The Project Gutenberg eBook of La sorella

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Title : La sorella

Author : Giambattista della Porta

Release date : March 20, 2009 [eBook #28368]

Language : Italian

Credits : Produced by Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (Images generously made available by Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA SORELLA ***

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Proofreading Team at http://www.pgdp.net (Images generously made available by Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)

GIAMBATTISTA DELLA PORTA

LE COMMEDIE

A CURA DI VINCENZO SPAMPANATO

VOLUME PRIMO

BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI—EDITORI—LIBRAI
1911

LA SORELLA

PERSONE CHE S'INTRODUCONO

ATTILIO giovane
TRINCA suo servo
Balia di Sulpizia
EROTICO giovane
CLERIA giovane
PARDO vecchio
GULONE parasito
TRASIMACO capitano
PEDOLITRO vecchio
Suo figlio
COSTANZA vecchia
SULPIZIA giovane
ORGIO vecchio.

Il luogo dove si rappresenta la favola è Nola.

ATTO I.

SCENA I.

ATTILIO giovane, TRINCA servo.

ATTILIO. E ti disse che Pardo mio padre m'avea ammogliato con
Sulpizia?

TRINCA. E mi disse che Pardo vostro padre v'avea ammogliato con
Sulpizia.

ATTILIO. E la mia Cleria col capitano?

TRINCA. E la vostra Cleria col capitano.

ATTILIO. E che le nozze si facevano per la sera seguente?

TRINCA. E che le nozze si facevano per la sera seguente.

ATTILIO. E ti parea che lo dicesse da senno?

TRINCA. E mi parea che lo dicesse da senno.

ATTILIO. Mi rispondi con le medesime parole, e tanto seccamente, che mi lasci mille desidèri di sapere. Nelle cose d'amore o d'importanza bisogna dir tutte le minuzzarie, perché un minimo atto, una minima parola mi potrebbe indrizzare al rimedio.

TRINCA. Ve l'ho riferito con le medesime parole, che mi son state dette, né piú né meno tantillo ve': non bisogna dimandarmene piú, che non sarete per saperne altro tutto oggi.

ATTILIO. S'affligessero cosí te, come me, non schivaresti cosí di ragionarmene.

TRINCA. E perché so che v'affliggono, però schivo di ragionarvene.

ATTILIO. Se ben m'affliggono, pur nell'afflizione vi ritrovo qualche piacer mischiato. Ma ne' travagli, dove mi trovo, ci sono per li tuoi consigli; e meriteresti che ti spianasse le spalle, ché ancor tu ne patissi la parte del mio affanno.

TRINCA. O gran miseria è l'esser servo d'innamorati, i quali non sanno star nel mezzo, ma sempre sugli eccessi. Quando si trovano nelle calamitá, ti vengono con certe furie adosso, che vogli aiutargli con l'opre o col consiglio, che non ti dan tempo a pensare. E l'uomo si pone a pericolo della forca, se si scuopre: e se per qualche bella invenzione il fatto succede bene, non si ricordano del consigliero e attendono a sollazzarsi; ma, quando si scuoprono gl'inganni e si veggono ne' pericoli, ti vogliono spianar le spalle, come ministri de' loro danni.

ATTILIO. Te l'ho detto come la sento.

TRINCA. Ben sapete che il volersi sodisfare de illeciti amori e di poco onesti desidèri suol partorir mostri d'infamia e di disgrazie, perché non si conseguiscono se non con inganni e sceleratezze, le quali al fin vengono a scoprirsi, e l'uomo cade poi in travagli peggiori; ma a ciò m'indussero le vostre preghiere.

ATTILIO. Ancor che te ne pregava, non dovevi aiutarmi.

TRINCA. Non dicevate cosí allora, che, se non conseguivate la vostra Cleria, volevate andar disperso per il mondo o ammazzarvi con le vostre mani, e mi stavate con le ginocchia in terra pregandomi; e or non vi ricordate, che con le mie astuzie vi ho posto a cavallo.

ATTILIO. Anzi su un asino per esser scopato per tutto il mondo.

TRINCA. Pacienza.

ATTILIO. Orsú, che faremo per uscir di travaglio?

TRINCA. I vostri travagli a voi s'appartengono. Con i vostri portamenti piú tosto mi sforzate a disservirvi che a servirvi.

ATTILIO. Rimedia con qualche medicina, tu che puoi.

TRINCA. Non son medico, né fui mai a Padoa per istudiare.

ATTILIO. Col tardar, la malattia mi potrebbe uccidere.

TRINCA. Pigliate silopi e medicine che vi purghino il corpo.

ATTILIO. Se tu non vuoi esser mio medico, sarò io tuo. Ti darò un recipe di venti pugna sul mustaccio e di trenta calci nelle reni.

TRINCA. No, no.

ATTILIO. So che con due parole tu puoi far miracoli.

TRINCA. Non son negromante, che fo miracoli con le parole.

ATTILIO. Non ho visto al mondo piú colerico uomo di te, che avendoti detto, burlando, che ti voleva spianar le spalle, te l'hai preso da dovero. Se ben mostrava colera fuori, burlava dentro. Io offender te, che sei tutto il mio bene?

TRINCA. Ho da servirvi nelle cose oneste, no nelle scelerate.

ATTILIO. Non è cosa onesta salvar l'onor e la vita di Cleria mia insieme con me, che, succedendo quel che disegna mio padre, m'ucciderei con le mie mani?

TRINCA. Cosí dicevate allora. Non mi ci cogli piú.

ATTILIO. M'hai servito altre volte con molta prontezza; e or, piú che mai bisognoso del tuo aiuto, vengo con la medesima confidenza a pregarti che adopri tutto il tuo sapere e ci metti tutto il tuo studio.

TRINCA. Il padron amorevole e grato fa sollecito il servidore.

ATTILIO. Servimi, ché ti darò un paio di calze.

TRINCA. Un paio di calci piú tosto. Ma voi vi promettete molto di me e v'imaginati che con quella agevolezza che dite «aiutami», che subito siate aiutato. L'invenzioni son facili a trovar, ma al riuscir ti voglio: il dir e il fare non mangiano spesso in una tavola: credete di me l'incredibile e pensate che possa l'impossibile.

ATTILIO. So che dalla tua scuola sogliono uscir molte buone opre.

TRINCA. Or, poiché m'avete per un tristo, vo' che ne veggiate l'effetto.

ATTILIO. Di grazia, di' presto, fa' presto.

TRINCA. La prestezza è quella che guasta i negozi: bisogna maturo consiglio e non prestezza.

ATTILIO. Chi troppo consiglia, non fa nulla.

TRINCA. Sappiate che niuno, meglio ch'Erotico vostro amico, può trarvi dal pericolo dove siete.

ATTILIO. Erotico, quanto prima m'era amico, tanto m'è or inimico: l'amore è un violento effetto dell'anima nostra, cosí l'odio, che da l'amor nasce, è crudelissimo.

TRINCA. Come lo farete capace della veritá, vi servirá, come or ci impedisce il servire.

ATTILIO. Andiamo a trovarlo: ché usar viltá e cose che mi dispiacciono vo' che per amor mi divenghino dilettevoli.

TRINCA. Andiamo.

SCENA II.

BALIA, EROTICO giovane.

BALIA. Ahi, quanto poco durano i diletti d'amore, e quanti sono quelli che sovrastanno! Povera figlia, bisognarebbe aver un cuor di turco, per non crepar di dolore. Ma dove troverò io Erotico, che è il sostegno delle nostre speranze?

EROTICO. Come dalla mattina il primo negozio va in fallo, tutti vanno a roverscio in quel giorno.

BALIA. Ma eccolo. Signor Erotico!

EROTICO. O carissima balia! La fortuna muterá tenore, essendomi incontrato con la tesoriera de' nostri amorosi secreti, con l'aurora del mio sole. Che novella m'apporti della mia dolcissima Sulpizia?

BALIA. Cattiva, la peggior che sia.

EROTICO. Dimmela, non piú tardare.

BALIA. Mi dispiace di darvela.

EROTICO. Non dovevi cominciare, se non volevi darmela.

BALIA. Sulpizia è maritata.

EROTICO. E con chi?

BALIA. Con Attilio.

EROTICO. Ahi, fortuna traditora, e che potevi tu farmi peggio?

BALIA. Vi ha fatto peggio: che Orgio suo zio vuol che per questa sera si faccino le nozze, ché la brevitá del tempo ne priva di consigli e di rimedi.

EROTICO. Mi volevi dar una cattiva nuova, e or me ne dái due.

BALIA. Fortuna non comincia per una né per due.

EROTICO. Ecci forse altro?

BALIA. Altro sí.

EROTICO. Non piú, di grazia.

BALIA. È forza dirlo per potervi rimediare.

EROTICO. Oh, misero me!

BALIA. S'è accorto il zio, ch'io sia stata la mezana de' vostri amori; e m'ha proibito che non vada fuor di casa né che vi ragioni, con grandissime ingiurie e minaccie.

EROTICO. Questo è l'ultimo crollo delle nostre ruine, ché non possiam avisarci, né conferirci insieme gli appuntamenti nostri. Sulpizia mia che dice di ciò? come sta?

BALIA. Sta piú innamorata e piú ostinata che mai. Voi sapete che, se tutte le donne al principio son ritrose ad amare, come amor pone la radice nella natura loro e vi penetra sul vivo, se ci attacca di modo che non può piú sradicarsene. Pensate poi che sará, quando si generano poi le radici delle radici? Ella sdegna la vita senza voi.

EROTICO. Non deve sdegnarla, sapendo quanto amorevole e caro albergo ha nel mio core, e la certezza che amo cosí lei, come ella ama me, e come tutti i nostri pensieri son drizzati ad un segno.

BALIA. Chi ama, teme, e teme sempre del peggio.

EROTICO. Come può temere, se il nostro vicendevole amore cominciò da fanciullezza, dalle nostre libere volontá concordi insieme, e conservatosi poi sí lungo tempo che non basta maligna stella a disunir tanta corrispondenza di amore? E se nel nostro amoroso corso ci accade qualche intoppo, abbia speranza che un giorno ci ristoreremo con tanta piú dolcezza, con quanta piú amarezza abbiamo passata una tempesta di cosí maligna fortuna.

BALIA. La tempesta, che voi dite, passerá subito; ma la sua s'ingagliardisce da un rabbioso vento di gelosia, ché ha inteso che Pardo disegna darvi Cleria per moglie, ed ella è insospettita che la bellezza di Cleria non vi distorni da amar lei, onde arde di un doppio fuoco: di amore e di gelosia.

EROTICO. Io perda la vista degli occhi miei, se per altro gli ho a caro, che per mirar la sua bellezza, e se posso mirar altro che lei.

BALIA. Vi ricorda che se ben non è bella come Cleria, che voi ne sète cagione. Che se gli occhi suoi son scoloriti, e i giri d'intorno lividi, ricordatevi delle lacrime che l'avete fatto spargere, e quanto il sonno è stato lontano da loro. Se il volto è pallido e sbigottito, e la morte v'ha spiegato l'insegne sue, considerate i travagli e le pene che le date, e il tosco di che la nodrite. Ché se la fortuna volesse darle qualche sorte di contento, bisognarebbe che avesse un altro cuore, che lo bastasse a soffrire, cosí il suo è avezzo a soffrir sempre.

EROTICO. O balia, quanto mi trafiggi il cuore in udirti! Io non potrei dir mai l'imperio che han sovra di me la bontá, la bellezza, la grazia e i suoi onesti costumi; e come per un secreto voler d'amore è cosí impadronita della mia volontá, che non posso voler se non quello ch'ella vuole.

BALIA. Ma quanto ella è avanzata dalle bellezze del corpo di Cleria, tanto ella avanza, con le bellezze dell'animo, Cleria di gran lunga. E vedete l'esperienza, che voi non tanto l'avete disamata, quanto ella con ogni forma di verace amore vi ave amato; non tanto voi disprezzata, quanto ella v'ha riverito. Non datele voi tanti disgusti, quanti ella se n'ha inghiottiti. E con la fede e costanza del suo amore, ha vinto i vostri disamori, i dispreggi e le passioni; e nelle voraci fiamme, dove gran tempo è consumata, morta e incenerita, quasi novella fenice, è ravvivata a piú bella e chiara vita e rinovellata sempre nel suo amore. Or di questa bellezza avrebbe a caro che ne faceste paragone con quella di Cleria, ché, consideratala da presso, la renderebbe fosca e contrafatta. E dove or nella sua faccia si veggono scolpiti i trofei e le spoglie della vostra crudeltá, in quella dell'animo vedreste la gloria della sua fede e i trionfi della sua costanza.

EROTICO. Balia, con le tue parole m'intorbidi l'animo di sorte che non si rasserenará piú mai. Giuro per la sua vita—ché non ho qui in terra maggior cosa da giurare—che nella maestá del suo volto vi riluce una spezie d'imperio reale, che mi risveglia l'animo a gran desidèri di gloria e m'innalza con gli occhi dell'intelletto a considerar quella dell'animo suo senza pari: e mi servo di quella sua bellezza, come occhiali, per innalzarmi a piú sublime grado di contemplazione, a quel sommo bene, a quella celeste ineffabil bellezza, anzi fonte onde scaturisce ogni bellezza. Però la priego, per quanto amor mi porta, che non entri in tal pensiero; e mi doglio ch'io non posso aperto mostrarle il cuore, ch'ivi vedrebbe risplender la sua bella imagine, come in un lucido e polito specchio, e star tanto occupato e ripieno di quella, che non v'è piú luogo per altre, e che son chiuse le vie a tutte. E qual mai altra donna fu piú amorevole nella buona fortuna? qual piú costante nell'adversa? qual piú presta ne' serviggi? qual nell'assenza piú congionta col mio cuore? in qual altro cuore piú generosi spirti e nobilissimi pensieri? O donna d'eroica e incomparabil virtú! Onde, nel complimento di tante sue azioni mi son piú confirmato nella venerazione della sua persona.

BALIA. E che avendo ad esser di Cleria, vi supplica e vi scongiura, ch'in ricompensa dell'amor suo o per merito della vostra grazia, che in abito disconosciuto di paggio o di fantesca la riceviate in casa ne' vostri serviggi: se non come moglie, almeno come ministra della vostra felicitá e spettatrice del suo primo amore; e in quell'abito vi mostrará in parte quell'umil servitú con la quale desidera servirvi ogni ora. Prendetela per serva o per ischiava: ogni stato le sará felice e ogni fatica dolce.

EROTICO. Dille che, non potendo altro, entrarò in casa sua, e con un pugnale mi vendicherò di quel barbaro e discortese suo zio; e in quella dolcezza di vendetta m'ucciderò ancor io.

BALIA. Vi ricordo che siate diligente.

EROTICO. Potrei esser privo di giudizio e di valore in ogni cosa, ma non in quello dove si tratta del suo serviggio.

BALIA. Guardate, che vi sta mirando dalla fenestra e vi fa l'occhino: salutatela e mandatele un bacio, se la volete rallegrare.

EROTICO. Ecco, la saluto e la bacio.

BALIA. Non vedete, che s'è inchinata da dentro la gelosia e vi ha ribaciato? Che volete che le dica da vostra parte?

EROTICO. Che si scriva queste parole nel core: che l'amor mio va sempre crescendo di giorno in giorno, come crescono in lei la bellezza e l'onorate sue azioni, e che non è per mancar mai: che non ho tempo di trattenermi con lei, perché corro per rimediare a cosí strano accidente.

BALIA. Si duole che molti giorni sono, che non siate venuto a ragionar con lei.

EROTICO. Dille che non è mai giorno, che, delle ventiquattro ore che sono, non ne ragioni sempre con lei le quarantotto.

BALIA. Come, se non ci venete?

EROTICO. La continua memoria che ho di lei, e quel ritratto, che mi sta nel cuor dipinto per man di amore col pennello della imaginazione, sta piú vivo nel mio core, che non ci sta l'anima istessa: ragionando io con lei ed ella meco, ci raguagliamo e dogliamo insieme delle miserie nostre.

BALIA. Almeno passate di lá.

EROTICO. Se non ci passo col corpo, ci passo con l'animo mille volte; e quanto è miglior l'animo del corpo, tanto è piú degna quella vista di questa.

BALIA. A dio.

SCENA III.

EROTICO, ATTILIO, TRINCA.

ATTILIO. Ecco, l'abbiam pur trovato al fine.

EROTICO. (Non ci è piú fede al mondo, non si trova piú uomo di cui possa fidarsi. Al tempo d'oggi la fede è ritrovata per ingannar la fede. Ma io vo' tradir e ingannar ciascuno, poiché ciascuno cerca tradir e ingannar me).

ATTILIO. Parla da sé solo.

TRINCA. Come quello che sta ne' travagli dove tu sei.

EROTICO. (Vo' andarmene in qualche isola diserta, per non esser ingannato da uomo piú. Sulpizia farsi d'altri, eh?).

TRINCA. Forse che parla d'altro?

ATTILIO. Come amor entra in un cuore, ne scaccia ogni altro pensiero, perché vuol regnar solo.

EROTICO. (Ma Idio non mi dia cosa che desio, se non ne farò vendetta tale, qual merita il mio dolore e la rabbiosa gelosia).

TRINCA. Salutatelo.

ATTILIO. Signor Erotico, buon giorno.

EROTICO. (Mi dá il buon giorno chi desia darmi il malanno. Ma sará ben che gli parli; ché, se non posso impetrar da lui che la lasci, impetrare almeno che la lasci per qualche giorno). Idio vi salvi, signor Attilio.

ATTILIO. Come state?

EROTICO. Tal che non posso trovar modo per dolermi del mio dolore.

ATTILIO. Di che vi dolete?

EROTICO. Che non si trova piú fede né amicizia, perché un che mi credea fidel amico, sotto color d'amicizia m'ha tradito e assassinato.

ATTILIO. Costui sará il piú tristo uomo del mondo.

EROTICO. Tal lo stimo io.

ATTILIO. Ditemi, di grazia, chi sia il traditor di fede e assassino d'amici, che prometto farne la vendetta per voi.

EROTICO. È vostro grande amico.

ATTILIO. Tanto piú dovete manifestarlomi, accioché possa guardarmi da lui.

EROTICO. Fareste ben a farlo, perché è ragionevole e debito vostro.

ATTILIO. Come si chiama?

EROTICO. Attilio. E voi sète quello che mi tradite e assassinate, e mi fate il peggior officio che possa farsi; e avete un gran torto.

ATTILIO. Avete voi torto maggiore aver una tal stima di me—e io vi compatisco, perché sète fuor di voi stesso—perch'io son lealissimo con gli amici.

EROTICO. Ma vi prego per quella cara amicizia, che un tempo fu sí perfetta e incorrotta fra noi, che mi siate cortese di quello ch'è mio, per rigor di giustizia e per debito di amore…

ATTILIO. Io non intendo il vostro parlare: o ch'io sia troppo goffo o che voi non esprimete bene il vostro concetto.

EROTICO. … che non prendiate Sulpizia per consorte.

ATTILIO. Deh, caro Erotico, chi ve lo dice?

EROTICO. Tutta la cittá. Ma sappiate che Sulpizia è mio dono irrevocabile, perché ci abbiamo data la fede di essere sposi, e i nostri amori non son stati sterili: però non sarete per possederla legitimamente mai per moglie, né senza gelosia.

ATTILIO. Io prender la vostra Sulpizia per moglie?

EROTICO. E sappiate che, se ben l'uomo per sé non val nulla, la disperazione lo fa valoroso. Almeno trattenetevi per qualche tempo, accioché non vedano gli occhi miei cosí nemico spettacolo e io abbia tempo a partirmi per andar disperso per il mondo: cosí viverete senza mio sospetto.

ATTILIO. Voi potete promettervi di me come di voi stesso, perché stimo voi come un altro me stesso; e vi do potestá che ve la godiate e procacciate per moglie, ch'io vi rinunzio ogni interesse che pretendesse in lei, e ve la rifiuto.

EROTICO. Ella non è cosa di rifiuto, però non voglio crederlo.

ATTILIO. Se non volete credere il vero, crederete il falso.

EROTICO. E che credete ch'io creda?

ATTILIO. Ogni altra cosa, fuor che la veritá.

EROTICO. Piacesse a Dio che cosí fusse!

ATTILIO. A Dio piace che cosí sia.

EROTICO. Dubito che non lo diciate, ché, confidandomi nelle parole vostre, mi attraversiate e la conseguiate con piú agevolezza.

ATTILIO. Io stimo che i nostri travagli abbino gran somiglianza e corrispondenza fra loro; ma accioché io non mi doglia di voi di quello che voi vi dolete di me, vi narrerò il tutto, e vederete che, se voi avete ragione, io non ho il torto.

TRINCA. Signor Erotico, se voi non tacete, e voi, padrone, non scoprite il fatto, consumaremo il giorno; e noi abbiamo carestia di tempo.

EROTICO. Io taccio e ascolto, e per ascoltar meglio comprarei un altro paio di orecchie.

ATTILIO. Sappiate che, trovandosi Pardo mio padre a' serviggi della regina Bona in Polonia, ché la serviva di scalco, per stanziarvi piú aggiatamente mandò a chiamar Costanza sua moglie e Cleria sua figlia, allora bambina, da Nola, perché condusse me seco, ch'era un poco grandetto. Accadde che, essendosi imbarcate in Bari per andar a trovarlo, per una fiera tempesta non s'ebbe piú nuova di loro; talché in avisi e in lettere a diversi amici, in diverse parti, s'andar consumando il tempo e le speranze, e fra tanto si tenne suspeso il dolore. Poi venne aviso come la barca era sommersa: e sommerse mio padre in un mar di lacrime e in una amarissima memoria di lor duro caso. Appresso s'ebbe nuova che, da alcune fuste di turchi rapite, erano state condotte in Constantinopoli. Duo anni sono, ebbe nuova di Costanza sua moglie, ch'era schiava di un bassá, che, per esser decrepita, l'avrebbe venduta a buona derata; e che Cleria serviva un sangiacco fuor di Costantinopoli. Pardo mio padre mi sforzò a far questo viaggio, e mi diede trecento scudi per lo riscatto e altri per lo viaggio, con lettere di favore a quei clarissimi in Vineggia, ché di lá m'imbarcassi per Constantinopoli. Giunsi a Vineggia, in casa di un napolitano, chiamato Pandolfo, dove sogliono alloggiare tutti i passaggieri napolitani. Venne l'ora della cena, e ci sedemmo a tavola; e una giovane, chiamata Sofia, ci serviva. Ella, nel volgermi gli occhi sopra, mi lanciò una fiamma nel core, che non cessò mai serpir per tutto, fin che non fece ben l'officio suo. Io, sentendomi le vene diseccate dal fuoco, chiedea da bere, e per rinfrescarmi e per godermi di quella divinissima vista piú da presso. Ma facea contrario effetto, perché amor avea mischiato veleno e fuoco in quel vino che mi avvelenava e uccideva in un tempo. Cosí, tra vivo e morto, non sapeva che mangiava o beveva o aveva; ma parea un di quei che si sognano mangiare: ché la mia cena fu la sua bellezza. Si levò la mensa, e tutto inebriato di amore, me ne andai a dormire, con speranza di riposare, pensandomi che l'infirmitá dell'animo fossero come quelle del corpo, che col sonno s'acchetassero. Ma il sonno fu peggio che la cena: perché l'infirmitá dell'animo nel giorno s'addormentano per la conversazione degli amici, ma nella quiete della notte si destano le pene e gli amorosi pensieri. Pur, verso l'alba, un leggier sogno m'occupò le luci: neanche quel sogno mi lasciava riposare, perché mi rappresentava le parole e gli atti di Sofia. Parlava seco de' miei tormenti, l'abbracciava e baciava; e, pensando abbracciar lei, abbracciava me stesso e le lenzuola, e finalmente tutte fur larve e imagini del desiderato bene. Vien Trinca la mattina a sollecitarmi che m'alzi per partire, e m'interrompe cosí gran piacere.

EROTICO. V'alzaste, vi poneste in viaggio per riscattar la madre e la sorella.

ATTILIO. Che madre? che sorella? che viaggio? Tutte queste cose in tanto odio mi caddero, che maggior dispiacere non potea sentire, se col pensiero caduto vi fussi. Cosí, fingendomi indisposto, ci componemmo con Pandolfo di riposarmi per alcun giorno in casa sua, non mancando mai con soffrenza e umiltá batter l'inespugnabil rocca del suo pudico core. Quando mi passava da presso, la toccava un poco; e tanto m'eran piú care quelle rapite dolcezze, con quanti piú piacevoli sdegni e con piú modestia mi eran contese. E veramente la modestia è quella che dá spirito e ravviva la bellezza. Al fin mi rese certo che non meno ella mi amava, ch'era amata da me; come era donzella e gentil donna, che desiderarla per altro modo che per moglie, era un perder tempo. E veramente le sue azioni e maniere erano tanto oneste e d'incorrotta pudicizia, che mi toglievano ogni ardir di usarle violenza; e i suoi costumi mostravano lo splendor de' suoi natali e, anco schiava, mostrava la dignitá del suo merito. Cosí mi trovai servo della serva e schiavo della schiava. Al fin pagai ducento ducati, che per tanti Pandolfo l'avea riscattata; e feci libera chi ligato mi avea. Ma non tanto la feci libera del corpo, quanto ella mi rimase serva con l'animo. La sposai e fui possessor della sua bellezza. …

TRINCA. Deh, rassumete il fatto in breve somma, che, se volete raccontargli ogni cosa appuntino, consumaremo il giorno.

ATTILIO. … Cosí consigliato da Trinca, scrissi a mio padre da Vineggia, come fossi in Constantinopoli, che Costanza sua moglie era morta, e che avea riscattato Cleria per ducento ducati, e con lei me ne veniva a Nola—e portai Sofia mia innamorata sotto nome di Cleria mia sorella.—dove fin ora con grandissima consolazione vissuti siamo. Or considera, Erotico caro, che voglia abbia io di aver la tua Sulpizia per moglie, che non cambiarei la mia Sofia per quante reine ha il mondo.

EROTICO. Non ascoltai mai narrazion di comedia con piú piacere, perché mi toglie da un mar di travagli. Or ditemi, come potremo aiutarci l'un l'altro?

ATTILIO. Ho fatto la parte mia in comedia, il resto tocca a Trinca.

TRINCA. Ho caro che il signor Erotico ascolti la mia invenzione, accioché non m'ingannassi il giudizio. Ascoltate, e non mi replicate insin al fin del mio ragionamento. Pardo vuol maritar Cleria col capitano, perché non gli dá dote; e Gulone parasito tratta le nozze. Proporremo voi a Pardo con la medesima condizione; e come che voi sète di maggior merito, stimo che l'otterremo. Poi diremo che Attilio vuol prender Sulpizia, perché il vecchio lo desia molto, e vuol che si sposino per la sera che viene. Diremo che volete abitare insieme, come amici di molti anni, o nella vostra o nella sua casa: il giorno, Sulpizia sará moglie di Attilio, e Cleria di Erotico dalla cintura in su; la notte, Sulpizia di Erotico, e Cleria di Attilio dalla cintura in giú; e bisogna scambiar le mogli fin che vive il vecchio, il qual non potrá viver molto.

EROTICO. Se sposerò Cleria, come potrò goder la mia Sulpizia? e se
Attilio sposerá Sulpizia, come potrá goder la sua Cleria?

TRINCA. Con la vostra impacienza interrompete me e turbate voi stesso: se mi ascoltavate, come v'ho detto da prima, intendevate il modo. Troveremo un amico, lo vestiremo da prete e diremo che sia il parocchiano; e sposeravvi. Come poi il vecchio sará morto, vi sposarete con i legitimi modi.

EROTICO. Ah, ah, ah, come si può trovar il piú bel caso, e da ridere?

ATTILIO. E da rider, sempre che ce ne ricordaremo. Giá il cuor, ch'era sepolto nella disperazione, comincia a ravvivarsi nella speranza.

EROTICO. Ed il mio respira, ch'era giá morto nell'angoscia; e giá spero posseder la mia Sulpizia.

ATTILIO. Ed io la mia Cleria.

TRINCA. Ed io la forca o la galera, se si scuopre.

ATTILIO. Speriamo che amore e la fortuna ci favoriranno.

EROTICO. L'invenzione è tanto bella, che porta seco i rimedi di tutti gli infortuni che ci potessero intervenire.

ATTILIO. Speriamo bene, che il mal non manca mai.

EROTICO. La forza d'amore è incredibile, quando egli guida gli avvenimenti: però speriamo in lui, che, come ha vinto tutti i dèi, cosí vincerá la fortuna.

ATTILIO. Amore innamorò tutte le cose, non mai la fortuna.

EROTICO. Non ci avviliamo ne' contrari avvenimenti.

TRINCA. Non piú consigli: è fatta la rissoluzione, comincisi l'essecuzione. Abbiam bisogno di prestezza, perché il tempo ne stringe; e quanto ci ha nociuto la passata tardanza, tanto ci giovi la presente prestezza: il mondo è goduto da solleciti.

ATTILIO. Eccoci all'ubbidirti.

TRINCA. Voi, Attilio, perché i vecchi sono ostinati, e i loro cervelli si muovono al moto della luna, umiliatevi a vostro padre. Gli ostinati si vincono piú tosto con l'umiltá che con l'arroganza; e mostrate desiderar Sulpizia, ché, sí come l'avarizia s'inganna con la liberalitá, cosí col mostrarsi volontoroso s'inganna chi vi crede. E voi, Erotico, parlandovi il vecchio di voler Cleria, mostrategli desiderarla.

EROTICO. Sará pensiero mio particolare: fingerò ben la parte mia.

TRINCA. Né bisogna mostrar tanto affetto, che paia affettato.

ATTILIO. Che faremo del parasito che, s'almen non ci impedisce, ci differisce?

EROTICO. Che del capitano?

TRINCA. Lasciate fare a me, che fra il parasito e il capitano, e ambidue col padrone ci porrò tanta zizania, che scompigliarò e porrò sossopra quanto s'è fatto.

EROTICO. Trinca, non potendoti or render premio condegno, ricevi almeno la mia confessione: che ricevo da te la vita e l'onore e quanto bene ho al mondo, e spero col tempo fartelo conoscere.

ATTILIO. Trinca, questo serviggio ti porterá tanto utile, quanto serviggio che sia fatto a persona che faccia professione di conoscere i benefici.

TRINCA. Fate che i fatti corrispondano alle parole. Partetevi, ché io vo a ritrovare il padrone, per cominciar ad ordir l'inganno.

EROTICO. Mi parto: a dio.

ATTILIO. Tra tanto andrò a casa; ché amor mi ha fatto bussola di naviganti, che, volgendola di qua e di lá quanto si voglia, come si lascia libera, da se stessa si riduce alla sua tramontana: cosí né per travagli che mi turbino, né per affanni che mi molestino, da una amorosa violenza mi sento tirar dove splende la chiara luce della mia stella.

SCENA IV.

CLERIA, ATTILIO, TRINCA.

CLERIA. Attilio, anima mia, fermatevi costí, ché son stata gran pezza aspettandovi in fenestra, per avisarvi che, se un poco piú foste tardato, non areste trovata la vostra Cleria in casa.

ATTILIO. Non vi dolete, occhio mio caro.

CLERIA. Qual miseria è che pareggi la mia? Mi sento l'anima cosí ristretta nel cuore, che son per cader morta; né posso imaginarmi come questa tormentata anima possa reger questo tormentato mio corpo.

ATTILIO. Non vi struggete, o signora, piú cara a me che la luce degli occhi miei.

CLERIA. Pensavami che la fortuna,—poiché dall'uscir delle fascie cominciò a farmi guerra, avendomi da bambina fatta preda de' turchi, privatami de' miei cari genitori, fattami serva di genti barbare, ricomperata come schiava,—avesse mutato proposito e volesse ristorarmi de' danni passati col farmi ambiziosa del titolo di vostra schiava, il che lo stimava per mia somma ventura. Ma or mi fa peggio che mai, ché vuol rovinarmi in tutto; perché questo sospetto cosí m'inamarisce ogni bene, che mi toglie la speranza di non aver a sperar mai piú favilla di luce: e pur vivo? Son nata pur disgraziata!

ATTILIO. Io, dal primo punto che vi viddi, fui cattivato nell'amor vostro: però assicurativi, signora, che non meno a me duole il separarmi da voi, che voi da me, parendomi impossibile che l'un possa vivere senza la vita de l'altro. E come potrei io vivere, se i spiriti miei non prendessero alimento da una certa virtú celeste, che sta occulta negli occhi vostri, dai quali prende vigor la mia vita? E tante volte mi ravvivo e rinasco nella mia istessa vita, quante volte vi miro. Son vostro, voglio esser vostro e, ancor che voi non voleste, pur son vostro; né tutto il mondo basta a far che non siate mia, poiché dalla vostra libera volontá me vi deste. Niuna cosa m'è cara piú di voi; e chi mi togliesse voi e mi desse tutto il mondo, non mi farebbe nulla, ché in voi sola è tutto quel ben che posso desiderare nella mia vita.

Cleria. O caro, o caro cor mio, volete scemar i vostri meriti per accrescer i miei, che non ne ho niuno. Ma le vostre parole vengono dettate dalla vostra bontá, che avanzano di gran lunga i miei meriti: e tutte quelle lodi che mi date, tutte si piegano in voi, come i raggi del sole che, percotendo nei specchi, si piegan con piú forza: però, se alcuna cosa in me fusse di buono, tutto vien da voi stesso, che mi conferisce quelle qualitá che voi dite: però resto consolata nelle vostre consolazioni. Laonde con l'amor che mi portate, chiamate a consiglio il bel vostro discorso, e consideriamo s'è meglio fuggir di casa e andar dispersi per lo mondo. Conducetemi per dove volete, per luoghi deserti e senza via: vi son stata compagna nelle prospere, cosí vi sarò nelle fortune calamitose. È ferma deliberazione dell'anima mia non esservi renitente in cosa alcuna: non mi riterrá né muro né terra né cielo, seguane quel che si voglia; pur che sia insieme con voi, ogni luogo m'è patria, ogni fatica m'è dolce, niun pericolo mi spaventa. E veramente per amor non si denno stimar i pericoli.

ATTILIO. Non vorrei, cuor mio, andando cosí di fuori, perder quello che ho in casa. Venendo con voi da Vineggia, mi parea esser un di quei che navigano di notte con una nave di cristallo, che temono sempre incontrarla e romperla in ogni scoglio.

CLERIA. Se segue quel che disegna vostro padre, questa sera sará il fin della nostra giornata, e resterá per noi una notte perpetua; e certo saria una notte, ché d'allora innanzi non sperarei veder altro sole. Però facciamo come quelli che han fatto naufragio, che per non morire s'attaccano ad ogni tavola che s'incontrano.

ATTILIO. Ahi, ch'essendo in casa mia, pensava esser in porto, dove sperava riposo di tutte le nostre amorose tempeste!

CLERIA. Maladetto porto, dove s'affondano tutte le nostre speranze, e dove rabbiosi corsari cercano spogliarci de' nostri preciosi tesori: parvi bel porto questo?

ATTILIO. Anima mia, con la speranza del bene rasserenate la mente e il volto, e con le lacrime non ci facciamo cosí tristo augurio, se non per altro, almeno per non dar tormento a me; ché a voi non piove una minima lacrimuccia dagli occhi, che a me tutti non siano rivi di sangue, che mi piovono dal cuore.

TRINCA. E quando finiranno tante parole?

CLERIA. Dolcissimo mio bene, non posso far che la miseria, dove mi trovo, non mi trafigga: bisognarebbe un cuor di sasso per non dolermi. Mi sforzerò chiuderla nel mio cuore, ché ho piú a caro il vostro contento, che di sfogare il mio dolore.

ATTILIO. Statemi, di grazia, allegra e di buona voglia, ché il tempo suol apparar occasioni di remedi, e nelle adversitá far cuor franco e valoroso.

TRINCA. Che tanti cicalamenti! Ecco vostro padre.

ATTILIO. Trattienlo un poco.

CLERIA. Venite su e rallegratemi.

TRINCA. Sí, sí, cicalate un altro poco.

ATTILIO. Non m'impedite, di grazia, che trattiamo cosa per uscir da affanni.

CLERIA. E come?

ATTILIO. Non ho tempo di dirlo.

CLERIA. Perdonatemi di grazia, ché la dolcezza di parlar con voi mi fa trapassare i vostri comandamenti.

TRINCA. Vostro padre v'è cosí da presso, che vi vede. Andate su e, poiché sète accordati in parole, accordatevi in fatti: informatela bene del negozio e fatecelo toccar con mano.

SCENA V.

PARDO vecchio, TRINCA.

PARDO. Trinca, dove è Attilio?

TRINCA. A casa; e stimo ch'abbia una gran facenda per le mani.

PARDO. Io son molto mal sodisfatto di lui, perché non li vedo far cosa che mi vada a gusto: è tanto mutato da quel di prima, che non mi par desso. Da quel benedetto giorno—per non dir maladetto,—che menò la sorella da Costantinopoli, menò seco la cagione della sua ruina. Ahi, tardo mio pentimento! Tutti i suoi pensieri tendono all'ozio. Prima, se alzava inanzi giorno, andava alla messa, poi allo Studio, tornava a casa, si poneva a studiare; e quando era l'ora del desinare, con gran fatica lo poteva distaccar da' libri; poi si dicea l'ufficio della Madonna: tutto diligenza, ubidienza e divozione. Or, tutto il giorno in letto, non s'alza insin ad ora di desinare, non si parte da casa mai; ad ogni altro pensa fuor ch'allo studio; è divenuto insolente, mal creato, e mi beffeggia. Non va piú a messe, non dice officio; e la buona educazione, ch'ornava il suo nascimento, è tolta via da usanza cosí cattiva.

TRINCA. Padrone, chi prattica con zoppi, al fin impara a zoppicare: vostro figlio è stato in Turchia, dove non s'odono messe, né si dicono uffici—ché ben sapete che i turchi son mali cristiani,—né si usa levar mattino, né si va a Studio; anzi coloro che attendono a simili cose, li chiamano catamelechi , cioè uomini di poco conto.

PARDO. Tutto il giorno a gracchiar con la sorella, e rider fra loro; e quando io vi son presente, pis pis dentro l'orecchie, e dagli atti e cenni conosco che si burlano de' fatti miei, si parlano in zergo e mi danno la baia, e stimano che non me ne accorga.

TRINCA. Quello che voi chiamate zergo, son parole turchesche; e l'usa per farsi intendere dalla sorella che non intende ben l'italiano; e cosí mezo turchesco parlano delle cose di Costantinopoli.

PARDO. Per dirtela, tratta troppo licenziosamente con la sorella: si baciano, si succhiano, si toccano, e fanno tutto il giorno alla lotta, l'un sopra l'altra, quasi che non se la pone di sotto.

TRINCA. Son sorelle e fratelli carnali al fine, e il sangue tira e fa l'ufficio suo. E la legge maumettana di lá comanda che le sorelle e fratelli trattino fra loro con molta amorevolezza: sará bisogno smaumettarsi a poco a poco. Poi vostra figlia è allegra di condizione, burla volentieri, e or tanto maggiormente, che si vede libera dalla servitú turchesca e in casa di suo padre e fratello: e questa amorevolezza la chiamano in turchesco tubalch .

PARDO. Io non voglio che non trattino insieme con molta amorevolezza, ma in fin ad un certo termine onesto e di creanza, e non con modi cosí disonesti e di scandalo a chi li vede. Son tali, che m'hanno scemato gran parte dell'amor che li portava; e se mi son mai pentito di cosa mal fatta, mi son pentito di averlo mandato in Turchia a riscattar la sorella, perché ho comprato il mio male, e, per ricovrar la figlia, ho perduto i danari, la figlia, il figlio e me stesso, per il dispiacer che mi dánno.

TRINCA. In Turchia è usanza.

PARDO. E pur con Turchia, Turchia: il canchero che ti mangi! tutte le mal creanze le scusi con Turchia. Ti conosco per un scappato da mille forche; quanto piú gli scusi, piú l'accusi: se pur son usanze turchesche, or che siamo tra cristiani, bisogna viver da cristiani.

TRINCA. Se voi l'aveste maritata, sareste uscito da intrico.

PARDO. Non ho trovato cosa a proposito.

TRINCA. Sète di quei padri che prima muoiono, che maritano i figli, per non contentarsi mai.

PARDO. Or ho deliberato dar Sulpizia per moglie ad Attilio, e vo' che mi ubedisca, cosí per l'obligo che mi tiene di figlio, come per l'onestá della dimanda, e come per l'amor che mi porta: ché l'amor e l'ubedienza son sorelle carnali.

TRINCA. V'è tenuto per obligo, e farallo per cortesia e per amore.

PARDO. Se ben è tenuto per obligo, facendolo per amore e cortesia, l'averò quello obligo io, che devo alla sua cortesia e amorevolezza. E vo' dar Cleria al capitano, e mi liberarò della servitú di aver femine a casa. Ho conchiuso iersera il parentado, e vo' che si sposino al tardi. In questo vorrei che usassi la tua astuzia, overo che non l'usassi contro me, ch'io non posso essere tanto studioso a guardarmene, quanto tu ingegnoso ad ingannarmi. Ben sai che ho san Mazzeo vicino a casa, e quel medico di casa Querciuolo, che ti suol medicare le spalle, quando il ricercano. Vorrei che li persuadessi a non esser ostinati, ché non venghi con loro a termini poco onorevoli, come non ho fatto per lo passato.

TRINCA. Egli non ricusa Sulpizia, ce l'ho proferta da vostra parte: ne ha tanta voglia, che non vede l'ora che sia sera. Di Cleria non bisogna aver tanta fretta.

PARDO. Che vuoi che se invecchi in casa e poi non trovi can che la fiuti? è meglio purgar la casa delle femine, che della peste. Avendo quel capitano, ará la buona ventura.

TRINCA. Anzi l'arcimala ventura.

PARDO. Che li manca?

TRINCA. È troppo giovane: lasciamolo invecchiare un altro poco.

PARDO. Non ha quarant'anni.

TRINCA. Ha quaranta malanni. Ne ha piú di sessanta: e che altro sono quei peli bianchi, che un richiamo di giovani, che dieno quello a vostra figlia, che non può darle il marito? Egli è come un asino zoppo, a cui mancando le forze del suo natural potere, si cade tra via, bisogna alzarlo a due mani e porlo per la strada. E se ben si vanta che sia stato colonello e generale di esserciti, credo ch'adesso non servirebbe se non per lancia spezzata.

PARDO. S'inchina assai volentieri a questo.

TRINCA. Di ciò statene sicuro, sta l'importanza nel potersi drizzare.

PARDO. È ricco.

TRINCA. Sí, d'anni; ma povero di robbe e di cervello, puzza di fallito, e ogni giorno piglia dinari a perdita; e se ben s'ha consumato tutto il suo patrimonio a dadi, non consumará certo il matrimonio con vostra figlia. Con quelle sue bravaríe se vuol smaltir per quel che non è. Si pasce d'aria e vive di ruggiada come le cicale, mangia a tavola con la gloria e ambizione, e, essendo un becco, si vuol servir di vostra figlia per una vacca. E per mantener quel fumo del suo camino, quando ella non consentirá, con una furia di bastonate le fará far quel che vuole; talché mangiará sempre piú bastonate che pane.

PARDO. È gentiluomo.

TRINCA. Di casa Capodicervo, che ha piú corne in capo che capelli; suona di cornamusa, e s'udiranno per tutta Nola il suono de' suoi cornetti.

PARDO. N'ho buona informazione dal parasito: ne sta innamorato. Di che ridi?

TRINCA. Non rido che stia innamorato; ma chi si vuol innamorar di lui? E poi date credito a quel furfante, feccia d'uomo: li servirá per ruffiano a condurgli gli uomini a casa. Senza che, va dicendo mal di voi per Nola, che sète un pidocchioso; e fa le croniche della miseria di vostra casa: che sempre bevete il vin che si guasta, e, prima che finiate di ber quello, cominciate l'altro che si guasta; e che, quando viene a mangiar con voi, lo fate stentar in aspettar fino a mezogiorno; e che s'alza da tavola piú vòto che quando ci venne. Talché voi non l'invitate a mangiare, ma a digiuno, vigilia e penitenza.

PARDO. Mira furfante, che si pone in bocca certi pezzi massicci di carne e certi bocconi tanto stravagantemente grandi, che non se li può voltar per la bocca, e li trabocca giú come li mandasse in una cloaca, e con tanta furia che non mangia, ma trangugia; non beve, ma tracanna, ingorga e fa grondare il vino nello stomaco; che noi appena cominciamo a scaramucciare, ch'egli ha finito il fatto d'arme, che par figlio della fame, padre del diluvio, nipote della carestia, e pone tanta robba in una volta in quella sua voragine, quanto basta una settimana in casa mia: par che la fame ce l'abbia inviato per castigo della casa mia.

TRINCA. E dice queste e altre cose.

PARDO. Che altre?

TRINCA. Mi vergogno di dirle.

PARDO. Dille in tua malora, ché mi fai venir la rabbia.

TRINCA. Dice che patite di non so che infirmitá di stomacali, e che ci avete tanto prorito, che andate cercando chi ve li gratti.

PARDO. Mente e stramente per la gola.

TRINCA. E dice averlo inteso da molti.

PARDO. Mente per l'orecchie.

TRINCA. Ed egli conosce all'odore esser cosí.

PARDO. Mente per lo naso.

TRINCA. E che lo stima esser verissimo.

PARDO. Mente per lo cervello. E tu non sai che ciò è una bugia?

TRINCA. E per questo è un ribaldo, perché dice quello che non fu mai; e il peggio è, che le genti lo credono, perché lo veggiono pratticare tanto domesticamente in casa vostra, che possa sapere i vostri secreti.

PARDO. Lo castigherò ben io.

TRINCA. Gulone è come il canchero che, quanto meglio lo nudrite, piú incancherisce e infistolisce.

PARDO. Che rimedio ci sará?

TRINCA. Quello degli infranciosati: con una dieta di pane e di acqua per quaranta giorni, ché lo consumi la fame e la sete in fin all'ossa. Come se li manca la biava, andrá via. Però torniamo a noi. È troppo gran peccato dar cosí degna figlia a quel cervellaccio che riesce cosí cattivo per ogni banda.

PARDO. La vuol senza dote, e il maritar una figlia senza dote è qualche cosa: l'ho riscattata da' turchi e, or volendole dar dote, sarebbe un riscattarla di nuovo.

TRINCA. Meritano i suoi buoni costumi d'esser riscattata diece volte, se bisognasse. Ma noi abbiamo Erotico piú ricco e nobile e d'altri costumi: e vi fa la medesima offerta.

PARDO. Che faresti tu, se fusse tua figlia?

TRINCA. Se fosse voi?

PARDO. Fa' conto che ci sei: consigliami.

TRINCA. Non per consigliarvi, ma essendo nell'esser vostro, questo partito mi parrebbe tanto buono, che non potrei dir di no.

PARDO. Farò quanto tu dici: ché, non avendo errato mai con l'aviso de' tuoi avertimenti, voglio assicurarmi in questo ancora. Facciamo che amboduo si sposino per la sera.

TRINCA. Come comandate.

PARDO. Di' a mio figlio che si ponga in ordine, ch'io aviserò Orgio, zio di Sulpizia, del medesimo. Di' ad Erotico che venghi a trovarmi, e appuntiamo il tutto, ché, quando le persone sono d'accordo, è mal il differire, ché sempre si pone in mezo occasione di disturbi.

TRINCA. Farò il tutto come m'imponete.

ATTO II.

SCENA I.

GULONE parasito, solo.

GULONE. Sempre ch'odo sputar filosofia da questi savioni, odo dir che la natura è stata a noi benignissima madre. O che mai nascessero piú filosofi, e che si perdesse, in tutto, il collegio e la razza loro! perché, quando discorro fra me, trovo tutto il contrario: che la natura ci è stata capitalissima nimica nel farci del modo che ci ha fatto. A che proposito far duo occhi, due orecchie, due faccie, due mani, due piedi, duo spalle, ed una bocca, dove sta tutta l'importanza? ché l'uomo vive per la bocca, e non per gli occhi né per l'orecchie. A che proposito far le budella cinquanta palmi lunghe, accioché peniamo tutto un giorno fin che il cibo si rassetti, si prepari e si smaltisca, e il gargarozzo, per lo quale sentiamo il gusto e l'esquisitezza de' cibi saporiti, di tre diti? ch'appena mangiato un boccone, cala giú, sparisce subito, come si mangiato non l'avesti? Doveva far il gargarozzo lungo un miglio, ché, calando giú per quello il cibo, durasse il diletto tutto un giorno; e le budelle far tre diti, dalla gola al buco di sotto, largo, aperto, che, subito inghiottito, uscisse fuori, e fusse l'introito uguale all'esito. A che proposito consumar tutto il corpo in gambe, in braccia e testa, e il ventre farlo picciolo? or non potea farlo come un sacco, per poter insaccar robbe assai? Che dispiacer si trova uguale a quello che di trovarsi in una tavola abondante e ben fornita di vivande e di vini eccellentissimi, poi aver un corpo picciolo e non poter divorare? ché tanta è la rabbia e la disperazione, che vorrei allora con un coltello forarmi la pancia per poterlo cavar fuori e tornare a riempirlo. Almeno ci avesse una apertura nel ventre, che si aprisse e serrasse con bottoni come le vesti, ché, dolendoci il ventre o essendo troppo pieno, potessimo guardar che cosa sia dentro, e poi tornar ad affibbiarlo. A me par che sia stata benignissima madre agli animali, perché ha fatto al bue, alla capra e agli uccelli una saccoccia alla gola, ché il cibo ingoiato si riceve in quella, e dopo mangiato ruminano quel cibo, e mangiano di nuovo, e si trattengono tutta la notte. Or non potea farne un'altra all'uomo? accioché, trovandosi a mangiar ne' tinelli, dove per la fretta bisogna tranguggiare i bocconi senza masticargli, poi quando fussimo a casa, li potessimo ruminar di nuovo? Ha fatto al Gulone un budello largo e breve, che, quando è ben satollato, passando per mezo a dui arbori stretti, scarica il cibo da dietro, e poi torna a satollarsi di nuovo? Non poteva la natura farmi una bestia come queste? darmi fame di lupo, bocca di rana, pancia di rospo, collo di grue, denti di cane, due lingue di serpe, stomaco di sturzo, che bevesse come cavallo, dormisse come ghiro e cacasse come una vacca?

SCENA II.

TRASIMACO capitano, GULONE.

TRASIMACO. Riniego Marte, se non t'ammazzo; ché ti son gito cercando per tutte l'ostarie, dubitando che non fossi restato in pegno, per riscattarti.

GULONE. M'hai interrotto un discorso che facea contro la natura.

TRASIMACO. La natura fu sempre tua nemica, e sempre le fosti contrario.

GULONE. Come uomo di poco spirito, non posso penetrar nella grandezza e magnificenza sua, né toccarne il fondo.

TRASIMACO. Nascesti col cervello a roverscio, però tutte le tue cose vanno al roverso: schivi le cose straordinarie e ti servi del snaturale. La forca che ti appicchi per la gola!

GULONE. Appicchimi per dove vole, ma non per la gola: la vo' intiera e sana per me.

TRASIMACO. Ma dimmi s'hai ragionato con Pardo.

GULONE. Sí, bene.

TRASIMACO. L'hai detto che son un Rodomonte, un Alessandro Magno de' nostri tempi? non rispondi, furfante?

GULONE. Non posso far ragionamenti, per la gola secca che ho.

TRASIMACO. Tu a me menti per la gola? Mira a che pericolo ti poni.

GULONE. Dico che, per la gola secca che ho, non posso formar ragionamenti.

TRASIMACO. In somma hai conchiuso le nozze?

GULONE. Se non bevo una voltarella e inumidisco il palato e la lingua e ristoro la virtú, vengo meno.

TRASIMACO. Non puoi dir sí o no?

GULONE. Son cosí affamato, che vedrei la fame nell'aria: il ventre sta vòto e si bacia con la schena di maladetti baci. Ascolta come gorgoglia.

TRASIMACO. Che sei di razza di cavalli, che, quando stai digiuno, il ventre gorgoglia? Odi.

GULONE. Non odo, ché le budelle fanno tanto rumore che m'impediscono l'udire.

TRASIMACO. Non mi promettesti iersera darmi la risoluzione del matrimonio?

GULONE. È vero che l'ho promesso; ma, venendo a casa vostra, mi incontrò un amico, mi portò a casa sua, e mi diè a ber vini tanto grandi e fumosi, che m'empirono lo stomaco e il capo di fumi, che non vedeva la via per tornare, e fu bisogno dormir a casa sua.

TRASIMACO. Affogaggine! Mancar della promessa non è ufficio d'infame?

GULONE. Veramente, sí; ché, se non fussi stato in fame, non sarei andato a casa sua, ma sarei venuto alla vostra.

TRASIMACO. Dico che non è ufficio d'uomo da bene.

GULONE. Io non fui mai uomo da bene, né ci voglio essere: se ci fussi, mi morrei di fame. Io son ladro, buggiardo, furfante e ruffiano, e cosí sguazzo il mondo.

TRASIMACO. Cosí tratti gli amici?

GULONE. Io non ho amici altro che il principe della Trippalda, che è il maggior amico che abbi: la trippa vacua è il maggior nemico.

TRASIMACO. Ed è possibil che tu non vogli ragionar se non di mangiare?

GULONE. E tu di donne e di amori? Non ci è differenza tra l'amor mio e il tuo: io fo l'amor con vitelle mongane, tu con vacche: carne ami tu, carne anco io: tu cruda e io cotta; e tanto è miglior l'amor mio del tuo, quanto è miglior la carne cotta della cruda. La carne cotta è saporita e odorata, la cruda puzza, è schiva e s'abborrisce; e come tu or fai l'amor con questa e or con quella, e sfoghi quei tuoi sfrenati desidèri: e io, contra una tavola ben abondante, come un sfrenato innamorato, or mordo poppe di vitelle fredde, or inghiotto i tordi grassi—che stringendoli con i denti, mi cola di qua e di lá il grasso,—or bacio becchieri e bottiglie, piene di vini brillanti e saltellanti, con saporitissimi baci, e sfogo l'ingordo desiderio del mio ventre. E mentre mi trastullo con questi, fo l'amor con le porchette, che si stanno arrostendo, pascendomi intanto di quei soavi odori.

TRASIMACO. Io stimo che con quella gloria e animoso ardire con cui io entrerei in un steccato, tu in una tavola ben acconcia.

GULONE. La tavola ben acconcia è il mio steccato, dove, con uno glorioso appetito e animosissimo ventre, mi riduco assai volentieri a scaramucciare e menar le mani.

TRASIMACO. Non piú, ché ragionando di mangiare non finiresti tutto oggi. Hai conchiuse queste benedette nozze?

GULONE. Ed è possibile che, come si tratta di ammogliarsi, vorrebbe ciascuno che le cose si trattassero a staffetta, e che volassero? Poveretti! non vedete che quanto piú presto la togliete, piú presto vi viene a fastidio, e vi pentirete?

TRASIMACO. Sei molto pigro a trattare i negozi.

GULONE. Son pigro, secondo il tuo desiderio; ma presto, secondo il mio: a chi desia non si fa cosa con tanta prestezza, che non paia tarda. Dice che, volendola senza dote, venghi a sposarla.

TRASIMACO. Ti ringrazio della nuova.

GULONE. Che pensi col ringraziamento avermi pagato, come se m'entrasse in corpo e me cavasse la fame e la sete? Troppa ingiuria fai tu al mio ventre.

TRASIMACO. Troppa ingiuria fai tu alla mia liberalitá, ché sai che non tengo le mani chiuse, quando bisogna. Portami la risposta e vieni a mangiar meco, ch'io fra tanto farò porre in ordine e arò protezion del tuo ventre.

GULONE. E io fra tanto porrò in ordine l'appetito.

TRASIMACO. Vuoi che ci sia della lacrima?

GULONE. Della lacrimissima.

TRASIMACO. Del greco?

GULONE. Del grechissimo.

TRASIMACO. Ti aspetto con la buona nuova.

GULONE. Novissima buonissima. Or batto: toc, toc .

SCENA III.

TRINCA, GULONE.

TRINCA. Volpino, sali su quelle legna.

GULONE. (Legna per far fuoco per lo banchetto, ché Pardo ha promesso invitarmi a pranso. Ma queste legne non mi fan buono augurio, canchero!).

TRINCA. Ti venghi a mente recar le corde.

GULONE. (Di cembali e di leuti, ché mi fará una musica. Ma appresso al «canchero», quel «ti venga» pur mi fa malo augurio).

TRINCA. Non ti smenticar di cinquanta nespole acerbe.

GULONE. (Son frutti dopo pasto; ma pur le nespole acerbe solemo chiamar le bòtte. Ma vien fuor Trinca).

TRINCA. Gulone, che si fa?

GULONE. Bene.

TRINCA. Non è tua usanza.

GULONE. Ti viene a visitar un tuo amico carissimo.

TRINCA. Io non vo' amici carissimi, ma di buon prezzo, ché ho pochi dinari. Che sei venuto a far a quest'ora?

GULONE. E tu non sai l'usanza mia?

TRINCA. Non mi ricordo.

GULONE. M'è venuta una disgrazia, la maggior che mi possa venire.

TRINCA. Dimmela, se non è cosa di stato.

GULONE. Mi muoio della maladetta fame: io son venuto a sguazzare col tuo padrone.

TRINCA. Sguazzarai come un cavallo per un pantano: il mio padrone sta irato teco.

GULONE. Scusa di mal pagatore: perché l'ho maritata la figlia, per non darmi la mancia, finge il colerico. Questo è il frutto dell'obligo? Va' e stenta tu. Io vo' che mi faccia il beveraggio bonissimo.

TRINCA. Ha promesso farti buttar in un fiume, ché beva benissimo.

GULONE. Che ha egli meco?

TRINCA. Essendosi informato del capitano, ha ritrovato tutto il contrario di quanto gli hai detto; e se avesse fatto il matrimonio sotto la tua parola, arebbe annegata la figlia. Hai torto ingannarlo cosí.

GULONE. Come egli ha ingannato me, cosí ho ingannato lui.

TRINCA. Non sai tu ch'egli sostiene quelle sue grandezze con l'ombra delle bugie e con falsa fama? E il peggio è, che hai detto mal di lui al capitano…

GULONE. Possa digiunar un mese, se è vero.

TRINCA. Giurane su questa orecchia d'asino!

GULONE. Ho sempre dubitato che fussi un asino; ma or che me ne mostri l'orecchio, ti stimerò tale da oggi avanti.

TRINCA. … Con dir che ti fa seder in un tavolino, e ti pone inanzi certe minestrine, certe insalate ricamate e gelatine figurate, e certe torte e bistorte, la carne minuzzata, le cose mal ordinate e cotte.

GULONE. Trinca, è vero che ho detto che non posso aver peggio, quando le cose non son bene apparecchiate, ché il buon apparecchio è il quinto elemento della tavola; e che le robbe sieno assassinate dal cuoco, quando non vedo pasticcioni, quarti di vitelli intieri, teste di cinghiali, e posto a tavola ogni cosa intiera; non star sempre il salame a tavola morbido e succoso. Che maggior torto si può far alle torte, quando vengono fredde, e le midolle e i grassi gelati sopra? il brodo senza lardo e senza specie? gli arrosti secchi e mal impillottati? e il peggio di tutto, che il vin non sia eccellente, dolce, gagliardo e piccante? ché ci bisognarebbe la fame arcigulonica per divorarle. Di questo mi son doluto alcune volte, e non del mancamento.

TRINCA. Tu sai che sempre sei stato in capo alla tavola; e ogni cosa è venuto innanzi a te, e tu fai la parte e dái quel che ti piace a gli altri; e ti sei alzato da tavola con la faccia piú rossa di un gambaro boglito.

GULONE. È vero.

TRINCA. Perché dici il contrario, quando mangi con altri? e quando mangi con noi, dici mal di loro?

GULONE. E perciò vuoi entrar in colera meco?

TRINCA. Il capitano ha detto tant'altre cose di te al padrone, che non si direbbero di un boia.

GULONE. Che può dolersi di me il capitano? Che sia maledetta quella puttana che lo cacò!

TRINCA. Che, andando tu in casa sua, ti fará dar cinquanta bastonate.

GULONE. Vada in bordello egli e la sua razza! (Queste son quelle legne che dicea poco innanzi, e cinquanta nespole acerbe).

TRINCA. Il padrone ha giurato farti dar altre cinquanta bastonate.

GULONE. Cinquanta bastonate piú o meno poco importa.

TRINCA. Farti romper la testa e sfreggiarti il volto.

GULONE. Facciami quel che vuole, gli sarò sempre amico e non mi allontanarò dalla sua tavola.

TRINCA. Farti ligar in una camera terrena:…

GULONE. (Queste son corde ch'io stimava di cembalo).

TRINCA. … e farti dieci crestieri il giorno, accioché evacui bene; poi attaccarti con i piedi in su, finché vomiti quanto hai mangiato in casa sua; poi darti due fette di pane il giorno e un becchiero d'acqua…

GULONE. Cacasangue! Se mi ci coglie, mi facci il peggio che sa. Rompermi la testa, darmi cinquanta bastonate, cavarmi un occhio e sfreggiarmi la faccia, son cose ch'all'ultimo si ponno sopportare. Ma quel star a trippa vacua e senza mangiare, son cose insopportabili.

TRINCA. … Ha ordinato a Mazzafrusto e a Sgraffagnino che stieno alla posta, che subito entrato in casa ti attacchino bene.

GULONE. Se mi lascio prendere da Mazzafrusto che mi frusti e ammazzi, e da Sgraffagnino che mi sgraffigni! a dio, a dio.

TRINCA. Ascolta una parola…

GULONE. Non ascolto parole.

TRINCA. … che importa molto.

GULONE. Che cosa?

TRINCA. Vieni, ché il padrone ti aspetta a tavola con un piatto di maccheroni straordinariamente grossi, che appena ti capiranno nella bocca.

GULONE. Le tue parole m'hanno sconcio lo stomaco di sorte, che, se non vado a ristorarmelo altrove, non sará ben di me oggi.

TRINCA. Oh, come scampa il poltrone! giá li par aver Mazzafrusto e Sgraffagnino alle spalle, che lo menino alla dieta. Il medesimo farò col capitano: porrò tanta zizania fra costoro, che li condurrò che venghino alle mani e si rompino le teste. Andrò al padron giovane a dirli quanto si è oprato in suo serviggio.

SCENA IV.

BALIA, EROTICO, PARDO.

BALIA. Sulpizia smania e non trova luogo per la gelosia di Cleria; mi manda se può saper da Erotico alcuna cosa di nuovo.

EROTICO. O balia, di' a Sulpizia mia, che trattiamo or cosa onde spero che sarem nostri.

BALIA. Parlatemi, di grazia, piú particolarmente, e liberatela da tal passione.

EROTICO. Basta, saprá ogni cosa, e verrò io a dirglielo. Ma parteti da me: presto, presto, scòstati.

BALIA. Perché mi scacciate cosí da voi?

EROTICO. Per cosa che importa, lo saprai poi: scòstati, allontánati da me.

BALIA. Che fretta! orsú, mi parto.

EROTICO. Vorrei l'avessi fatto prima che detto. (Veggio Pardo venir alla volta mia, e stimo che venghi a ragionarmi delle nozze: non vorrei che, veggendomi ragionar con una vecchia, entrasse in sospetto che stessi innamorato).

BALIA. (Il cacciarmi che fa Erotico con tanta fretta da sé, mi fa sospettar qualche male. Veggio Pardo andar verso lui: qualche trama v'è).

PARDO. (Veggio Erotico; e mi par certo un gentil giovane: vien a me, vo' riceverlo come figlio). Ben venghi il mio caro Erotico, il mio carissimo figliuolo.

EROTICO. Dio vi accresca salute e vita, mio carissimo padre e padrone: padre in amore, padrone in riverenza. Vo' baciarvi le mani.

PARDO. Non mi fate questo torto, ché non lo comporterò: volete vincerla pure?

EROTICO. Perché è mio debito di farlo.

PARDO. Poiché dite che mi sète figlio, potrete trattarmi come vi pare.

EROTICO. E voi usando questi termini di cerimonie con me, è un quasi non tenermi per quell'amorevol figlio, che dite che io vi sia.

PARDO. Copritivi.

EROTICO. Desiderava in atto di riverenza star cosí; ma, poi che volete che mi cuopra, mi coprirò, essendo l'ubbidire un termine di creanza.

PARDO. Cosí merita un par vostro, nobile, ben creato e virtuosissimo.

EROTICO. Troppo gran cose stringete in breve fascio. Ma io vi resto con tanto maggior obligo, quanto meno conosco di meritarlo.

PARDO. Giá stimo che Trinca mio servo e Attilio mio figliuolo v'abbino detto quanto desiderio io abbia di apparentar con voi…

EROTICO. Ed il desiderio, che ho di servirvi, è cosí vivo e ardente, che non so che fare che da voi fossi creduto.

BALIA. (Fanno fra lor molte belle parole: vediamo dove riusciranno).

PARDO. … e però darvi Cleria, la mia figlia, per moglie. …

EROTICO. Conosco non meritarla per le sue rare qualitá; ma l'accetto per l'affezion che le porto, e per desiderio che ho di servirla.

BALIA. (Ohimè, parlano di dargli Cleria per moglie!).

PARDO. … E stimo ancor che v'abbino riferito, che non son per darle dote altrimente.

EROTICO. Mi basta la dote delli suoi meriti, la qual è piú tosto soverchia che bastevole; e io mi terrò ricchissimo, se mi vedrò possessore di sí infinito tesoro di grazie: onde mi parrebbe farle gran torto se non la rifiutasse.

PARDO. Io parlo chiaramente; ma contrastiamo dopo fatto il matrimonio.

EROTICO. Io non posso trovar modo in ricompensar tanto beneficio, che mi si fa, in darmisi Cleria; e per mostrar quanto mi sia grata la parentela, io rifiuto ogni dote.

BALIA. (Ragionano delle nozze di Cleria; e dice non voler dote. Giá si confrontano i contrasegni).

PARDO. Stimo che abbiate visto Cleria, per saper se vi piace la sua bellezza.

EROTICO. L'ho vista, e mi piace tanto, che non mi piacque altra giamai altro tanto. Cosí avesse auto ella maggior fortuna di aver conseguito sposo di maggior merito ch'io non sono, come ella è stata favoritissima dalla natura cosí delle bellezze del corpo come di quelle dell'animo.

PARDO. Ve l'ho dimandato, perché so che avete gran tempo seguita Sulpizia, la nostra vicina; e non vorrei, dopo aver sposata la mia figliuola, tornaste a lei, che mal agevolmente si scordano i primi amori.

EROTICO. Se ben molte volte m'avete visto passar per costá, l'ho fatto piú per passatempo che per amor che portassi a Sulpizia; e vi giuro che mai mi piacque.

BALIA. (O Dio, che parole son quelle che sento? or chi crederebbe che fussero uscite da quella bocca, dalla quale poco innanzi ne son uscite l'altre di sí contrario tenore?).

PARDO. Io non vorrei che la lingua fusse differente dal core.

EROTICO. Cavata mi sia la lingua insieme col core, se non è vero quanto io vi dico.

BALIA. (Aiútati, lingua, avviluppa bugie e giuramenti, per ingannar qualche altra poverella).

PARDO. Perdonatemi, se ne dimando con tanta instanza, perché dubito che, per qualche sdegno o martello passato tra voi, vogliate tor mia figlia. Io non ho altra che costei; e dandole un marito che sia stato innamorato di un'altra, non saria fra loro un contento giamai, però vi prego a dirmelo liberamente.

EROTICO. Voi che mi sète padrone, potete comandarmi, non pregarmi.

PARDO. Li vostri pari si pregano, non si comandano.

EROTICO. Piú grazia ne ricevo quando mi comandate, che non è il servigio che vi servo. Ma s'io amai giamai Sulpizia, faccia Idio che non conseguisca alcun desiderio; né son per amarla per l'avvenire, ché sempre piú tosto l'ho odiata che amata, e m'ho fatto beffe di lei. Ho ben amata la vostra Cleria dal primo giorno che la viddi; ma il rispetto dell'amicizia fra me e Attilio me ha vietato che non lo scoprisse, per non offenderlo con la mia indegnitá. Ma, poiché da voi mi vien offerta, apro il cuore e ve lo paleso.

BALIA. (Ahi, lingua traditrice e bugiarda, che ti sia cavata insin dalle radici! non bastava affermarcelo cosí semplicemente, se non confirmarcelo con giuramento?).

PARDO. Talché posso assicurarmi che non amate Sulpizia?

EROTICO. Di grazia, caro padre, non me la nominate piú, se non volete che la biestemme.

BALIA. (O povera Sulpizia, disamata, beffata e bestemmiata).

PARDO. Veramente, io non vi facea altra difficultá in queste nozze: non l'ho voluta conchiuder con mio figlio, fin che da voi non me ne fussi certificato, ch'io temea sempre di Sulpizia.

EROTICO. O maladetta sia Sulpizia! …

BALIA. (Tu solo, e chi generotti!).

EROTICO. … che fosse morta …

BALIA. (Tu ucciso, e morto!).

EROTICO. … e squartata!

BALIA. (E tu fatto in mille pezzi!).

PARDO. Or che me ne sono assicurato, datemi la mano in segno del matrimonio.

EROTICO. Ecco, volentieri ve la porgo.

PARDO. Ed io la stringo e bacio, in segno di parentela. Non manca altro che al tardo vengati col prete, e la sposiate. Mangiaremo cosí alla domestica, e non facciamo come certi ignoranti, che nel banchetto spendono la metá della dote.

EROTICO. Maggior grazia riceverei, s'andassimo a sposarla ora.

PARDO. Andiamo fra tanto al sarto per le vesti.

EROTICO. Andiamo dove comandate.

SCENA V.

BALIA sola.

BALIA. O mondo immondo, o mondo tutto pieno di fallacie e d'inganni, or chi può vivere in te, che sia sicuro dalle tue insidie? O etá maladetta, o crudeltá, o barbarie, che a pena può adeguarsi col pensiero! O Erotico infidele e disleale! O Sulpizia troppo sincera e amorevole, per non dir troppo semplice e troppo sciocca! Dove è la fede che con tanti giuramenti fu data, e che tu osservata l'hai con tanta costanza dell'amor tuo? Taccino, come indegni di conversar fra gli uomini, coloro che incolpano le donne di volubilitá e d'inconstanza. Ite voi, donne, fidatevi de' giovani del tempo d'oggi, e massime di costoro di prima barba, larghi di promesse e ricchi di giuramenti, che in un punto amano e disamano, come li va il cervello: sono come i sparvieri, avidi sempre di nuove prede, che, se bene han un uccello preso nell'unghie, se ne veggono un altro, lasciano quello che hanno, per acquistar quello che va volando. Ecco perché Erotico mi scacciava da sé: e che trattava cosa buona per lei, e che molto l'importava. Misera Sulpizia! come restarai, poveretta, rinchiusa in una camera, mentre durerá la tua vita, a pianger la colpa della tua sciocchezza, d'aver creduto ad un uomo, con freggio d'infamia da non risanarsi piú mai. E come duo occhi suoi soli potranno piangere tanta sciagura? Ma ella volgerá la colpa sovra di me, come che del tutto sia stata cagione: si dolerá di me, mi biestemmará, come consigliera e adiutrice. Ma chi non arebbono ingannata tante lacrime, tanti suspiri e tanta ostinazione di star i mesi e gli anni intieri, di giorno al sol dell'estate, e le notti intiere al freddo, alle pioggie e a' tuoni dell'inverno? Non ho cuore di darle tal nuova: so che gridará, tramortirá, spiritará, diverrá forsennata. O Iddio, aiutaci tu, che puoi.

SCENA VI.

TRASIMACO, TRINCA.

TRASIMACO. Quanto piú desidero Gulone, men lo posso incontrare…

TRINCA. (Per trovar il padron, vo cercando per le strade, ed egli deve star rinchiuso in camera. Ma veggio il capitano con le sue solite e accessorie stravaganze. Oh, come viene a tempo! credo che succederá il negozio, poiché ogni cosa mi cade a proposito).

TRASIMACO. … per dimandargli se son concluse le nozze. …

TRINCA. (Senza che gli ne dimandi, son sconchiusissime).

TRASIMACO. … Ché, accapandosi per sua cagione, s'acquisterá l'amicizia mia e quella di Pardo. …

TRINCA. (Io porrò tra voi tanta discordia, ch'in eterno sarete inimici).

TRASIMACO. … E sarò possessore d'una donzella bellissima. …

TRINCA. (La donzella la deve aversi in corpo, e non è boccon da tuoi denti).

TRASIMACO. … So ch'a lei sará caro, quando saprá ch'io la ricerco.

TRINCA. (Non bisogna sperarci, ch'altri la possiede prima di te).

TRASIMACO. Veggio il servo della sua casa, ne dimandarò costui.

TRINCA. (Fingerò non conoscerlo, per fargli piú creder quanto dico).

TRASIMACO. Dimmi, galante uomo, Gulone è in casa vostra?

TRINCA. Potrebbe ben essere, ché il mio padrone ha gran piacere quando dice mal d'altri.

TRASIMACO. Mi sapresti dir se ragiona mai dell'eroiche virtú d'un capitano?

TRINCA. Chi capitano?

TRASIMACO. D'un detto il Fracasso che ritrovandosi l'altro giorno in mezo un squadron di scavezzacolli e di tagliacantoni, che lo volevano assassinare, egli scagliandosi in mezo a tutti, s'incanò talmente, che a furia di crudeli fendenti, di orrendi mandritti e di orribili stoccate, cacciandosegli innanzi, li ruppe, li fracassò e pose tutti in scompiglio. …

TRINCA. Sí, sí, d'un certo capitano che certi mascalzoni vennero per assaltarlo, ma ch'egli si salvò con una bella ritirata.

TRASIMACO. … Ed una notte, incontrandosi con birri che gli voleano tor l'armi, minuzzò il capitano con tutta la birraria.

TRINCA. Mi ricordo che disse, che s'incontrò una notte con un bastone, che gli assettò molto bene il giubbone adosso.

TRASIMACO. Dico di certe sue virtú illustri.

TRINCA. Sí, sí, ch'era un gran musico…

TRASIMACO. Come musico?

TRINCA. … che cantaria molto ben la Girormetta su la striglia, che l'avea cantata tutto il tempo della sua vita.

TRASIMACO. Non sará quel capitano che dico io.

TRINCA. Un certo capitan Sconquasso o Fracasso o Babuasso, che s'avea posto questi nomi per spaventar le genti; che porta certi mustacci ingrifati e i peli della barba rabbuffati, con una ciera torta; e che parla con certi paroloni.

TRASIMACO. Non me ne sazio, se non darò essempio a' pari suoi, se non sarò un specchio a gli occhi di ciascuno. Non basterá il cielo a scamparlo dalle mie mani, ancor che fiammeggi di lampi, ancor che rimbombi de tuoni. Non so se fra tanto potrò sospender lo sdegno.

TRINCA. Sará forse vostro amico?

TRASIMACO. Non lo conosco. Passate innanzi.

TRINCA. Non vorrei che v'adiraste meco.

TRASIMACO. Dio te ne guardi, ché caderesti morto.

TRINCA. Ve l'ho dimandato, perché m'avete cera di capitano.

TRASIMACO. Son cosí in fatti, come vi paio in ciera.

TRINCA. E bisogno che rida, per non andar in pericolo di crepare.

TRASIMACO. Di che ridete?

TRINCA. Di nulla.

TRASIMACO. So che non sète matto, che di nulla ridete; ditelo, di grazia, se pur qualche obligo non contende questa mia curiositá!

TRINCA. Non è obligo di secretezza che possa impedirmi che non vi compiacessi; ma desidererei che non lo ridiceste ad altri, ché m'impediresti di non udir piú da lui delle sue castronerie.

TRASIMACO. Che Marte sia irato con me, né mi dia forza di spopolar cittá, di sconfigere e disfar eserciti, se lo ridico; e perdonate alla mia curiositá.

TRINCA. Egli l'onora di molti illustri titoli: d'un venerabil asino, e tanto grande, che basta per sei asini; di buggiardo, e che le veritá le tiene tanto secrete in corpo, che ci han fatto la ruggine; che non soffiò mai vento d'ambizione che non soffiasse in quel ballon del suo capo; e che nel tribunal della poltroneria, se si avesse a determinare chi fusse il magior poltron del mondo, senza dubio arebbe la sentenza in favore, perché basterebbe la sua poltroneria ad impoltronire tutti i poltroni del mondo; e che combatte piú con la lingua che con la spada…

TRASIMACO. Benissimo.

TRINCA. … e che la sopraveste della sua nobiltá è un ragazzame. Dice che suo padre fu giudeo, sua madre lavandaia, sua ava puttana, suo zio boia ed egli ruffiano; che si tinge la barba per parer giovane; che li pende tra le gambe una borsa quanto una zucca; che ha mal francese di sette cotte; e che si vanta che il re di Francia lo vuol per suo compagno, stipendiato dal re Filippo, presentato dal Gran Turco, ma che si crepa della maladetta fame…

TRASIMACO. Perché sparlar tanto di questo poveretto? che li venghi la peste alla lingua!

TRINCA. … Dice che l'invita a mangiar seco, e non mangia altro che vessiche sgonfiate; e che è tanta la sua spilorceria e spedaleria, che si parte morto di fame.

TRASIMACO. Come può cicalar tanto?

TRINCA. Ha lingua per sei cicaloni.

TRASIMACO. Non devrebbe pratticar con lui.

TRINCA. Dice che ci prattica per udir quelle sue millanterie, e se prende spasso de fatti suoi. Onde il padrone in modo se trafisse queste cose nel capo, che non sarebbe possibile cavarnele piú.

TRASIMACO. Mi avete detto a bastanza, perché la materia abonda troppo.

TRINCA. È piú di quello che mi avete dimandato.

TRASIMACO. Se posso ricompensar la fatica che avete durata per me, comandate e sarete servito.

TRINCA. È stato poco per sodisfar al debito mio con un par vostro.

TRASIMACO. Restate in pace, buon rivelante.

TRINCA. Andate in buon'ora, buon ascoltante, ser capitano.

ATTO III.

SCENA I.

PEDOLITRO vecchio.

PEDOLITRO. Ringraziato sia Idio, che pur son gionto al fin del mio viaggio, che son a Nola, patria mia. O Dio, che pericoli, che strazi, che fatiche, che spese! mangiar male, ber peggio, dormir in terra, assassinato dagli osti, da ladri, da fuorusciti e da vettorini. Oh, quanto si patisce fuor di casa sua! non lo può credere, se non chi lo soffre. Veramente, gran bisogno me ne trasse fuori, riscattar un figlio unico di man di turchi. Ma niuna altra cagione me ne caverá fuori, né figli né padri né anco per me stesso. Mai parea che finisse il viaggio, sempre ne restava a far piú del fatto. Le gambe ne han patito la penitenza. Mi vedo gionto a casa—e nol posso credere, né men che sia vivo, ma che qui sia gionto lo spirito mio. Ma chi è costui che vien in qua? certo è Pardo, mio antico amico. O, ben, che ho da trattar con lui. Signor Pardo, siate il ben trovato, non mi conoscete? Son Pedolitro vostro amico.

SCENA II.

PARDO. Pedolitro.

PARDO. Chi si potrebbe conoscere cosí vecchio? e poi vestito alla turchesca? che sète stato prigione o ammalato, che avete cosí vigliacca ciera? perdonatemi, cioè macra e scolorita.

PEDOLITRO. Il mal mangiare, il peggior bere e il molto patire.

PARDO. Le tue vesti?

PEDOLITRO. Me l'ho mangiate in Turchia.

PARDO. In Turchia se mangiano vesti?

PEDOLITRO. L'ho vendute e impegnate all'osterie per mangiare. Ma io mi rallegro che vi vedo piú allegro e giovane che non vi lasciai.

PARDO. Donde si viene?

PEDOLITRO. Da Costantinopoli, per riscattar questo mio figlio che da bambino mi fu rapito da' turchi.

PARDO. E voi ancor ben venuto, caro figlio.

PEDOLITRO. Io rispondo in sua vece, ché non sa parlar italiano: Che siate il ben trovato.

PARDO. Ho grande allegrezza che siate tornato salvo.

PEDOLITRO. L'allegrezza vi si raddoppiará, ch'io vi porto una buona nuova di lá.

PARDO. Che forse il turco non arma alla primavera, e non infesterá le nostre marine?

PEDOLITRO. Dico, buona per voi.

PARDO. Voi siate il ben tornato, portandomi alcuna buona novella.

PEDOLITRO. Costanza vostra moglie vi saluta.

PARDO. Che forse dall'altro mondo?

PEDOLITRO. Che altro mondo? io non so altro mondo che questo, né mai mi son partito di qua.

PARDO. A che rinovellarmi la memoria e darmi questo dolore? ché mai mi ricordo della sua morte, ch'io non volessi esser morto mille volte. Costanza cara, io che fui cagion della tua rapina, son libero, e tu, per venir al mio comando, sei schiava. Oh, quanto la meritarei io la servitú che per me tu hai patito!

PEDOLITRO. Voi piangete la viva, come fusse morta.

PARDO. Come viva?

PEDOLITRO. Come la stimate voi morta? se non è morta fra duo mesi, che son di lá partito, ella è piú viva e piú gagliarda che mai.

PARDO. Ti fai beffe di me.

PEDOLITRO. Anzi, mi par che voi vi facciate beffe di me. Ma chi v'ha detto che sia morta?

PARDO. Attilio mio figlio e Trinca servo, i quali ho inviati col riscatto in Constantinopoli per lei e per Cleria mia figlia; e son alcuni mesi che son tornati di lá, e ha menato seco Cleria sua sorella, e mi ha riferito che Costanza era morta quattro anni sono; che se fusse stata viva, l'arebbe riscattata e condotta a Nola.

PEDOLITRO. Anzi, ella è viva e sana; e di vostra figlia non si sa nova se sia morta o viva piú di dieci anni sono, ma si tien per fermo che sia morta; ch'un sangiacco, cui ella serviva, l'avea menata fuori; e si dubita, per la gelosia della moglie, che l'abbia avvelenata, che vostra moglie n'ebbe a morir di dolore.

PARDO. Strane cose mi dite. Cleria è in mia casa; e il mio figlio e servo me l'han referito, quanto io vi referisco.

PEDOLITRO. Ed io vi dico che tutto vi è stato falsamente referito, perché conosco vostra moglie, a Nola, prima che vi fusse rapita, e la conosco pur quattro anni in Constantinopoli, dove mi son fermato per riscattar il mio figlio. Anzi, né di vostro figlio né del servo ho inteso cosa alcuna in Constantinopoli.

PARDO. Quasi che Constantinopoli fusse Nola, che si può saper chi vi cápiti.

PEDOLITRO. Se ben Constantinopoli è una cittá grandissima, e piú di Napoli, le domeniche noi tutti cristiani ci veggiamo nel tempio di santa Sofia, dove ci ragguagliamo e consigliamo delle nostre fortune e ci aiutamo l'un l'altro.

PARDO. Quanto piú dite, men vi credo.

PEDOLITRO. Ma a che proposito volervi dir queste bugie? Ma io non vo' che mi crediate. Eccovi una lettera che vi manda: conoscete la sua mano?

PARDO. Questa è la sua mano. O Dio, che stretta mi sento all'anima, che mi restò scolpita in mezo al cuore. Volesse Iddio che tu fussi viva, che verrei io in persona a riscuoterti; e quando non potessi, soffrirei in tua compagnia i tuoi dolori. Da che ti perdei, posso dir che non ho avuto un piacer in questa vita; e non meno l'ho amata morta, che l'amai viva.

PEDOLITRO. Leggetela, e vedete quanto vi scrive; e conoscete, quanto vi ha referito vostro figlio e il servo, tutto è bugia, e quanto vero sia quel che vi dico.

PARDO. Mi avisa avermi scritto molte lettere, e di niuna mai averne ricevuta risposta, né per lei esser mandato il riscatto; che spera esserle donata la libertá, e voler venirsene sola, come meglio potrá.

PEDOLITRO. Credetemi ora?

PARDO. Ed accioché voi crediate esser vero quanto vi ho detto, vo' che ragionate con mia figlia. Olá, fate venir qua Cleria per cosa che molto importa.

PEDOLITRO. Fatela calar, ché mi piace che non troverete altro di quel che vi dico: che Costanza vostra moglie è viva, e di Cleria non si sa novella.

SCENA III.

CLERIA, PARDO, PEDOLITRO.

CLERIA. Padre, che comandate?

PARDO. Costui è venuto da Turchia…

CLERIA. (Infelice me! costui sará venuto a far riscontro s'è vero che sia Cleria, e quanto falsamente l'abbiamo dato ad intendere).

PARDO. … e dice che Costanza sia viva.

CLERIA. (Che affermarò? che negherò? io non so che debba affermar, né negare, né che mi fare. Oh, fosse qui Trinca!).

PARDO. Dimandatela voi.

CLERIA. (Bisogna star in cervello). Volesse Dio che Costanza mia madre fusse viva! Ma voi come lo sapete?

PEDOLITRO. L'ho vista con questi occhi in Constantinopoli; e si duol del suo marito che in tanto tempo non abbi mandato a riscuoterla, e che Cleria sua figlia non sa se sia morta o viva, ma stima che piú tosto sia morta.

CLERIA. Voi dite cose impossibili, e sète cosí bugiardo nell'uno come nell'altro. Mia madre, che so che è morta, dici che sia viva; e io, che viva sono, dici che morta sia.

PEDOLITRO. Io non ci ho, in questo, interesse alcuno, né per conto d'interesse direi la bugia: e non essendo di natura bugiardo, godo nel dir la veritá.

CLERIA. Dice che Cleria sia morta, e io viva sono: il testimonio t'è presente.

PEDOLITRO. Ed io ti dico che tu Cleria non sei. Ma tu conosci chi son io?

CLERIA. Certo, no.

PEDOLITRO. Tu non sai chi sia io? riconoscimi bene.

CLERIA. Quanto piú penso, men ti riconosco.

PEDOLITRO. Perché schivi che gli occhi tuoi s'incontrino con i miei? ti vergogni, ti arrossisci e impallidisci.

CLERIA. Perché odo cose di meraviglia.

PEDOLITRO. Ed io ti conosco molto bene in casa di Pandolfo napolitano, che tiene alloggiamento in Veneggia, dove sogliono alloggiare tutti i peregrini napolitani.

CLERIA. Che Pandolfo? che alloggiamenti? Quanto piú segni mi dái, men t'intendo.

PEDOLITRO. Che parlo arabico o tartaresco? Fai della stordita, per non accettar la veritá.

CLERIA. Fai tu del cattivo, per farmi accettare il falso.

PEDOLITRO. Non m'hai servito duo mesi in casa di Pandolfo in Vineggia, quando cadei infermo duo anni sono?

CLERIA. O Dio, che ascolto!

PEDOLITRO. Dico che tu sei Sofia, intendi? a chi dico io?

CLERIA. Non dici a me, che Sofia non sono, però non rispondo.

PEDOLITRO. Mi piace piú tosto dispiacer a te e dir il vero, che piacer a molti e dir il falso: dico che tu sei Sofia sua serva.

PARDO. Non è meraviglia se t'inganni, ché nieghi il nome di Cleria e le dái quel di Sofia: nieghi quel che vedi, e non conosci quel che ti sta innanzi.

PEDOLITRO. Anzi, ella dice esser quella che non è, e niega quella che sia; e ancora persevera nella bugia.

CLERIA. Anzi, tu pur ardisci d'infamarmi, che sia serva d'un alloggiatore.

PEDOLITRO. Non sei dunque Sofia? poveretta, perché inganni te stessa?

CLERIA. Non piaccia a Dio che fussi Sofia, che tu dici, che sería serva d'altri e non figlia d'un gentil uomo.

PEDOLITRO. Ancor credete a costei?

PARDO. Le stracredo.

PEDOLITRO. Qual cagion vi muove, che crediate piú a costei che a me?

PARDO. Io credo al mio figlio e al mio servo.

PEDOLITRO. Fate male a credere a questi: guardatevi che non v'ingannino.

PARDO. Chi è dunque costei?

PEDOLITRO. Colei che vi dissi da principio.

PARDO. Costei non è Cleria?

CLERIA. (Cosí ti avesse rotto il collo per la strada!).

PEDOLITRO. Non so perché mi cenni e mi fai cert'atti: che mi vuoi significare?

CLERIA. Io cenni? io atti? veramente sei fuor di cervello.

PARDO. Orsú, non moltiplichiamo in parole: figlia, sali su. Tu,
Pedolitro, poiché sei forastiero, vieni a desinar meco.

PEDOLITRO. Ho desinato. Andrò per saper alcuna novella de' miei.

PARDO. Potrete voi e vostro figlio fermarvi in casa mia e riposarvi, e poi a bell'aggio andar cercando de' vostri parenti.

PEDOLITRO. Non mi trattenete piú, di grazia.

PARDO. Almeno lasciate vostro figlio in casa mia, e voi andate cercando. Se li trovate vivi, verrete per vostro figlio; se non, restarete ad alloggiar meco.

PEDOLITRO. Questa cortesia accetto, che mio figlio resti con voi, mentre andrò cercando.

PARDO. Veramente, la venuta di costui m'ha posto in grandissima confusione; la mano di mia moglie è vera: perché costoro m'han detto, che sia morta? Dice che conosce costei in casa di un alloggiatore, e chiamata Sofia. A che proposito affermarlo cosí costantemente, se non fusse vero? E mi son ben accorto che arrossiva, impallediva, respondendo s'intricava, e non sapea quello che dicessi, e m'accorsi che l'accennava. Ma quello, che m'accresce il sospetto, è che in questo intrigo se ci trova intrigato il Trinca, che è il maggior trincato, furbo, allievo di forche, maestro di furberie. L'astuzia sua m'è di vergogna e di danno: e quando della vergogna poco conto ne facessi, ci è il danno di piú di cinquecento ducati. Ma ecco che vengono molto allegri. Vedrò come si risolveranno in questo fatto.

SCENA IV.

TRINCA, ATTILIO, PARDO, TURCO.

TRINCA. Padron, il vostro figlio sta in punto per le nozze, e vi priega che l'affrettiate.

ATTILIO. Sta medesimamente Erotico ad ogni nostro comando.

PARDO. Ben, chi vi disse che Costanza mia moglie era morta, e che Cleria fusse viva? Quando voi foste a Constantinopoli? perché non rispondi? Chi non risponde subbito, sta pensando alla scusa.

TRINCA. Come, non son stato io a Constantinopoli?

PARDO. Né tu né mio figlio.

TRINCA. Io non so come voi dite.

ATTILIO. (Ohimè, siamo rovinati!).

PARDO. Che rispondi?

TRINCA. Chi v'ha informato del contrario?

ATTILIO. (Come ti risolverai, Trinca?).

PARDO. Pedolitro, nostro cittadino, venuto ora di Constantinopoli, che ci andò quattro anni sono per riscuoter cotesto suo figlio; e mi ha recato lettera di mano di mia moglie che desia venire, e che di Cleria non si sa novella, molti anni sono. …

ATTILIO. (Mira la fortuna, a che ponto ha condotto costui di Turchia).

PARDO. … Dice che quella è Sofia, serva d'un allogiator in Vineggia: l'ho fatto affrontar insieme, e ce l'ha mantenuto in faccia.

ATTILIO. (Siamo spediti, non v'è piú rimedio. Trinca è perduto d'animo).

TRINCA. Padron, è cosí vero quanto v'ho detto, quanto l'amor che vi porto; e se trovarete il contrario, vo' che mi ponghiate in galera.

PARDO. Senza il tuo volere, ti ci porrò.

TRINCA. Vien qua tu: come tuo padre ha detto una buggiarda buggia? rispondimi. Vedete che tace.

PARDO. A che ti affatichi parlargli? non risponde, perché non intende l'italiano.

TRINCA. Gli parlerò in turchesco. Tu non mi scapperai. Cabrasciam ogniboraf, enbusaim Constantinopla?

ATTILIO. (O buon Trinca, o illustrissimo Trinca).

TURCO. Ben belmen ne sensulers.

PARDO. Che dice?

TRINCA. Che suo padre non fu mai in Constantinopoli.

PARDO. Dove dunque fu per riscuoterlo?

TRINCA. Carigar camboco maio ossasando?

TURCO. Ben sem belmen.

TRINCA. Dice che sono stati in Negroponte.

PARDO. Da Negroponte in Constantinopoli ci sono molte miglia.
Dimandagli che camino han fatto per venire in Italia.

TRINCA. Ossasando nequet, nequet poter levar cosir Italia?

TURCO. Sachina busumbasce agrirse.

TRINCA. Dice che son venuti per mare, e non passati per Vineggia.

PARDO. O Dio, che umori stravaganti sono negli uomini! Che cosa ha spinto colui a dirmi cosí gran bugia, che sia stato a Vineggia, e portarmi una lettera di mano di mia moglie? Che mondo è questo?

TRINCA. Bisognarebbe far un mondo a vostro modo, o riformarlo. Han falsificato la mano di vostra moglie, per farvi qualche burla.

PARDO. Certo che dovea star ubbriaco; e giá lo tengo per tale, che stava rosso nel volto.

TRINCA. L'avete indovinata: e or gli lo vo' dimandare. Siati marfus naincon catalai nulai?

TURCO. Vare hecc.

TRINCA. Ho detto marfus che vuol dire ubbriaco; ha detto che poco inanzi è intrato in una osteria nel viaggio, appresso Nola, e che ha bevuto molto bene, e che andava cadendo per la strada, e che appena or si potea reggere in piedi.

ATTILIO. (O Trinca divino, e come l'hai ben saldata!).

PARDO. Come in quelle due parole ha potuto dir tanto?

TRINCA. La lingua turchesca in poche parole dice cose assai.

PARDO. Orsú, ha voluto burlar Pedolitro. Quando ritorna, li vo' far un scorno da vergognarsene, e l'arò da oggi innanzi in quella opinione che si conviene. Andate a trovar Erotico; cercate Orgio, zio di Sulpizia, e diteli che stia apparecchiato per questa sera.

SCENA V.

PEDOLITRO, PARDO, TURCO.

PEDOLITRO. Ho ritrovato vivo un mio fratello cugino; or vo' andar con mio figlio a casa sua. Della amorevole offerta, signor Pardo, ve ne resto obligatissimo.

PARDO. Pedolitro, la giusta cagion, che me ne dái, mi fa prorompere in tanta rusticitá. Ditemi si avete imparato in Turchia a beffeggiar gli amici.

PEDOLITRO. Né qui né in Turchia è convenevole.

PARDO. Perché darmi ad intendere che sète stato in Constantinopoli e visto mia moglie Costanza, e Cleria mia figlia chiamata Sofia e conosciutala serva d'un alloggiamento in Vineggia?

PEDOLITRO. Tal è, qual vi ho detto.

PARDO. Come l'avete vista in Vineggia, se voi non vi sète mai stato?

PEDOLITRO. Ci son stato a mio dispetto duo mesi infermo.

PARDO. Se sète stato in Negroponte e venuto in Napoli per mare, come sète stato in Vineggia?

PEDOLITRO. In Negroponte? e quando? chi v'ha detto queste bugie peggior delle prime?

PARDO. Tuo figlio.

PEDOLITRO. Come mio figlio ha potuto dirvele, se non sa parlar italiano?

PARDO. Trinca, il mio servo, l'ha parlato in turchesco, che l'ha imparato a parlar in Constantinopoli.

PEDOLITRO. Questo ha detto mio figlio?

PARDO. Anzi, di piú, che avete bevuto nell'osterie e state imbriaco, e non sapete dove abbiate il cervello.

PEDOLITRO. Mi fo la croce. Ierusalas adhuc moluc acoce ras marisco, viscelei havvi havute carbulah?

TURCO. Ercercheter biradam suledi, ben belmen ne sulodii.

PEDOLITRO. Dice che è vero che un uomo l'ha parlato, ma che non intendeva che dicesse. Comis purce sulemes.

PARDO. Perché dunque li rispondeva?

PEDOLITRO. Accian sembilir belmes mie sulemes?

TURCO. Accian ben cioch soler ben sen belmen sen cioch soler.

PEDOLITRO. Dice che, quantunque gli rispondesse e li dicesse che non intendeva quello che se li dicesse, pur gli parlava. Aman hierl cheret marfus soler, ben men comam me sulemes?

TURCO. Aman hierl cheret marfus soler ben men comam me sulemes.

PEDOLITRO. Dice che sempre dicea marfus ; ma non possea imaginarsi che cercava da lui. Io stimo che il vostro Trinca sia un gran trincato e buggiardo e volpe vecchia.

PARDO. Dite voi che sia sí bugiardo?

PEDOLITRO. Ho errato in dir bugiardo, ma bugiardone.

PARDO. Voi accrescete l'ingiuria.

PEDOLITRO. Anzi dico bugiardissimo; anzi tengo per certo che vi abbi beffato.

PARDO. Non so che mi fa ostinato in saper la veritá di questo fatto. Di grazia, se mi amate, ditemi chiaramente se mi avete detto la veritá.

PEDOLITRO. V'ho detto la veritá, e ne torrei ogni pena per confirmarla, se ne fusse bisogno. Restate sano, che vo' andar a quel mio cugino.

PARDO. E voi andate salvo, poiché sète fatto libero.

PEDOLITRO. Ghidelum auglancic.

TURCO. Ghidelum baba.

PARDO. Io credo che si se cercasse per tutto il mondo fra vecchi canuti il piú balordo, stordito, goffo e scimunito, che sarebbe da me di gran lunga avanzato di balordaggine e di sciocchezza, perché m'accorgo che sono stato beffato, aggirato da quel furfante di Trinca e da mio figlio. L'esser stato credulo n'è stato cagione; e con aver sempre creduto che le bugie accompagnano ordinariamente le sue parole, e che mi voleva ingannare, non m'ha giovato crederlo. Ma s'io non me vendico, creda egli certissimo che sia goffo da vero, come mi stima. M'ha fatto sborsar trecento scudi e fattomi re de danari; ma io lo farò diventar re di bastoni. Mi vergogno di me stesso, ardo d'ira e di sdegno, ma suspico che trama d'amore ne sia cagione. Ma ecco mi sovragionge quest'altra seccaggine del capitano. Non so che voglia questa bestia da me; fuggirò per quella strada.

SCENA VI.
TRASIMACO, PARDO.

TRASIMACO. Fermatevi, gentiluomo, nella cui figlia è fondato il trionfo della illustre mia generazione.

PARDO. Ho da far altro, perdonatemi.

TRASIMACO. Sappiati che gli occhi balenanti e altitonanti di vostra figlia han fatto piú effetto nel mio cuore, che le bombarde e artigliarie ne' fianchi de' baluardi: onde io, che prendo le cittá, castelli e campi, son preso e ligato dalle sue bellezze. Sí che, deposta l'orribilitá del mio rigore e ammollita la feritá, vengo a chiederlavi per moglie, per non far mancar al mondo la razza de pari miei, e far una dozina di Marti, un'altra di Bellone, di Orlandi e di Rodomonti, e arricchirne il mondo: onde può tenersi la piú fortunata e felice donna che viva, e cosí voi a cui non poca autoritá vi recará la qualitá della mia persona.

PARDO. Non ho tempo da spendere in chiacchiere.

TRASIMACO. Fermatevi, dispetto di Marte. Si trattengono a ragionar meco la maestá di quel di Spagna e del Gran Turco, e voi non vi degnate ascoltarmi.

PARDO. Spedetela in brevi parole.

TRASIMACO. Quanto v'ha detto di me quel furfante di Gulone, tutto è mentita.

PARDO. M'ha detto che sète un gran capitano e ricco e veritiero.

TRASIMACO. E se fosse un par mio, lo disfidarei, nudo, con meza cappa, ad uccidersi meco in un steccato, ché per manco d'un pelo ci son entrato cinquanta volte.

PARDO. Poco me se dá.

TRASIMACO. E son cavaliero da tutti i quarti: cerchesi nel mio parentado, tutte son croci di Malta, di S. Stefano, di S. Giacomo e di Calatrava.

PARDO. Forse dubitavano che non li fusse pisciato adosso.

TRASIMACO. E quando veniva a mangiar meco, ho fatto come son solito di far a' miei squadroni: il pan a monti, i buoi a quarti, i capretti a squadre, il vino a botti: e se butta piú in casa mia, che non se ne vede in quelle de' gran signori.

PARDO. Ben bene.

TRASIMACO. E vo' che veggiate che conto tengono di me i principi del mondo: ho pieno il petto, i calzoni e le valiggie di lettere che mi mandano. Ecco quella a punto del Gran Turco: All'illustrissimo e strenuissimo cavaliero, il capitan Trasimaco de Sconquassi, mio carissimo amico e generalissimo delle mie genti. Ecco quella del re Filippo: Al venerabilissimo e stupendissimo capitan Sconquasso de Sconquassi de Squassamenti, mio lugar teniente e general de' miei esserciti. Ecco quella del re di Francia: Al mio amatissimo Colonello e Maestro, sotto il quale ho imparato la milizia. Ecco quella de' veneziani e di altre republiche, ch'io non ne tengo conto; e io non son uomo di bugie, ma m'è cara la veritá.

PARDO. È tanto cara, che la serbate per voi; né ve ne cavarebbe una di bocca quante tanaglie ha il mondo.

TRASIMACO. Però non bisogna dar credito a furfanti; e volendo informarvi chi sia, andate in Persia e dimandate di me, che feci nella guerra fra turchi e persiani; andate in Tartaria e dimandate al Gran Can; andate al Giappone e dimandatene il re Quabacondono; gite nell'Indie, nel Messico, in Temistitan, e dimandate alli caccichi Abenemuchei, Anacancon, Aguelbana, Comogro, Ciapoton, Totonoga e Caracura, e altri e altri: cosí saprete chi sono.

PARDO. Mi vo' partir or ora per cotesti luoghi, e come mi sarò informato, tratteremo del matrimonio. A dio.

TRASIMACO. Almeno vi parteste con piú creanza; ma t'escusa la vecchiaia, che tutto il mondo non ti scapparebbe dalle mie mani. Assai mi curo io di tua figlia! Ho le regine che mi pregano: mi dava una sua figlia il Turco, s'accettava il bellerbeiato della Grecia; una sorella il Principe di Transilvania, se voleva esser suo vaivoda; la regina Lisabetta d'Inghilterra mi volea per marito, se volea pigliar la sua protezion contro Filippo secondo. Ma buon per te, che ti sei partito; ché or, che mi bolle il sangue, non mi terrebbe il rispetto ch'eri un vecchio rimbambito, barboggio. Non dovevi invecchiare, se non volevi diventar cosí ignorante.

SCENA VII.

TRINCA, TRASIMACO.

TRINCA. (Ecco il capitano. O che maladetta sia la bestia, che ha piú dell'asino che del cavallo: non ho visto maggior poltrone che mangi pane: vorrei farlo venire alle strette col parasito: gonfiarò il ballon del suo capo con mantaci di vantamenti).

TRASIMACO. Férmati, o tu, di grazia; ch'or che ferve l'ardor dell'ira, e son tutto rabbia e furore, e la colera mi soverchia—ché l'induggio, che si frapone alle vendette, allarga le ferite del cuore,—vo' che sii spettatore del castigo, che vo' dar a quel poltron di Gulone, perché sei stato relator delle mie ingiurie.

TRINCA. Io non vorrei che ti attaccassi adosso inimicizia cosí grande; e bisognerá grand'animo a torsela con esso.

TRASIMACO. Puttanaccia, che me la faresti attaccare. Ho tanto animo che non lo cape il mondo tutto, e, standovi dentro, mi par di star in forno; desiderarei che fussero mille mondi, per stanziarvi piú a largo. Povero Alessandro Magno, che lo capiva un solo!

TRINCA. Parlate basso, di grazia, che non fusse qui da presso, e vi sentisse.

TRASIMACO. Sia maladetta quella maladettaccia sgualdrinaccia della fortuna, che mi fa udir questo. Ch'io parli basso? qual barba d'uomo mi basta a far paura? Vo' gridar che mi oda: vo' chiamarlo. O Gulone, Gulone, o furfantissimo Gulone!

TRINCA. Egli ha poca voglia di far bene: verrá gonfio d'ira a far questioni.

TRASIMACO. Lo farò scoppiare a calci. Va', chiamalo da parte mia.

TRINCA. Andrò a far l'ambasciata a vostro rischio: avertite che capitarete male: bilanciate prima e contrapesate le vostre forze.

TRASIMACO. Io, quando avampo di furia e di sdegno, son piú furibondo e ho piú furie adosso che le furie dell'inferno; e voltando gli occhi furiosi sopra alcuno, i lampi che n'escono fuori, lo brusciano vivo vivo. Lo farei fuggire, ancor che fusse Marte: sappi che son nato dentro le miniere di ferro, nodrito fra gli acciai; né il mio cuor ebbe mai altro oggetto che infringere, ingoiare e smaltir gli uomini e i cavalli, armati di metalli e di bronzo.

TRINCA. Quando Gulone ha fame, è bravo, è un mezo Orlando.

TRASIMACO. Egli bravo? o Marte, e chi è al mondo di me piú bravo, che fo venir la quartana all'istessa bravura? Se fusse altro che tu, che ardissi dirmi questo, li schiacciarei la testa com'una caldarrosta. Come egli si vedrá intorno questa statuaccia del mio corpo, queste spallaccie di Atlante, con questi torreggianti gamboni, con queste nerborute braccia fulminar la mia taglianasi, troncabraccia e mietigambe, tu vedrai i motivi che fará. Considera se son bravo, vedi che viso sfreggiato.

TRINCA. Piú bravo fu quello che te lo sfreggiò!

TRASIMACO. Voglio dir che non fuggo né volto le spalle.

TRINCA. Né quello fuggí o ti voltò le spalle, quando sfreggiotti il viso.

TRASIMACO. Ma bisogna allontanarsi da me, ché, quando ho prese l'armi e sto in furia di menar le mani, l'ira ministra fuoco e fiamme: cosí m'incarno e m'insanguino, la vista mi s'accieca di sorte, che non conosco né amici né parenti, tutti gli guasto egualmente; e le tintinnate della mia spada s'odono un miglio.

TRINCA. Eccolo che viene: o che portamento bizarro!

TRASIMACO. O che portamento da bestia.

TRINCA. (Stimo che oggi arò a crepar delle risa: sapendo quanto l'uno e l'altro sia poltronissimo, sarò spettatore di un mirabil duello). Sará ben che m'allontani io.

TRASIMACO. Fai da savio pòrti al sicuro. Ben venuto il poltrone.

SCENA VIII.

GULONE, TRASIMACO, TRINCA.

GULONE. Ben trovato il poltronissimo.

TRASIMACO. La mala ventura ti ci ha condotto, ché ti ammazzi.

GULONE. Sí, pidocchi, come sei uso.

TRINCA. Capitano, ti vuoi uccider con Gulone?

TRASIMACO. Sí, bene.

TRINCA. E tu, Gulone, ti vuoi uccider col capitano?

GULONE. Volentieri.

TRINCA. Orsú, fatela da valent'uomini, uccidetevi insieme.

TRASIMACO. A me non conviene por la mia autoritá in bilancia con un par suo. O molto indegno della grandezza dell'animo mio! E poi a questo duello ci manca una degna corona di signori e di cavalieri spettatori, che mi dessero poi quello applauso che merito, e rendessero la mia vittoria piú famosa. Poi, per non esser la sua profession d'armi, vo' che ceda l'impeto dell'ira alla ragione e alla nobiltá della mia creanza: gli vo' far conoscere che son vero nobile, e cosí vo' vivere e morire, però non voglio competere altrimente con lui.

TRINCA. Ah, capitan valoroso, cosí vi fate fuggire di mano un'occasion di farvi illustre? non saresti un pusillanimo, se schivaste un cosí onorato pericolo?

TRASIMACO. Vien qua tu; è vero che hai detto mal di me? ché vo' farti in mille pezzi, ti guasterò tutto.

GULONE. Sí, che è vero.

TRASIMACO. Or, poiché hai confessato il vero, ti vo' perdonare. Tristo te, se me dicevi la bugia, tanto m'è nemica.

GULONE. Io voglio dir di nuovo mal di te.

TRASIMACO. Fatti in lá che non lo senta, ché non me ne curo.

GULONE. Io vo' che tu lo senta.

TRASIMACO. Tu mi vai punzecchiando e mi offendi troppo indiscretamente: non lo comporterò, cancaro!

GULONE. Ti venga a mente come m'hai disfidato: e son rissoluto uccidermi teco.

TRASIMACO. Arcitonante Giove, che audacia è la tua? Tu mi fai inserpentire, inantropofagare, improcustire, inneronire: con un sgraffio ti sconquasserò tutto, ti sganghererò le mascelle e i denti, che non potrai piú mangiare.

GULONE. Ed io quella lingua, che non potrai dir bugie.

TRASIMACO. Ti sminuzzerò le braccia, che non ti potrai piú imboccare.

GULONE. Ti romperò quella testa busa, priva di cervello, ché non vi nascano tanti grilli.

TRASIMACO. Ti torcerò quel collo, che non dará tanta briga al manigoldo, quando ti ará a strozzare: cosí non divorerai tante panelle, ché hai fatto carestia alle botteghe.

GULONE. O che manigoldo amorevole, o che franca lancia.

TRASIMACO. O che franca pancia. Ti farò dir altrimente, quando ti vedrai intorno questo fianco di balovardo…

GULONE. Bel balordo che sei.

TRASIMACO. … con questa spada in mano…

GULONE. Con un spedo piú tosto, ché saresti meglio guattero di tinelli.

TRASIMACO. … frapparti il viso.

GULONE. Tu non hai altro che frappe.

TRASIMACO. Non sei uso, com'io, alle batterie.

GULONE. Alle baratterie sei uso tu.

TRASIMACO. Alle bòtte di bombarde e di artegliarie.

GULONE. Di correggie, stimo io.

TRASIMACO. Mira il furfante che, burlandosi di me, scherza con la morte. Fatti indietro, poltrone.

GULONE. Ti sei fatto indietro tu, prima che lo dicessi. Tu sei come il gallo d'India: gonfia la gola, arrossisce la cresta, apre l'ali e le batte intorno, e sbuffa come si volesse far qualche gran cosa, poi si ritira. Férmati, schiuma de forfanti.

TRASIMACO. A tradimento, ah? cosí se tratta con i pari miei, trattenermi su le parole e poi attraversarmi le braccia? Falla da gentiluomo.

GULONE. Non fui mai gentiluomo: la farò da quel che sono.
Ingenòcchiati, raccomanda l'anima a Dio.

TRASIMACO. E che, mi vuoi ammazzare?

GULONE. Tu sei indovino.

TRASIMACO. Se fussi indovino, non sarei venuto a questo termine: almeno fammi una grazia, fammi viver due ore sole.

GULONE. Perché due ore?

TRASIMACO. Che mi mangi quello apparecchio che avea fatto in casa per te; e, dopo mangiato, fammi morire, ché morrò contento.

GULONE. Che apparecchio era il tuo?

TRASIMACO. Una porchetta con una crustina sopra, che, masticandola, ti stride sotto i denti, poi si dilegua in latte in bocca; un pasticciotto di ostreghe boglite nel lor medesimo umore, che fanno a lor stesse un intingolo suavissimo, con certi aromati che ti fanno trasecolar la gola; un tegame di beccafighi con lardo e presciutto e cime tenere di zucche, di cui l'odore farebbe risuscitar i morti; una torta alla lombarda; con un vin prezioso di amarene che bacia, morde e dá calci.

GULONE. Ahi, traditore, mi cavi l'anima col tuo apparecchio: e' par che mi tocchino la cima del fegado. Se con l'imaginazione ne godo, che sarebbe quando fussimo su l'atto prattico? e lo dici a tempo, che ho lo stomaco piú vóto d'una vessica sgonfiata, e il pulmone brusciato per la sete. Ma tu mi vuoi tirar dietro questo tuo cibo, come i mastri di caccia tirano gli astori e li falconi; però a te non mancherá di mangiare: ti darò alcune nespole, che te le mangi per amor mio; e comincia ad assaggiarle, ché, per esserno un poco acerbe, non so come le manderai giú.

TRASIMACO. Ah, furfante! genti a piè, genti a cavallo, soldati, centurioni, dove sète? Olá, para, piglia! paggi, staffieri: e quando sarai stracco?

GULONE. Ecco, son stracco e ti lascio.

SCENA IX.

TRASIMACO, TRINCA.

TRASIMACO. Amico, son partiti?

TRINCA. Sí, bene.

TRASIMACO. E non ci è rimasto alcuno?

TRINCA. Niuno.

TRASIMACO. Mirate, di grazia, con diligenza.

TRINCA. Niuno: ché tante parole?

TRASIMACO. E vi paion parole queste? son tutte bòtte e gagliardissime e di gran carico.

TRINCA. Veramente, carico delle vostre atlantiche spalle. Ma dove è la vostra bravura? come nebbia, il vento l'ha portata via, e s'è sparita.

TRASIMACO. Fortuna cagnaccia! Orlando non volea combatter se non con un solo; e io aver cento assassini sopra!

TRINCA. Non fu piú di un solo.

TRASIMACO. Fur piú di cento con l'arme in asta. Trinca. Non vi fur arme, solo l'asta.

TRASIMACO. Fur piú di cento, ti dico.

TRINCA. Non piú di uno, canchero! ti dico.

TRASIMACO. Cento cancheri, ti dico io.

TRINCA. Chi lo può saper meglio di me, che vi fui presente, e l'ho visto con questi occhi?

TRASIMACO. Chi lo può saper meglio di me, che ho patito le maladette bòtte su le braccia, sul collo e su le spalle, che andavano tutte a pieno, e parea che cadessero dal cielo?

TRINCA. Non fu piú di un solo.

TRASIMACO. Come? se mi sentiva piú legni addosso che non ha un bosco; e dove mi voltava, non vedeva altro che bastoni e cielo, e mi pareva che tutte le legne del mondo si fussero congiurate contro le mie spalle.

TRINCA. Non fu piú di un solo, ti dico.

TRASIMACO. Se avesse avuto cento braccia come Briareo, non potea far tanto macello: mi scoppettizava, mi bombardeggiava su le spalle, a guisa di batteria.

TRINCA. Un solo fu.

TRASIMACO. Perché non avisarmi? sei uomo di poca discrezione.

TRINCA. Mi pensava che volessi usar qualche stratagemma di guerra, qualche astuzia di gran capitano.

TRASIMACO. Io non consumo tempo in astuzie e stratagemme militari, mi risolvo alla prima.

TRINCA. Stimava che volessi straccarlo; e come fusse stracco delle braccia, saltargli adosso e strangolarlo.

TRASIMACO. Io mi terrei a vergogna uccider genti stracche, non son cose da pari miei vincer con astuzie; ma poiché era un solo, perché non entrar in mezo e avisarmi?

TRINCA. Dio me ne guardi, che mi fusse posto in mezo: mi avisasti prima, che, quando stavi infuriato, ammazzavi gli amici e gli nemici.

TRASIMACO. È vero quanto dici; ma, essendo un solo, dovevi avisarmi.

TRINCA. Vi sète portato, con le spalle, da un Orlando, e avete fatto un gran resistere; non l'arebbon sofferte dieci asini e dieci muli: e con poco decoro avete difeso il gran decoro della vostra capitanía.

TRASIMACO. Ci ho fatto il callo a simil battaglie, non è questa la prima volta: eccomi qui sano e salvo, in carne e in ossa; mi è passato il dolore, e sento piú dolore che sia stato un solo, che delle bòtte.

TRINCA. Lo potete andare a trovare, se volete far la vendetta.

TRASIMACO. Bisogna tempo e commodo per le vendette, e non correre a furia. E poiché s'è fuggito, mi si rimollisce lo sdegno. Vo' perdonargli; e come soglio vincer tutti, cosí vo' vincere me stesso. Viva, viva! e io insieme con lui. A dio.

TRINCA. A dio. Non ho visto poltron simile a costui, a giorni miei.

ATTO IV.

SCENA I.

CONSTANZA vecchia, sola.

CONSTANZA. Io non posso se non infinitamente ringraziare Idio, poiché egli infinitamente m'ha favorito. Chi credesse mai che, stata vent'anni schiava in man de turchi, mi fusse donata la libertá dal mio padrone, per esser omai decrepita, e postami, con alcuni cristiani riscattati in compagnia, in una nave, venisse a Vineggia e indi a Nola mia patria? O terreno desiderato del paese! o aria, quanto mi sei piú cara di tutte l'arie del mondo! Se la fortuna mi favorisse in farmi trovar Pardo, il mio marito, e Attilio, il mio figlio, vivi, le perdonarei la servitú di vent'anni e la perdita di Cleria mia figlia; mi faria dimenticar de tutti i passati disaggi; né io arei che piú desiderar in questa vita. Ma veggio un giovane venir costá; dimanderò di lui.

SCENA II.

TRINCA, ATTILIO, CONSTANZA.

TRINCA. Veramente, quel vento che minacciava tempesta, s'è dileguato in semplice ruggiada. Quel maladetto nolano, venuto da Constantinopoli, ci avea posto in evidente pericolo di perder quello che avevamo fin qui oprato felicemente.

ATTILIO. Mi era confuso e alienato di sorte, che era posto giá in disperazione; ma tu, con quella pronta bugia del parlar turchesco, la rimediasti assai bene.

TRINCA. Una bugia a tempo val tant'oro.

CONSTANZA. Gentiluomini, mi sapreste voi dir se Pardo Mastrillo fusse vivo?

ATTILIO. È vivo e in buona sanitade ancora.

TRINCA. (Cosí fusse egli morto e sotterra!).

CONSTANZA. Ed Attilio suo figliuolo?

ATTILIO. E Attilio parimente.

CONSTANZA. Idio, per colmarmi d'ogni contentezza, m'ha voluto racconsolar con la vita di l'uno e di l'altro.

ATTILIO. Chi sète voi, che tanto vi rallegrate della lor vita?

CONSTANZA. Son una donna che, quando Pardo e Attilio sapessero ch'io son viva e qui venuta, ne arebbono quella allegrezza che ne ho io.

ATTILIO. Ditelo, di grazia.

CONSTANZA. A voi non appertiene saperlo.

ATTILIO. E forse me s'appertiene piú che ad altri, perché io son
Attilio suo figliuolo.

CONSTANZA. Ed io son Constanza tua madre, che or giunge da Constantinopoli, con assai piú desiderio di vedervi che della propria mia acquistata libertade.

TRINCA. (Ecco l'altra perturbatrice d'ogni nostro bel disegno).

ATTILIO. (O Idio, che non si può nel mondo godere un bene, che non sia mischiato di alcun male: ecco, acquistando la madre, perdo il mio bene).

TRINCA. (Avemo resistito al primo impeto della fortuna; or non si può piú, alla gran tempesta che ne ondeggia intorno).

ATTILIO. (O mal, come vieni presto! o ben, come vieni tardo!).

TRINCA. (La sua venuta scompiglia quanto abbiam tessuto della nostra tela; e se l'altre se han potuto rimediare, a questa non ci ha rimedio alcuno).

ATTILIO. (Ho pregato Idio, che mi facesse veder mia madre, per non esser cosa, che piú desiderasse di vedere; or che la veggio, desidererei esser morto per non vederla, ché perdo Cleria, e io non vedrò mai piú cosa che mi piaccia). Voi dunque sète Constanza?

CONSTANZA. Io son quella infelice donna che venti anni son stata schiava di genti barbare.

ATTILIO. O madre, quanto mi sarebbe stata cara la tua venuta, se a piú opportuno tempo venuta fosse.

CONSTANZA. Figlio, non intendo che vogliate dire.

ATTILIO. Dico che in ogni tempo che voi foste venuta, fuor che in questo, la vostra venuta mi sarebbe stata oltre modo gratissima.

CONSTANZA. (Mi pensava che benigna fortuna m'avesse condotta in porto, alla mia patria conducendomi; ma or da contraria tempesta mi veggio risospinta fuori: la mia venuta, che stimava che fosse desiosamente desiderata, la veggio esser scacciata con fastidio). Figlio, se il mio venir ti apporta qualche noia, di grazia fammene consapevole.

ATTILIO. Madre, la cagion di ciò non può raccontarsi senza fastidio; entrate in casa, che è ben di ragione che avendo sofferta tanti anni la servitú di quei cani e tanti travagli nel viaggio, che vi riposiate; ma togliete a me ogni riposo, perché, entrando voi, ne cacciate me: sète voi fatta libera, per pormi in servitú: voi acquistate la patria, io perdo la patria e quanto possedeva. Né arei pensato mai che la vostra venuta fosse stata accompagnata da tanta amaritudine.

CONSTANZA. Figlio, non mi trafissero mai tanto i morsi della servitú, quanto or mi trafiggono i vostri dispiaceri. Onde vi prego per quello amor, che è ragionevol che mi portiate, che mi manifestiate la cagione del disturbo; ch'io, cosí povera feminella come sono, sarò da tanto di tornarmene in Napoli e viver mendicando disconosciuta, per non darvi vergogna: che, se ben la nobiltá nelle miserie fa risvegliar i spiriti generosi e signorili, con l'esser stata tanti anni schiava son spenti in tutto.

ATTILIO. Conosco, carissima madre, avervi offeso, e però mi vergogno manifestarlovi.

CONSTANZA. L'offese de' figli alle madri non passano la pelle: non sará mai tanto grande, che non sia vinta dall'affetto materno. Voi tacete? Manifestatela, figlio, ché troverete quel che vi dico.

ATTILIO. Madre, se promettete di perdonarmi e di rimediarvi, che di un male non se ne faccino molti, vi spiegherò il fatto come passi.

CONSTANZA. Ti giuro, figlio, per quella grande affezion che ti porto, che spenderei questo avanzo di vita in tuo serviggio. Che se non m'adoperassi per un figlio, per chi debbo adoprarmi io?

ATTILIO. Poiché cosí volete, vi scoprirò il tutto. Mi mandò mio padre con trecento scudi in Constantinopoli, per lo vostro riscatto. Venni in Vineggia per imbarcarmi per colá, e m'innamorai di una giovane bellissima, spesi i trecento ducati nel suo riscatto, la sposai, tornai a Nola, e diedi ad intendere a mio padre che voi eravate morta, e che avea riscattata Cleria, la mia sorella. E sotto nome di Cleria è stata ricevuta, per non dargli tal disgusto in quel poco tempo che potrá sopravivere. Or voi, entrando in casa e dicendo che quella non è Cleria vostra figlia, lo farete morir di dolore, né si terrebbe sodisfatto se non mi diseredasse e mi cacciassi fuor di casa.

CONSTANZA. E s'io dicessi che quella fusse Cleria mia figlia, ti saria di contento?

ATTILIO. Grandissimo.

CONSTANZA. Vi prometto dirlo; e l'accetterò per figliuola e per mia dilettissima nuora, mentre vivo, per amor vostro. Non sapete voi che le madri condescendono agevolmente a i desideri de' figliuoli, e li sono aiutrici verso i padri?

ATTILIO. Madre, ciò facendo vi arò piú obligo che della vita che donato mi avete, quando mi partoriste; ché, amando costei piú dell'istessa vita, donandomi costei, mi donate la vera vita.

TRINCA. Ma bisogna, padrona, quando v'incontrate, usar quelle accoglienze come si fosse la propria Cleria vostra figlia; e dimandandovi di alcune cose, le sappiate rispondere e, di quelle che non sapete, tacere.

CONSTANZA. Non son tanto goffa, che non sapesse fingere questo poco; e quando mai far non lo sapessi, l'amor che vi porto, mi sará miglior maestro che costui: so quello che si debba dire e tacere, e non me lo farò dir piú d'una volta.

ATTILIO. Trinca, sali su, fa' calar mio padre, che venghi a ricever la sua moglie tanto desiderata; e avisa la mia Cleria del trattato.

TRINCA. Volentieri.

ATTILIO. Or l'accoglienze, madre cara, che non vi ho fatte al primo incontro, datemi licenza che le facci ora, che possa abbracciarvi e baciarvi a modo mio. Madre, cara sopra tutte le madri, madre che mi sei per natura e per obligo, madre che due volte dái la vita al tuo figliuolo, che farò, mentre sarò vivo, per disubligarmi da tanto beneficio?

CONSTANZA. Poco è, figliuolo, quello che domandi che faccia per amor tuo; e prima che qui giungessi, ho desiata occasione di servirvi tutti.

ATTILIO. Ecco mio padre.

SCENA III.

PARDO, CONSTANZA, ATTILIO.

PARDO. O Constanza, carne mia, sei tu dessa over io non son io? o è forse questo un sogno? o fingo imagini a me stesso del desiderato bene? Tu sei ben dessa, e me ne sono assicurato, che con piú d'una guardatura ho confrontato l'imagine tua con quella che nel cuor impressa mi lasciasti.

CONSTANZA. O marito, marito caro, che, avendo perduta la speranza di non averti mai piú a rivedere, or veggendoti e abbracciandoti, non lo credo.

PARDO. O moglie cara, o quanto ho pianto il mio peccato di averti mandato a chiamar da casa tua per condurti in Polonia, preponendo la mia comoditá al tuo discomodo.

CONSTANZA. Posso dir che, tenendovi cosí abbracciato, tengo la cosa piú desiderata che abbia al mondo.

PARDO. Ed io l'anima mia; ché, rimasto senza te, rimasi un cadavero. Oh quanto mi sei or cara viva, poiché tanto t'ho pianta morta? ché, avendo mandato il mio figlio in Turchia col riscatto, mi riferí ch'eravate morta. Piaccia a Dio s'allonghi tanto la vita mia, che faccia a te quella servitú che per mia cagione hai fatta a quei cani.

CONSTANZA. Bastami che m'amiate per l'avvenire, quanto m'amavate prima, o che m'amiate a par di quello, che v'amo io: che mi fará subito dismenticare de' disaggi della passata servitude.

PARDO. Moglie, mi sento venire meno per l'allegrezza.

CONSTANZA. Ed io non posso tener le lacrime.

PARDO. Vo' che abbiate un'altra allegrezza, che veggiate Cleria vostra figlia.

CONSTANZA. O Dio, che sommamente desio vederla.

PARDO. Attilio, va' su e fa' calar la tua sorella.

ATTILIO. Vado.

PARDO. Come sète venuta cosí sola.

CONSTANZA. Lungo tempo bisogna, consorte mio, a narrar sí lunga istoria della servitú sofferta fra quei cani, de' lunghissimi travagli del viaggio, che non son stati minori.

PARDO. Ecco la tua figlia Cleria. Oh come, nel vedersi l'un l'altra, son tramortite ambedue! Oh, quanto è l'amor grande tra la madre e i figli! O Dio, che sará questo? o Cleria, o Cleria, o Constanza mia, risvegliatevi!

SCENA IV.

CLERIA, CONSTANZA, PARDO, TRINCA.

CLERIA. O cara madre, o madre!

CONSTANZA. O figlia, o figlia!

PARDO. Mira, figlio, che affezione, che non puon saziarsi d'abbracciarsi e di stringersi. Mira che lacrime mescolate di dolore e di dolcezza. Orsú, non piú abbracciare e piangere; e non conturbate col pianto cosí desiderato contento.

ATTILIO. Padre, mira che non ponno parlare.

CONSTANZA. Ed è pur vero, o figlia, che da poi sí lungo tempo ti riveggia?

CLERIA. O madre, come insperatamente vi veggio!

Costanza. Mentre eri tu, figlia, meco, la servitú mi era leggiera e assai dolci i travagli, e per te mi smenticava di quella fortuna; ma, dopo che da me fosti separata, me si raddoppiaro gli affanni e ogni piacere m'era dispiacevole e noioso.

CLERIA. Imaginatevi, cara madre, che non conoscendo al mondo altra che voi, e poi essendomi tolta, che disperazione era la mia.

CONSTANZA. Figlia cara, come ti trovo in casa di tuo padre?

CLERIA. Separata da voi, fui comprata da un sangiacco, e avanzando io in etá, s'invaghí di me quel cane; la moglie ne divenne gelosa, e, quando ei si partí per affari del Gran Signore, mi consegnò ad un servo, che mi vendesse. Cosí capitando mio fratello in Constantinopoli, mi riscattò da quello e mi condusse qui a casa seco.

CONSTANZA. Sia lode a Dio del tutto.

PARDO. Troppo sarete lunghe, se volete qui raguagliarvi delle passate fortune. Entrate, moglie, a riposarvi; che non mancherá tempo a questo. Attilio, aiuta tua madre; io, tua sorella.

ATTILIO. Cosí faremo.

SCENA V.

TRINCA, CONSTANZA, ATTILIO.

TRINCA. Padrona, non siamo stati defraudati della speranza nostra, perché avete oprato piú di quel che ne prometteste: veramente l'amor della madre avanza tutti gli altri. Che lacrime ardenti ho visto sparger da gli occhi vostri! che affettuosi abbracciamenti! che vivi motivi di materni affetti! Sto per inchinarmi e baciarvi i piedi, per tanto obligo che v'ho per rispetto del mio padrone, e del mio; che, scoprendosi l'inganno, era spacciato il fatto mio.

ATTILIO. Il fingere è stato tanto naturale, che confesso l'arte aver superato la natura. E chi sarebbe stato che, veggendovi, non avesse giurato che quella fusse la tua vera Cleria? e voi la sua madre? O cara madre sovra tutte le madri, lasciate che vi baci le mani: e quando mai potrò ricompensarvi cotanta affezione?

CONSTANZA. Figlio, non bisogna che m'abbiate obligo alcuno per ciò, perch'io non ho finto cosa alcuna. La giovane, che innanzi condotta mi avete, è la vera Cleria tua sorella, ché insiememente fummo rapite da' turchi.

ATTILIO. Ohimè, che dici?

CONSTANZA. Quel che la conscienza mi sforza a dire.

ATTILIO. Cleria è mia sorella?

CONSTANZA. Cosí tua sorella, come io tua madre: conceputi d'un istesso seme, portati nove mesi e partoriti dal medesimo ventre mio.

ATTILIO. O crudeli effetti di fortuna, o essempi di somma infelicitá, o infelice versaglio di compassione! e qual penitenza emenderá il mio fallo? Dunque, sarò marito e fratello di mia sorella, padre de miei nipoti e zio de miei figliuoli? sarò genero vostro e di mio padre?

CONSTANZA. Figlio, l'ignoranza fa men colpevole l'errore del tuo non fallo. Guardati per l'avvenire non abusar la conversazione e l'amor di tua sorella, amala di puro e sincero amore: se la tocchi, toccala come sorella; se l'abbracci, abbracciala come sorella, ché, abbracciandola altrimenti, abbracciaresti la tua infamia e vitupèro.

ATTILIO. O madre, come può esser questo? che ricordandomi de quei primi fiori colti della sua bellezza, de' passati piaceri che ho gustati nella sua conversazione, delle godute bellezze e de' posseduti tesori delle sue grazie, che non cerchi spenger quelli ardenti e infocati effetti di amore nel godimento della sua persona?

CONSTANZA. Avézzati a poco a poco a non mirarla, perché dalla vista dell'amata persona cresce la fiamma nell'intime midolle; avézzati a non parlarle, perché le parole son via alla concupiscenza: fuggi, quanto puoi, di trovarti da solo a solo con ella, accioché l'occasione non susciti l'uso, e ti conduca a qualche reo e biasmevol fine; allontánati da lei per qualche tempo, perché la lontananza degli occhi genera la lontananza dal cuore, e con generosa pazienza sopporta lo sforzo della tua inclinazione.

ATTILIO. Ahi, che non per cangiar loco si cangia il core; e se il luogo disunisce, amore unisce i cuori. E queste cose son facili a persuadere, ma impossibili ad essequirsi.

CONSTANZA. Lascia pensieri cosí sensuali e desidèri cosí brutti, e lasciatevi governare dal freno della ragione.

ATTILIO. Pazzo è chi stima ch'uno innamorato possa reggersi da freno di ragione, perché l'animo è in tutto offuscato dall'amorose passioni.

CONSTANZA. Trovatevi un'altra sposa od innamorata piú bella.

ATTILIO. Amor non vuol cambio. O Cleria, in un medesimo tempo ti racquisto e ti perdo. Ritenerti non lece, ricusarti non posso: racquisto una sorella, perdo una sposa; e tu medesimamente acquisti un fratello, ma perdi un amante. O gran mutazione de' nostri desidèri! O padre, non puoi dolerti piú di me, che t'abbia ingannato e non dettoti il vero: mi desti danari per riscattar la sorella e la madre, ecco v'ho riscattata la sorella e condottala a casa tua: e hai avuto da me quanto hai desiderato. Né io posso dolermi se non di me stesso, perché solo ho ingannato me stesso.

CONSTANZA. Figlio, del male almen n'è uscito un tal bene.

ATTILIO. Ahi, che tanto movimento di sangue, che mi occupò il core nella prima vista, stimava che fosse dalla tua bellezza; ma era dalla forza del sangue, perché eravamo nati di un medesimo sangue; e io sciocco non me ne accorgeva. O madre, quanto m'è cara la tua venuta, tanto m'è acerba: questo giorno me ti dá e me ti toglie: nel giorno, che hai conosciuto tuo figlio, lo perderai: questo è il primo giorno che mi vedi, e l'ultimo che mi vedrai, che è forza che mi parta dalla casa, dalla vita e dal mondo tutto.

CONSTANZA. Chi ti vieta, o figlio, che non vivi e stia in casa tua?

ATTILIO. O che crudel ricordo, ch'io viva! vuoi che resti vivo, per vedermi vivere d'un perpetuo morire? a chi non può scampar in modo alcuno, gli è assai men grave il morire. La morte è un dolce porto de' miseri, a niuno è chiuso, raccoglie tutti; e vuoi che resti in casa mia? La casa mia m'era cara per colei che ci abitava meco; ma, poiché con quella non lece piú, torrò da me stesso un perpetuo essiglio per non tornarci piú mai. Mi sarebbe la casa un vivo inferno, un perpetuo incendio ardente. O Idio, che insopportabil dolore è quel ch'io sento, o qual miseria è che pareggi la mia? o che gran meraviglia è ch'io viva! O Cleria, io ti perdo, senza ch'altri me ti toglia; e sendo in casa mia, onde niuno mi caccia, è forza che ti lasci e abbandoni. Per esser tu troppo congionta meco, è forza che da te mi disgiunga. O leggi, o costumi umani a me contrari! S'armano contro me le leggi e i costumi de gli uomini. O madre, che amara novella m'hai tu data! o quanto piú grata mi saresti, se conceputo non m'avessi o generato in questa vita, overo uccisomi nella cuna. Che obligo debbo averti della vita, che m'hai data, se con una amara nuova mi togli la vita e l'anima insiememente? Goditi, madre, la tua figliuola nuovamente acquistata, e lascia che il tuo figlio vada tapinando per il mondo, senza suspetto che tratti piú mai con la sorella.

CONSTANZA. O che disgrazia è la mia! pensava dar allegrezza alla mia casa, e sono stata istrumento e ministra di crudel ufficio. Mi pensava che scampata dalla servitú di genti barbare e ricovratami nella mia casa, avesse vissuto il restante della mia vita, felicissima. Ma sarebbe stato per me meglio, che fusse restata in man de' turchi, povera vecchia e disgraziata, e non fosse qui venuta spettatrice d'una miserabil tragedia. Ahi, che non è cosa stabile o felice sotto le stelle! Figlio, era mia intenzione darvi piacere e non disgusto.

TRINCA. Padrona, andate su e non fate penar vostro marito in aspettarvi. Ecco il compagno dell'allegrezze e de gli affanni vostri.

SCENA VI.

EROTICO, ATTILIO, TRINCA.

EROTICO. Attilio mio, che rammarichi son i tuoi? Qual sí grave accidente ti tien l'animo cosí occupato, che t'ha trafigurato il sembiante? Voi tacete? forse non è cosí grave il dolor vostro?

ATTILIO. Tal, che men grave non può trovarsi. La fortuna opra cose impossibili, ma possibili per farmi misero.

EROTICO. Deh, narratemi la cagione.

ATTILIO. Deh, lasciami accompagnato dalla mia miseria, che viva in quella, poiché cosí comanda la mia disgrazia; e non vogliate saperla.

EROTICO. Ditela, ché non è mal senza rimedio.

ATTILIO. Solo al mio male non può trovarsi rimedio. O voi, che con medicine cercate fuggir la morte, venete a scambiarla con la mia vita; ché, quanto piú chiamo la morte per rimedio de' miei mali, ella da me piú s'allontana. Che sia maladetta l'ora che nacqui, maladetto chi mi pose nella cuna, e maladetto chi mi diede il latte che bevei!

EROTICO. Siate, o amico, conforme a voi stesso nella passata vita: che animo debole è il vostro? ingannato piú tosto dal dolore che dalla ragione? Che? s'è scoverto forse, che avete ingannato vostro padre e l'avete tolto i danari?

ATTILIO. Anzi s'è confirmato che non è stato ingannato, e son stati spesi i danari in quello che proprio desiderava.

EROTICO. Forse la vostra Cleria v'è stata tolta da casa, e avete carestia della sua vista?

ATTILIO. Sta in casa, né se ne partirá piú mai, e morrò per la troppa copia.

EROTICO. V'è stato forse interdetto il poter trattare e il ragionar con lei?

ATTILIO. Anzi, piú trattar e conversar con lei senza sospetto; e sarò un nuovo Tantalo, star affamato in mezo i frutti che li pendono intorno, e assetato in mezo l'acqua.

EROTICO. S'è forse scoverto che non sia vostra sorella?

ATTILIO. Anzi, perché s'è scoverta mia sorella.

EROTICO. Di che dunque vi dolete, s'è creduto quello che con tanta diligenza avete finto?

ATTILIO. L'esser scoverta mia sorella ha rotto tutti i miei e vostri disegni.

EROTICO. Parlate troppo confuso, distinguete, troppo gran cose dite in brevi parole.

ATTILIO. Il mio male è di sí perversa sorte, che l'animo s'inorridisce di spavento e la lingua non basta manifestarlo.

EROTICO. Dillomi tu, Trinca.

TRINCA. È gionta Costanza sua madre poco fa da Turchia, e ha detto che
Cleria è sua vera sorella carnale.

EROTICO. Cleria sua sorella? o mostruoso accidente, o caso inaudito!

ATTILIO. O amor iniquo, e qual peccato commisi io mai, che avessi ad innamorarmi di mia sorella? O Cleria, che mai t'avessi vista, o avendoti vista non mi fossi piaciuta tanto, né ti avessi amata con sí fervido amore! Oimè, che son fuor di cervello: non so chi sia stato, chi sia, né chi debba essere. Son dispettoso, colerico e disperato: dubito che non s'apra la terra e m'inghiottisca, né so come mi sostegna. Son odioso agli uomini e a Dio, né so se viva al mondo uomo di me piú disgraziato.

EROTICO. Il vostro miserabilissimo caso è degno di compassione e mi ha commosso l'animo; e il buon amico deve esser officioso in dar consiglio e aiuto al suo amico nella cattiva fortuna, e nol facendo ne ha da render conti alle leggi dell'amicizia. Ma io confesso che non so né che aiuto né che consiglio possa darvi. Ma che pensate di fare?

ATTILIO. Morire per far meco morire la morte mia: ogni cosa mi dispiace, eccetto la morte: però piangerò tanto, sospirerò tanto, finché essalerò lo spirito per la bocca e stillerò per gli occhi l'avanzo della mia vita.

EROTICO. Deprimete tanto caldo e tanta furia di amore.

ATTILIO. Amor quanto piú si cerca deprimere, piú si rinforza.

EROTICO. Il tempo alleggiará il dolore.

ATTILIO. Ahi, che il tempo non scancellará dal cor mio sí bella imagine, che con tanta fermezza ci fu impressa, né scancellará la memoria delle gioie passate. E che son altro quei ricordi che seminari inesausti di dolori?

EROTICO. Mirando altre bellezze di donne, ti smenticherai delle sue.

ATTILIO. Ed in qual troverò io quell'aria celeste che si vede in quel suo volto divino? in qual quelle suavi parole che parean uscire da la bocca de gli oracoli? dove quelli atti pieni di maestá? dove i tesori della sua bellezza?

EROTICO. La pacienza fa il tutto.

ATTILIO. O che debol rimedio è la pacienza!

EROTICO. Fate della necessitá volontá, e passarete bene. Ma a voi, che vi detta il pensiero?

ATTILIO. Molte cose mi vanno per la fantasia, ma una sola riuscibile: partirmi e andar disperso per il mondo.

EROTICO. Dove anderete?

ATTILIO. Dove non è via, dove non sono genti, al sole, alla neve, alle tempeste.

EROTICO. Chi vi fará compagnia?

ATTILIO. Sdegni, confusioni, spaventi, dolori, gemiti, suspiri e disperati pensieri.

EROTICO. Che commoditá portarete per i disaggi de' camini?

ATTILIO. Angoscie, amaritudini, la morte istessa.

EROTICO. Di che viverete?

ATTILIO. Della propria morte.

EROTICO. Deh, caro amico, non lasciarti cosí trasportar dal dolore! E quel legame d'amicizia, che insieme ne stringe, mi astringe che non ti lasci partire.

ATTILIO. A dio, caro amico. Quando ti ricorderai del mio pietoso caso, vengati pietá di me; non ho mancato dalla mia parte a far che Sulpizia fusse la tua. Trinca, resta felice, e Dio ti facci servir piú fortunato padrone di me: mi dispiace non poterti dar condegno premio de' tuoi fideli serviggi, ché mai nacque piú degno servo di te sotto le stelle: abbi compassion di me, che non posso sodisfarti, che, se gli oblighi restassero nell'anima dopo la morte, ti resterei obligato in eterno.

EROTICO. Dimmi, caro fratello, come Cleria saprá il principio della tua partita, non sará il fin della sua vita? che sai che deliberazione ará ella fatta, e desia fartene consapevole? Onde, se non bastano i miei prieghi, per quel nome di Cleria, che ti fu sí caro un tempo, che vi fermiate per questa notte sola in casa mia. Consigliamoci fra noi, che dobbiam fare. Non è gran tempo questo che vi domando. Inviamo Trinca, intanto, in casa vostra, e sappiamo che dica o faccia Cleria, perché io ti vo' far compagnia.

ATTILIO. Quel nome di Cleria, che fu prima lo spirito della mia vita, or è morte della mia vita; però, se m'amate, non me la nominate piú. Amor prima ci giunse, or crudel fortuna ci disgiunge; né ho altra speranza, che sol morte ne congionga. Io vo' andarmene solo; ché come il mio dolore è solo e senza pari, cosí solo e senza compagno vo' andar tapinando; e non m'uccidete piú con l'aver pietá di me. Ahi, che mi voglio partire, e non posso, ché tutti i spiriti miei son occupati da un mortale dolore! Trinca, or che vai in sua casa, dille che il suo fratello va a morire, che pianga la mia morte, che non mi potrá avvenir cosa piú cara, che veder le mie essequie onorate dalle sue lacrime.

TRINCA. (Erotico caro, or che sta cosí addolorato, forsennato e inesorabile, tiriamolo in casa vostra, ché gli innamorati si assordano a' consigli che li son dati; ch'io andrò in casa fra tanto).

EROTICO. Attilio fratello, perdonami, si t'uso violenza in strascinarti in casa mia.

ATTILIO. Oimè, chi mi tira? dove sono? deh, perché, amico, non m'aiuti?

SCENA VII.

PARDO, GULONE.

PARDO. (E pur mi capita innanzi questo ghiottonaccio).

GULONE. (Ecco questo vecchio di Caronte, spavento di cimiteri: non posso fuggirlo). Signor Pardo, Idio vi dia il buon giorno.

PARDO. E a te dia Dio il malanno e la mala pasqua.

GULONE. Par che siate adirato meco.

PARDO. Toglimiti dinanzi, che mi vien voglia farti cader da bocca cotesti tuoi denti.

GULONE. Poca offesa t'han fatto sempre i denti miei.

PARDO. Me l'ha fatta la tua lingua.

GULONE. La mia lingua v'ha sempre lodato.

PARDO. Le lodi ch'escono dalla lingua di un par tuo, son vergogne degli uomini da bene.

GULONE. La mia lingua mai offese alcuno.

PARDO. Hai la lingua doppia come quella delle serpi, che punge e avvelena; però sparisci via, assassin, furfante.

GULONE. Avete potestá dirmi quel che volete, perché vi son schiavo. Morrei piú tosto che restar di non mangiar teco, e ci mangiarò oggi a vostro dispetto.

PARDO. T'ho detto che sei un furfante.

GULONE. Ed io vi dico che sète uomo da bene. Avemo detto una bugia per uno.

PARDO. Fa' che tu non accosti piú alla tavola mia.

GULONE. Che diavolo stimi, che se non ho la tavola con mesal bianco, ornato di frondi e di fiori, e di salvietti fatti a torrioni, che non sappia mangiare? buon vino e buona carne fa l'effetto.

PARDO. Non te n'è mancato in casa mia.

GULONE. Sí, carne di asino, di quelli che portano le pietre per le fabriche, tutti pieni di cancheri e di guidaleschi: e se pur qualche pollo, senza testa, senza piedi e senza ali, e senza fegadelli e ventricelli, che te ne servivi per l'insalate, ti veniva tronco a tavola, che parea che fosse stato alla rotta di Ravenna. Bisognan pollastroni e galli d'India intieri intieri, ogni cosa a tavola alla tedesca, i catini pieni, e ogni un piglia quel che vuole.

PARDO. Creanza de pari tuoi! dopo aver diluviato e tracannato a tuo modo, vai dicendo il contrario.

GULONE. Minestre fredde e vin caldo, che bisognava tormi da tavola piú morto di fame, che quando ci venni.

PARDO. Mi dispiace l'onor che ti ho fatto; ma tu non pratticherai piú meco.

GULONE. Ed a che mi può servir la tua vecchiezza? a darmi consiglio?
Io non ho bisogno di consiglio, né fo mai cosa con consiglio.

PARDO. Se non vai via, chiamerò alcun di casa, che ti spezzi l'ossa.

GULONE. Chiama Mazzafrusto o Sgraffagnino che mi prendano.

PARDO. Vo' entrarmene in casa, per tormi questa bestia dinanzi.

GULONE. A tuo dispetto, or vo ad un banchetto in casa d'un amico.

SCENA VIII.

SULPIZIA, EROTICO.

SULPIZIA. (Ecco il turbator della mia pace; e pur ardisce alzar gli occhi su le mie fenestre!).

EROTICO. (Se l'imaginazione non mi rappresenta il falso, mi par che un chiaro splendore del mio sole venghi a ferirmi gli occhi: ella è pur dessa. Vo' salutarla). Io vi saluterei, signora, se non facessi il contrario, perché ogni salute e ben ch'io spero, non può venirmi altronde, se non da lei. Ma faccivi Idio cosí lieta e contenta, come v'ha fatto la piú bella e graziosa dell'universo.

SULPIZIA. Rendati Idio cosí infelice e disgraziato, come tu hai me reso infelice e disgraziata.

EROTICO. Oimè, che è quel che sento? sète voi dessa, over io son un altro? e che parole son quelle che odo?

SULPIZIA. Quelle che mi detta il dolore, partorite da giusto sdegno, e quelle di che la tua infedeltá me ne dá cagione.

EROTICO. E da quella bocca di perle e di oro posson uscir parole tanto odiose? Di grazia, se lo fate da scherzo, non le dite da vero. E che altro è dirmi questo, che scannarmi con le man vostre?

SULPIZIA. Toglitime dinanzi, brutto cane.

EROTICO. O anima mia, se da te mi scacci, a chi devo ricorrer io? dove mi scacci, se le tue bellezze mi tengono legato con troppo saldi legami, e la luce de tuoi begli occhi m'è sí cara, che come nuova farfalla corro ad accendermi e morire in sí bel foco?

SULPIZIA. Le tante cortesie, ricevute da me, non meritavano tal guiderdone.

EROTICO. Ho conosciuto veramente tanta gran cortesia non meritarla; ma la vostra gentilezza me ne ha fatto degno.

SULPIZIA. Queste paroline melate usi tu per ingannar le povere semplicelle, per giongere a quel termine che desiate, e poi lasciarle. Ingannevoli volpi, che non desiate di noi se non la pelle. Sei forse ritornato per farmi alcuna nuova offesa?

EROTICO. E che offesa vi feci mai, o mia generosa signora? E se pur vi sentite offesa da me, fate che lo sappia, che la confessarò e mi sottoporrò ad ogni penitenza; e da quella sarete forzata confessare che non vi ho offeso.

SULPIZIA. Dimmi, traditore, ch'offesa ti feci io mai, se non l'averti amato piú del dovere? quanto tempo son stata nemica di me stessa per amar te? ché ti diedi l'imperio d'ogni mia volontá e comprai il tuo amore a costo dell'onor mio. All'ultimo, per guiderdone, spenta la vergogna, la giustizia e l'onestá, tradesti l'amore, la sposa e la fede; e mi lasci beffeggiata, schernita e rifiutata.

EROTICO. Io schernir voi? e quando fu altro desiderio in me, che di servirvi e onorarvi e spender la vita per l'onor vostro? se non come voi meritevole, almeno come le deboli forze mie. Ed è possibile—o amarissimo nodrimento della mia vita!—che da miei suspiri, e dalle lacrime ardenti che spargono gli occhi miei, non sia scaldato quell'agghiacciato gelo del vostro cuore, e non vi faccino piena fede della mia innocenza? E le tante esperienze fatte dell'amor mio non v'hanno giá fatta chiara quanto io v'ami? Qual iniquo destino ha turbata la serenitá de' nostri cuori, quella suavitá, quella dolcezza di due anime congionte insieme, come son state sí gran tempo le nostre? dove è quella fede che fu sí sincera fra noi?

SULPIZIA. Toltoti sia quel cuore fallace e disleale da quel petto, nido dove non si covano mai se non inganni e tradimenti; e quella lingua traditrice e bugiarda, la qual usi se non per ingannar coloro che si fidano in quelle tue parole. E come io sperava fede da un cuore, ove non ce ne fu mai?

EROTICO. Io non posso altro rispondervi che, come signora e reina che mi sète, v'è lecito fare e dirmi ogni ingiuria che volete. Ma non son questi i frutti, che sperava dalla vostra gentilezza e dalla nobiltá dell'animo suo, che per ragion di mondo e per giustizia sète obligata di rendermi.

SULPIZIA. Or che lo sdegno m'ha tolto quel velo dagli occhi, che cieca mi rendeva, e conosciuti i tuoi tradimenti, ti vo' fare ammazzare, e poi ammazzarmi io ancora; e mi consolarò nella mia morte con la tua morte. Ti publicarò per quello assassin che sei, che ancor dopo la morte resti l'infamia tua; farò che non goderai di questo tuo nuovo amore, ché, scoverte le tue furfantarie, ti abbi il mondo per quel che sei. Spu, spu!

EROTICO. Ahi, che la tigre non è cosí fiera, e non è fera tanto efferata come la donna bella; e una bella si dee fuggir come una fera. Voi volete farmi ammazzare? fermatevi, signora, e vi priego, se pur v'è rimasta qualche reliquia viva del primo amore, che vi degnate di esser spettatrice di questo ultimo segno, che posso darvi dell'infinito amor che v'ho portato e che vi porto, perché dinanzi a gli occhi vostri, come a mio idolo terreno, vo' trafiggermi con questa spada, e consegrarmi vittima vostra. Misero me, che sdegno è questo? che donna sdegnata è peggio che tigre. Dubito che alcuno non l'abbi dato qualche falsa informazione di me, e me le abbi figurato per disleale e discortese. O forse che le donne sono volubili: e come la luna fa una volta il mese, elle si voltano cinquanta volte il giorno; o forse quando la luna è scema di lume, a lor le si scema il cervello. Sono come fanciulli, che vogliono e non vogliono, e non san star in un proposito, o sono mobili come il vento—e chi s'impregna di vento, partorisce aria;—o perché sono vogliose e desiderano sempre cose nuove; o forse è lor costume peculiare di dar sempre dispiaceri e tormenti a coloro da' quali si conoscono essere amate e riverite. Né si contentano della signoria de nostri corpi, se non sono tiranne dell'anima ancora; e vogliono che commettiamo idolatria in amar loro, come si fussero dèe. E quando il diavolo per lor mezo fece peccar l'uomo, ci lasciò quella maladetta diabolica ambizione d'esser adorate come lui; né lasciano di tormentarci mai, se non vedono che sono adorate. O maladetti piaceri, che si gustano in amore; ché, se pur alcun se ne gusta, vien sempre mescolato con la paura di aver a finir fra poco tempo; anzi, quanto piú ti vedi amar fuor di misura, piú dá certo presaggio d'aver piú tosto a finire. E la fortuna, per esser femina, è sempre instabile e inconstante. Sperava questa sera sposarla: ecco la nostra favola ha mutato faccia. Ella è cosí meco sdegnata, che non sia per rappacificarsi piú giamai. Almen incontrasse la balia, ché m'informasse da lei, che ingiuria è quella che dice aver da me ricevuta. Ma eccola che vien.—Balia, tu sia la ben trovata.

SCENA IX.

BALIA, EROTICO.

BALIA. Io non vo' dirti il mal trovato. Ma mi meraviglio come non ti vergogni di comparirmi dinanzi.

EROTICO. A me questo?

BALIA. A te questo.

EROTICO. E dici da vero?

BALIA. E ti par che in un tale accidente non si parli da vero?

EROTICO. Tutte due se sono accordate contro me. Ed è possibile che non possa conoscere donde proceda questo sdegno? che non apro la bocca per dimandare, che mi saltano adosso infuriate, che non mi lasciano dir le mie ragioni?

BALIA. Pensava che i piaceri, che ti fussero stati fatti, ti avessero posto in obligo da non sciortene giamai; ma tutto è stato fatto al vento, malvaggio, ingrataccio, che tu sei.

EROTICO. È possibile che le donne abbino a pigliar tutte le cose per la punta, né vogliono ascoltar cosa, se non quelle che si confanno alla natura loro?

BALIA. Cosa da gentiluomo! dopo cavate le voglie, van le povere donne per le lingue del volgo e per le bocche degli uominacci, e raccontate per essempio d'infelici.

EROTICO. Ascoltami due parole, per amor de Dio.

BALIA. Non bisognan piú belle parole né lacrime, instrumenti da ingannar le povere donnecciuole. L'amore è converso in odio, e il piangere accresce lo sdegno.

EROTICO. Ed è possibile che non vogli lasciar l'ira per un poco e ascoltar le mie ragioni?

BALIA. M'incolerisco di sorte, che se mai mi dispiacque d'esser donna, mi dispiace ora; ché si fussi uomo come te, ti caverei quelle intestine dal corpo. Ma, se non me ti togli dinanzi, cosí donna come sono, ti caverò cotesti occhi con i diti, e ti strapparò il naso dalla faccia con i denti; e me ne insanguinarei insino all'unghie, cane ingrato e disconoscente.

EROTICO. O che tu sei fuora di te o che ti sogni? che diavol t'ho fatto io, che non puoi temprar la lingua dall'ingiurie e narrarmi il fatto come passi?

BALIA. Non posso piú patire l'importunitá e la mala creanza di costui.

EROTICO. Meglio sará entrarmene ad Attilio e tormi dinanzi l'occasione di qualche nuovo errore.

BALIA. Veggio Orgio, e m'ha vista ragionar con Erotico, disgraziata me!

SCENA X.

ORGIO, BALIA.

ORGIO. A dio, buona donna.

BALIA. Sí, che son buona donna, e se nol credi, te ne giurerò!

ORGIO. Ti ho colta sul fatto, non puoi piú negarlo. Giá m'hai chiarito di quanto ne stava suspetto.

BALIA. Che gran cosa che m'abbiate visto parlar con un giovane?

ORGIO. Che parlavi di cose di stato, di astrologia o di filosofia?

BALIA. Non si può dunque parlar d'altre cose?

ORGIO. Le baliaccie, che han figliane da marito, parlando con i giovani, non puon dar buon odor di loro. Né fu mai figlia puttana, che la madre o la balia non le sia stata ruffiana.

BALIA. Non vi potete doler di me, padron mio.

ORGIO. Se tu m'avesti stimato padrone, e non una bestia, non mi aresti trattato nel modo che m'hai trattato.

BALIA. Di che vi dolete di me?

ORGIO. Chi ha portate e riportate l'ambasciate fra quel giovane e
Sulpizia? o ridotti i loro amori nel termine dove or sono?

BALIA. Volete dunque dir che vostra nipote sia una puttana, e io una ruffiana?

ORGIO. Sotto sí onorata maestra non potea imparar altre opre di quelle ch'ave imparate.

BALIA. Questo guadagno dopo la servitú di trent'anni in casa vostra?

ORGIO. Questo guadagno io con te, dopo averti amata e onorata trent'anni in casa mia, che al fin avesti a svergognarmi la nipote?

BALIA. Mai la casa vostra è stata cosí onorata e riverita, come mentre ci son stata io.

ORGIO. Mi doglio ritrovarmi qui nella strada publica, che non vorrei far i vicini consapevoli de fatti miei, ché per risposta ti vorrei far cader questi pochi denti che ti sono restati in bocca, e trarti quei pochi capelli che ti ha lasciati il mal francese; ma faremo i nostri conti in casa, quando manco ci pensarai.

BALIA. In casa vostra non entrerò piú mai, poiché in tal stima ci son tenuta.

ORGIO. Tu ci entrerai per tuo dispetto, se non di buona voglia.

BALIA. Io per forza?

ORGIO. Tu sí, e ti strascinerò per li capelli.

BALIA. Oimè, oimè, vicini, aiuto, aiuto!

ORGIO. Ci bisognano uomini e non asini, a governar queste bestie.

ATTO V.

SCENA I.

BALIA sola.

BALIA. A questo modo, eh? come l'infame e le cattive? Per ogni minimo disdegnuccio, subito sbalza di casa, e delle buon'opre di tanti anni non ce ne ricordiamo; né basta il caricarci di male parole, ma di bastonate ancora. Le bastonate dunque sono il prezzo della servitú di trent'anni? E come le vecchie sien cagion de tutti i mali: «Caccia la vecchia, uccidi la vecchia, impicca la vecchia e squarta la vecchia». Ma appiccata e squartata sia da dovero, s'io non me ne vendico: se non posso vendicarmene con le mani, me ne vendicarò come posso: ne farò tal vendetta, che non ti vanterai di avermi fatto ingiuria. Me ne andrò alla casa di Pardo; e li manifesterò un fatto, che li farò sborsar molte migliaia di scudi; e so che cavandosegli quei scudi di mano, li fará peggio che se li cavasse il fegato, il polmone e il core. Forse che gli rincresce, all'assassino, del mal fatto? o viene a darmi qualche buona parola per sodisfazione e acchetarmi? Mira in che stima mi tiene! Ma perché piú perdo tempo in lamentarmi, e non batto la porta di Pardo? Toc .

SCENA II.

PARDO, BALIA.

PARDO. Che buona nuova, balia mia?

BALIA. Vengo con buona intenzione di farvi bene.

PARDO. Ed io vi ricevo con miglior volontá.

BALIA. Vi priego per l'antica amicizia che è stata fra noi, per la vicinanza e per l'etá vostra veneranda, che piacciavi darmi udienza per poco tempo.

PARDO. Balia mia, ho gran piacere che me si porga occasione d'impiegarmi ne' tuoi comandi, per aver tanto tempo conversato fra noi domesticamente, come buoni vicini.

BALIA. Vengo a scoprirvi alcuni secreti di Orgio, che v'importano, poiché egli per i suoi mali trattamenti non mi dá cagione che gli abbia a nascondere.

PARDO. Mala cosa è porsi fra dua che son stati gran tempo amici; che, raffreddatosi quell'impeto della colera, si riconciliano insieme e restano poi nemici i mezani.

BALIA. Non ci è luogo di riconciliazione piú, né che speri mai piú entrar in casa sua, poiché egli mi ha dato delle bastonate cosí sconciamente.

PARDO. Se ben v'ha trattato male per ira, giá non ne morrai per questo.

BALIA. Orgio, dopo la servitú di trent'anni, mi paga con prezzo di tanta ingratitudine.

PARDO. Ma che sète per dirmi?

BALIA. Sappiate che Cleria, che vi fu rapita da turchi, e vi costò tanti dinari a riscattarla, non è vostra figlia, ma è Sulpizia, figlia di Filogono; e quella Sulpizia, che è in casa nostra, è Cleria vostra figliuola.

PARDO. Come dite voi questo? e come lo sapete?

BALIA. Lo dico, che niuno lo può saper meglio di me, ed è cosí. Quando voi generaste la vostra Cleria, la deste alla moglie di Filogono, che la lattasse, perché egli era allor poverello ed era vostro vicino: ella si lattò la sua Sulpizia, che ora è in casa vostra, e a me diede a lattare la vostra Cleria, sotto nome di Sulpizia.

PARDO. E perché tanto assassinamento?

BALIA. Perché voi eravate in quel tempo, come ora sète, oltra modo ricchissimo, ed egli poverissimo: ché, dando a voi la sua figliuola, l'avreste maritata nobilissimamente, e la vostra figliuola, essendo egli poverissimo, l'arebbe umilmente collocata, con speranza che, dopo la vostra morte, si fussero scoverti a lei per veri padre e madre, e ch'ella fusse costretta poi darli onorevol vitto, e da sua pari. Eccovi la cagione.

PARDO. E può cader in cuor di uomo un cosí nefando pensiero?

BALIA. Ma la morte privò l'uno e l'altra di tanta speranza, e Idio ne ha fatto la vendetta per voi, ch'essendo eglino venuti poi in miglior fortuna, arebbono voluto manifestarvi l'inganno e riaver indietro la loro figliuola; ma vi fu rapita da turchi: e allora piansero amaramente il peccato e il gastigo di Dio, e se ne moriro ambiduoi di disperazione e di doglia. Ma Filogono lasciò la robba ad Orgio suo fratello, con condizione che, riavendosi la loro Sulpizia, cioè la da voi stimata Cleria, se li consignassero diecimila ducati di dote, e, non ricuperandosi, si dessero alla vera vostra Cleria, cioè la stimata loro Sulpizia, duemila ducati per lo suo casamento, e il restante ereditasse Orgio suo fratello. Or, scoprendosi che la vostra Cleria è figlia vera di Filogono, sará forzato questo furfante darle diecimila ducati di dote: e cosí io li vengo a far questo danno e le mie vendette.

PARDO. Ma che certezza arò io, che la vostra Sulpizia sia la mia vera
Cleria?

BALIA. Sulpizia vostra è di pel rosso, come voi sète; gli occhi azurri, come i vostri; e il volto simile al vostro: e, se ben vi ricordate, ha una macchia rossa nel braccio sinistro, come goccia di vin rosso.

PARDO. O Dio, veramente mi ricordo di quella macchia rossa, e parmi or di vederla; e nella vostra Cleria mai piú ve l'ho vista. Ma io non conseguisca mai desiderio in mia vita, se, sempre che ho vista Sulpizia, non mi sentiva un certo movimento di sangue per la persona, tra carne e pelle, e non potea imaginarmene la cagione. La natura veramente facea l'ufficio suo, e per una certa occulta affezione l'ho sempre richiesta ad Orgio per darla per moglie ad Attilio, e ancor senza dote. O Dio, in che peccato era io per incorrere! Ma ben fece Orgio, che non lo volea mai consentire. E da che Attilio mi ha condotta la vostra Sulpizia in casa, non mi ha avuto mai grazia, né l'ho mirata mai di buon occhio. O vecchio per tanti anni deluso! Ma sai tu chi ha fatto il testamento di Filogono?

BALIA. È quel notaio che sta appresso la casa vostra.

PARDO. Lo conosco benissimo. Voi potrete trattenervi in casa mia, finché vi torni commodo, se non volete tornar nella vostra: e trattarete con Costanza mia moglie, che oggi è gionta da Turchia, e ragionate de' signali, finché vada al notaio e veda il testamento di Filogono; ché ritrovandosi vero quanto dici, come so che è ben vero, ne arai tal mancia, che ne restarai sodisfatta.

BALIA. Non ricerco altrimente mancia di ciò: mi gravava la conscienza sopra questo, e mi vendico di quel scostumato vecchiaccio che mi ha cosí bestialmente mal concia.

SCENA III.

ORGIO solo.

ORGIO. Veramente l'ira è una mala consigliera, e trasporta l'uomo a cose, che poi non se ne può piú ritirare, perché l'animo alterato è cagion di molti moti disordinati. La rabbia troppo acuta, che mi mosse cosí subito, fe' che mi ricordasse piú tosto dell'error suo che del debito mio; perché d'una cosa, che ne potea far passaggio, ha fatto che non abbia avuto rispetto alla servitú di trent'anni, onde io medesimo son stato ministro del mio male. Ho visto la balia ragionar lunghissimamente con Pardo, e son certo che l'ará rivelato della figlia quanto è stato occulto fin ora, perché non ci era altri vivo che lo sapessi. Dogliomi del mio fratello, che d'una cosa, che volea ch'ad altri fusse occulta, non dovea farne consapevole una fantescaccia: ché le cose, che si devono tener occulte, non deve l'uomo fidarle a persona: ché, se l'uom istesso non può tener secrete le cose sue, come si spera ch'altri le voglia tener secrete? Si guardò di me, che l'era fratello, e si fidò della balia; ché non lo seppi mai, se non quando fece testamento. E ho per certo che questa cicalona ce l'ará raccontato, perché ho visto ancora Pardo avviarsi per quella strada, dove abita il notaio, per veder il testamento. O veritá, quanto sei difficile a nascondere, o quanto facile a discoprire, che non può l'uomo tanto giú sepelirti, quanto piú tu assumi di sopra! Giá par che di ora in ora me lo veggia di sopra, con gridi, con minaccie e con ingiurie, che gli restituisca la figliuola sua e che mi tolga la mia: e il peggio sará, che bisogna che sborsi diecimila ducati per la sua dote. Conosco aver errato; ché non dovea cosí rigorosamente castigar la balia, e dovea considerar ch'era vecchia, che i vecchi per se stessi sono colerici e ritrosi. Ma ogni uomo, che spunta di lá, mi par che sia Pardo e che dica:—Dammi la mia Cleria e togliti la tua Sulpizia. Ma eccolo che viene, e alla volta mia. Idio mi aiuti.

SCENA IV.

PARDO, ORGIO.

PARDO. Fermatevi, Orgio, che ho da parlarvi. …

ORGIO. (Questa ragionata non sará buona per me: che li torni la figlia).

PARDO. … So che siamo vecchi e arrivamo agli ottanta, e abbiamo a star assai meno al mondo, che non siamo stati: anzi abbiamo il piede in staffa per partirci per l'altro mondo, dove non ci è ritorno. …

ORGIO. (Il prologo della predica). Questo è il peggio.

PARDO. … E morti che siamo, abbiamo a render stretto conto delle nostre azioni a Dio, e molto piú delle restituzioni delle robbe, né si rimette il peccato se non se restituisce il rubbato. …

ORGIO. (Quando dovemo riscuotere, siamo predicatori; quando dovemo pagare, siamo diavoli).

PARDO. … Or che siam vivi, possiam rimediare a quello che non possiamo, essendo morti. E tristi coloro che lasciano gli eredi, che restituiscano; che, come la robba ha fatto carne e sangue con l'uomo, non si restituisce piú mai. …

ORGIO. Di grazia, venghiamo al fatto: ché giá è passata quaraesima, e mi volete far ascoltar la predica.

PARDO. Vostro fratello, di benedetta memoria…

ORGIO. (Di maladetta!).

PARDO. … mi scambiò la figlia, tenendosi la mia propria, e mi diè la sua per la mia. …

ORGIO. Ascoltate.

PARDO. Ascoltate, di grazia, voi, e non m'interrompete, accioché non cominciate a negar la veritá, e poi, negata, la vogliate defendere fin alla morte; e vengamo a liti, contrasti e questioni. Non accade nasconder quel che è palese: ho visto il testamento; e quel che lascia a sua figlia, quando si palesi il fatto, è quanto vi dico.

ORGIO. Io so ben che…

PARDO. … Dio ce 'l perdoni! che essendomi tolta da turchi, ho mandato mio figliuolo sin in Constantinopoli a riscattarla; e mi costa piú di cinquecento ducati, senza l'altre spese e travagli. Però toglietevi la vostra Sulpizia e restituitime la mia Cleria.

ORGIO. … ancor ch'io potessi con qualche convenevole scusa difendermi da questa calunnia, io non so farlo; ma confesso liberamente che mio fratello ebbe torto.

PARDO. Di grazia, non entriamo in rettoriche; né bisogna mi doniate quello che non mi potete vendere. Vo' la mia figlia.

ORGIO. Di grazia, non vi alterate e non alzate cosí la voce. Toglietevi la vostra figlia, ma non l'onor mio; ché, restituendovi poi la figlia, voi non potete restituirmi l'onore. Toglietevela quando volete, ché non vi si niega.

PARDO. Sia ringraziata la bontá divina, che prima scoverto si sia che sposati insieme; e che abbiamo spedito un negozio senza farci sentir dal mondo: e resteremo amici, come siamo stati sempre. Andiamo a casa mia o nella vostra, a far il cambio.

ORGIO. Eccomi pronto a quanto volete.

PARDO. Venete a casa mia, che mangiaremo insieme, e poi ragionaremo de fatti nostri.

ORGIO. Non posso, ho che fare, ci vengo con l'animo.

PARDO. Vo' che ci vengáti in persona; e per la porta di dietro mandaremo a chiamar Sulpizia vostra, ch'io spasimo di vederla: e vi prego, concedetemi questa grazia.

ORGIO. Faccisi quanto comandate.

SCENA V.

EROTICO, ATTILIO.

EROTICO. (Mira fortuna! m'è forza di confortar costui, e ho bisogno di esser confortato io). Fermatevi, ché voglio esser partecipe delle vostre fatiche e compagno nelle vostre sciagure; ché le nostre fortune poiché hanno una conformitá fra loro, andiamo insieme.

ATTILIO. Avendo per compagno un amico cosí caro come voi sète, la mia sciagura diverrebbe fortuna: però vo' andarmene solo e disperato.

EROTICO. Il disperarsi è un tradir se stesso, e, tradendo voi, tradite me insieme con voi: però consultiamoci un poco.

ATTILIO. L'anima mia è in tanta confusione, che non ci è luogo alcuno per consolazione.

EROTICO. Ascoltate una parola.

ATTILIO. Non ho tempo.

EROTICO. Vi spedirò subito.

ATTILIO. Son contento; ma fate presto.

EROTICO. A cosí maladetto, insolito e sregolato accidente, andandoci con buon ordine, è temperamento di effetto.

ATTILIO. Orsú, hai finito?

EROTICO. Non mi accurtate il tempo che mi avete dato.

ATTILIO. Voi lo prolungate piú di quello che v'ho promesso. Ho tanto in odio il mondo, questo sol, questa luce, che vorrei esser mille passi sotterra per non vedergli.

EROTICO. Andiamo, come volete; ma non sarebbe bene aspettar Trinca, per saper qualche cosa di Cleria? che fa, che dice, che spera?

ATTILIO. Fa quello istesso che fo io; e mi affligono piú i suoi che i miei dolori, però schiverò di udirlo.

EROTICO. Ed io vo ancor disperato, non potendomi imaginar la cagione, come Sulpizia sia cosí meco adirata.

ATTILIO. O casa, io mi parto per non averti a veder piú mai. Tu pur fosti ricetto un tempo di ogni mia gioia e consolazione: prego Idio, che resti cosí contenta colei che alberga in te, quanto io mi parto mal contento e disconsolato.

EROTICO. Attilio, tu m'hai mostro le lacrime; e stimo che non siano uomini al mondo piú disperati di noi. Ma veggio uscir Trinca da casa vostra molto allegro: aspettiamo, fin che ne sappiamo la cagione.

SCENA VI.

TRINCA, EROTICO, ATTILIO.

TRINCA. (O Dio, e dove troverò Attilio, il mio padrone, e Erotico, per dargli cosí buona nuova?).

EROTICO. Cerca di noi, e ci vuol dar una buona nuova.

ATTILIO. Niuna buona nuova può esser per me, se non che Cleria fusse mia moglie; ma ciò non potendo essere, dunque non è buona per me.

TRINCA. (Dove andrò, in casa di Erotico over in piazza? ma stimo che sien partiti per disperati).

EROTICO. Trinca, volgeti a noi.

TRINCA. Io non posso piú celar l'allegrezza, e bisogno che sfoghi.
V'apporto una grande allegrezza.

ATTILIO. Ne ho perduto ogni speranza.

EROTICO. Si dee piú tosto perder la vita che la speranza.

TRINCA. Consolatelo, signor Erotico.

EROTICO. Non può consolare il compagno, chi non può consolar se stesso.

ATTILIO. L'allegrezza, che tu dici, è come quell'olio che si pone alla lucerna, quando sta per spengersi.

TRINCA. Per secreta volontá di chi può il tutto, quel caso disturbator delle nostre felicitá or s'è rivolto in accommodar le nostre difficoltá; e possiam dir che siate morti e ravvivati in un punto.

EROTICO. Trinca, ancor che la tua allegrezza vera non l'estimi, pur godo nell'imaginazione delle tue parole.

TRINCA. Vi prometto far ambiduoi contenti.

EROTICO. Troppo prometti.

ATTILIO. La fortuna traditora pur mi lusinga con nuove speranze, e pur le credo. Costui mi dice che mi renderá contento, e son certo che è impossibile, e pur mi piace d'intenderlo.

TRINCA. Stammi allegro, padrone, ché è trovata la tua vera sorella.

ATTILIO. E questo è il mio dolore. Ma sempre che sento nominar sorella, sento un orror scuotersi per tutta la persona.

TRINCA. E cosí arai la tua moglie desiderata.

ATTILIO. Cose contrarie: è trovata la sorella e arai la moglie desiata. Cosí, Trinca, ti beffi del tuo padrone?

TRINCA. Avete il torto a dirlo. Voi arete la vostra Sulpizia ed
Erotico la sua Cleria.

ATTILIO. Or ti beffi di l'uno e di l'altro.

TRINCA. Io dico il vero all'uno e all'altro. Sappiate che per un mirabile accidente, per un benevolo incontro di fortuna, è successa cosa tutta contraria a quella che minacciava la presente confusione.

ATTILIO. Dammi un succinto raguaglio del fatto.

TRINCA. Orgio, avendo visto la balia ragionar con Erotico, la batté sconciamente.

EROTICO. Oimè, che dici? questa è una mala nuova per me.

TRINCA. Da questo disordine è nata la vostra allegrezza: ché la balia se ne venne a Pardo, e l'ha manifestato che, quando partorí Costanza e diede a lattar Cleria alla moglie di Filogono, scambiò le bambine, e ritornò la sua Sulpizia a Costanza e si tenne la vera Cleria. A signali Costanza ha trovato vero quanto ha detto. Pardo andò ad Orgio, e minacciandolo l'ha scoverto il tutto. In questo Costanza con tanti bei modi s'è oprata con Pardo suo marito, che ottenne Sulpizia, figlia di Filogono, cioè la vostra Cleria, per vostra moglie con diecimila ducati di dote, che li lasciò il padre, ritrovandosi: dicendogli non deversi far resistenza a quello, che con tanti meravigliosi avvenimenti avea disposto l'alta bontá di Dio, ma lasciarsi guidar da lei.

ATTILIO. Oimè, che io mi sento incapace di tanta allegrezza, dubito che non mi suffochi l'animo. Ahi, che non potendola caper il mio petto, se ne versa fuori la miglior parte.

TRINCA. Cosí dal flusso e riflusso del mar della vostra fortuna, fra suavi scherzi e vari errori, sète stato ributtato al porto di salute.

ATTILIO. O madre, o cara madre, o tre volte madre, perché tre volte m'hai donato l'essere! O cieli troppo potenti, troppo influenti! o stupori, o meraviglie grandi, che da moglie mi diventi sorella e da sorella moglie! Ma Cleria che facea?

TRINCA. Piangeva la poverella amarissimamente; e, non potendo esser vostra moglie, purché fusse amata da voi, si contentava non solo d'esservi sorella, ma umilissima schiava.

ATTILIO. Dunque Sulpizia è la nostra Cleria sorella? Erotico caro, poiché nelle angustie mi sète stato caro compagno, vo' che ancora mi siate nelle prospere: non potendo con alcun premio meritar la vostra affezione, vi prometto Cleria per moglie, poiché per bellezza, per etade e per altre nobilissime parti, l'uno è ben degno dell'altra.

EROTICO. Voi sempre foste la mettá dell'anima mia; or tutta è vostra, e non ci resta piú alcun'altra parte del mio: e son tutto in anima e in corpo vostro. Perché dandomi Sulpizia, mi duoni la vita; e posso dir da oggi innanzi ch'io son vivo per voi, e però vivo per voi.

TRINCA. Non bisogna che voi ce la promettiate, perché è sua: che, scovertasi vostra sorella, la balia s'oprò tanto con Costanza e con Pardo, che fusse data a voi; e io ricordando al padrone l'appuntamento di oggi, si son convenuti insieme che sia vostra moglie.

EROTICO. O Dio, che nuova!

ATTILIO. Ed altro che di calze e di giubbone.

EROTICO. E perché mi dái contentezza di tanta importanza, te si prepara nuovo guiderdone, che partecipi delle nostre consolazioni.

TRINCA. Or sei contento?

ATTILIO. E consolato ancora. I miei sensi sono tanto occupati dalla improvisa dolcezza, che non posso gustar piacere dell'allegrezza; e se non muoio or di dolcezza, non morrò piú mai. Che fa mia madre?

TRINCA. Sta con un piacer grandissimo, ch'essendo stata disturbatrice delle vostre gioie, or è stata aiutrice delle vostre consolazioni; e mi dá ordine, perché son aggionte nozze a nozze, che s'aggiungano feste a feste, conviti a conviti, e balli a balli.

ATTILIO. Or da un amor cosí strano, mostruoso e fuor del naturale, cosí malagevole da sperarsene bene, n'è riuscito cosí onorato matrimonio. E se ben Idio permette alcuna volta cose che dispiacciono, lo fa per trarne poi un grandissimo bene, come è accaduto a noi.

EROTICO. Se vi partevate disperato, or non areste avuto questo contento.

ATTILIO. M'hai fatto bene, non volendo.

TRINCA. Questa volta abbiamo avuto piú ventura che senno. Giá s'è inviato a chiamar Sulpizia per la porta del giardino, e vi stanno aspettando con gran disio di sposarse; e me hanno inviato fuori a chiamarvi col prete da vero, e non col falso parrocchiano.

EROTICO. Entriamo, non facciamo aspettarci.

ATTILIO. Andiam, fratel mio.

TRINCA. Spettatori, costoro non usciranno piú fuori; ché, come seranno appresso le loro spose, non li distaccarebbono dalle lor falde tutti gli argani del mondo, ché tira piú un pelo del manto delle donne, che diece paia di buoi. Partetevi; e se non è stata di tanta aspettazione come desiavate, almeno favorite l'animo col solito applauso.