui che avete prigione.

TEODOSIO. Sète certo padre d'un giovane di buona speranza!

FILASTORGO. Voi sapete che i peccati per amore non meritano tanta riprensione, e massime quelli che commettono i giovani ne' primi amori. Però correggasi l'errore il meglio che si può. Dalle infirmitá nascono i rimedi, da' malefici le leggi e da' disordini i migliori ordini.

TEODOSIO. Come si correggerá tanta pazzia e temeritá d'un giovane?

FILASTORGO. Col senno e con la prudenza di vecchi.

PROTODIDASCALO. Optime quidem, congrua risposta.

TEODOSIO. Indegno d'un uom da bene.

FILASTORGO. Convenevole ad un amante.

TEODOSIO. Ará tolto l'onor alla vergine.

FILASTORGO. Se le restituirá.

TEODOSIO. Come se le potrá restituire?

FILASTORGO. Prendendola per moglie: cosí l'ará tolto a se stesso.

TEODOSIO. Ará fatto danno alla casa.

FILASTORGO. Será rifatto ogni danno, ché per la Dio mercé abbiamo come possiamo farlo.

TEODOSIO. O uomo temerario e insolente!

FILASTORGO. Anzi amorevole, ché l'amore sviscerato che portava a vostra figlia l'avea cieco del tutto.

TEODOSIO. Non è amore dove si cerca tôr l'onore.

FILASTORGO. Non fu questo il suo primo pensiero.

TEODOSIO. Chi siete voi?

FILASTORGO. Gentiluomo romano e desioso servirvi, e di ricchezze ancor non mediocri, che son tutte di questo mio unico figliuolo, e non indegno del vostro parentado; al qual potrete conceder senza dote la vostra figliuola per moglie.

TEODOSIO. A lui sarebbe torto usarsegli benignitá, e sería bene che ne piangesse la pena per aver fatto cosa indegna di voi, di me e di gentiluomo. Ma la pietá, che mi vien di voi e della mia figliuola, e massimamente unica, me vi fa concedere quanto desiderate.

FILASTORGO. E da voi solo ricevo in dono la vita di mio figliuolo, il quale per lo fallo non n'era degno.

PROTODIDASCALO. Non si perda piú tempo, accorrasi prima che si intruda in carcere e il fatto si palesi il meno che si può.

FILASTORGO. Andiamo andiamo, per amor di Dio!

TEODOSIO. Non si fa altro. Voi mi scalzate le scarpe.

FILASTORGO. Perdonatemi, ché «ad un che desia, ogni prestezza è tarda».

SCENA VII.

MASTICA, SENNIA.

MASTICA. Mi ha giovato lo star qui intorno, perché ho inteso che costoro sono d'accordo e la cosa è riuscita a miglior fine che non pensava. Dunque io serò il primo che porterò la nuova a Sennia e per mancia ritornerò all'ufficio della cucina.—O Sennia padrona, o padrona!

SENNIA. Chi mi chiama?

MASTICA. Chi desia vedervi contenta.

SENNIA. Faccilo Iddio, ché n'ho bisogno.

MASTICA. Sète voi tanto infelice?

SENNIA. Che buona nuova mi rapporti?

MASTICA. La dirò se posso far tanta triegua con la fame che mi lasci dire.

SENNIA. Dillami su.

MASTICA. Ma avertete che bisogna star un anno in banchetto per ristorarmi della paura presa per avermi cacciato di casa senza cagione e senza mangiare.

SENNIA. Eh! dilla su.

MASTICA. Olimpia è maritata…

SENNIA. È maritata la mia figliuola?

MASTICA…. con un gentiluomo…

SENNIA. Chi gentiluomo?

MASTICA…. che s'era finto vostro figliuolo.

SENNIA. La mia figliuola è maritata?

MASTICA. Né tanto v'imaginavate aver perduto onore quanto n'avete al doppio racquistato.

SENNIA. Ed è questa la veritá?

MASTICA. Qual vi ho detto.

SENNIA. La mia figliuola è maritata?

MASTICA. Quante volte volete sentirlo? Ed è venuto suo padre di Roma e si è incontrato col vostro vero marito venuto di Turchia, e son stati d'accordo insieme.

SENNIA. Io son cosí afflitta che non posso credere a sí lieta novella.

MASTICA. Statene sicurissima.

SENNIA. Non mi far rallegrare invano, ché poi con doppio affanno mi faresti dolere.

MASTICA. Sapete, padrona, che per una grandissima nuova si fa sempre grazia a' prigioni e agli appiccati. Però per questa allegrezza faccisi grazia a quei presciutti che sono stati tanto tempo appiccati senza ragione; e per esser piú persone di nuovo aggionte, bisogna comprar piú robbe per lo banchetto e tener corte bandita.

SENNIA. O Dio, ringraziato sii tu! non deve mai l'uomo sconfidarsi della tua grazia, ché sai meglio rimediare che noi sappiamo dimandare.

MASTICA. Eccoli che vengono; calate giú, padrona, a riceverli.

SCENA VIII.

LAMPRIDIO, FILASTORGO, TEODOSIO.

LAMPRIDIO. O padre, mi vergogno domandarvi perdono dell'offesa fattavi.

FILASTORGO. Fa' che per l'avenire si ricompensi essermi ubidiente, ché giá hai conosciuto se t'amo.

LAMPRIDIO. Non arei potuto vederne piú chiaro segno, e per rendervi le debite grazie di tanta affezione mi mancano le parole: però vi priego che col vostro savio discorso consideriate quel tanto obligo che vi debbo e per natura e per debito, e facci Iddio che io viva tanto che possa dimostrarlovi.

FILASTORGO. Fa' che ami la tua Olimpia, poiché ne hai tanto patito e fatto patire ad altri.

LAMPRIDIO. È soverchio ricordarmelo, padre.

FILASTORGO. Teodosio, io ve lo do per genero e per servo.

TEODOSIO. Lo ricevo per genero e per figliuolo.

LAMPRIDIO. Andiamcene a casa e diamo questa allegrezza a Sennia e non la facciamo piú penare.

TEODOSIO. Giá la vedo comparire dinanzi la porta.

SCENA IX.

LAMPRIDIO, SENNIA, FILASTORGO, TEODOSIO, EUGENIO, MASTICA.

LAMPRIDIO. Perdonami, o carissima madre, poiché sotto questo venerabil nome di madre io t'ho ingannata; né io arei ardire comparirti dinanzi se la suprema bontá di Dio non avesse dato meglio esito alla mia audacia che io avessi saputo desiderare.

SENNIA. Grande fu la tua sfacciataggine e molto l'ardire né cosí facilmente degno di perdono: tôr per follia di gioventú l'onor ad una casa in un ponto, che s'ha acquistato con tanta diligenza e con tanti anni.

LAMPRIDIO. Madre mia dolce, vi giuro ch'una delle cose che m'accesero fieramente dell'amor di tua figlia, fu la onestá e la bontá che conobbi in lei; e se mento, facci Iddio ch'io sia privo di lei, ché non so se maggior disgrazia potrei ricevere in questa vita. L'amava e serviva con pensiero che, fattone consapevole mio padre, sperava per sua bontá licenza di potermi sposar con lei, e poi con legitimi e ordinari modi farvela chieder per moglie. Ma sapendo che con tanta fretta la volevate maritar con questo capitano, per interromper questo matrimonio mi fu forza d'usar inganno. Avendo proposto morir mille volte prima che viver senza lei, la disperazione mi accecò gli occhi e l'amore mi fe' far quello che ho fatto.

SENNIA. Se l'amor bastasse ad escusar gli errori, ognuno si scusarebbe con amore. Ma io, poiché vostro padre, mio marito e figlio t'han perdonato, con non esser men pietosa di loro, t'accetto per genero e mio carissimo figliuolo.

LAMPRIDIO. Dammi licenza, madre, che possa andar a veder Olimpia mia e confortarla, che per questi casi successi dubito che s'affliga.

SENNIA. Eccoti le chiavi, ché l'aveva carcerata in una camera, e quivi pensava o attossicarla o che fusse suo perpetuo carcere e monistero.

LAMPRIDIO. O Dio, e io era cagione di tanto male! quanto conosco che ti son debitore! Ecco mio padre, il qual non men che io t'ama e riverisce.

SENNIA. Giá lo conosco a tempo che tu fingevi nol conoscere.

FILASTORGO. Signora mia, se non volevate che mio figlio avesse usata tanta impertinenza, non dovevate far figlia tanto bella né di tanto onore e di tanto merito, ché bastarebbono queste cose a far divenir folle altro cervello che d'un giovine.

SENNIA. Desiderarei certo che mia figlia fusse degna d'esser serva vostra e moglie di vostro figliuolo: poiché egli vi scacciò, io vi ricolgo in questa casa e ve ne fo padrone come lui. Entrate.

FILASTORGO. Ringrazio la vostra soverchia cortesia.

TEODOSIO. Consorte carissima, poiché sei giá fatta chiara ch'io sia Teodosio tuo marito che un tempo amasti con tanta fede e amore, se per l'altrui inganni mi scacciasti da te, dammi ora licenza che ti possa ricevere in queste braccia.

SENNIA. O Dio santo e benedetto, chi è piú contenta di me in questa vita? Poiché mi concedi il mio marito doppo sí lungo tempo, che amai tanto e amerò mentre viva, temo di non svenirmi di contentezza.

TEODOSIO. Ecco Eugenio tuo figliolo a cui desti il latte e partoristi, e amavi un tempo.

SENNIA. Succedi, figlio, in quel luoco che altri si aveva usurpato, e perciò ne fosti scacciato. Non pigliarlo, figlio, ad ingiuria ma a soverchia affezion che portava al nome tuo: quella m'appannò gli occhi e quella sola mi fe' ricevere altri in tuo nome.

EUGENIO. Bastami solo, madre, che m'ami e che dopo tanti travagli mora nella patria e fra' miei parenti.

MASTICA. Spettatori, or che Olimpia coglie il frutto della sua fermezza e amore e che son finite le lacrime e i sospiri, e io ho tolto la cena di bocca da' lupi che giá avevano aperta la gola e stavano per inghiottirsela, andremo a godere. E perché io non desidero compagnia al mangiare, andatevene alle vostre case; e se pur volete rallegrarvi del lieto fine e delle altre contentezze di costoro, prima che vi partiate fatene qualche segno di allegrezza.