The Project Gutenberg eBook of I tre tiranni

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Title : I tre tiranni

Author : Agostino Ricchi

Editor : Ireneo Sanesi

Release date : December 13, 2010 [eBook #34639]

Language : Italian

Credits : Produced by Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (Images generously made available by Editore Laterza and the Biblioteca Italiana at http://www.bibliotecaitaliana.it/ScrittoriItalia)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I TRE TIRANNI ***

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COMMEDIE DEL CINQUECENTO

A CURA DI IRENEO SANESI

VOLUME PRIMO

BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI—EDITORI—LIBRAI
1912

PROPRIETÁ LETTERARIA
GENNAIO MCMXII—30148

I TRE TIRANNI

DI AGOSTINO RICCHI

A LO ILLUSTRISSIMO E REVERENDISSIMO SIGNORE

IPPOLITO IL CARDINAL DE' MEDICI
AGOSTINO RICCHI

Se la eterna Maestá a le ostie, ai tempii ed a le statue piú che ai cori, agli animi ed a la fede riguardasse, quelli che a pena porgere agli altari suoi le picciole immagini ponno, disperando de le celesti grazie, di porgerli i fidi voti si rimarrebbero. Ma perché il grande Iddio piú gode de la fervida volontá dei cori che de la gonfiata superbia dei doni, ciascuno a la somma bontá ricorso, lá dove il freddo poter manca, supplisce con il caldo volere: ne la guisa che, ne lo offerire al gran vostro nome il primo parto del mio ancora acerbo ingegno, faccio io; rendendomi certo che stenderete in accettarlo la sacra destra con quella istessa natia clemenza con la quale il grande Artaserse abbassò la real bocca, l'acqua pura gustando che con le ruvide mani il semplice pastore rozzamente gli porse. E perché lo eccelso re vie piú si umiliò in ber l'anima che insieme con le onde del fiume il boscareccio uomo gli diede che nel ricevere i preziosi doni dei potenti signori non soleva, ancora l'Altezza Vostra si umilierá nel prendere il core che insieme con queste mie prime fatiche gli offerisco non altrimenti che si faccia in accettare gli alti poemi che i chiari prencipi de le sacre scuole de le lettere, in ciascun luogo, in ogni tempo ed a tutte le ore, li consacrano. Né si creda però che io sí temerario fossi che a voi, che obbietto degli onori siete, per onorarvi inviassi l'opra che io come in poco spazio di tempo forse con poca esperienza d'arte feci, ancora che a Dio, a cui né crescere né scemare si può di gloria, veggiamo, non misurando la grandezza sua, cantare inni, ardere incensi ed accender lumi; anzi perché (sí come le cose poste ne' tempii, per vili che sieno, di indegne degnissime diventano), essendo al magnanimo Ippolito consecrata, di bassa e negletta venga dagli uomini pregiata: ché, per tenere sculto ne la sua picciola fronte il pregiato nome vostro, i pellegrini spiriti che vi adorano la solleveranno con la medesima fortuna che dal tempo abbattuta colonna, per la riverenza de l'antico titolo che in essa si legge, si solleva. E se a me di ciò punto vien di onore, non altrimenti lo estimerò che soglino li umili sacerdoti i fumi degli odorati incensi e gli altri onori di che essi participano, ricognoscendo tutto da colui che è cagione in loro di tali grazie.

Di Ferrara, a li XXV di luglio M.D.XXXIII.

PERSONE

GIRIFALCO vecchio
PILASTRINO parasito
ORGILLA fante di Girifalco
SIRO }
TIMARO } servi di Crisaulo
CRISAULO nobile
FILENO servo di Crisaulo
FILOCRATE giovane
CALONIDE madre di Lúcia
LÚCIA figliuola
EPARO lavoratore
LISTAGIRO parasito
FRONESIA fante di Lúcia
ARTEMONA roffiana
COMPAGNI di Filocrate
DEMOFILO vecchio socero di Calonide.

ARGUMENTO

Girifalco ama Lúcia e da Listagiro e Pilastrino accorti parasiti n'è beffato e punito. Ancor di questa preso Crisaulo nobil, per astuzia d'una roffiana e d'una sua fantesca (che Filocrate giovan quale amava li trasser de la mente, ond'ei impazzò, e si partí romito), la si gode sotto uno inganno d'oro, con parole di volerla sposar. Tornato in questo Filocrate di Spagna, in vece altrui, pensandosi d'aver ne le man Lúcia, si giace con la fante; qual poi sposa, quando Crisaulo, sol da Amor costretto, oltre ogni suo voler, si sposa Lúcia e insieme con Calonide sua socera congiunge Girifalco, giá beffato.

PROLOGO

MERCURIO.

Giove, che vive e regna suso in cielo, come voi qui (la sua mercede) in terra, m'avea mandato qui per i lamenti ch'escono ognor qua giú da le gran mandre dei filosofi nudi e dei poeti; i quai, giá incominciati, or piú che mai spessi e piatosi al ciel passando a schiere, ne turban sí che m'avean commesso, tutti a una voce, ch'io venga a pregarvi e persuader che, per nostra quiete, per vostra gloria e per piatá, vogliate dar fine a tai miserie ond'essi ogni ora, discacciati e mendici e disperati, minaccian sotterrare i nostri onori. E però quegli onde ciascuno ha vita aría voluto ch'io vi protestassi, quando non provediate ai lor bisogni, che, senza alcun rispetto, lasceria cadervi a dosso lo sdegno Aretino: a cui diè forza fulminare i nomi nel modo ch'egli suol talor per ira fulminar l'alte torri. Ma, trovato certi ch'ora qui voglion recitare una comedia per vostro diporto, per non mescolar cose altro che allegre, lascerò questo ufficio. E perché un certo parasito, ch'avea da parlar prima, sorbito ha Bacco in modo che sta in dubbio s'egli è nel nostro mondo o in quel d'altrui, hanno voluto che da parte loro io venga a dirvi quel che intenderete, se m'ascoltate alquanto. Alti e cortesi spettator degni, una comedia nova (nova, dico, non mai piú vista o letta o in alcun degli antichi ritrovata) vi apporto, piena di giuochi e d'amore: il cui tittol, per oggi, sará in vece di quel che s'avria a dirvi in argumento de l'istoria, perché voglio esser breve. Son tre superbi e potenti signori c'han de la vita nostra in mano il freno e la governan come piace a loro. E perché spesso, anzi il piú de le volte, non giustamente in noi s'incrudeliscono, onde ci vien disnor, disagi e morti, l'autor di questa, che vorria mostrarvi la natura di loro, i loro effetti, li finge in tre persone che di pari contendeno ad un fine; e cosí volse chiamarla I tre tiranni . E questi sono, come vedrete, Amor, Fortuna ed Oro. Ma, perché ben sappiate la sua mente, gli è piaciuto scostarsi cosí alquanto dal modo e da l'usanze degli antichi: ché, dove han sempre usato essi che il caso e tutto quel che pongono in comedie possa essere in un tempo o in un dí solo, questi ora vuol che la presente scena, sicondo che richiede la sua favola, servi a piú giorni e notti in fine a uno anno. E, benché si potesse aperto dire che gli è così piaciuto, ha pur in vero qualche ragione in sé: perché, sí come si vive or con la vita del dí d'oggi e non di quegli che fûrno giá un tempo, e son vari i costumi, pare onesto con questi le poesie, le prose, i versi, li stili e l'uso ancor del recitare, sicondo i tempi, si mutino e innovino. Né vi offendano i nomi inusitati, perché, per adattargli a le persone e loro uffici, gli ha tratti dal greco: e questo dice dei latini antichi essere usanza; e in ciò gli ha seguitati. Io vi direi piú cose da sua parte; ma il tempo passa. Questa qui è Bologna. Chi 'l crederá ch'oggi in sí picciol luogo si sia ristretta? E pur è con effetto: e in modo tal che sí superba e grande forse non fu mai Troia, Atene o Roma. Qui sta Crisaulo nobile; e qui Lúcia; qua Girifalco; e di lá Pilastrino. Eccol che viene in qua. Se sta in cervello, potrete intender da lui meglio il tutto. Siate sempre felici.

ARGUMENTO

PILASTRINO parasito.

Buona vita, insieme con la pace di Marcone, caso che vi fermiate con silenzio. Ma io sono il bel pazzo a creder ch'ora tante cicale e tanti cicaloni s'acquetin per mio dire. Orsú! Ciarlate, ciarlate forte, ch'io dirò cantando il Verbum caro o 'l Chirielleisonne . Anzi, vo' dir, poi che non è peccato, O pecorar, quando anderastú al monte o vero il Ritornando da Bologna , La scarpa mi fa male in ponta o pure La vedovella quando dorme sola . Mi vien voglia di dire ad alta voce il Mal francioso di Stracin da Siena; ma so che tutti lo sapete a mente come il Pater e l' Ave e l' a b c . Orsú! Farete tanto che a la fine vi lascerò di pian come ser Zughi. Par quasi che non sappia quel c'ho a dire. Son costor che da ogni ora, qua di dietro, mi stanno a festucar ch'io mi ricordi non so che d'argomento o serviziale o cristeo. Madonne, e voi, messeri, io vel farei, s'io fossi uno speziale sí come sono un bel cacapensieri in campo azzurro. Ma vi voglio dire di me, se a sorte non mi cognosceste. Io sono un uomo, come voi vedete. E mia madre fu donna da bon tempo. E, avendo un giorno tolto una satolla di biroldi e di trippe, venne pregna di me, com'ho poi inteso; ed in quel mese mi fe' in cucina a piè del focolare: ond'io la maledico mille volte, ch'ella si morí in quello ben pasciuta ed io sto sempre per morir di fame e so ch'è sol per qualche suo peccato. Ond'io volli, una volta, farmi frate per viver lieto e non durar fatica; e comperai i zoccoli e 'l cordone (la cappa me la dava un mio parente): ma, pensando ai digiuni ch'essi fanno, mi risolvei diventar parasito acciò che il corpo non mi bestemmiasse a petizion de l'anima da poca che non mangia e non bee e non si vede e vuol, la sciocca, mille cacherie per gire in paradiso a far la ninfa o ver la sposa. Or lasciamo andar questo; e ritorniamo al da ben Pilastrino (che così mi dimando) c'ha piú fede ne' tordi e nel buon vino e nel pan bianco che i frati al campanel del refettorio. E certo, se vivesse oggi Margutte, mi adoreria sí come adoro lui: massimamente s'egli mi vedesse pelare e rassettare a la moderna le donne, le matrone e le massare et utriusque sexus fine ai vecchi. Ma di che vi ridete? de' miei fatti? Ridiam pur tutti. Io riderò de' vostri. Ah! ca! ca! Quanti augei perdegiornata! Oh! co! co! co! Quanti cameleonti che si pascon di vento! altri in amore, fiutando le duchesse e le reine (poi van con una slandra in Fiaccalcollo a menarsi l'agresto a tutto pasto); altri in sperar d'aver l'entrate grandi, mangiando in interessi il ben futuro. Quanto fariano il meglio a provedere di pagar tutto quello c'hanno in dosso a chi fatto ne l'ha credenza; e poi rappattumarsi con la sua signora che, per basciargli tuttavia la borsa, gli fa gir di pecunia a la leggera! Ma son giá di proposito sí uscito che non so a che fine io vi favello né ciò ch'avea da fare in questo luogo. Sí, sí! Me ne ricordo: l'argomento. Assettatevi tutti ben, ch'io possa mettervel tutto ne la fantasia, pel buco de l'orecchio, come s'usa. Fermi! Aspettate, ch'ora ci va dentro. Oh! Gli è 'l gran caldo! In fin, queste borsette, per parlare in linguaggio veniziano, non son mia arte; e, non vi entrando tutto il brodo d'esse, non si fa nigotta. Quanto meglio campeggia Pilastrino ne la santa illustrissima cucina, dando pro tribunal sentenze giuste del cappon lesso e del fagiano arrosto, del mangiar bianco e di quel sapor nero che si cava de l'uva e di quel verde che si trae de l'erbette fiorentine! Oh com'io son ben dotto in ordinare le buone gattafure genovesi! Oh! Io ne fo il bel guasto, per mia grazia! Cosí di queste nostre bolognesi. Risolviamla pur qui. Celi celorum altro non è, secondo il mio giudizio, che 'l mangiar bene e il ber solennemente. Non niego giá che il far quella faccenda non mandi altrui piú sú che mona luna. Tamen un pasto buon pontificale mi dá la vita. E, se ne l'altro mondo si facesse talvolta colazione, la morte mi faria poca paura; ma, quand'io penso che non vi si mangia e non vi si bee mai, divento matto. Oh Dio! Abbia pietá di Pilastrino! Non dico che mi mandi in purgatorio. Ficchimi pur ne l'inferno e nel limbo, ché, pur ch'io mangi talor duo bocconi e bea un ciantellin di malvagía ne incaco Ferraone e Satenasso. E quel poltron di Lucifero porco facciami come vuol, se ben volesse farmi in pasticci o in brodo o in gelatina. Ma, per parer ch'io non parlo col vino, vorria contarvi pur di questi pazzi: di Girifalco vecchio; e di Crisaulo; e quello scimonito di Filocrate ch'al fin si mangia, in cambio di perdice, la carne de la madre di san Luca tutto l'anno avocata dei tinelli. So ben ch'io sono inteso. Io giá non dico che la fante non sia una buona robba; ma basta che li parve essere ai ferri con Lúcia ch'era stata giá cagione ch'egli aveva mandato il senno in poste. Di Calonide taccio, c'ho rispetto di mentovare invano una sua pari che digiuna l'avvento. Or la vedrete entrare in nozze come una donzella (cosa da empir di risa gli orinali) insieme con la figlia, ch'oramai creggio che senta tentationem carnis . State attenti, vi prego, senza strepito; ché qui non vi si chiede né danari né altro che vi debba dispiacere. Un'altra volta comandate a noi. Ora questa è la cena: io volli dire la scena. E questo intorno è 'l Coliseo dove sedete. Chi è stato a Roma sa quel ch'egli è… Oh come mi rodeva! Una rogna canina! Ma tacete. Ecco il vecchio. Ei vien via col suo portante. Oh che cera d'amante! O dio Cupido, hai pur poca faccenda a travagliarti con simil manigoldi! Se non pare il Testamento vecchio e l' Imprincipio ! Parla con seco istesso. Sará forza legarlo, inanzi agosto, a la senese. Voglio udir ciò ch'ei dice, qui da canto. Or di' sú, mestolon, cancar ti venga!

ATTO I

SCENA I

Girifalco si lamenta d'Amore. Pilastrino lo ammonisce schernendolo; e, non potendo ultimamente mangiar seco la mattina, si fa dar danari per comprar da cena e promettegli di menar l'altro parasito il quale gli aveva giá fatto credere che fosse negromante.

GIRIFALCO vecchio, PILASTRINO parasito, ORGILLA fante.

GIRIFALCO. Va' sempre stenta! Caca gli occhi e 'l sangue in gioventú per non esser mendico quand'altri è vecchio! Or vedi come, al fine, tutto è niente; ché qui mai non puote l'anima aver riposo in fin che dura con la carne congiunta.

PILASTRINO. Oh bel dettato! Gli è bene un buon boccon, se la è congiunta con la mostarda; ma vuole esser porco di pochi mesi. Oh! Parti che 'l vecchione ragioni anch'egli de bene vivendo ? Piace anche a me.

GIRIFALCO. Deh! taci ivi, ti prego, o parla piano; ch'oggi ho poca voglia di cianciar teco.

PILASTRINO. Tu sei pur lunatico, Girifalco: perdonimmi i tuoi anni. Deh guarda che natura! Or si lamenta, or tace e fa il balordo, or ride, or piange, or ciancia fuor di modo e si rallegra e infuria; che talora ho meraviglia ch'un che pratica teco, in otto giorni, nol fai impazzir. Che sí che ancor ti veggio, un tratto, negromante? uomo composto di sciatiche e catarri e d'avarizia, d'ira e d'amore.

GIRIFALCO. Abbimi compassione.
Vedi pur com'io sto; lasciami alquanto
sfogar, ch'io moro.

PILASTRINO. Possa sfogar tanto
che ne rimanga agghiacciato per sempre.
Non restar giá per me.

GIRIFALCO. Sempre ho stentato; né mai mi ho tolto un'ora di buon tempo, in questa vita, per non stentar sempre. Ed or che l'etá mia richiederebbe qualche riposo e d'animo e di corpo, cosí dentro mi sento travagliato, inquieto e confuso che desio talor la morte come cosa dolce. Ma non vorrei esser posto in sacrato, se non pensassi fare, anzi quel punto, vendetta e strazio di quella frittella che n'è cagione.

PILASTRINO. E che pensi di fare? se Dio ti guardi, come ha fatto i denti, ancor la vista.

GIRIFALCO. Se mai viene il tempo…
Non vo' dire altro.

PILASTRINO. Forniscel di dire. Che la farai, come ti vien dietro, morir forse in sul buco? Oh guarda volto da far morir le donne di martello! Che sia impalato!

GIRIFALCO. A chi dici «impalato»?

PILASTRINO. Ho detto che mi tira omai 'l palato; e tu mi pasci qui pur di parole. Saresti appunto buon, per la cappella che si fa al Baracane, per un santo in su l'altare o per un di quei voti con le man giunte; ché non mangi o béi ma vivi d'aere.

GIRIFALCO. Lascia: berem poi. Anima mia, tu mi fai pur gran torto. E poi per chi? Per un morto di fame, un furfantello, un ladro, un giocatore, un plebeo. Ma guardati, Filocrate; ché, a' miei dí, mai nessun mi fece ingiuria che non mi vendicassi. Vatti sposa: e to' per donna qualche ruffianaccia per tua infame. Oh! co! ca! ca! Io muoio. Rinego il dí che mi battezza. Ca! ahi! In mal punto. Ah!

PILASTRINO. Dá' giú, ch'io 'l voglio, il cuore. Che fai? Par che rineghi anche il battesmo. O Girifalco, tu sei diventato un gran biastemmiatore. E poi sei vecchio e mostri esser saputo!

GIRIFALCO. Io son perduto
piú lá che ora. Vo' chiamare il diavolo.
Diavol!

PILASTRINO. Di' forte, ché non ti può udire.
Sú! che ti porti presto.

GIRIFALCO. Che hai detto?

PILASTRINO. Che? non m'hai forse inteso? Che ti porti dov'è colei che ti può dar salute e tòr d'angoscia.

GIRIFALCO. Aimè! che sarò morto prima ch'io n'esca.

PILASTRINO. Va'. Se non moro io in questo mezzo, sará forse troppo presto per te.

GIRIFALCO. Non vorrei esser nato prima ch'esser cosí.

PILASTRINO. Fai grande errore a dir tal cose. Oh! Se 'l sapesse Lúcia, e che direbbe de la tua incostanza? Ché debbi pur saper che amano i vecchi perché son fermi e potenti a durare a le lor dolci pene; ove noi altri reggiam di rado. E l'aspettare ancora non ti debbe esser grave perché sai ch'un tesoro sí fatto non s'acquista in un mese o in uno anno. Ma puon caso che n'aspettassi ancora venticinque e poi l'avessi. Non saria il tuo meglio? ché allor forse saresti un'altra volta tornato giovan, come ancor giá fosti, e piú atto a l'amor ch'ora non sei. Non perder la speranza.

GIRIFALCO. E che? Saremmo forse come leggiam de la fenice, noi innamorati?

PILASTRINO. Tu sol sei fra tutti fenice. Gli altri li vo' dir pipioni. Ma, s'Amor non si muta di costume, tengo scorciare a sí vecchia fenice con l'ali il volo. Di fiere piú brave ho giá domato.

GIRIFALCO. E perché son dannato? Ve' ladroncel! Non so che mi ritiene che non ti lasci un pugno, che tu veda le stelle a mezzo dí.

PILASTRINO. Non so vedere altrimenti le stelle a mezzo giorno se non sotto la botte; ma son certo che non le vedrò giá sotto la tua, subbio e telare, a mille opre d'aragna ch'ivi tesse la muffa per vestirne gli amici de l'aceto e del vin guasto. Resta con Dio. So dir che sei persona d'aver teco de' topi e de le mosche in compagnia. E da lor sei fuggito, così sei largo!

GIRIFALCO. Deh! non ti partire.
E dove, Pilastrino? Una parola
odi, se vuoi.

PILASTRINO. Non giá da quello orecchio.
Di': che ti manca?

GIRIFALCO. Cávali la cappa.
Non odi, Orgilla? Vo' che desni meco,
se non ti è grave.

ORGILLA. Or che se l'ha cavata, il briacon, mio danno, se ogni mese non ci torna a veder. Parti governo, questo, di casa? Mi morrei se, un tratto, non gli pesto a mio modo quel mostaccio. Mettiam pur fuor la frasca.

PILASTRINO. Orsú, madonna! Bisogna che abbi compassione un poco al messere ancor tu, poi che tu vedi come sta il poverin.

ORGILLA. La mala pasqua, e presso che non dissi, che vi venga a tutt'e dui! Forse che non s'arrabbia per casa, poi, di questa massarizia e non rugnisce? Saria manco male se spendesse o comprasse della robba, poi che vuol fare il grande.

PILASTRINO. Oh! Di' ben forte che non v'è da mangiar; ma intanto cuoci quello che c'è.

ORGILLA. Vien qua, vecchio insensato. Tu sai pur che costui non mangia rape cotte giá di tre dí né di pan cotto minestra, come farai tu stamane; né bee meschiati.

PILASTRINO. Io mi turo gli orecchi. Tra voi gridate e menate le mani, pur ch'io panebri.

ORGILLA. Tu tirerai in fallo, Pilastrin, questa volta, ché la carne rimasta è in beccaria. Che vuoi ch'io cuoca? le miei mutande?

PILASTRINO. Giá denno essere arse, se l'hai portate un dí, ché 'l vostro fuoco non cuoce o scalda.

GIRIFALCO. Pilastrin mio caro, tu vedi. Tornerai da me stasera, ché compreremo una libbra di lonza per fare arrosto; e poi, con quel guazzetto che fa l'Orgilla, vo' che noi sguazziamo. E mena l'indiano.

PILASTRINO. Hai ben pensato.
E che ci arem da cena?

GIRIFALCO. Non t'ho detto?

PILASTRINO. Non t'ho inteso.

GIRIFALCO. Una libbra di buon porco.

PILASTRINO. A incominciare. E poi infra pasto?

GIRIFALCO. Quello non basterá? Tu se' pure, oggi, strano! Non t'empierebbe….

PILASTRINO. E sí! Dici da vero? Tu vuoi tener me a cena con un'oncia di carne e con guazzetti? Tu mi vuoi far ridere, oggi. Or veggio ben che Amore qualche volta ti trae del seminato. E poi sei vecchio. Dammi a me i danari, ché comprerò da cena onestamente. E non esser sí scarso.

GIRIFALCO. Ecco i danari.
Piglia quel che bisogna. O Pilastrino,
ferma un poco. Che fai? Non c'è moneta?
Questi quatrini… Sta'.

PILASTRINO. Non dubbitare:
ti porterò l'avanzo. Io voglio andare
a cercar di colui.

GIRIFALCO. Non v'è a bastanza?
Odi un poco.

PILASTRINO. Sí ben; ma lassa. Io vado caminando a le porte, or ch'è passato il mercato, se trovassi qualcosa e spender poco. Non uscir di casa. Torno con lui stasera.

GIRIFALCO. Ecco, or costui mi vuol brugiar di qualche bolognino con queste parolette: ché son fatti come 'l tizzone. Ma son bene allegro, se mena il negromante. Entrerò in casa: ché mi par di sentire un ventarello non molto sano.

SCENA II

Siro servo, non introdotto in altro luogo che in questo, parlando con Timaro, apre e dá lume a la favola: e questo è costume degli antichi comici.

SIRO. TIMARO servi.

SIRO. Or veggio il lor cervello. Innamorati? Che sia maladetto quel giorno traditor che incominciai a servir mai nessun! ché non mi manca da starmi a casa mia ben da mio pari e sto a straziarmi dietro a questi cani che tengon servitori come gli osti le bestie da vettura; e 'l dí non basta, ché ancor s'ha a star la notte or qua, or lá per lor capricci. Che sia strutto Amore e chi lo fe', chi 'l pruova e chi gli crede! Io mai nol vidi.

TIMARO. È Siro che ragiona.
Lasciamili accostar. So che camina!
O Siro, aspetta.

SIRO. Che vai tu cercando,
Timaro?

TIMARO. Sono uscito de la strada per venirti dietro, ché sentiva bastemmiar non so che.

SIRO. Sí, ch'io bastemmio qualche volta me stesso; ché non posso omai durar con questo insopportabile, quasi ho detto, poltron.

TIMARO. Che c'è di nuovo?

SIRO. Ultimamente non m'ha minacciato di fare e dire, s'io non truovo modo ch'esca di questi affanni?

TIMARO. O dágli il modo.

SIRO. E come?

TIMARO. Che s'appicchi per la gola!

SIRO. Or non ho punto voglia di scherzare. E' nol potrebbe fare altri che Dio che l'ami, se non l'ama.

TIMARO. Sa bene egli se l'ama o no.

SIRO. Non fosse egli piú vivo! Io l'ho cercato: ch'è piú d'otto giorni che non mi fermo mai, né dí né notte, sol per saper di questo; e truovo al fine ch'ella l'ha in odio sopra ogni altra cosa. E questo è la cagion. L'ha sempre amata un Filocrate giovin, qual si dice che se la sposi in breve. Ora il padrone vorria impedir che questo non seguisse. E, per esser chi egli è ed ella vile, vorria poterla avere a posta sua. A che bisognerebbe che mutasse l'animo, prima, in disamar chi ella ama; e poi si fesse tal che sí grande odio rivolgesse in amore; e poi la madre, ch'è la piú saggia donna, intera e santa di questa terra, consentisse a questo: il che non potria far, penso, un reame. E giá mille altri han lasciato l'impresa, sol per esser la madre quel ch'ella è. Potria forse anco star; ché non è 'l primo miracol ch'abbia fatto, a' miei dí, l'oro. Ma non voglio che mai per mezzo mio faccia tal roffiania.

TIMARO. Farei ancor peggio, per il padron, pur ch'ei mel comandasse. Che ne puoi perder tu?

SIRO. Quello c'ho al mondo, servendo un fuor di senno e disperato. Ma ascolta. Non è solo. Girifalco vecchio, sí avaro, anch'egli è in questo ballo (ed era sí stimato!): ché un Listagiro con Pilastrino e certi buon compagni l'han messo sú ch'ella gli muor dietro. E fangli far l'amor seco ogni giorno: cosa da smascellare. E, perché mai non la vede, gli dicon che 'l difetto vien c'ha poca veduta. E 'l moccicone è giá venuto a tale, in questa giostra, di cosí scarso, che gli tran canóni che ne portano il sangue. E va pensando che Pilastrino, un tratto, il peli e strini fine in su l'osso. Specchiati in quel nome. Da l'altro canto mi par sí vedere che 'l padrone (e Dio voglia ch'io mi menti) faccia con colei tanto che la sposi. Che ti parria di questo?

TIMARO. Io non mi curo. Sia come vuol. Non ho di questi impacci; non penso tanto inanzi e mi contento di questa vita: ben mangiare e bere e gire a spasso, portato c'ho sú, talor, come acqua e legne e governato ben la mia stalla e spazzato la casa e netto gli usuvigli di cucina, le secchie e i caldaroni e, alcuna volta, supplito anche ai bisogni de le fanti che non mi lascian viver.

SIRO. Sí, t'ho inteso.
Tu la discorri bene.

TIMARO. Io me ne vado di lungo a casa (m'hai tenuto un pezzo), ché 'l padron non gridasse.

SIRO. A posta tua. Questi stan ben con queste simil gente che sopportan com'asini venduti; o ver gli adulatori. Io mi risolvo di non vi tornar piú; ch'omai son chiaro ch'ogni or ne sarei a peggio, ché Fileno (perché dice a suo modo) è seco il totum . Io sarei sempre schiavo.

SCENA III

Crisaulo batte il servitore e biasma forte con
Pilastrino l'avarizia; e, incominciandosi a doler d'Amore,
Pilastrino lo lascia.

CRISAULO nobile, FILENO, TIMARO servi, PILASTRINO.

CRISAULO. Basta. Ho inteso.
Ma parti che ci torni?

FILENO. Eccol, per Dio.
Contava i passi; or corre.

CRISAULO. Io son disposto…
A che sei stato tanto, manigoldo?
Ho voglia di…

TIMARO. Signore, ho corso sempre.
Questo è 'l resto di tutto il fornimento,
d'infuor la sella che non è fornita.
S'avrá stasera.

CRISAULO. Hai piú tu di bisogno del baston che non ha di te la stalla. Canaglie! ché non passa per la strada civette o olocchi o per l'aere augelli che non voglin vederli.

TIMARO. È pure stato il maestro che m'ha fatto indugiare questo poco: ché non voleva darmi quegli avanzi del drappo e stava a dire che non è usanza e che none sta bene a un vostro pari; e quasi bastemmiava. Son ladri: sempre voglion sopra i pregi di quel d'altrui.

CRISAULO. Ah vigliacco, poltrone! Questi sono gli onor? Vo' che tu impari per l'altre volte.

TIMARO. Oimei, padron! Son morto.

CRISAULO. Ti vo' spezzar quella testa balorda.
Chi te l'avea commesso?

TIMARO. Oh gramo a me!

CRISAULO. S'io vi ritorno…

TIMARO. Oimei, che ho rotto gli ossi!
Morrò in duo dí.

PILASTRINO. Oh! co! Non piú, Crisaulo. Oh! co! Crepo di rise. Gli farai smaltire i sughi, con quelle sopposte che gli hai fatto nel viso da sedere. Cosí si smuove il corpo ai manigoldi che vogliono, a dispetto del padrone, far massarizia: ma la medicina non val niente, se non si continova piú d'una volta il giorno. To', poltrone! Come fa il morto!

CRISAULO. Corre e va' riportali. E di tua bocca di' che t'ho punito di tanta villania: se non, con altro la farem che con calci.

TIMARO. Ben, messere. Che ti possa esser mozza quella gamba, prima ch'io ti riveggia!

PILASTRINO. O va' pur via. So che ti sentirai di quelli schiaffi, per otto giorni almeno, a cavalcare. Se avessi istaman fatto colazione, non avrei sí goduto. O guarda dove si truova esser condotto un gentiluomo! Ché lasci ogni anno cento pezzi d'oro per non dar luogo agli spirti che sempre biasmano altrui; ed or, per quattro soldi, avrá dato da dire a tutta piazza, quest'ignorante. Ma che! Non importa: perché sei cognosciuto da ciascuno per l'uom che sei.

CRISAULO. Ho sempre da natura avuto questo, che d'alcuna cosa non mi son dilettato quanto avere il mondo tutto e, se fosse possibile, l'inferno amico. E quegli che altra via tengono, essendo nobili di sangue e di gran facultá, debbiam chiamargli animai brutti. Avarizia malnata, d'ogni altro mal radice! O pien d'inganni, fraudi, ruine e morti, oro, tiranno fatto di quello a cui ti fe' suggetto chi tutto fe'! Come può tanto errore fermarsi in noi? poi che veggiamo espresso che chi piú n'ha piú stenta e manco gode. Ché nol fuggiamo?

PILASTRINO. Ogni uom sa predicare; e tanto piú di quel che poi non crede. Certo è che l'oro è cosí maladetto che alcuno esser non può mai, in fin che n'ha, contento o riposato. Ma vorrei veder pigliare, un tratto, a chi 'l cognosce qualche rimedio.

CRISAULO. E questo è 'l colmo appunto del nostro errar: ché lo veggiamo aperto; né in alcun modo ne vogliamo uscire o rimanerne.

PILASTRINO. Tu non neghi, adunque, essere in grande errore?

CRISAULO. Errore. Ah quanto fòra 'l meglio esser nato in vil capanne, talora, e in boschi che ne l'alte case! Chi nol pruova nol sa.

PILASTRINO. Cosí sarebbe piú felice 'l mio stato assai che 'l tuo; ché non mi truovo un soldo.

CRISAULO. Senza dubbio.

PILASTRINO. È meglio, adunque, che cangiam gli stati e le fortune. E tu sarai contento sempre nel mio: e sí lieto e felice e senza alcun pensier che non vorresti, quando lo provi poi, per tutto il mondo non l'aver fatto. Ed io, in cambio tuo, torrò questi tuoi affanni.

CRISAULO. E che potresti cangiar se non que' panni e quella pelle? o 'l vizio orrendo che non potrá mai mancare in te? poi sai che non possiamo, per noi stessi, cangiar stato e fortuna: ché s'appartiene al ciel.

PILASTRINO. Ti vo' insegnare. Avremmo prima a tramutar la robba: verbi gratia , la tua fa' che sia mia. Tu voglio che ti chiami Pilastrino; ed io sarei Crisaulo. E, in questo modo, non sol muterai nome, ma costumi, stato e natura; e forse ancor la mente. Proviam, se tu nol credi.

CRISAULO. Io ti ringrazio; ché è buono il tuo consiglio: ma non voglio ch'oggi ne venda a me.

PILASTRINO. Ah! ca! ca! ca!
Non ti si può appicare oggi niente
di questa mia dottrina. Io me ne vado.
Qui non si busca.

CRISAULO. Sta', non ti partire;
fermati un poco.

PILASTRINO. Non posso indugiare.

CRISAULO. E che buona facenda?

PILASTRINO. Un'altra volta, se riesce, tel dirò; ché penso, un tratto, uscir d'esti pedocchi. Non dir nulla, ché vo' ch'abbiam da rider per cent'anni, se mi vien fatta.

CRISAULO. Non vo' sapere altro. Guarda pur di non far qualche trabalzo che te n'abbi a pentir. Di poi quel giorno, non mi sai dir niente di colei? Tu sei pur negligente!

PILASTRINO. Ora non posso
dirt'altro, c'ho da fare in fine a sera.
Ma vo' che sappi la piú bella berta
ch'io tramo adesso.

CRISAULO. Non lo vo' sapere.
Attende ad altro, e forse ti fia 'l meglio.
Ier la vidi duo volte a la fenestra.
Felice giorno!

PILASTRINO. Ed io piú di sei volte
la vidi, dopo bere; e l'abbracciai.
Chi è piú felice?

CRISAULO. Aimè! Vita infelice, quando fia 'l dí che fuor di tanti affanni ti scorga Amor, che giá condotta a tale t'ha in poco tempo ch'altro omai non resta in tuo conforto che la morte istessa o di lei la speranza?

PILASTRINO. Oh! co! T'ho inteso. Addio; fa' pur da te. Questi incomincia, pur come suole, a noverar le stelle e gli animali e le donne e le piante; i sassi e i monti e l'acque e 'l cielo e l'aere dimanderá crudeli; e la fortuna e la sua sorte iniqua e ingiuriosa; troverá tutti i santi, al fine, in fraude; e vorrá far vendetta. Io voglio andare a comprar, prima, e, poi, in qualche taverna, fin che giunga la sera, anch'io a gridare con le mezzette.

CRISAULO. Aimè! Dolce mia luce, quando mai resterai di tôrti in gioco questa mia miser'alma? e quando avranno mai fin tante passioni? e le cocenti fiamme fian spente? e quando fia mai vinta da pietá cosí dura altera mente? o di me sazia quella cruda voglia? Certo, non mai; ché la mia sorte è tale ch'io sempre peni. Ma lascia, ché, in breve, forse questa mia man ti fará lieta di tanto desiderio e fia disciolta l'alma d'esta prigion.

FILENO. Fornisce, un tratto. Che cosa è questa, tanto lamentarsi e rinnegar la fé? che tanti stinchi? tante prigion? Chi ti sentisse, certo, giudicherebbe ch'aspettassi or ora acerba morte. Hai pur questo tuo pecco, come le donne, di voler morire d'ogni picciola cosa e avere in cima, come lo sputo, il pianto. Se non fosse ch'io troppo t'amo e del tuo mal m'incresce, in fine al cuore avrei or con fatica ritenuto le risa. È pur vergogna tanta viltá.

CRISAULO. Dico che n'ho per sette de' buon consigli. Ma questo non basta: ché bisogna pazienza; di che i santi mancan talora.

FILENO. Eh! va': l'hai per costume questo voler morire. E poi per chi? Una fraschetta, che, chi la strizzasse tutta, non n'usciria tanto di buono che te n'ungessi un'unghia.

SCENA IV

Filocrate viene a parlare a Calonide; e riman seco di
sposar Lúcia di corto.

CALONIDE madre, FILOCRATE giovane,
LÚCIA figliuola, GIRIFALCO.

CALONIDE. Chi è giú?

FILOCRATE. Io sono. Aprite.

CALONIDE. Aspettami, figliuolo.

FILOCRATE. Non mi par giá cangiata. Oh! Dio volesse che non ci avesse visto! Iddio ti guardi, madre. Quanto m'allegro di vederti cosí di buona voglia! ch'istanotte non ho dormito mai, del dispiacere ch'ebbi, perché pensai che ci vedesse Demofilo, iersera.

CALONIDE. Anzi, ci vide: e me ne dimandò; ma tanto seppi bene acconciarla che poi non disse altro. E di qui presi occasion d'entrare ne' fatti tuoi; e, per fartela breve, tanto ho saputo ben dir mal di te che, d'uomo che ci fu giá sí ritroso, or n'è contento e l'ha rimessa in me. Che faremo ora?

FILOCRATE. E che! Va' che n'usciamo. Questo è stato ben fatto: aver disposto la cosa seco. Orsú, madre! Ora è fatta. Porgimi qui la man; ti do mia fede di non mancare; e cosí fa' tu a me. Quando farem le nozze?

CALONIDE. Ora, a tua posta: ché a me non manca se non provedere a certe cosarelle; poi, del resto, possiam farlo istasera. Ma indugiamo ancor duo giorni perché a lui non paia che siam corrivi. E tu fa' che non manchi. A te ne sto.

FILOCRATE. Perché? non è giá fatta?

CALONIDE. È fatta, sí, ma vo' veder le nozze: ché non vo' star piú in questo struggimento, ché importa troppo; e lo starne sospesa non è sicuro.

FILOCRATE. Io sono a le tuoi voglie; altro non bramo. Ma vorrei che anch'ella mi toccasse la mano.

CALONIDE. Oh! S'è per questo,
anco s'ha da far ben. Dálli la mano.
Orsú! A chi dico?

FILOCRATE. Quando fia mai l'ora per me tanto felice che, legati d'eterno nodo, di tante fatiche e tanti stenti al fin mi sia concesso cogliere i dolci frutti? Aimè! ch'io temo, sí come mi cognosco al tutto indegno d'un tal tesor, che non mi sia negato da la mia sorte.

CALONIDE. Lascia andar da canto queste tuoi leggerezze. Ora attendiamo che si dia fine. E poi vo' che tu pigli, figliuolo, per potervi mantenere sempre nel grado vostro con onore, qualche onesto esercizio; ed io giá mai non ti son per mancar.

FILOCRATE. Lo voglio fare. E son restato in fine a questo giorno perché, mercé di lei, cosí inquieto era di mente che ad altro pensare non mi poteva dar che a dimostrarle quanto fosse 'l mio amore. E ancor la veggio tanto esser de le suoi rare bellezze superba e altera che non par si degni accettarmi per suo.

CALONIDE. Taci, figliuolo. Or non vo' dir piú in lá: ché, se sapessi gl'intrinsechi di lei, forse altrimenti ti parrebbe col ver; ché tutta notte m'abbraccia e bascia e spesso ancor, se 'l giorno non ci sei stato. In fine, ancora in sogno ti chiama e piange e meco si lamenta con dir che tu non l'ami; e ben talora c'è che fare appagarla.

LÚCIA. Oh che bugie!
Non è giá vero.

CALONIDE. Cosí fosse manco in tuo servigio come è da vantaggio di quel ch'io dico. Ma ben sai che poi non staria bene a lei essere ardita e parlar come me. Ma sia pur certo che d'affezion ti avanza.

FILOCRATE. Lúcia, è vero?

LÚCIA. Che cosa?

FILOCRATE. Quanto ha detto, qui, tua madre.

LÚCIA. Ha detto cose assai.

FILOCRATE. Non ti ricordi?
Che tu ami tanto me quant'amo io te.
Ma non lo credo.

LÚCIA. Tu non sei cristiano,
se tu credi sí poco. E perché questo
non creder, sí?

FILOCRATE. Perché vedrei gli effetti,
se cosí fosse. Or che rispondi a questo?
Non ti fare insegnar.

LÚCIA. Faccia mia scusa
la fanciullezza mia, ché inver non so
darti risposta.

CALONIDE. E che vuoi che risponda? che non ha mai parlato con alcuno quanto or con te. Ve', ve'! Dimmi, Filocrate. Chi è quel vecchio? che ogni dí lo veggio passar di qua.

FILOCRATE. Piú presto di', ci impazza: ché, secondo che ho inteso, è innamorato costí di Lúcia e la torria per moglie. Guardalo, un tratto. Oh! gli è 'l buon capitale! Felice quella donna che l'avrá! ché è tutto robba.

CALONIDE. Oibbò! ibbò! ibbò!
Che è quel ch'io sento? E quel vecchio pelato
e gottoso vuol tôr donna ancor egli?
Si li vuol dar. Te ne contenti, Lúcia?
Guarda che bella cera!

LÚCIA. Par lo sposo
de la madre de' vecchi.

CALONIDE. Io dico il padre
de' guattari che sono innamorati.
Non si può bussicar, tanto è pasciuto!
M'ha cosí cera che debbe esser nato
a la luna mancante.

FILOCRATE. Eh! Il poverino non fu mai savio. Oh! Senti che si spurga. Gli è caduto il cimurro: avria bisogno de la scuffia de l'asino. Ah! ca! ca! Bella cosa ch'è un pazzo!

CALONIDE. Orsú! Va' via, ché non pensasse mal: ché sai com'oggi si vive al mondo.

GIRIFALCO. Io son mezzo aggirato. Mi parve pur veder lá non so chi; ed or si fugge; e sento in qua romore. Qualche quistione è nata. Meglio è ch'io ritorni in dietro, che non ritrovassi quel che non vo cercando.

SCENA V

Pilastrino porta a Orgilla da cena abbondantissimamente e commette che ordini per la sera; e, volendo ella saper la cagion di ciò, si parte. Ed ella chiama Eparo lavoratore ivi a caso per farsi aiutare: il che dimostra l'avarizia di Girifalco che non teneva famigli.

PILASTRINO, ORGILLA, EPARO villano.

PILASTRINO. Orgilla! o Orgilla!

ORGILLA. E che vuoi, Pilastrin?

PILASTRINO. To' questa robba.
Non morrem giá di fame.

ORGILLA. Oh! Oh! Puon mente. Ve' quanta robba! Oimè! Mi faccio il segno. Che vòl dir questo? È forse dodici anni che sono in questa casa e sí ti giuro che non ne ho visto mai per la metá. Dimmi, di grazia.

PILASTRINO. Non è tempo, adesso.
Fa' d'aver cura a questo, che stasera
ogni cosa sia cotto.

ORGILLA. Oh! S'io gli cuoco,
ch'io caschi morta, se prima non dici
la cosa come sta.

PILASTRINO. Tu vuoi ch'io 'l dica?
In casa s'ha da fare un par di nozze.
Bastiti questo.

ORGILLA. Seheh! Dimmi il vero.

PILASTRINO. Attende qui.

ORGILLA. Di grazia, dimmi il tutto.

PILASTRINO. Nol saperai, se non m'attendi prima.
Incomincia qui. Sú!

ORGILLA. Mezzi i pollastri arrosti e mezzi lessi e questa carne a l'ordinario e mezzi anco i pipioni faremo arrosto e gli altri in un tegame, da far solo a l'odor levare i morti, come so fare.

PILASTRINO. Iddio ti benedica. Tu sei saccente piú de la metá ch'io non pensava. L'altre cose tutte rimetto in te.

ORGILLA. Che vuoi far lí da canto di quel fagian?

PILASTRINO. Lo voglio di mia mano governare istasera: e imparerai un modo onde potrai fare al messere mangiarsi, un tratto, in cambio di lasagne, i suoi stivali. Come torna, digli che aspetti in casa; ché avrò il negromante stasera meco.

ORGILLA. E tu vai, Pilastrino?
Che m'hai promesso?

PILASTRINO. Nulla.

ORGILLA. Ah sciagurato! Tornaci pure a cena. O vecchio matto, dove hai lasciato andare il tuo cervello? dove è 'l tuo senno? Ho visto cento pazzi da incatenar che non farian mai quello che fai or tu in vecchiezza. Ma Dio voglia che non sia qualche tratto di costoro di mala sorte. Eparo! o Eparo!

EPARO. Ben?

ORGILLA. Ben fostú mézzo, sciocco!

EPARO. Ben, madonna:
che ti manca?

ORGILLA. Non altro se non quello
che hai tu e non ho io.

EPARO. Non so che m'av'é che questi pagni frusti qui di nogona ed una capannuccia a ca' e l'asina di mia moiera. Egghi negotta ancora che sia per ti?

ORGILLA. Sí ben che c'è; quell'asina di tua mogliera.

EPARO. Mò non g'ho di quella a far negotta é, ché l'è del suoccio. Li faccio ben le spese e la somezo e la governo ancor; ma l'è di lui. Maidò, non g'ho da fare é.

ORGILLA. O cappachione, si vede pur che sei nato villano, c'hai piú dura la pelle de la testa e de la fronte che non han le bestie. Vo' farti scorto.

EPARO. E perché? Non ti intendo, se Dio m'aida.

ORGILLA. Perché spuntar fuora non ti posson le corna de la testa. E pur sei becco.

EPARO. Parla ch'io t'intenda; ché non son becchi ne' nossi paesi, se non quegghi che ammontan le bestiuole. I galli e le galline ancora l'hanno; ma non l'ho é.

ORGILLA. Ascolta, anima mia.
Che vuol dir che tu sei sí grossolano?
Vo' che tu venga a girarmi l'arrosto
di qua in cucina.

EPARO. E che tanto cianciare
e berlingar? Dimmi se vuoi covelle,
ché vo' spazzar la ca'.

ORGILLA. Possi morire,
se tu vedesti mai camicia a donna.
Bufalo, e 'n questo mondo a che sei buono?
Va', sta pur con le capre.

EPARO. Vagghi ti; ché non sei buona se non da sbelare e non sai che ti voglia.

ORGILLA. Guarda razza di matto scempio! Vorrei venir teco ad esser tua mogliera a casa tua. Te ne contenti?

EPARO. N'ho d'avanzo n'una é. Che credi, se ben siam grossi di pagni, che siam poi asen? ché non è bastante ad una donna sol tutto un comuno di nossi pari; e tu vuoi ch'in mia parte n'ava dò o tre! La non ti verrá fatta, Orgilla me.

ORGILLA. Orsú! Va' tra' de l'acqua; e porta sú tutt'oggi de le legna; tramuta quei pietron che sono a basso; e fa' netto il terrestre e la cantina com'uno specchio. Or vanne, bufalaccio! Si voglion gli animali adoperare solo a quel che son buoni.

EPARO. Ben, madonna.

SCENA VI

Torna Fileno da casa di Artemona roffiana e racconta piú cose strane che v'ha veduto.

FILENO, CRISAULO.

FILENO. Addio, vecchiona. Parti che ne facci a dritto ed a traverso? E poi al padrone porta mille ciancette e vuol che creda che questa sia la prima che ha venduto e quel che fa sol faccia per servirlo, come intera e da bene!

CRISAULO. Ecco Fileno. Ringraziato sia Dio. Che nuove porti? che t'ha risposto? verrá qui istasera? ha fatto nulla?

FILENO. Non l'ho ancor trovata; ch'era, m'han detto, andata fuori al monte a cercar di certe erbe. Ho ben lasciato che venghi, come giunge.

CRISAULO. A chi parlasti?

FILENO. A quei di casa, ché v'era una corte che l'aspettava. Io so che quella strega ha tutte le virtú cardinalesche e l'arti liberali. Mi ricorda, quand'entro in quella casa, de l'inferno, a quel ch'ivi si vede.

CRISAULO. Che dirai? T'intendo ben. Sei stato fino a sera lá, con qualche carogna che ha per casa, ed or vuoi far la scusa.

FILENO. Io non lo niego. Ma non son giá carogne; ché, a la fede, c'è di bei visi.

CRISAULO. Tanto avestú fiato.

FILENO. Vo' che vi venga, un tratto, e che tu veda l'opre belle che fa questa tua arpia. Il collo torto, il volto consumato, quegli occhi lagrimosi accompagnati con l'abito fratino e i paternostri che sempre biascia inganneriano il tempo che inganna ognuno.

CRISAULO. Di' che cosa è questa, se lo sai dire.

FILENO. Io te ne dirò parte. Tu vedi prima una casaccia antica fatta al tempo de l'arca; e poi le stanze fantastiche, affummate; e, per la casa, vecchie sciancate che paion Creonte; ed una infinitá di fanciullette che tien (come faremmo noi i capponi sotto la cesta) perché venghin belle. E, quando poi son grasse e da qualcosa, le vende, le trabalza e con danari ne fa ogni derrata. Ivi tutte hanno il lor proprio esercizio: una pesta ossa e piú cose bizzarre; una crivella le polveri e sementi; un'altra l'erbe mette ne le strettoie e cava il sugo; questa fa medicine; un'altra unguenti, penso, da gambaracci e simil cose; una è in lavar la trementina; e l'altra, falserá sollimato e, con salnitro e solforo, fará puzzar la casa. E vedi poi, d'intorno, mille fatte di lambicchi e campane da stillare, bocce di vetro le piú contrafatte del mondo. Ivi fornaci, scaffe e stufe, orci, fiaschi, arbarelli e tarabaccole. Per le fenestre fiori, erbe e sementi, radici, zucche, zucchelle e pignatte, laveggi, pignattini e speziarie e cose strane. E ci vedrai d'augelli piú membra; e piú animali scorticati; e pelle e grassi e sangui come inchiostro; unghie e capei morti.

CRISAULO. Io son giá sazio.
Non mi dir piú, ti prego.

FILENO. Odi ancor questa. Oggi vidi stillare a una campana che è fatta appunto com'un uom che s'abbia le man miso in su' fianchi; che credetti morir di rise. V'era cinque o sei di quei visi affummati intorno al fuoco, che parean le donzelle di Vulcano giú nel regno di Dite. Ancor piú oltra passando, vidi in una gran caldaia il piú schifo belletto, che a la prima mi fe' voltar lo stomaco a vederlo, ove dicevano esser perle e gioie, oro e coralli. Poi ne vidi un altro d'un'altra fatta, che v'era ammarcito un mondo d'uova e colombi favacci e teste di castroni e pilpistrelli e piú grassi e biturri e piú pastocchi che qualche volta.

CRISAULO. Sú! Fornisse, un tratto.
Fa' che si ceni. Che ora può essere?

FILENO. È passato di poco un'or di notte.
Entriamo in casa.

SCENA VII

Venendo di notte Filocrate a la posta a Lúcia e non vedendola, si pensa che una pignata, ove era steso un fassoletto, sia essa e non li voglia rispondere: onde se ne parte tutto pien di sdegno. Pilastrino, in questo, cercando Listagiro, si imbatte a veder tutto quello che fa Filocrate; ed apre piú la cosa e mostra che la cena si indugerá a l'altra sera per non aver trovato Listagiro.

FILOCRATE solo, FRONESIA fante a la fenestra, PILASTRINO.

FILOCRATE. E ch'io mi sia ingannato non può giá star; ché questa è pure appunto l'ora che m'ordinò. Vo' ritornare un'altra volta. Vincer pur devrebbe la lunga servitú, la mia pazienza sí cruda mente. Visch'! visch'! isch! Oh! Eccola; è venuta. Pensai bene: ché, s'io non ritornava, forse ch'ora s'andava al letto; c'ha la scuffia in testa. Guarda come riluce! T'ho aspettato qui, giá tre ore. Io non credo che pensi a me, se non a caso; e, per quai merti, o qual mio fallo, mi sei sí crudele? Ci debbe esser di nuovo qualche amante che ti de' tôr di mente la mia fede, l'amor, la servitú che tanto tempo hai visto in me.

FRONESIA. Chi sento giú? È Filocrate.
Ma con chi parla?

FILOCRATE. Prego che mi dica
la cagion del tuo indugio perché dentro
giá 'ncominciava a sentir tanto sdegno
che forse anco avrei preso de' partiti.
Non vo' dire altro.

FRONESIA. Odi. Costui vaneggia.
Oh! Va', ché tu m'hai pien del tuo cervello.
Parla con l'aere.

FILOCRATE. Tu non mi rispondi, Lúcia? A chi dico? E' non sta però bene far tanto strazio di chi sai che t'ama piú che la vita propria. Aimè, che torto! Lúcia, ti prego, attende a quel ch'io dico. Non mi lasciare andar cosí istasera beffato a casa, ch'io ti do mia fede che te ne pentirai.

FRONESIA. Oh! co! co! Parla a una testaccia, che v'ho steso sopra un fassoletto.

FILOCRATE. Aspetto ancora alquanto,
se ti muove piatá.

FRONESIA. Puoi aspettare.
Chi nasce matto non guarisce mai.
Il mal tuo non è a lune.

FILOCRATE. Deh! Se mai ti venne in cuor del mio lungo servire poco ricognosciuto e de la fede e di quanto per te giá mai soffersi amando e di giá tanti spesi giorni ne' tuoi servigi render qualche cambio, mostrami tutto in questo; e fammi grazia d'una parola.

FRONESIA. Ve' che bella predica! Cosa appunto da lui, oh! far l'amore a una pignata e voler convertirla con sí belle parole!

FILOCRATE. Aimè! che in vano prego un sasso, una tigre e mi querelo. Altronde porti i miei lamenti il vento; ch'io mi risolvo al tutto di cangiarmi di sentimento, poi che piace al cielo. La prima non è giá, ma ben fia forse l'ultima. Sí, che ancor ne piangerai!

FRONESIA. Oh! Sta', ché si scorruccia. Voglio andare, ch'io creperei. Tratterrò in tanto Lúcia, ché non venisse a sorte a la fenestra e guastasse la torta. Oh! co! co! co!

FILOCRATE. Abbi speranza in donne! abbi in lor fede! credeli il paternostro! Ahi reo costume! Chi tanto ha posto in voi di falso e vano? tanto di crudo, iniquo, acerbo ed empio? Chi vi ci fa suggetti? Ma che! Forse la sorte mia, perché non peni sempre, sempre non mi ritrovi in quello errore in che ora sono e perché n'esca un tratto, sí mi governa. Assai mi fia acquistato, questa sera, d'aver l'empia natura cognosciuto di voi. Prometto a Dio, per l'avenir, come foco e veleno e mortal peste, di fuggirvi sempre. Troppo era lieto de la mia fortuna che, sovr'ogni altra cosa desiata, ti m'avea dato. Ma cognosco or chiaro che tutto era a la mia futura vita amaro tòsco; perché, alfin, tai frutti si ricoglie di voi e di tai fiori tai fronde e rami suol vostra radice produr fra noi. Pianta empia, rea, mal nata! Che 'l ciel la sterpi. Ma di Giove l'ira a tanta iniquitá punire è tarda. Venga almen, poi, cosí grave e focosa che n'arda anca il terren con le radici. Voglio, prima, di questo consigliarmi con Sofomide mio. E, se ci è via che la possa lasciar, che a l'onor mio, mancando, non mancassi, anzi morire son risoluto che mi ponga in casa un drago tal, sí velenosa vipera m'allevi in seno.

PILASTRINO. Io sono stato un'ora a sentir questo pazzo. Che può avere? Tanti lamenti e tante bravarie! Debbe esser, certo, a la fenestra Lúcia, ché fa lo squartator; Vo' fare anch'io l'amore. È quella? Sta'. Non è? È pur dessa. Dico non è, potta de la fortuna! ch'è, credo, una pignata. Oh! co! co! co! Io so che l'è col manico. La voglio puor fra le cose del piovano Arlotto: come quell'altra che fece Listagiro per uscir di prigion; che si fe' morto e, quand'il portâr fuori a sotterrarlo, se ne fuggí, pestato prima il volto a un di quegli sbirri che 'l portavano con un gran pugno. Or veggio ben che Amore fa travedere appunto a questi sciocchi come fa 'l vino a me. La vo' contare in piú di cento luoghi, anzi ch'io dorma. Io lancio de la fame; ché ho cercato quest'altro parasito tutto il giorno. Or mi risolvo che non è possibile che ceniamo istasera. E che 'l vecchione impari, un tratto, a fare a la civetta in terzo con duo mastri di rapina! Forza è che l'indugiamo un dí vantaggio per farla netta; ché a trovar Listagiro non basteria 'l piú valente pilotto che guardi carta. Io so che in Pizzimorti non è stato oggi; e ancora in Fiaccalcollo né in Gattamarcia non è capitato. Sempre che abbiam da far qualche bel tratto par che intravenga questo. Fia forse ito verso 'l tinel del cardinal de' Medici a cortegiare il cuoco. Oh! Quel signore devria adorar ciascun, poi che senz'esso ogni virtú mendicherebbe un pane, come soleva, nunc et usque in seculi . Io mi muoio di fame; ed ho pensato di stendermi in fin lá, dove, se 'l truovo, scroccherò prima anch'io, poi daremo ordine a questo offizio per diman da sera. Lasciami caminar, perché a la mensa beati primi .

ATTO II

SCENA I

Artemona viene, in sul far del giorno, a parlare a Crisaulo e li trae di mano un'altra soma di farina e prometteli, sotto scusa di andare a stender camicie, di parlare a Lúcia.

ARTEMONA roffiana, TIMARO, CRISAULO.

ARTEMONA. Ta, ta. Saran tutti a letto.
Piace anche a me 'l dormir.

TIMARO. Chi batte giú?

ARTEMONA. Amici. Apri: son io.

TIMARO. Pare una donna.
E chi sei tu che vai cosí a quest'ora?
Oh brutta vecchia! Se non par la strega
che vadi in corso!

ARTEMONA. Dimmi: ove è Crisaulo?

TIMARO. E che buona faccenda? qualche polli, cosí a buon'ora?

ARTEMONA. Quel che vuoi, speranza. Non mi fare indugiar, ché non è ora da star per via.

TIMARO. Non dubitar, figliuola,
ché non sarai rubbata.

ARTEMONA. Oh! Basterebbe
perder l'onor.

TIMARO. Che? la verginitá?
Se tu non perdi quelle che hai venduto…
che son piú d'un million.

ARTEMONA. Dissi l'onore.

TIMARO. Oh! l'onor c'hai struziato a mille amanti e mille donne. Credo ch'omai d'altro puoi perder poco.

ARTEMONA. Tu non l'hai chiamato.
Di' che son io, ché mi spedirá, forse.

TIMARO. Eccol che viene. Arruffati, barbuta.

ARTEMONA. Dio ti facci contento.

CRISAULO. E te meschina, donna maestra di non dir mai vero e vender ciancie.

ARTEMONA. E perché dici questo?
Ancor io non ti intendo.

CRISAULO. Son ben tante
quelle che tu ci fai che con fatica
te ne puoi ricordar; senza mille altre.
Ove m'hai fatto ultimamente andare,
che aspettai tanto e non vi fu persona?
Che vuoi ch'io pensi?

ARTEMONA. Oh! Di cotesto sai che non tel dissi certo; ma pensava, secondo che m'avea detto la fante, che la vi andasse. Non ci ho colpa alcuna. Dio sa'l cuor mio. Oh se tu fossi, figlio, quel ch'io ti prego ognor!

CRISAULO. Non è in proposito.
E poi fai 'l grande meco.

ARTEMONA. Odi. Ti giuro sopra l'anima mia che appunto or ora son giunta a casa: ché da lune in qua non mi son mai partita (io tel vo' dire) d'un monastero; ch'una mia compagna mi ci ha tenuto a lavar certi panni del padre confessoro. Oh paradiso! Biat'a lor che v'andranno!

CRISAULO. Io non ricerco i tuoi travagli. Dimmi se facesti di quella mia.

ARTEMONA. Sí, sí. Lasciami dire. Da poi ch'io ti trovai v'ho messo mano; e 'l dí dopo, in bel modo, feci a Lúcia, ridendo, cenno di voler parlarli. Ella non s'è mostrata in alcun modo né di qua né di lá, ché sta in sul savio per amor de la madre; ma dimane la coglierò in soquadro, se crepasse. Voglio tre o quattro de le tuoi camicie piú belle per lavarle; e con degli altri panni le stenderò ne la sua altana. E lascia che a la prima non li parlo, che farò qualche ben.

CRISAULO. Non ti dico altro se non che quanto mai ce n'è bisogno: ché so ben come sto. Fa' di servirmi e serviti di me.

ARTEMONA. Ti vo' contare. Quella farina, ch'è forse otto giorni che mi mandasti a casa, il mio figliuolo, quel maritato, venne, non ier l'altro, quand'io non era in casa, e se la prese dicendo che n'ha piú di me bisogno. Ond'io son senza; e, per trattare or questa tua impresa, non lavoro o faccio niente; e cosí non guadagno: onde conviene alfin ch'io stenti. Di darti fastidio a me ne incresce. Abbimi per iscusa che 'l bisogno mi fa forse far quello che non feci mai piú.

CRISAULO. Basta. T'ho inteso. Timaro, fa' portare a questa donna, a casa, un'altra soma di farina; e, se vuole ancor altro qui di casa, dálli quello che vuole.

ARTEMONA. Oimè meschina! Vivrò mai tanto che mi sia concesso rendere in cambio di sí larghi doni, non parole, ma fatti? E forse tali che tu sempre cognosca tanto bene non aver fatto, se ben poverina, a donna ingrata. Certo, ch'io non posso, almeno in render le debite grazie, scioglier parola.

CRISAULO. Non grazie o parole. Fa' ch'io sol veda, lá dove bisogna, parole e fatti; ché so ben c'hai l'arte e la lingua da far muovere un sasso, non ch'una donna.

ARTEMONA. Vo' che sian gli effetti
che provin l'arte, l'amore e la fede.
Resta con Dio.

CRISAULO. Fa' di tenermi a mente.
Va'. La accompagna tu per fine a casa,
Timaro.

TIMARO. Ben, signor. Son de le nostre, se séguiti cosí. Vecchia scanfarda, sará ben forza ch'io ti cavi gli occhi, se non sei onesta piú nel dimandare per l'avenir. Ti farò lavorare, se vòi viver crestosa. Oh! Parti bella? Sgomborarmi la casa con le some! Fa' conto di venir piú regolata; ché, per Dio vero…

SCENA II

Lúcia si lamenta di Filocrate e manda la fante a cercarlo.

LÚCIA, FRONESIA.

LÚCIA. Aimè, caro Filocrate! Son pur passati giá tre giorni interi e non ti veggio. Ove son le promesse che cosí caldamente, tante volte, a mia madre ed a me festi di tôrmi e sempre amarmi? Di quante lusinghe, quante false parole e quanti inganni son sempre pieni, omini senza fede! Quante son quelle che nel fin rimangono da voi ingannate! Ahi quante crude morti! quante passion portiam per creder troppo! Non posso desiar di te vendetta; né, potendo, vorria: perché piú quella sopra di me verria che a te medesmo, quando la ti venisse. Sol ti prego che vogli aver di sí dogliosa vita qualche pietade.

FRONESIA. Io te l'ho detto sempre che non bisogna fare in lor disegno mai di fermezza; ché son fatti appunto come le foglie e, con modi e parole e, come dicon, con lor servitú, trattengon tutte. E, s'avesser con mille commoditá, tutte gli son padrone; tutte li fan morir. Poi, vedi, al fine, i portamenti lor mostran l'amore e il lor poco cervello.

LÚCIA. Orsú, Fronesia! Voglio che vadi a dimandar di lui in qualche luogo e che non torni a casa se non me ne dái nuova interamente. E pregal quanto puoi da parte mia ch'io li vorrei parlar.

FRONESIA. Mi metto in via. E lascia fare a me, ché non è un'ora ch'io l'ho parlato. Ma tu, se madonna gridasse, sappi trovar qualche iscusa. Ed io son qui in un punto.

LÚCIA. Va', sorella: e sappi far.

SCENA III

Pilastrino e Listagiro vengono, avanti ora di cena, da Girifalco, temendo che, per la troppa roba comprata, il vecchio fosse sdegnato; e, trovandolo meglio disposto, Listagiro li guarda la mano; e partensi con ordine di tornare a ora di cena.

PILASTRINO, GIRIFALCO, LISTAGIRO parasito.

PILASTRINO. Buona sera, messere.

GIRIFALCO. Oh! Siate i ben venuti, i miei figliuoli! Ben mi pareva d'avervi sentito; e però son venuto in su la porta ad incontrarvi.

PILASTRINO. Come sta la cena?

GIRIFALCO. Sará in ordine a l'ora; ma, se pensi di trattarmi cosí…

PILASTRINO. Perché?

GIRIFALCO. Spendesti piú di mezzo il ducato.

PILASTRINO. Non è vero. Eccoci a brontolare. Ah discrissione! Orsú! Fa' che beviamo almeno, un tratto, acciò che meglio possiam ragionare senza seccarci.

GIRIFALCO. Pilastrin, piú regola. Non è poi meraviglia se stai sempre malsano perché nuoce fuor di modo il ber cosí ad ogni ora; ché, nel corpo, fa come, in un laveggio, mentre bolle, puor l'acqua fredda che toglie il bollire: onde nascon di poi l'infermitá, come tu vedi.

PILASTRINO. Oh! co! co! Chi sentisse parlar costui del modo e de la via del non mangiar né ber non penserebbe che fosse un Ippocrasso o un Gallinello? Cosí c'è dotto!

GIRIFALCO. Per grazia di Dio, sempre ho trovato che mi giova assai non m'acciarpare. E vedi che ho passato di molto il tempo che la maggior parte non suol passare. Ma che c'è di nuovo? In piazza che si fa?

PILASTRINO. Si vende e compra de' frutti e de l'erbette; e qui di nuovo avrem da cena.

GIRIFALCO. Tu sei sempre in berta.

PILASTRINO. Vuoi ch'io ne dica un'altra?

GIRIFALCO. Sí, di grazia.

PILASTRINO. Questo ci abbiam di nuovo: che Crisaulo fa del suo resto; ed or, per questa giostra, apparecchia livree d'argento e d'oro, infin per gli staffieri; ed ha comprato ora un corsier cinquecento ducati. Pensa se è bello!

GIRIFALCO. Tu non di' da vero.
E come 'l sai?

PILASTRINO. Ti voglio dir la cosa. Passava ier da casa di Calonide. Ed erano ivi aspettarlo a la porta duo servi o tre. E mi fermai con loro, alquanto, a ragionare; e intesi questo con mille altre grandezze che di nuovo fa per colei.

GIRIFALCO. Oimè! che mala nuova è quella che mi porti, sciagurato! Poi non debbe esser vero; e tu lo dici per vedermi morire.

PILASTRINO. Oh! tu ti cangi
cosí di cera! E' par che abbi paura
di quel marcetto. N'è ben gran pericolo
che ti scavalchi!

GIRIFALCO. Or to' questi ristori,
Girifalco meschino. E sí, fu vero?
Era pur dentro in casa quel tignoso?
Vedesti 'l tu?

PILASTRINO. Sí, vidi poi a l'uscire, che fu in sul buio; ma non so giá dirti quel che v'avesse fatto.

GIRIFALCO. Aimè tapino! Perché voglio piú viver? Prego il cielo che faccia in modo ch'io mi rompa il collo prima ch'abbi a morir di questa morte. Cara la vita mia, non ti ricordi giá piú di me. Tu mi fai pur gran torto, ché sai che 'l primo dí non ti cercava. E tu ti innamorasti cosí forte di me che non vivevi ben quel giorno che non facevi dirmi qualche cosa.

LISTAGIRO. Lascia pur: ti trarem questi pensieri.

GIRIFALCO. Ed ora, che t'ho posto un poco amore, sei sí ritrosa! E forse ancor mi cambi per una nebbiarella. Che se, un tratto, mi dá fra l'unghie, ne vo' fare appunto quel che fo d'un pidocchio. Oh! ah! ca! ca! Che sará poi?

PILASTRINO. Del tuo resto, s'io posso.

GIRIFALCO. Ghiottoncella, che m'hai cavato il fiato! Ma ti voglio cavare a te de gli occhi quel riso e quelle frasche.

PILASTRINO. E però è buono che sia venuto qui questo mio amico; perch'è persona che ti saprá dire la cosa come sta e forse trarti d'ogni tuo affanno.

GIRIFALCO. E che induggiamo, adunque?

PILASTRINO. Non si può far, di giorno. Poi, istasera, dipoi cena, potrem mettervi mano e far qualcosa buona. E, perché veda ora qualcosa, mostrali la mano. Guarda, maestro Abraham.

LISTAGIRO. Per contentarvi.

GIRIFALCO. Ecco. Guarda, maestro, se a' tuoi giorni vedesti man sí bella e dilicata, colorita e ben fatta.

LISTAGIRO. Bella, bella, se Dio mi guardi. Tu non debbi molto curarla con saponi ed acqua fresca, per ordinario.

GIRIFALCO. Sí, quando è l'estate.

LISTAGIRO. E 'l verno?

GIRIFALCO. Maffenò, ché allor mi lavo sol con la calda.

LISTAGIRO. Ho veduto a la prima. Oh bella vita! oh bei monti! oh begli anguli! oh che bei segni! oh! gran particolari v'è da vedere! Io, per me, mai non vidi la piú felice man. Guarda, messere. Non voglio far come che soglion certi che dicon mille cose, poi fra tutte non si ricoglie un vero. Io sempre dico qualche particolar che sia notabile e lascio le lunghezze. La man, prima, è bella com'un cesso.

GIRIFALCO. Come «un cesso»?

LISTAGIRO. Attendimi, se vuoi. Dissi: non cesso di veder tuttavia cose piú belle quanto piú guardo. Quando non mi intendi, talor, non ti curar; ché ora non puoi esser tanto capace.

PILASTRINO. Orsú! Incomincia.

LISTAGIRO. Prima, per quello che si può vedere, hai una vita lunga piú che n'abbi altra visto giá mai. Viverai tanto che, per vecchiezza, debbi andar carpone per terra con le mani e verrai sordo, orbo ed attratto: ma v'è tempo ancora piú d'ottant'anni.

GIRIFALCO. Oh! Quello andar carpone che non sia qualche mal! ché non ne ho visto alcun cosí.

LISTAGIRO. Perché intraviene a pochi tanto invecchiare. E non è poi gran cosa, quand'altri si ci avvezza.

GIRIFALCO. E come è questo? haine mai tu veduti?

PILASTRINO. Van per terra co' piedi e con le man, per la vecchiezza, come i cavalli e, quasi ogni stimana, bisogna ancor ferrargli; ché, altrimenti, per i gran calli che han sotto a le piante, non potrian bussicarsi.

GIRIFALCO. Uimei! Che sento? E mi bisognerá mettere ai piedi i ferri con i chiodi?

LISTAGIRO. Sí; ma in modo che non posson far mal, perché quei calli vengono appunto duri com'un'unghia d'un cavallo e, se ben v'entrano i chiodi, non si posson sentir.

GIRIFALCO. Dio me ne guardi! Ché vo' inanzi morir dieci anni prima che venire a cotesto; ché, in un giorno, mi romperian le calze e gli scappini: e forse mi dorriano.

LISTAGIRO. A questo, allora, in qualche modo provederem noi. La tua vita sará lieta e felice, benché, per il passato, l'abbi avuta alquanto travagliata; ché sei stato uomo di grande ingegno e penso ch'abbi fatto gran robba.

GIRIFALCO. Eh! cotesto, non molto: ché sempre mai si spende e poi 'l guadagno non risponde a un gran pezzo.

LISTAGIRO. E poi tu spendi liberalmente, ché sei uomo largo.

PILASTRINO. Sí, tanto! nel forame.

LISTAGIRO. Ancor non penso ch'abbi figliuoli; ma, in fra poco tempo, ti se n'aspetta (per quello che mostrano quelle linee che vedi in fra quei monti che fan duo stelle) duo maschi a la fila, perché si fa la congiunzion di Giove ne la casa di Venus. E di questo allegrati perché, per via di madre, nasceran di bellissima progenie. Al nascimento lor, che non c'è forse mille anni, ti dirò de la lor vita cose grandi. E, se questo non ti fosse destinato dal ciel, giudicherei che tu venissi, un tratto, ne la Chiesa un gran privato.

GIRIFALCO. Cardinale? o che?

LISTAGIRO. Forse che sí; perché, giri a suo modo il ciel, che ti s'aspetta poi in vecchiezza felicitá.

GIRIFALCO. Se vien fatta quell'altra,
non vorrei esser papa.

PILASTRINO. Oh scempionaccio!
Ti trarrem ben l'amor.

LISTAGIRO. E de la vita sei talora infermiccio; ma 'l tuo ingegno vede di lá dai monti.

GIRIFALCO. Questo è vero: ché, quando voglio fare una cosa io… Orsú! Non vo' lodarmi. Di persona non son giá infermo: ché, da questa poca di gotta in fuori e certo mal di rene e la pietra, che è giá forse vent'anni che la sento, con questo catarretto…, oh! co! co!…

PILASTRINO. Ti dia Iddio.

GIRIFALCO. … aiuti anche a te… … mi sto assai bene.

LISTAGIRO. Orsú! Tien questo a mente. Tu déi venire, anzi che passi troppo, al desiato fin d'una tua impresa: e fia per la virtú di duo pianeti le cui opposizion debbon pure ora mancare al fin di questa nuova luna. E le cose che son giá lungamente desiate verranno a buoni effetti. Però sia allegro. Or non vo' qui discorrere il ciel di cerchio in cerchio e i loro aspetti. Ma ho detto appunto.

PILASTRINO. Basta. È da vantaggio.
Diamo una volta in piazza.

GIRIFALCO. Io non potrei,
maestro, ringraziarti a la metá
di quel che…

LISTAGIRO. Lascia andare or le parole.
Ringrazia il cielo che ci ha fatti degni
di tanta sua virtú.

PILASTRINO. Studia la cena.

GIRIFALCO. Non furia, Pilastrino, perché Orgilla mal può sola conciar tante vivande quanto comprasti.

PILASTRINO. Avresti da allegrarti e tenerti felice, che ho provisto robba a bastanza: ch'io ti so dir certo che t'avremmo mangiato al manco mezza cotesta tua giubbessa in su le spalle e da mano e nel petto; che sarebbe com'un presciutto appunto.

LISTAGIRO. Oh! co! co! co! Tu mi farai crepare. E la berretta? Non n'hai fatto menzion. Che par caduta nel catin de la morca di dogana e sarebbe bastante a cento frati de l'Osservanza a condire un minuto di duo caldaie.

PILASTRINO. Quel si ci intendeva.

SCENA IV

Artemona, parlando da sé, mostra di aver parlato a Lúcia ed aver ricevuto da lei villania; e, in questo, truova Fronesia che cercava di Filocrate. E, partitesi l'una da l'altra, Fronesia si pensa di non cercar piú Filocrate ma fare, in favor di Crisaulo, uno inganno a Lúcia.

ARTEMONA, FRONESIA.

ARTEMONA. Che farai, vecchia? Vuoi dare a Crisaulo questa cattiva nuova? Io veggio certo che non si fa per te. Gliel dirò pure; ma in destro modo. E vo' veder s'io posso farlo suonar di qualche bolognino per riavermi di quella paura che m'ha fatto colei. E, se non sono al cane adesso, non ne vo' quattrino; che mi farebbe far senza disagio mille miei faccenduzze. Ecco Fronesia. Non par quasi turbata punto in vista. Debbe averla istimata forse anch'ella, com'ho fatto io. E dove, cosí in furia? Come andò poi la cosa?

FRONESIA. Eh! manco male.
Ha fatto pace meco.

ARTEMONA. Lo sapeva; ché non fu mai tempesta che durasse. Io t'arei da insegnar come hai da fare che questo toro ti divenga agnello, se potessi fermarti.

FRONESIA. Non è tempo, ch'è troppo tardi. Ci vedrem dimane. Non voglio piú cercarlo, poi che ho inteso ch'è fuori in villa e non si sa pur dove. Onde avrò luogo di fare un bel tratto in favor di Crisaulo e far mio sforzo di cavarneli al tutto de la mente: ché, infin che sta cosí, non è possibile che pensi ad altro; ché noi donne sempre pigliamo il peggio. E, se fia suo marito, sendo pover di robba e di parenti, faranno amendui insieme i stentolini ed a me sará forza procacciare altronde il pan. Ma se, per opra mia, venisse in mano di Crisaulo ricco, so che gran doni non mi mancherebbono. E, se piacesse a Dio che la sposasse, sarebbe ella felice ed io, contenta, me n'andrei seco. E di tutta la casa sarei donna e madonna; e con alcuno di quei bei giovanotti servitori mi starei qualche volta a sollazzare; e cosí lieta sguazzerei il mondo. A la croce di Dio, che è ben pensata! Diman voglio trovar la vecchia e seco consigliarmi di questo; e che pensiamo qualche malizia nuova.

SCENA V

Artemona, trovato Crisaulo, li narra quello che è seguito de la sua imbasciata e lo lascia mentre egli si lamenta d'Amore: in che poi forte crescendo, preso da uno accidente di cuore, si vien meno; e, per una orazione di Fileno suo servo fedele, ritorna.

ARTEMONA, CRISAULO, FILENO.

ARTEMONA. Io non pensava piú di trovarti.

CRISAULO. Eccomi qui. Che nuove?

ARTEMONA. Cattive e dolorose.

CRISAULO. Aimè! Son morto.
Contami il tutto.

ARTEMONA. Eh! Non cosí cattive che nochin con effetto, ché vedrai che te la vo' domar; ma, per adesso, si mostra aspretta.

CRISAULO. Sará tanto, al fine, ch'io ne morrò. Dimmi come è passata, di punto in punto.

ARTEMONA. Oggi vi sono stata: e la fante mi la ha fatto parlare, sotto quelle camicie; ed io da lunge mi mossi per ordir la buona tela. Ma costei se n'accorse nel principio: onde mi colse ben, ché è gran ventura ch'io ne sia ritornata senza offesa. Ma ancor, per questo, non aver pensieri; ché, anco che crepi, le vo' trar del capo la bizzarria.

CRISAULO. Ben l'avev'io pensato: ché la cognosco per la piú crudele, la piú ingrata e scortese che nascesse mai sotto il cielo. Ahi lasso sfortunato! Questo è 'l buon guidardon di tanta fede? Deh non foss'io mai nato!

ARTEMONA. Taci, dico.
Ascolta.

CRISAULO. Sí, s'io posso: ch'io mi sento mancar l'anima dentro. Ma che fia? Dopo tanta miseria, al fine, un giorno verrá pur lieto e, dopo tante morti, una che mi trarrá di questi affanni. Questo s'acquista.

ARTEMONA. E va'; riserba altrove tanta disperazion: ché, se sapessi il lor cervello come è dentro fatto, com'io so giá per mille, non potresti se non sperar. Ti giuro, sopra questa anima peccatrice, ch'io la tengo piú sicura che s'io l'avessi in casa. Ché, a dire il vero, non è cosa al mondo sí varia e ad ogni vento tanto mobile quanto è la mente lor. Nulla è si stabile in lor che non si muti poi col tempo e con ingegno ed arte.

CRISAULO. Io ben lo provo. Orsú! Vo' che mi dica che ti pare che abbiamo a fare; e cosí governarmi, se per me si potrá.

ARTEMONA. Non ho tempo ora, ché ti direi una mia fantasia sopra di questo; ma ci voglio meglio pensar. Lascia, ch'io vengo infra duo giorni con qualche aiuto. Fa' che, in questo mezzo, tu non ti pigli affanno.

CRISAULO. Iddio volesse che lo potessi far!

ARTEMONA. Fa' di sforzarti.

CRISAULO. Deh! Perché non poss'io tante parole formar col pianto o, co' sospiri ardenti, dar tanto di valore a questi venti che al cielo ancor de l'acerbe mie pene giunga pietade? Ché giá qui mi pare ch'ogni cosa mortal meco s'attristi, meco pianga e sospiri e mostri in vista di compassion sembiante; se non quella che sol desia vedere in mezzo agli anni quest'alma spenta. E giá condotta è a tale che poco manca che sí dura vita non abbandoni e si ritorni ignuda al suo Fattor.

FILENO. Caro padrone, affrena questi tuoi pianti. Tu vuoi pur far lieti i tuoi nimici e noi sempre tenere, miseri, in duolo. Se non vuoi aver cura a te medesmo, abbi almanco rispetto a noi; che piú t'amiamo e piú nel cuore abbiam le tuoi passion, gli affanni e pene che piú ci affliggon che le nostre istesse. Prendi questo leuto; e, per uscire di tanto duolo, fa' che suoni e canti qualche canzone allegra.

CRISAULO. Altro non posso cantar se non di quel che dentro il cuore mi muoverá.

FILENO. Sú! Non star piú; ch'io senta.

CRISAULO.
MADRIGALE

Non vedrá mai queste mie luci asciutte, in alcun tempo, il cielo né l'alma de le dolci fiamme spenta per fin ch'ella si spogli, lieta, del mortal velo, lasciando il corpo e l'amorose lutte. Alta luce, che accogli l'anima ch'è contenta in cosí dolce foco arder mai sempre, con meno amare tempre scorgi l'alma che è giunta all'ultim'ora; poi che, morendo, ancor t'ama ed onora.

FILENO. Ah! Tu sei pur di bello in su la grossa! Oh! Che canzone è quella, da cantare il dí de' morti!

CRISAULO. Ahi! Luce di mia vita, che al cor lasso di sí dolci pensieri fosti esca un tempo, altro or da me non vuoi che pianto e morte. È venuto omai l'ora. La ti do volentieri.

FILENO. Aimè, padrone!

CRISAULO. Io passo. Potrai dirle tu con vero ch'io son morto per lei.

FILENO. Timaro, corri; porta aceto rosato e malvagía e confessioni. Aimè! ch'io tremo tutto, ché 'l padron si vien meno. O sommo Iddio, chiunque puoi col sol benigno sguardo al mio caro signor porgere aita, deh! muovati pietá, se quella solo ne gli spirti celesti vive e alberga; né vogli di sí cruda e acerba morte di chi piú che sé t'ama e sopra a tutti li iddii t'onora esser cosí cagione. Ma, se pur questo fosse in suo destino e 'l ciel cosí dispuon che Amor questi occhi lassi chiuda piangendo, a te mi volgo (se feci mai perché benignamente merti d'essere udito) che nel cielo sei piú potente, Amore; e sol ti priego che pria mi facci de la morte dono (ch'io te la chieggio in grazia) che ciò segua: ché assai piú amara e piena di spavento questa mi fòra e quella men dogliosa, lasciando in vita lui.

CRISAULO. Che fai, Fileno? Mi pare aver sentito apparir, dentro ne le tenebre mie dell'intelletto, luce d'immortal guardo che gli oscuri e dogliosi pensieri in parte m'abbia riconfortato. E m'è venuto in mente, quando si truova un poverino ignudo, nel tempo de le nevi, essere, in luogo diserto, sí aggelato che giá l'alma si sia partita, pur restando alquanto nel cuore ancor del caldo naturale, che, venuto un allegro e ardente sole, li porta, insieme con un dolce caldo, la vita giá perduta.

FILENO. I caldi prieghi sono stati, signor, che ho qui, piangendo, porti a quel Sol che col suo divin raggio sempre ti può far vivo.

CRISAULO. Non fia mai in me dimenticato tanto amore. Anzi, per fin che sará questa vita meco, l'avrò con gli altri tuoi infiniti buoni uffici nel cuore.

SCENA VI

Pilastrino, avendo cenato col vecchio, esce ebbro di casa: e, caduto di contra a la porta di Crisaulo, la famiglia sua esce fuori con arme dubbitando di romori.

PILASTRINO ebbro, FILENO.

PILASTRINO. Oh! oh! co! co! Sta', sta', ch'io vengo. Ohu! Sú! sú! Listagiro, corri, ché la casa trema, ca…cade. Lascia, lascia 'l vecchio, ché affumma tutta. Oh! co! co! Ve' ch'io 'l dissi. Eccola in terra. L'addovinai pur. Leva! leva! Lasciami spegn…gne…gne…gner quel mocchilone. Addio! Sta' sú, Pilastrino, in su la persona. Te n'hai fatt'una ben…ben…buona, a raso canale. Oh! Stammi cosí bene allegro. Sí, sí, gli è buono: ch'è piú dolce ch'essere in su la pancia (oh che dolce morire!) d'una vitella cotta col formaggio; ch'è piú dolce che 'l mele. Oh! Cosí vogliono esser gli uomini li…liberali! Ohu! oh! co! Guarda come gira ben…bene il tetto in su la piazza! So, so che nol farebbe Iddio che non ci sia qui al mulin di Bertaccio. Sta', sta', che viene. Eccolo. Véllo. Sta' pur fermo. Non mi ti accostar, ché son troppo stanco. Ecco lí quan…quante belle donne! Se non mi pare 'l bor…boor… borgo nuovo! Leva! leva! fugge! oh! fugge sotto, ché 'l ciel ca…casca! Ve' che 'l camino arde in cu…cucina. Sú! Leva la torta. Ve' che mi struggo tutto, ahuè! d'ambascia. Oh! S'io non pagassi un pan unto, qui, il letto de la Gnesa, tan…tanto mi vien sonno! Oimè! come mi duol lo stomaco ne le budella! Ve', lá giú, quan… quante pecorelle! Vo' saltare anch'io e ballar d'allegrezza. Lasciami appoggiar prima con la persona. Chiocciola marinella, cava fuor le corna. Oh potta di santo…! Par ch'abbi la febbre, cosí mi bolle il fegato! Oh! Bogli bogli, calderon, per dispetto del tuo padron. Oh! co! S'io mi reggo d'allegrezza, ch'io diventi speziale o sbirro. Lascia ch'io fornisca questa, e vengo. Streppiti e calderoni, ch'io li ho impegnati. E viva la ca… Sta', non mi dar la spinta. Eccomi giú. Oimei, c'ho rotto dentro! auhè!

FILENO. Chi è quello? Timaro, chi è lá? Senti? Chi grida? Che romore è? Che vuol dir, Pilastrino? Tu non rispondi? È morto. Aiuto, aiuto! Arme, arme! Fuori! ché gli è stato morto, qui, Pilastrino. Accennami col dito se ancor sei vivo.

PILASTRINO. Oh! oh! oimè meschino!

FILENO. Non c'è mal, non c'è mal.

PILASTRINO. Ben… ben sapeva ch'oggi m'avea a venir qualche disgrazia. S'io campo, faccio voto di vestirmi pinzocora del terzo ordine. Oimei! oh! che m'esce il fiato.

FILENO. Guarda lá gaglioffo! Forse ch'io nol pensai che gli è ubbriaco, questo impiccato? M'era giá venuto il cuor, di compassione e di paura, ad un granel di miglio. Che t'han fatto? Di', Pilastrino.

PILASTRINO. Son caduto giú da le mura de la ròcca. Oimei! Aiutami, qua giú nel fosso, fratello, ch'io moro. Vorrei la candela da benedire e ben da bere in questo affanno.

FILENO. Parti ch'abbia ben preso l'orso per gli orecchi, questo poltron? Sta' sú, che sei ubbriaco spolpato. Quel che avresti di bisogno in questo mal sarebbe un braccio e un terzo d'un buon querciuol. Questo porco da stalla, ch'ogni tre dí si cuoce!

PILASTRINO. Tu non dici il ver, se fossi mia madre. Ti vo' far men… men… mentir per la gola. Aspettami, assassino! ch'io ti voglio accusare. Non camperai da le mie mani. È desso, quel traditor, quel biroldaio, boia. Ti vo' cavare il cuor, coglion, co l'unghie. Lasciami pure arrizzare il ca… capo ben… bene. Sta'. Tien… tienti alto. Oh! Bene! Io me ne vado in chia… chiazzo Barletti a ber con l'oste. Addio.

ATTO III

SCENA I

Listagiro e Pilastrino fanno uno incanto piacevole al vecchio il quale, per mezzo di quello, pensa, la sera, godersi di Lúcia; e, fattolo stracinare ai diavoli e leggatolo sotto una scala, gli svaligian la casa e rompengli i forzieri e escon fuori carichi di robbe con i sacchetti in mano dei danari.

LISTAGIRO, PILASTRINO, GIRIFALCO.

LISTAGIRO. O Pilastrino, non mi stringer a questo perché sai che la Chiesa lo vieta. E, se qualcuno m'accusasse al Vicario, che sarebbe atto a tenermi che non ruinassi? So come fanno.

PILASTRINO. Tu puoi pur pensare che, se ben non sapessi la natura di quest'uomo da ben, non ardirei dimandarti tal cosa; ma, per altro, l'ho cognosciuto esser sí liberale e per l'amico che vo' che tu 'l serva per amor mio. Non pigliar piú lunghezze. Mettiamvi mano.

LISTAGIRO. Io ti credo ogni cosa. Ma questo tu sai pur che non si puote fare in un punto, come pensa, forse: perché bisogna prima comandare che sia portata; e poi far ch'ogni notte venga da sé, senza mandar per lei. E questo poi non manca. Giá lo feci per uno ambasciator di Portogallo che mi donò cinquecento ducati in tanti razzi: e feci che, in un'ora, l'ebbe nel letto.

PILASTRINO. Non guardar giá a quello; ché è ben persona, questo gentiluomo, da farti il tuo dovere.

GIRIFALCO. Io t'imprometto, se fai ch'io l'abbia in letto, di vestirti tutto da capo a piè, senza mille altre cose ch'io ti darò. Tu avrai prima tanto guarnel che fará un bel giubbone, che era fodra d'un saio di mio padre; ed un paio di calze di scarlatto a martingala, ch'ebbi dal Gonnella, che ne l'avea donate il duca Borsio, e non son fruste che un poco al ginocchio; ed un par di pianelle come queste, che non son rotte. Poi le scarpe nuove comprerem questa pasqua.

PILASTRINO. Che ti pare?
Di' poi di nol servire!

LISTAGIRO. Io son forzato, poi che ti veggio esser cosí magnanimo. Mi vo' fidar di te. Le bolge e i libri ch'oggi ti lasciai in man…?

PILASTRINO. Son ben qui presso.

LISTAGIRO. Ordina, adunque, come t'ho insegnato, ogni cosa ivi in terra. Truova i cuori di colombi e di gufi; e ben rassetta tutti quegli instrumenti e quei sacchetti e libri; e fa' da te quella orazione. E consacra la casa in ogni canto con quei licori. E troverai quel sangue di fenice da far tutti i caratteri; e la verga e la stola.

PILASTRINO. Sará fatto.

LISTAGIRO. Come sei ben gagliardo in su le gambe? ché, a questo, non si siede.

GIRIFALCO. Eh! Sí, assai bene: ché sto tal volta in piedi un'ora in piazza, senza avervi che fare. Or pensa! A questo, che l'ho sí caro, vo' far de le gambe palanche.

LISTAGIRO. Oh bene! E de le braccia salci. Ella è la vite che a le tue palanche si leggherá co' salci. E questa tutta sará la vigna.

PILASTRINO. E noi i lavoratori che ricoglion il vin senza sementi, sol per zappare e saper ben congiungere le palanche a le viti.

LISTAGIRO. Sta' in cervello, ch'io te la do istasera in ogni modo anzi che vadi al letto; e poi l'avrai, ogni sera, invisibile. E potrebbe venirti ancora in odio per il troppo, ché sei pur vecchio.

GIRIFALCO. Averò prima in odio quest'occhi, questa vita e queste membra che quel bocchin.

LISTAGIRO. Ci penserai poi tu.
Quanto tempo è che non sei confessato?
ché questo impediria.

GIRIFALCO. Mi confessava…
non mi ricordo quando.

LISTAGIRO. Or non c'è dubbio.
Le cose anderan ben.

PILASTRINO. Mi parria buono avedimento a velargli la fronte perché possa durare e, per le varie cose, non s'abbarbagli e, all'apparire de' diavoli, non tema.

GIRIFALCO. Fate voi quel che vi pare il meglio. Ma, di grazia, in che forma verranno?

LISTAGIRO. In varie forme. Chi d'animai, chi di donne e di pesci piglian la pelle; e chi ne la lor propria vengono e son sí brutti che tremare fanno in fine al solaio di paura; e cosí in altri modi. E farti male non posson, se di giá tu non parlassi; ché allor ti salirian tutti a la pelle. Pur, non ti farian mal; ma forse avresti qualche paura. E, se pur tu volessi segnarti o chiamar Dio, tien bene a mente che ti porterian via. Ma, se vuoi nulla, chiama il diavol per nome.

GIRIFALCO. E come ho a dire?
Satenasso? Così, pian piano? o forte?
Questo non ci verrá?

LISTAGIRO. Sí, sí; va bene.
Hai giá imparato. Ma chiamane un altro,
se questo non vi fosse.

GIRIFALCO. Gambatorta?

LISTAGIRO. Tutto sta bene. Si può incominciare.
Férmati cosí in mezzo.

GIRIFALCO. E voi sarete
diavoli? o pur cosí?

LISTAGIRO. Appunto! Questo nol possiam far. No, no. Mutarci in diavoli? Lascia pure andar tutti questi dubbi; e dispuonti a la cosa.

GIRIFALCO. Eccomi qui. Cari fratelli, mi vi raccomando che non mi faccin mal.

LISTAGIRO. Or ciascun taci. Férmati in questo cerchio; ed avertisci di non parlar, se non come t'ho detto. Miástor, ániptos chiè dolichóschios, teostighìs, cantílios chiè nodòs, móscos apalotrephìs chiè ámpelos frenomoròs, gereòs chiè phalacròs, te claudo in hoc circulo et te invoco, exorcizo et tibi ac tuis impero, demon Maladies, ut ludifices cum caracteribus vestri nominis istum perditum . E, per la gran virtú di questi nomi tuoi, con le caterve de la tua compagnia, fa' che ne venga e porti Lúcia inanzi che trapassi a l'orologio il termin di tre ore. Fa' che tu non ti muova. Sta' piú ardito su la vita.

PILASTRINO. Tien questa.

GIRIFALCO. Satenasso!

PILASTRINO. Non sono ancor venuti. Sta' paziente: ché al terzo incanto…

LISTAGIRO. Porgemi quell'acqua. Auturgòs, chrismodòs, agauròs, criòs, cladéutir, inófliz, antíphron, lícnos chiè áutis táchistos, attende in tuo circulo et argue, invoca, increpa omnes demones a Sathana usque ad Saraboth: nec deerit tibi virtus et vis in mei nomine . Lascia pur del cielo, de la terra, de l'erbe e de le piante le natural virtudi; e stringe forte chi ti crede per forza, ché in fra poco verrai un altro uomo.

PILASTRINO. Ferma!

GIRIFALCO. Satenasso!

PILASTRINO. Tien quest'altra, per burla.

GIRIFALCO. Gambatorta!

PILASTRINO. Sta', Girifalco, se ben fossi tócco: ché vengono or.

LISTAGIRO. Senti com'io son destro!

GIRIFALCO. Maladies!

PILASTRINO. E 'l malanno! Taci, un tratto.
Lascia fornir l'incanto.

LISTAGIRO. Párochros chiè
sapròs, hipnilòs, philárghiros, chriódis…

Sú! Tien. Ben tócco.

GIRIFALCO. Oimei! M'ha rotto il capo.
Non poteva piú star. Mi portan via,
a l'inferno. Oimei! Orgilla! Aiutami.
Son morto. Oh!

LISTAGIRO. Órseo, orchózo, chielévo, epióntes . Riportatel qua nel cerchio. Fate che non vi ponga tutti quanti ne le catene. Parvi che sia giusto volernelo portare, in mia presenza, sol per dire «oimei»?

PILASTRINO. Meriteriano
che gli leggassi tutti. Tun! tun! tun!

GIRIFALCO. Oimei, anima mia! ché sarò morto
prima ch'io t'abbi.

PILASTRINO. Or abbiam bello e fatto.

LISTAGIRO. Rimedio non v'è piú.

GIRIFALCO. Son morto. Aiuto!
Misericordia! Oimè! O Pilastrino,
m'han preso per il collo.

PILASTRINO. Oimei! Fo voto
Mi portano ancor me.

GIRIFALCO. San Gimignano! Una testa di cera, s'io ne scampo. Ribbaldella, sarai pur di me sazia, che sei cagion di questo. O Satenasso, perché mi legghi sí le mani e i piedi? Lasciami, priego, ritornare a casa, ché non sono ancor morto. E ti prometto di mutar vita ed andare in un bosco a mangiar l'erba e farmi un uomo santo. Oimè! che la corata mi si schianta di doglia; ché giá sento, in fin di qui, rompere i miei cascioni che i vicini denno rubbarmi. Che sia maladetto mio padre e la mia madre e la mia balia che non mi soffocorno quando nacqui, per venire a tal punto! Ah, vita mia! Dove debbe essere or quel boccolino? Se tu 'l sapessi, di tanta disgrazia, l'avresti pur per male. Oimei! O Lúcia! Oimei! M'han rotto un braccio. Oimè! la testa. Mi strozzan tuttavia. Sono a l'inferno, in mezzo al fuoco.

PILASTRINO. È pure andata netta.

LISTAGIRO. Fa' in modo, Pilastrin, che non vegnamo
a le mani in fra noi.

PILASTRINO. Partirem tutto.
Nettiam pur presto.

SCENA II

Fronesia, parlando con Lúcia, dimostra averle giá contato quel che pensò cercando Filocrate; e di nuovo gne le narra; e, messole in disgrazia Filocrate, le mostra che fece male a dir villania a la roffiana e le persuade che, per l'avenire, la tenga amica.

FRONESIA, LÚCIA.

FRONESIA. Non l'avresti mai pensato che ti avesse in questo modo lasciata. O parti che questo sia amore, a l'incontro di quel che porti a lui? Ve' come v'ingannate a creder tanto a chi vi fa buon viso! ché non fanno profession d'altro che di darne ciance e di tenerci in berta.

LÚCIA. Non si puote con lor cognoscer tanto. Ma vedrai ch'io vo', per l'avenir, mutar costume e fuggirgli da lunge: perché, poi, non si può far di non prestargli fede o in tutto o in parte; tanto piú che quello che noi vorremmo crediam facilmente. Ma dimmi brevemente un'altra volta come facesti.

FRONESIA. Ti par duro a crederlo? Dico che giá l'avea cercato alquanto quando intervenni esser fuor di Bologna duo miglia. Ed io v'andai; ma, quando giunsi appresso al luogo, ch'era una capanna, mi venne incontra, forte borbotando. E, quando mi cognobbe, a presti passi tornava a dietro. Ed io forte 'l pregai che si fermasse, ché da parte tua li voleva parlare: onde si volse e disse tutto quel che giá t'ho detto, con arroganza; e, in presenza d'alcuni, ci minacciava.

LÚCIA. Ti prometto certo che m'è sí uscito de la fantasia che non li son mai piú per voler bene, se vivessi mill'anni.

FRONESIA. Hai da sapere che è ben gran tempo che la sua natura ho cognosciuto e forse l'avrei detto inanzi che ora; ma ti li vedeva troppo inclinata.

LÚCIA. Ora, per l'avenire, forse li sarò manco.

FRONESIA. Oh! Mi facesti il gran dispetto, ier, quando gridasti con quella vecchia che trovasti meco: non per altro se non che son poi genti c'han pratiche infinite e dicon sempre de' fatti d'altri; e d'una cosa tale si laverá la bocca in mille luoghi. Ed a te non stan ben sí fatti nomi, perché sai quel che importa: tanto piú, avendoti ora forse a maritare ad altri che a Filocrate.

LÚCIA. E chi è quella?
Ha la cattiva cera.

FRONESIA. Non guardare a quello: ché, se poi la cognoscessi, avresti caro che ti fosse amica; ché ha poche pari.

LÚCIA. E in che?

FRONESIA. Prima, ella cuce e fa de le suoi man quello che vuole. Fa poi profumi rari e d'ogni sorte acque e belletti. Ed ha mille secreti che vagliono a l'amore; che, se avessi, inanzi questo, aúto la sua pratica, ti avria saputo dir se pure in vero questi t'amava. Ed io, per questo solo, desiderava che pigliassi seco pratica, perché poi potresti avere da lei quel che volessi. Ma sei donna troppo di tuo cervello.

LÚCIA. Me ne incresce, a fé, d'averlo fatto; ma non puoti lasciarla dir, quando la vidi entrare in certe ciance.

FRONESIA. Non si vorria mai rompersi con altrui cosí a la prima, senza ascoltar ragion. Se non volevi sentir parlar di quel giovin, che disse volerti tanto ben, ma non devevi dirnele sí con ira; ché, se forse lo cognoscessi, ancor non ti parrebbe uom da farsene beffe; ch'egli è pure (anco che tu non vogli), in ogni cosa, altr'uomo che Filocrate.

LÚCIA. Io lo so.

FRONESIA. Parti che bisognasse usare, adunque, simil parole seco?

LÚCIA. A me sta male dare audienza a tutte queste cose, se non con quegli che m'avesser poi a tôr per moglie.

FRONESIA. Se tu avessi fatto miglior cera a costui, che sai che, al fine, non ti sposasse? Parriati star bene? Poco cervello! Come ti governi, cosí ti troverai. Segui colui ch'è venuto or villano in ogni cosa lá dove prima fu sol di costumi! Questi, ch'è giovan, bello, ricco e nobile e cosí ti vuol ben…

LÚCIA. Che ne sai tu, che ne parli cosí?

FRONESIA. Passo ogni giorno quasi dal suo palazzo e bene spesso vado sú da la madre. E, per tuo amore, sempre mi viene in contra e mi saluta e fa carezze. Ed ivi di continovo usa colei; che avrá forse giá detto di quella subbitezza.

LÚCIA. E questo pensi che l'avrá detto a lui?

FRONESIA. Forse che sí. Ma, quando ne li avesse ancora detto, farem cosí. Direm che eri adirata con la madonna, se ci torna piú; perché l'ho giá piú volte detto che eri cosí gentile. E tu, per l'avenire, non ti portar cosí perché daresti un nome attorno d'essere un gallaccio, un'altieraccia: come san poi dire, ché aggiungon sempre.

LÚCIA. È stato buon che m'abbi fatta avertita, ché, per l'avenire, ci avrò piú cura; perché veggio anch'io che non sta bene.

SCENA III

Artemona, cercando Crisaulo, si incontra in Pilastrino rivestito de' panni del vecchio scorciati e rifatti; e li dimanda di Crisaulo. E, non avendo da lui risposta a proposito, lo lascia; e, trovato Crisaulo, li dá per consiglio che dia parole a la madre di Lúcia di sposar la figliuola.

ARTEMONA, PILASTRINO, CRISAULO.

ARTEMONA. Io non so omai piú dove cercar quest'uomo. Sará andato in villa. Quel non è Pilastrin? Par diventato gentiluomo; non è piú parasito. È desso, per mia fé. Ne vien ridendo: debbe aver fatto pace col boccale. Questo è quello a cui piú crede Crisaulo che al paternostro. Oh poveretti amanti! U' son condotti!

PILASTRINO. Addio. Che fai, mia zia? Quant'è che non magnasti qualche putto? Ve' se non par la stria che, a questi giorni, si scaldò il culo in piazza per avere usato carnalmente con Lucifero! Vedi bel naso fatto a campanello! Tu sei pur tutta bella, anima mia. Ti va' donar quatro di questi fichi, se vuoi venir a stare un'ora meco al necessario.

ARTEMONA. E che vorresti, poi,
pan perduto?

PILASTRINO. Vorrei farti i miei fatti,
costí, nel tuo grembial.

ARTEMONA. Guarda sgarbato!

PILASTRINO. Oh! Mi vien la gran voglia, se sapessi…

ARTEMONA. E di che?

PILASTRINO. … di sederti in su la faccia senza le brache. Gli è pur fatto a posta quel tuo nasin per farmi un argomento. Deh! vien, ti priego; ch'è piú d'otto giorni che n'ho bisogno.

ARTEMONA. Io t'ho per iscusato, ché sei ubbriaco; ché t'avrei fino ora cavato gli occhi. Dimmi, se tu sai: ove è Crisaulo?

PILASTRINO. Cosí nol sapessi! ch'è non so quanto ch'era giú da basso, in cantina, di sopra, a la fenestra, che dormiva nel letto.

ARTEMONA. Io son piú matta a parlar con costui!… Vatti in mal'ora; vatti imbriaca.

PILASTRINO. Voglio andarvi or ora. Son tanto allegro che non par ch'io possa, d'allegrezza, tenermi in su le gambe. Vedi che ho dato, un tratto, un pugno e un calcio a questa povertá, madre tignosa del freddo e de la fame e de' pedocchi. Ma non potrò durare in questo stato, ché la bontá suol sempre il fondamento esser de la miseria; e, s'io in quel punto era da bene, ora sarei mendico. Voglio mutar costumi, or c'ho la robba, e diventar un asino.

ARTEMONA. È quattro ore che t'ho cercato. Ho pensato una via e l'ho in parte giá messa ad effetto. A me par buona:…

CRISAULO. Non mi indugiar. Dillo.

ARTEMONA. … perché veggiam che a noi sarebbe assai poter, per ora, solo avere audienza; e, se questo facciamo, il resto è nulla. E certo verria fatta, se dái ciance che la torresti tu, com'io feci oggi con la madre; e lo fei come da me. Ella, benché mostrasse di nol credere, sí volentieri par che l'ascoltasse ch'io penso che la cosa di Filocrate sia prolungata. E chi ha tempo ha vita. Che pare a te?

CRISAULO. Mi piace, se a te piace.

ARTEMONA. Ma ti bisogna molto essere accorto, in questa cosa, perché non pensassimo prender chi poi, nel fin, prendesse noi: ché anzi vorrei morir che simil cosa venisse per mio mezzo.

CRISAULO. E perché questo?

ARTEMONA. Perché bisogneria che tu facessi conto sol di fuggire o co' parenti venir forte a le mani.

CRISAULO. Io non ho cura d'altri che di me stesso, in questi casi. Pur, perché vada ben, piglia tu il modo: ch'io son per ubbidirti.

ARTEMONA. Vederemo quel che si potrá far. Forse domane io le riparlerò. Fa' d'esser savio, in dar parole, e non lasciar ridurti piú lá di quel ch'io ti terrò ammonito: ché Amore è cieco e vuol con gli occhi d'altri esser guidato e dal senno d'altrui aver governo; onde 'l fingiam fanciullo e nudo perché è cosa naturale, non trovata da noi, e alato e lieve perché 'l suo star non dura mai gran tempo.

SCENA IV

Filocrate, ritornato di fuori, vien per veder Lúcia. E, avendolo visto Fronesia da la fenestra, li va in contra, e falli un altro tradimento improviso con il quale ingannò ancora Lúcia. Per questo poi Filocrate, la sera, impazzisce.

FILOCRATE, FRONESIA, LÚCIA.

FILOCRATE. Vivace Amor, che negli affanni cresci, che dolci lacci e quai catene d'oro son quelle con che i tuoi suggetti alleghi? con quai fiamme gli accendi? e di quai pene dolcemente gli affliggi? e con quai punte gli sproni e muovi? e come, in mezzo al corso, gli affreni e stringi? Quel non sente affanni, doglie, travagli, vigilie o fatiche che a te non serve. Non gusta dolcezza sovr'ogni altra dolcezza o beatitudine chi 'l tuo mal non soffrisce. Prima l'alma lascerá queste travagliate membra ch'io possa mai (per gran ragion ch'io n'abbia) di te dimenticarmi e non mai sempre esserti servo.

FRONESIA. Addio. Sia 'l ben tornato. La mia padrona ti si raccomanda, la qual mi manda a te (perché t'abbiamo visto in fin di lá giú in piè de la strada) a pregarti, di grazia, che per ora non passi in alcun modo lá da casa, ché Demofilo è in loggia. E la cagione di questo ti vorria dire istasera a le tre ore: che tu ci venissi, ma bene accompagnato, perché forse, non istimando, interverrieti male. Cosí ti priego che tu sia contento e che torni istasera. E che sia il vero, di subito ch'io giungo in su la porta, te ne dará segnale; e tu allor volgi a dietro. Sei contento?

FILOCRATE. Son sforzato esser contento, poi che cosí, in questo contento, chi potria me sovr'ogni altro far felice e contento?

FRONESIA. Vien pian piano.

FILOCRATE. E che sará venuto ora di nuovo, sfortunato Filocrate, oltre a tante giá passate disgrazie? Iddio pur voglia che non sia intervenuto ora qualcosa che di lei insieme e d'esta afflitta vita mi faccia privo.

FRONESIA. Lúcia, buona nuova.

LÚCIA. E che mi può venire in questo stato
che mi possa allegrar?

FRONESIA. Passa Filocrate.
Debbe esser ritornato a l'uccelliera.
Fatti a vederlo.

LÚCIA. Ah fosse pure il vero!

FRONESIA. Dico che passa giú.

LÚCIA. Guarda se alcuno è in su la strada.

FRONESIA. Non veggio persona. Io so che s'è attillato! Non par quello che vidi allora.

LÚCIA. Aimè, ben mio! Mi fosse concesso almen di venirti abbracciare, ché tanto mi sei stato, a questi giorni, nel cuore! Oh! Guarda, guarda che si volge! Vedi, Fronesia, che, come ci ha viste, si fugge? Non avranno mai fin queste tuoi scortesie? Or per prova cognosco quello che ad altrui mai avrei creduto. Tu sai pur quant'io t'amo. Ed, in dispregio de la mia vita, m'hai vòlto le spalle perché, dopo sí lunghi e amari pianti, da te non abbi un sol breve conforto di vederti almen tanto quanto, senza tua noia, il passar qui mi concedesse: come forse anca (chi sapesse il vero) t'era bisogno.

FRONESIA. Appágati di questo,
Lúcia. C'è peggio.

LÚCIA. E che mi può far peggio?

FRONESIA. Volesse Iddio che cosí fosse il vero! ché sarei piú contenta.

LÚCIA. Dimmi tutto quello che c'è, se mi vuoi far piacere. Non indugiar.

FRONESIA. Questo non farò io: ché so meglio di te se sia piacere intender cose tali; e poi non voglio, per l'affezion che gli hai.

LÚCIA. Omai di questo non mi san piú per tôr passion né affanno, visto quanto in lui regni villania e ingratitudine; anzi, il grande amore è vòlto in odio.

FRONESIA. Tel vo' dir. Suo danno! Io era, poco fa, sú, a la fenestra, quando il vidi apparir lá giú lá giú. E, d'allegrezza, non potei soffrire di venirti a chiamar; ma gli andai in contra e, giuntolo al fornaio, il salutai da parte tua. Ma non patí ch'appresso gli andassi, ché mi fece un viso arcigno, come quel giorno; e, minacciando forte, parlava da ubbriacco. Io mi li tolsi dinanzi e, nel parlar che fe', mi parve sentirli dir che istasera a tre ore tu l'aspettassi, ché volea venire a punirti di tanta iniquitá e tanti tradimenti; e forse in modo (dicea) che non fara' peccati, dopo: onde mi ritornai, correndo, a casa. E tremo ancora.

LÚCIA. E questo è vero? Oimè!

FRONESIA. Cosí fosse altrimenti!

LÚCIA. E che fará?

FRONESIA. Potrebbe venir qui con una schiera di quei suoi soldatacci; e tôrti a forza e far quello che vuole e porti poi in vergogna del mondo.

LÚCIA. Oimè meschina! E che farem? Non voglio che mi truovi. Anderò a stare a casa di mia zia; e lo dirò a mia madre, poi che 'l cielo cosí dispuon di me.

FRONESIA. Non è da fare, ché non si potria poi trarli del capo qualche mal. Tu sai pur com'ella è fatta: che non vuol che lo guardi, se non quando ella è in presenza. Ho pensato un bel modo. Fa' com'io ti dirò. Va' che istasera l'aspettiamo a quell'ora; e, se 'l vediamo, voglio che tu li dica due parole come t'insegnerò.

LÚCIA. Farò a tuo modo. Ma pur che non ci tirino de' sassi, come ci veggian qui!

FRONESIA. Non dubbitare: provederemo a tutto. Andiam di sopra e ci consiglieremo. E sará buono che 'l sappia ancor la vecchia.

SCENA V

Pilastrino si viene a rallegrare con Crisaulo e mostrali un sacchetto di scudi; e poi si parte da lui per andargli a sotterrare.

PILASTRINO, CRISAULO.

PILASTRINO. Addio. Rallegrati
meco, Crisaulo.

CRISAULO. Di cotesti panni
a la civile?

PILASTRINO. Appunto! C'è ancor meglio.
Voglio che noi ridiam, se mi prometti
di tacer sempre.

CRISAULO. Cosí ti prometto.

PILASTRINO. È fatto il becco a l'oca. Oh! co! co! co!
Son pure allegro.

CRISAULO. Tu puoi sí crepare,
ch'io non ti intendo.

PILASTRINO. Quello innamorato, quel nostro amico, mentre che aspettava che gli fosse portato la sua dea, la sera, a letto, per negromanzia, i diavol l'han portato. Ed io l'ho fatto, al forzier de' danari… Oh! co! co! co!…

CRISAULO. Oh! Dillo, un tratto.

PILASTRINO. … la barba di stoppa.
Fatti in qua. Che son questi? M'è ingrossato
la maestra e' testicoli.

CRISAULO. Ed è vero?
Come non è crepato di passione,
il poverino?

PILASTRINO. Se è morto, suo danno!
Io so ben che sta mal, se non ha tratto
le loffe al vento.

CRISAULO. L'ho pensato sempre, in questa intrinsichezza, che a la fine li mostreresti quel ch'è l'impacciarsi con Pilastrini. Io so che, questa volta, tu l'hai saputa far senza mollette. Ma, a dire il ver, la ladroncellaria è troppa grande.

PILASTRINO. Sí! L'hai bello e detto! Chi non gli avesse fatto un tale scherzo, non avria mai imparato in questo mondo come si vive, quell'uomo di legno. Ed or, chi sa? potrebbe ravedersi; ch'era cosí in amore omai perduto che facilmente, un tratto, da se stesso si sarebbe appiccato. Or io l'ho tratto di tutti questi affanni; perché penso che questo sará stato medicina a farli uscir l'amor da le calcagna. Cosí non sentirá l'amare pene che lo facevan talor dare al diavolo. E non saria gran cosa che morisse da buon cristiano, un giorno, a lo spedale; onde sarebbe stato co' danari sempre un giudeo. Poi, par che tu non sappi quel che dice 'l diverbio che « de rebus que male diviserunt non gaudebis tertius heredes ».

CRISAULO. Va'; sta' pur discosto: meco non partirai.

PILASTRINO. Oh che dolcezza a maneggiar queste patacche gialle! Ne giova piú che del fuoco l'inverno e del fresco l'estate e d'un buon greco quando son riscaldato nel parlare. Oro, piú dolce che 'l zuccaro e 'l mele e piú assai che 'l mangiare a la taverna e poi dormire! perché, senza questi, quel paradiso è chiuso e ne intraviene com'a' viandanti, ne' tempi di peste, senza la fede. Io non vorrei qui, ora, il piú bel cul che mai mostrasse augello pelato ne lo spiedi o ver di donna vergine abbracciamenti. Questo è degno piú d'ogni cosa e tanto dolce e amabile che mi fa tutto qui struggere in oglio. Or non mi meraviglio se quel vecchio tanto è vivuto piú che non deveva senza mangiare o ber; perché mi penso che si pascesse d'esta dolcitudine, come farebbe ognun.

CRISAULO. Guarda che in te non facciano il contrario; che, anzi 'l tempo, non ti faccin morir con un capestro: ché sai ben che a la fin…

PILASTRINO. Tu hai poco ingegno. Deh! Non mi ricordare i morti, a tavola. Or credo ben che quel Giupiter, Giove, quando s'innamorò, si rivolgesse in questa forma. Guarda gran fatica ch'ebbe, a far ch'una donna l'abbracciasse! ché, se fosse la Morte inorpellata con questo, gli anderia dietro ciascuno né sarebbe secura nel suo regno. Ch'altro è vedere una gran verga d'oro che 'l viso d'una donna! E questo il pruova: che veggiamo adornarne un lucernaio e parere una sposa.

CRISAULO. Altro non s'ama, oggi, altro non s'onora; e saria degno di tanto onor, se non avesse seco sempre tanto di amaro e tante pene e tante passioni.

PILASTRINO. Io voglio ire ora a sotterrargli, che non veggian mai piú l'aria: perché gli è d'una natura che a chi non l'ama sbudellatamente s'ingegna di fuggire, e in questo ha l'ale; al ritornar, di poi, ne vien gottoso, vecchio e sí lento che, 'l piú de le volte, siam morti prima che di nuovo a noi sia ritornato.

CRISAULO. Non è giá possibile che 'nsieme con amor non venga a pari la gelosia. Chi l'avria mai creduto che, a questo modo, in fine a Pilastrino, sol per aver danar, divenga avaro? Oh! Va' pur lá.

ATTO IV

SCENA I

Filocrate viene a tre ore, accompagnato, per parlare a Lúcia, la quale li dice, per consiglio di Fronesia, una gran villania; ed egli, per il non sperato tradimento, divien furioso.

FILOCRATE, COMPAGNI, FRONESIA, LÚCIA.

FILOCRATE. Fatevi qui da canto, appresso al muro, ché non diam sospetto a chi passa; e guardate bene intorno, se vedeste qualcosa; e fate solo quel ch'io farei per voi.

COMPAGNI. Sí; va' pur via. Non ho paura ch'abbiamo istasera a insanguinar le spade. Anzi, son certo che potrem far l'amore a la sicura, qui, con questi pilastri.

FRONESIA. Hai gente teco?

FILOCRATE. Sí ben.

FRONESIA. Fatevi tutti insieme in qua.

FILOCRATE. Visch! Si vuol pure far desiderare.
Or siam qui tutti.

FRONESIA. Sta', ché vien. Son qui.

LÚCIA. Filocrate, odi. Tu hai fatto bene a venir qui stasera; ché, in presenza di questi tuoi, voglio che interamente sappia l'animo mio: perché, forse con danno tuo, non cresca in quello errore ove sí bruttamente or sei perduto. Mi sono accorta del tuo scelerato e disonesto amore; e, se non fosse che a me starebbe mal che, per mio conto, venissero omicidii, non sarei tanto indugiata che di tale ardire fossi punito sí come tu merti: ché poco mi costava. Or questo è 'l tutto. Ti priego forte (e cosí ancor da parte di mia madre perché cognosce anch'ella l'animo tuo villano) che tu lasci e ti rimanga di passar di qua ed al tutto ti levi de la mente di avermi piú per donna o per amica. E quando, seguitando la tua via, non faccia conto de le mie parole, se ben sei un furfante, un sciagurato, farem che tu cognosca l'error tuo in qualche modo. E la cagion di questo, essendo un ladroncello come sei, meglio di me lo debbi saper tu, con questi tuoi; ché volevate insieme menarmi via.

FILOCRATE. Che dici, Lúcia cara? Odi. Hoti fatto forse dispiacere a venir qua? Non voglia usar tant'ira con me tuo servo.

LÚCIA. Abbrevia queste ciance.
Toglimiti dinanzi.

FILOCRATE. Ah scelerata! fonte di tradimenti! intero albergo d'iniquitá! femina ingrata e rea! insolente ubbriaca! Questo è quello che mi volevi dire, in ricompenso de le buone promesse che fino ora m'hai sempre dato? Ah sfacciata! che mai ad alcun tenderai sí fatte reti. Questo è 'l buon merto (ah scelerata Circe!) del mio servir? Lasciami, te ne priego, far sí giusta vendetta e che tal peste togli a davanti a chi, non cognoscendo com'io fosse per essere ingannato… Lascia! lascia! ché questo non è 'l primo. Non ti varranno…

COMPAGNI. Resta! resta! sta'!
Tienlo. Non odi? Toglili quell'arme.
E che volevi far? Poco cervello!
Pórti con una…

FILOCRATE. Lascia, oimei! ché vo' sfondar quell'uscio e le fenestre. Stelle crudeli, e che vo' far di questa mia vita? State un poco. Aimei! Son morto. Non mi menate via.

COMPAGNI. Vien: non gridare. Piglial di lá. Sú! Ben. Con manco strepito che si può. Zitto!

FILOCRATE. Taci, taci, taci! Leva, leva! Ognun corra ai malandrini. M'avete assassinato. Ah traditori! E dove mi portate? Lascia qui. Non è la tua. Non mi legate stretto, ché non voglio fuggire. A le prigioni, ah? Morrò pur dunque, un tratto, e farò sazi quegli avoltori ch'entro il petto ogni ora pasco col core: anzi, una donna; io mento: una fera crudele. A quanto strazio m'hai riserbato, Amore? Anzi, son morto. Dico che no. Ah! Cecco di Bertella, aiutami, che sia scannato a brenti! E tu, Giannosso, che sia scorticato! Chi l'avria mai creduto? A questo modo mi lascian stracinare a la famiglia. Deh! Lasciami spogliar; to' questi panni; non li vo' piú. Son diventato un altro. Voglio volar. Lasciami questo braccio, ché mi vo' gittar giú da quella torre. Odi, fratello. Deh! Va' di' a mia madre che or ora sono stato assassinato e che, s'io campo…

COMPAGNI. Sí, camperai bene.
Non ti pigliar pensieri. Entriamo in casa.
Poi che è cosí, facciam che si confessi
anzi che venga a peggio.

SCENA II

Avendo sentito Pilastrino romore ne la strada, che erano i compagni di Filocrate che lo portavano a forza a casa, esce in camiscia fuori e fugge: dubbitando che non sia Listagiro preso da la giustizia.

PILASTRINO.

Cacasangue! So che ho aúto una vecchia paura! Parti che l'abbian preso? Addio, Listagiro. Sempre con gli scredenti si guadagna. Ha racconto la burla a mille frasche che l'avran poi tradito. Io vo' fuggire. L'ho detto sempre ch'è stato uno scherzo che merita la forca; e che nol dica. Non ci vo' piú pensare. Oh poverino! ch'era sí destro! Io so che son saltato del letto senza mettermi il farsetto. S'io aspettava, mi ci avrebben còlto. Ma non sentii sí presto quel romore ch'io me l'addovinai. Or che son fuora non dubbito di nulla. Voglio andare a casa di Crisaulo e, come è giorno, intenderem la cosa. Ma son certo che ha bello e tratto: ché 'l governatore, pria mancherá la giustizia a se stessa, ch'egli li manchi. Ma che indugio qui? Non è tempo da starsi.

SCENA III

Artemona, parlando con Lúcia, fa destramente offizio per Crisaulo: e, parlando poi con la madre, le dá intenzione che Crisaulo la sposerá.

ARTEMONA, LÚCIA, CALONIDE.

ARTEMONA. Oh! Non pensare: ché lo vidi a la prima che tu eri d'altro adirata. E però feci poca stima de le parole, ché altrimenti non ci sarei tornata: ché, dove uso, son troppo avezza ad esser ben veduta e accarezzata.

LÚCIA. E che vorresti mai? che ti pigliassi in braccio e ti basciassi com'un bambino? Tu sei troppa grande! Eccoti qui de' baci quanto vuoi. Queste non son carezze?

ARTEMONA. Ah luce mia, piú bella e risplendente d'ogni stella e piú cortese di ciascuna donna! Ho giá con tante donzelle par tue praticato e mi par che a te ciascuna ceda di tanto quanto al mio bel sole cede, nel cielo, ogni stella minore. Però non ti debbe esser meraviglia s'un giovinetto, a la prima, si perde in te e ti si dona; ché, s'io voglio dirti la veritá, come mi vedi, son quasi innamorata anch'io di te. Foss'io pur uomo!

LÚCIA. E perché? che faresti?

ARTEMONA. Altra felicitá non vorrei al mondo ch'esserti appresso. Ma poi, quando io fosse, non vorresti vedermi.

LÚCIA. Tu ti inganni.
Fossi quel che volessi, non potrei
se non esserti amica.

ARTEMONA. Oh! Questo, fallo al tuo Crisaulo, ch'omai sai pur certo quanto che t'ami; e l'avrai fatto a me, che t'amo pur di cuor. Ma voi fanciulle fate profession d'esser crudeli e di lasciar morir prima la gente che li porgessi aita d'un sol guardo o d'una paroletta; ma, nel fine, tornan sopra di voi: non me n'impaccio. Ma non è giá 'l dover chi tanto v'ama apprezzar cosí poco. Tieni a mente che al pentirci siam noi sempre le prime, come l'ultime a creder.

LÚCIA. Non t'intendo.
Parla piú chiaro.

ARTEMONA. Io so che vuoi mostrare esser di tutte l'altre la piú savia e piú da ben.

LÚCIA. Perché?

ARTEMONA. Perché tu sola vuoi governarti al contrario de l'altre che non son manco belle o meno oneste che ti sia tu.

LÚCIA. E in che?

ARTEMONA. Dico che l'altre tutte fan buona cera a chi con vero veden che l'ami; e non è donna al mondo che non abbia piacer d'essere amata, come tu mostri.

LÚCIA. Io sono, in queste cose, nata troppo infelice e disgraziata. E però mi risolvo sempre mai, quanto potrò, fuggirle perché insieme fuggirò quei travagli e quelle pene che fanno altrui morire innanzi al tempo. Io l'ho provato e cognosco oramai quel ch'è 'l cervel d'uno uomo.

ARTEMONA. Tu mi strazi. Io priego Iddio che faccia, in penitenza di tanto mancamento, che tu pianga, un tratto, per qualcun, come or ne ridi: ché forse allor mi terresti piú cara. Ecco tua madre. Voglio andar da lei. Come ne parlo piú…

LÚCIA. Sta': non andare.
Quando tornerai in qua? verrai stasera?
Non odi?

ARTEMONA. S'io verrò, tu mi vedrai.
Calonide, buon dí.

CALONIDE. Dio ti contenti,
Artemona. Tu hai una buona cera.
Buon pro ti faccia.

ARTEMONA. Cosí dice ognuno.
Ma non lo credo lor, ché le mie gambe
mi dicon quel ch'io son.

CALONIDE. Di', per tua fé:
come la fai con gli anni?

ARTEMONA. Oh! bene, bene: ché passan via che non li veggio a pena; e mi fan cosí buona compagnia ch'altro dolor non ho sempre nel cuore se non che non stan meco o ver, partiti, non ritornan mai piú.

CALONIDE. Questo intraviene a tutti. Che hai di nuovo?

ARTEMONA. Io ci ho sol questo (e son venuta a posta per saperne da te la veritá): ho inteso dire c'hai spedito giá a fatto la faccenda di Lúcia tua; benché non posso crederlo, per quel che mi dicesti ultimamente che non volevi farlo, inteso pure de la persona la condizion trista. E tanto piú ch'io dissi che quell'altro volea pensarci e che potrebbe stare, a quello ch'io vedeva, che, a la fine, se l'avesse sposata. Or ti risolvo ch'egli 'l fará. Se l'avessi giá data, fa' ch'io lo sappi.

CALONIDE. Io te lo dissi, allora, che non s'è fatto nulla di Filocrate né s'è per far; ché, se mi ritornasse carico d'oro, non glie la darei. Poi ti dico de l'altro: che non voglio che noi pensiam tant'alto, perché poi non ci venisse come quella fola di colui che voleva andare in cielo con le penne di cera.

ARTEMONA. Non fai nulla, se guardi a queste cose. Tu sei savia. Sappia pigliare il tempo: ché i partiti sono oggi scarsi.

CALONIDE. Ascolta. Non vorrei che si dicesse, poi, che avessi fatto, per fargliela pigliar, qualche malia o qualche tratto che non fosse onesto; perché sa ben ciascun quanto in fra loro sono i gradi ineguali.

ARTEMONA. Lascia a lui pensare a questo; ché a te non sta male, s'ei fosse ancor da piú. Fa' che la sposi; e lascia dir ciascun.

CALONIDE. Di' che mi parli e qualcosa sará. Ma voglio prima ben consigliarla.

ARTEMONA. Questo fie ben fatto.
Cosí son per ridirgli. Poi, dimane,
vedrò che venga in qua.

CALONIDE. Come ti piace.
Deh! prega Iddio per me che questa cosa
si faccia, se fia il meglio.

ARTEMONA. Sempre io 'l faccio.

CALONIDE. Piglia questi duo soldi.

ARTEMONA. Dio vel meriti e san Francesco. Tu ci sei pur giunta! Non ti varrá il consiglio e l'orazioni, ché l'avrai in barba. Bisogna cervello, in queste cose! Ora qui non manca altro se non ch'ei venga qua duo volte o tre e sappia governarsi. Io penso un tratto. Non passò ancor duo giorni.

SCENA IV

Filocrate, cognosciuto il suo errore, esce vestito di sacco predicando ed, in penitenza del suo fallo, dilibera andare a San Iacopo di Galizia; ed è da Pilastrino e Fileno beffato e straziato.

FILOCRATE vestito di sacco, PILASTRINO, FILENO.

FILOCRATE. Troppo tardi, lasso! sí grande errore ho cognosciuto. Noi, che siam nati a la gloria del cielo, lasciarsi al senso, che è de la ragione nimico, involgere in sí brutta vita! Divota gente, anime benedette, populo eletto, in fin che Dio ne lascia il tempo a farlo, tornate, vi priego, a penitenza. Riguardate tutte le cose inferiori; e troverete esser la corruzione e annullazione il fin di loro. Volgetevi poi a le parti de l'anima; e vedrete, con ragioni e per pruova, essere eterna fatta da Dio sol perché fosse erede del ben suo eterno.

PILASTRINO. Ecco! Ve' un nuovo pazzo!

FILENO. Da poi che 'l mondo fu, fu pien di matti, da que' duo primi matti. Or tutti quanti par che d'ogni paese piovin qui per influsso di cieli.

PILASTRINO. Quanta gente li corre dietro! Mi fa ricordare quando la Mannarona uscia di casa. Deh! che possiate diventar civette! Guarda che furia!

FILENO. Mi par di cognoscerlo: e non so dove mi possa aver visto questo birbon.

FILOCRATE. Miseri a voi! Che vale a tal felicitade esser chiamati, se, a forza poi de lo stimul migliore, fate insieme mortal l'anima e 'l corpo come le bestie?

FILENO. Certo, io lo cognosco; e non saprei dir come.

PILASTRINO. Potria stare. È un di questi che, con bullettini ed altre truffarie c'han sempre seco, cercan del mondo. Oh! Se non par Filocrate! Guardalo ben. Quel che toglieva Lúcia. Che ti par? non è desso? Io ho a morire, tanto ne godo!

FILENO. Non può anch'essere altri.
Oh pazzarone! E che è stato questo?
Accostiamci ancor noi.

FILOCRATE. Io non posso altro se non, andando per il mondo a sempre sopportar caldo, freddo, fame e sete e fatiche e passar tra gl'infideli predicando la fede e sol per zelo di caritá morir, pregar per voi il Signore ed ancor per ciascun altro che è fuor di strada.

PILASTRINO. E che! Non è gran cosa!
Questi non fu mai savio. Oh! co! ahuè!
Sta' fermo qui.

FILENO. Che porchitá è la tua?
Che aspetti? Tu lo guardi cosí forte,
o Pilastrin?

PILASTRINO. Lo voglio affigurare. Li vo' toccar la man, ché siam parenti. Filocrate crestoso, hai pur rubbato la spoglia d'un saccone? e t'hai con essa vestito? A questo estremo di prudenza t'han pur condotto i tuoi ruvidi amori? Guarda che cera! Non pare il legato de la peste e la fame?

FILOCRATE. Va', fratello, a la tua via: se pur non vuoi venire di compagnia a visitare il corpo del baron di Galizia.

PILASTRINO. Oh spennacchiato! Chi vuol venire a venderci cristei! Di', malandrino! E che non t'ha voluto aprir la porta, a quel che t'è incontrato cosí brutto accidente? Oh! Sta'! Sí, sí. Or mi ricordo: l'ha giá rotta seco. Non li vòlse rispondere. A la fede, che de' volere andare al prete Ianni, per intronato, in su quella galea che s'ha da armar di frati, artieri e pazzi. E debbe anco aver buona provigione, per portar la semente degli sciochi che a lor parrá gran cosa: ché la nostra nasce di qua, senza esser coltivata, ne le case, ne' muri e ne la rena, come fa la bacicchia. Toh poltrone! Ve' se non fa 'l piagnon, che sia scannato da le zenzale! Non so che mi tiene che non ti peli quella barba schifa e lorda.

FILOCRATE. Dio ti dia cognoscimento, pazienza a me; poi che m'ha fatto degno de la sua grazia.

PILASTRINO. Dio ti dia 'l mal anno e la pasqua peggior, ladroncellaccio! Son piú omo da ben che non sei tu. Che sí, se m'accaneggi, ciarlatano, la farem con le pugna!

FILENO. Ah! Discrizione!
È troppo, Pilastrin: lascialo stare.
Togliamcene, piú presto, un poco spasso.

FILOCRATE. «Apparecchiate la strada al Signore»,
diceva il gran Battista nel diserto,
per convertire ogni selvaggio core
e, con la penitenza, farne aperto
il buon sentier che giá l'antica gente
chiuso n'avea facendol duro ed erto.
Quale è donna di voi che non si pente
e non rompe nel cor durezza tanta
ch'altrui in vecchiezza poi suol far dolente?
Rompete il ghiaccio che d'intorno ammanta
i freddi petti; e di pietá s'accenda
l'alma, ch'Amor vi faccia lieta e santa.
Ma veggio che convien che altra via prenda;
ché 'l predicar fra duri sassi e tigre
non è possibil che mai frutto renda.
Alme gentil, non siate al ben far pigre.

PILASTRINO. Guarda se 'l cielo è giusto! Io so che questi, tra 'l non aver danari e tra l'amore, si trova fatto, e in cosí poco tempo, uomo da ben. Ghiottone, scelerato, c'hai qui gabbato il boia che a la forca t'aspettava col diavolo! Or vuoi andare per il mondo e gabbar Domeneddio e gli uomini?

FILENO. Troppo è; lascialo andare.
Che pensi guadagnar da un simil pazzo?
Torniamo in piazza.

PILASTRINO. Non ti potrei dire che voglia m'è venuto in cima a l'unghie di dare a sto poltron pien di peccati una man di punzoni! Ma non voglio, ora che sono acconcio, ruinarmi. Vedi Amoraccio! Parti che sia un putto o pure un gran signor? Parti che sappia, quando ci ha sotto i piedi, arragazzarci e farci gioco al vulgo? I premi, poi, son le crocce, la paglia e 'l boccalone. Ecco Artemona. Addio.

FILENO. Va' pure. Amore? Certo, non veggio in questa nostra vita pazzia piú chiara o vergogna e ruina piú evidente. E, per gli uomini savi, s'avria solo a fuggir la dolce entrata: ché, come ci siam dentro, è poi l'uscita assai piú stretta ed erta che non fu quella del laberinto. Ché di questo alcun non n'uscí mai per forza o ingegno di filo o di spaghetti.

SCENA V

Artemona, parlando con Pilastrino, mostra averli racconto l'offizio che ha fatto per Crisaulo e quello che ha pensato perché egli fra poco ottenga, come si vedrá. E, in questo, Pilastrino le narra tutti li accidenti del suo amore che sono circa il mangiare e il bere.

PILASTRINO, ARTEMONA.

PILASTRINO. Sai per sette.
Sempre ho sperato in te.

ARTEMONA. Omai la cosa
passa per suoi piè.

PILASTRINO. Saresti donna da governare Stati. Ma vorrei, quand'hai guarito tutti gli altri amori, che dessi ancor qualche rimedio al mio a cui fei don di me fin ne le fasce; ed è quel che mi strugge e fa beato solo a pensarvi.

ARTEMONA. Fa' ch'io sappia il tutto e lascia fare a me.

PILASTRINO. È un gran signore: ch'altro che di pensier la vita nostra nutrisce; ed a sua posta la dilegua, mal grado nostro.

ARTEMONA. Séguita, ch'io t'ho…

PILASTRINO. Non è 'l mio, come il loro, una fraschetta che non vede e non ode e porta l'ali per fuggirli di man, quando gli ha dato qualche percossa; né porta saette o dardi da impiagar; né a' suoi suggetti porge se no piacere; e dentro ai petti non mette fuochi o fiamme; anzi, egli stesso le vuol soffrir, per non le dare a noi. Cosí le morti, i martíri e i dolori, per dar vita a noi altri, egli sopporta: onde, s'io l'amo!

ARTEMONA. Non dir piú: t'ho inteso.
Il tuo amore è 'l boccale.

PILASTRINO. Tu l'hai detto: con la minestra e la carne e la torta e tutti gli animai, gli uccelli e pesci e ancor con tutte le manifatture de l'arte di cucina. Parti ch'abbia perduto il senno, come soglion gli altri innamorati?

ARTEMONA. Tu sei troppo savio.
Ne son teco, di questo. A dire il vero,
io truovo un gran piacere nel mangiare
e nel ber ben.

PILASTRINO. Perché tu hai cervello.
Uno ignorante non sappria parlarne.
Questo è l'amor divino che i dottori
dicon ch'è cosí santo.

ARTEMONA. Di', di grazia:
ché, se fosse cosí, vorrei provare
a fargli qualche voto.

PILASTRINO. Vorrei dirti
prima l'antica sua genealogia.
Ma saria cosa lunga.

ARTEMONA. E come è fatto?
di cera?

PILASTRINO. Non ne vidi mai ritratto: come intraviene ancor di molti idii che fanno il grande e non si mostran mai in forma alcuna. Ma, se noi vogliamo far giudizio di lui come si debbe, lo trovarem cosí dolce e soave e sí perfetto che giudicherai ch'in ciel sia la sua sedia sopra Giove, non che a quel loro, ch'è lá sú un ragazzo, uno schiavetto.

ARTEMONA. Non si può dir contra.

PILASTRINO. Se non fosse un noioso, un fottivento, non faria quel che fa. Se fosse grande nel ciel, com'essi dicon, non sarebbe ingiusto, instabil, fraudulente, iniquo, micidial. Ma fa un ritratto a punto da quel ch'egli è. Non troverai solo uno che si doglia del nostro e si lamenti ch'egli li strazi: come sempre loro, con tanti pianti.

ARTEMONA. Sí; ma quando, poi, siam ben pasciuti, in noi manca l'amore e 'l desiderio de la cosa amata. Ed in loro è il contrario.

PILASTRINO. E cosí in me: perché son com'un sacco senza fondo; ché, se 'l Ren fosse vino o ver minestra, io mi torrei a sorbirlo tutto a un fiato a la tedesca.

ARTEMONA. E come a la tedesca?

PILASTRINO. Non m'hai veduto mai bere a la botte, pisciando a un tempo? ché, in un sesto d'ora, ne bevrò tanto che a l'uscir lo vedi negro come a l'entrare. A queste sere, con un soldato che m'alloggia in casa vinsi, giuocando a questo, dieci corbe d'un buon trebbian.

ARTEMONA. Debbe essere un bel giuoco.
Ma 'l vino è troppo caro. Oh bella cosa!
Almen non s'ha passioni, in questo amore,
né pianti né sospiri.

PILASTRINO. Sento tutto
appunto come loro: benché mai
non abbia aúto voglia di morire,
com'ogni or dicon essi.

ARTEMONA. Di': in che modo?

PILASTRINO. Prima, non è mai stato al mondo alcuno verso l'amata sua sí forte acceso quanto son io: perché, se è il lor d'un mese, d'un anno o dieci, io giá son quaranta anni che lo portai del corpo di mia madre; perché nacqui con esso e i nostri antichi tutti, in millanta gradi, sono stati perduti in questo.

ARTEMONA. Questo omai si sa.

PILASTRINO. E benché, qualche volta, di goderla abbia qualche contento, provo spesso l'amare pene, gli affanni, i martíri, i travagli e l'angosce, che, non solo non prova innamorato, ma pur donna, s'è sopra a parto, non gli sente tali, quando ne sto, da poi ch'è giorno, un'ora senza entrare in cantina.

ARTEMONA. Io te lo credo.

PILASTRINO. Le contentezze, le beatitudini e le gioie e i piacer gusto ne l'anima, e nel corpo a un tempo, quand'io vado a mangiar con qualcuno ove si trovi la mia padrona.

ARTEMONA. Questi son buon punti. Mi pari un Salamon. Saresti buono a leggerne in iscranna.

PILASTRINO. E poi le fiamme ardenti, che loro han sempre nel cuore, sent'io spesso per tutto e, qualche volta, in modo ch'io ne sudo e bagno tutta la camiscia e le brache, quando posso pigliar, sotto le volte, al magazzino, la grazia di san Paulo con quel greco ch'io bevvi l'altra sera.

ARTEMONA. E, per ventura, debbi veder tutti quegli animali, aspiti, bisce, tarantole e serpi, come se fossi in banco.

PILASTRINO. Bene spesso. M'agghiaccio, poi, e m'affreddo e mi risolvo come la neve al foco e al vento nebbia, s'io sto, l'inverno, che non magni sempre e mi scaldi col vino.

ARTEMONA. Siam piú d'uno.

PILASTRINO. Io, finalmente, come fanno loro, esco di me, divento furioso, divento povero e cosí ridiculo. Ed in questo ho avantaggio: ch'essi cercano, con ogni studio, per la cosa amata (il che il piú de le volte gli intraviene), venir mendíci; io sono stato sempre e, s'io non era savio, sarei ancora per l'avenire. E in tutte queste cose sento dolcezza. E tanto piú, se sono in quelle fiamme, in quei caldi che pare che 'l mondo giri. E talor veggio i cieli aperti tutti, com'un frate santo, e gli angeli suonare. Io canto e ballo. E poi mi par ch'io cado giú a ruina in un rio fresco fresco che talvolta (ti dico il ver) mi fa di contentezza pisciarmi sotto.

ARTEMONA. Questo l'ho provato piú d'una volta anch'io; ma non vien da altro che bere il vin senz'acqua.

PILASTRINO. Non fa male a chi v'è usato. Non vo' dir de' sogni, ché ne potrei contar piú di trecento millia novanta dodici. E ben spesso mi sogno: e poi, svegliato, mi ritrovo sotto una scala o in cánova o in cucina o sotto un desco; e poi non mi ricordo se andai la sera al letto o se vi fui portato da qualcuno. E sí mi pare aver sognato le piú nuove cose del mondo! Cosí loro ancora abbracciano il loro amore in sogno e di poi, desti, non fan che lamentarsi. Dice l'uno: —Beato insogno!—e, di languir contento, d'abbracciar l'ombre e imbrattar le lenzuola d'un dolce pianto…

ARTEMONA. Ah! ca! A quanti intraviene!

PILASTRINO. Dunque non mento. L'altro chiama il cielo crudel che in quella tanta dolcitudine non l'ha fatto morire o ver concesso di non destarsi mai. Cosí facc'io, se mi truovo, in quel sogno, ben pasciuto. Allor vorrei che 'l mondo stesse sempre in quello stato. Ma poi, come indugio ogni poco, incomincio a sentir dentro gli asprissimi dolori de la fame: ond'io mi adiro e squarto e maledico; e, se pur sono in luogo che non possa farlo forte a mio modo, da me dico la messa piana, come ne l'incanto faceva Girifalco. Ma vo' dirti. Sento un sonno assalirmi che non posso tener piú gli occhi aperti.

ARTEMONA. Sí: t'ho inteso. Va' dormi; n'hai bisogno. Io 'l vidi al primo, ch'era cotto a l'usato.

SCENA VI

Crisaulo, avendo parlato con Calonide, le promette ultimamente di sposar la figliuola e si fa conceder da lei di dirle duo parole: le quali, come poi si vedrá, fûrno di sorte che egli ottenne per quelle, la sera medesima, quanto desiderava.

CRISAULO, CALONIDE.

CRISAULO. Io ti ringrazio de l'affezion. Ma vegnamo a la fine. Piú volte abbiam parlato; e cosí Artemona t'ha detto la mia mente. Or ti concludo, e dico espresso, se ne sei contenta, ch'io sono in ogni modo risoluto di tôrla per mia donna e di sposarla: ché altro non truovo, al fine, in questo mondo che contentarsi; e so che può di lei contentarsi ciascuno.

CALONIDE. Io t'avea dato, figliuol, tempo tre giorni, ché potessi pensarvi bene; perché queste cose so come vanno e questo grande amore non dura sempre. Ma, poi ch'in te veggio cosí gran desiderio, non mi pare di poterti mancar; ma ben cognosco quanto sconvenga a te tôrre una donna sí poverina.

CRISAULO. Queste son parole. Piú robba o manco, non ne faccio stima; ché le ricchezze e i ben de la fortuna, per se istessi, non dan nobiltá. Cerco una donna che sia ricca e nobile di costumi e virtú; di che son certo quant'ella è ben dotata. Ma vo' prima che mi conceda (pure in tua presenza) ch'or io le dica qui sol duo parole; perché voglio saper ben la sua mente prima ch'altro si faccia.

CALONIDE. È bene onesto.

CRISAULO. Potrai star tu da canto; ed io da lei vo' quest'ultimo sí: poi, fra duo giorni, farem le nozze.

CALONIDE. Ti vo' contentare.
Ma promettimi, prima, non dire altro
che cosa onesta.

CRISAULO. Hai in me sí poca fede?

CALONIDE. Orsú! Entra in casa.

SCENA VII

Timaro va a dimandar Pilastrino a casa sua per farlo venir da Crisaulo; e lo truova dormendo ed, a la fine, lo mena. E Crisaulo li ordina che debbi render la robba sua a Girifalco: il che egli, per non poter fare altro, dopo alcune contese, pur si dispuone a fare.

TIMARO, PILASTRINO, CRISAULO, FILENO.

TIMARO. Olá! Non c'è nessuno?
So ch'io gli sveglierò o che la porta
anderá in terra.

PILASTRINO. Chi è giú? Corri al fuoco,
impazzato! Son fatte le limosine.
Che cerchi tu?

TIMARO. Non gridar di lí, boia!
Deh! scendi a basso.

PILASTRINO. Tu vuoi pur la baia!
Che dimandi? ché vo' tornare al letto.
Che discrezione!

TIMARO. Vedi u' son condotto!
Cerco di Pilastrin.

PILASTRINO. Mi par che uccelli
la fava. Non mi batter piú la porta.
Debbi essere ubbriaco.

TIMARO. Apri qui, fiera!
Ti taglierò un'orecchia.

PILASTRINO. Questa volta, voglio che tenga di mula di medico cosí come sei bravo.

TIMARO. Quello è desso; è Pilastrin. Parti che ha scelto l'ora di andare al letto? Mi bisogna averlo con le buone. Odi, o Pilastrin: ti prego; fatti fuori.

PILASTRINO. Tu m'hai rotto la testa.

TIMARO. Ascoltami. Crisaulo…

PILASTRINO. Io non vi sono.

TIMARO. … ora t'aspetta a far colazion seco
e ti vorria parlar.

PILASTRINO. Sí, sí: è Timaro.
Non t'aveva pur anco cognosciuto.
Eccomi a te.

TIMARO. Credo che, questa volta,
ti parrá forse amara.

PILASTRINO. Andiam pur via.

TIMARO. Che cosa è di te tanto? Non possiamo giá piú vederti.

PILASTRINO. Queste ghiottoncelle m'han cavato 'l cervel de la memoria in modo ch'io non posso piú, senz'esse, vivere un'ora.

TIMARO. E che! Sei innamorato?
Di' il vero.

PILASTRINO. Se sapessi come m'hanno concio! Non posso piú mangiare o bere, quand'io dormo; o dormir né chiuder occhi, mentre ch'io beo, se prima non è vòto il fiasco. E sento spesso tante pene che mi stempero tutto; e, in quel, talora vado al luogo comune. E degli affanni non ti dico; perché ne porto addosso quanto un somaro, di quegli degli altri. Pensa de' miei!

TIMARO. Anche ti venga il grosso!
Non puoi giá uscir di quello.

PILASTRINO. Tu non credi,
che abbi una innamorata?

TIMARO. Sí, lo credo, ch'abbi una sfondorata, ché pur una n'è la tua Gnesa; ché, in tutte le parti che fanno una plus quam perfetta lorda, port'essa la corona e non li manca se non esser fregiata in sul mostaccio. Ma a te piace cosí.

PILASTRINO. Sí! L'ho piú a noia… Ma ti ricordo che 'l venirmi incontra con le man piene…

TIMARO. E che! Di palafreni?

PILASTRINO. Di tanto, forse, che non hai nessuna che porga tanto a te.

TIMARO. Gli è ragionevole
che i belli sempre si faccin pagare.
L'ordine è questo.

PILASTRINO. Ma per te si guasta; ché sei sí bello e non v'è forse alcuna che ti voglia pagar!

TIMARO. Bel non son io.

PILASTRINO. Almanco tu ti tieni. E forse in modo che, qualche volta, se tu fossi appunto come ti tieni, faresti vergogna a Narciso; e per te morria, ogni giorno, un migliaio di donne; e si farebbe forse, ai lor prieghi, che fossi dannato a vita nel torrone.

TIMARO. Cianciatore!
Di' pur, ch'è l'arte tua. Ecco Crisaulo
che torna anch'egli a casa.

PILASTRINO. Ci ha veduti.
Andiam da lui, ché aspetta.

CRISAULO. Ben venuto.

PILASTRINO. Ben ti venga, poi c'hai per me mandato perché merendi teco.

CRISAULO. Ascolta, prima, quello che t'ho da dir: poi, se vorrai, potrai mangiare.

PILASTRINO. Oh! Se bevessi prima, t'ascolterei pur troppo volentieri e con pazienza.

CRISAULO. Orsú! Non mel far dire duo volte o tre.

PILASTRINO. Di' presto quel che vuoi.

CRISAULO. Tu ti sei governato in un tal modo di quel tuo tradimento che potresti essern'ancor pentito; e giá, fin ora, saresti forse in man de la giustizia, se non fosse che t'hanno riguardato sol per mio amore. Or lascia andar le ciance e fa' che la sua robba torni a casa. Altrimenti ti dico che 'l maggiore nimico ch'abbi a aver voglio esser io. Ma non penso che manchi.

PILASTRINO. Hai detto assai: ma non t'intendo.

CRISAULO. Ti farò sturare gli orecchi, per mia fé. Dico che omai le tuoi ghiottonarie sono scoperte e che, se tu non rendi a Girifalco la robba sua, ti vo' far pigliar io e darti a l'auditore.

PILASTRINO. Oimè meschino! Questa è la colazion che mi volevi dare? Oh che nuova acerba! Ma fa' pure quel che ti par; ché tu predichi, appunto come facea quell'altro, nel diserto. Ché anzi voglio morir: ch'è meglio assai morir ricco che viver poi stentando in povertá. Non ne farem niente. Guarda la gamba, che mi lasci mettere nel giubbon del comune!

CRISAULO. Tienlo! piglia!
Pigliatel presto, ché 'l vo' fare or ora
appicar, cosí caldo, per la gola.
È cotto, e vuol fuggire! È dato giú.
Rimenatel pur qua.

FILENO. La lepre è giunta.
E che volevi far cosí a fuggire?
Sta' pur, ch'io t'ho.

CRISAULO. Va'; corri al capitano, Timaro, da mia parte; e fa' che mandi qui dieci sbirri, ché li voglio dare uno assassino.

PILASTRINO. Oimè! Misericordia!

CRISAULO. Usarla in te sarebbe cosa iniqua:
ché sei un ladrone e non vuoi ravederti.
Sarai pagato adesso.

PILASTRINO. Odi, Fileno?
Dice che tu mi lasci. Non hai inteso?
Lasciami, dico: sono ancor digiuno;
voglio ire a casa.

FILENO. Anca a digiun potresti
dar con le scarpe la benedizione.
Sta' pur qui fermo.

PILASTRINO. Ti prego, Crisaulo.
Deh! Non mi lasciar metter piú paura,
ché mi sento venir la febbre fredda.
Manda a dir che non venga il capitano.
Ne li vo' render parte.

CRISAULO. Tutti, tutti. Pensa se piacque a lui l'essergli tolti, quando è si grave a te, che gli hai rubbati, restituirgli!

PILASTRINO. Mi farai morire com'un uom disperato. Se fai questo, non camperò duo dí.

CRISAULO. Va'. Son contento. Porta qui tutto quello c'hai del suo. Ed io, perché non mora, ti prometto di lasciartene il terzo; gli altri voglio rendergliel'io.

PILASTRINO. Lo voglio fare, orsú! Ché pure, in vero, non potrei tenergli senza peccato; e forse ancora, un tratto, glieli rendeva io istesso.

CRISAULO. Mal per lui, se stava a questo!

ATTO V

SCENA I

Filocrate, ritornato di Spagna, piú che mai nel suo amore acceso, per entrare in casa di Lúcia e non esser cognosciuto, viene in abito di pelegrino dimandando limosina in lingua spagnuola; ed è a la fine da la madre accettato in una corte come pover'uomo: ove, con Demofilo socero di Calonide, entra ne le lodi de l'imperatore e di piú principi.

FILOCRATE ritornato pelegrino, FRONESIA, CALONIDE, DEMOFILO vecchio.

FILOCRATE. Ai de mi! O personas de bien, aiudadme con limosna. O quien hallasse alguna alma tan devota la qual oviesse piedad d'este pobre peregrin, maldispuesto, que a llegado a estos dias del sepulcro! O muger de bien, llamadme un po a vuestra señora; que io me muero de necessidad, por que pasa de ocho dias que io camino con la fiebre.

FRONESIA. Oh che fastidio! Ti s'è pur fatto giá due volte o tre limosina. Ma siete certe genti che vi fermate a la prima in un luogo e pensate ivi, senza andare attorno, aver le spese. Bisogna, fratello, andar cercando come fanno gli altri. Non hai detto che chiami mia madonna?

FILOCRATE. A sí: llamadme a vuestra señora.

FRONESIA. Questo fia poco.

FILOCRATE. O triste de quien es pobre! porque ia en estos tiempos no se halla quien bien aga. O dichoso si una vez muriesse! A lo menos holgaria por salir de tanta pena.

CALONIDE. Che vuol quel peregrin?

FRONESIA. Parlerai seco.

FILOCRATE. Solo me bastaria estare allá en cubierto: porque, no solo estoi muriendo, mas aun aeste aire me acaba la vida y haze que me consume.

CALONIDE. E che vuoi tu, pover'uomo? Siam poveri ancor noi, come tu vedi, e di quel poco di ben che si fa ti si fa parte. Se non foste tanti, ne verria piú per un.

FILOCRATE. Solo, señora, queria una merced: que me dexasses estar allá debaxo a quel portal, porque soi cierto que, estando allí una noche, acostado en quella paia, resucitaré sin dubda; que estoi mas que muerto del trabaio.

CALONIDE. Entrar lá dentro?

FILOCRATE. No deseo otra cosa.

CALONIDE. Oh poverino! Che cosa è questa vita! Il mio fratello, questo non posso far; ché dal messere ho commission di non lasciare entrare in casa alcuno, per questi sospetti di peste che sono or per tutto il mondo. Uno spedale è qui vicino.

FILOCRATE. O Dios del cielo! que bien sé io do he stado y quam limpio soi de sospecha; porque el mal no es otra cosa que fiebre iuntamente con las passiones y tan longas fatiguas.

FRONESIA. Potria dire cosí, tre dí, che non lo intenderei se non per discrezione.

CALONIDE. Io non saprei giá parlar come lor; ma diria poche cose che non l'intenda perché, inanzi che Lúcia fosse grande, n'ha Demofilo sempre tenuto in casa di scolari quasi tutti spagnuoli.

FILOCRATE. Mi señora,
tiengo a vos sola de ablar dos palabras.

CALONIDE. Tiratevi da canto. Volentieri.
Di' 'l tuo bisogno.

FILOCRATE. Io soi bien nascido y en buena ciubdad y de mui noble familla; y, por haver prometido d'ir al Sepulchro, soi venido a este fin y malaventura. Y, estando a sí, alende de otras passiones, es otra mui maior; que tiengo a qui cientos ducados, sin algunas ioias. No sé come hazer porque no me mate algun ladrone, estando a si a dormir de fuera: por lo qual, cara señora, solo por esta noche, os suplico que me dexeis entrar; que, a la mañana, io me iré. Y, porque he oido dezir de vuestra mucha bondad, he osado descobrir a vos todos mis secretos confiando de vos.

CALONIDE. Puoi ben fidarti. Orsú! Entra in casa. Ed io vado a Demofilo a pregarlo che voglia esser contento, tanto che ti riabbi d'esto male, che ti stia qui.

FRONESIA. In vero, m'ha ben cera d'uomo da bene: me ne crepa il cuore. Tristo a quel che si truova in tal disgrazie sbandonato da tutti! Cosí suole far la fortuna: nulla è, in questo mondo, di fermo che 'l ben far. Par che simigli una persona e non saprei dir chi. Ecco 'l messer.

DEMOFILO. Donde sei, peregrino?

FILOCRATE. Soi spañol y natural de Cordova, muy buena patria, y tan bien de buena familla. Aora soi en vuestras manos. De gracia, havedmi compassion.

DEMOFILO. Appunto. Non ti pigliar fastidio, ché potrai star qui per fin che tu sia ben sanato; e farò governarti da fratello. Ma ben m'incresce non poter tenerti come vorrei perché, in fin che non passa bene il sospetto, non ci veggio modo d'accettarti sú in casa.

FILOCRATE. Soi contiento
con eso. Non quiero otra cosa.
Dios os pague el gualardon.

DEMOFILO. Sapresti darmi nuova d'un signor Fabio Negri di Valenza?

FILOCRATE. En verdad no le cognosco.

DEMOFILO. Che si fa in quelle bande? che si dice di nuovo?

FILOCRATE. Quando io me partí da quellas partes, se hazian grandes allegrias y fiestas y triumphos; porque havian nuevas de la tornada muy felice de Su cesarea Maiestad (y esto por toda Spagna). La qual es tan de- seada que cada ora les parece mas de un año. Y en special la emperatriz que tan cortés a havido el cielo ne las dotes de la anima quanto de la fortuna. Y asimismo se aderecavan iustas y torneos para quando aia llegado con tanta gloria y vencimiento.

DEMOFILO. Ai tempi nostri non si ricorda che, da Adamo in qua, sia nato alcun dal ciel piú largamente dotato e favorito e sovr'ogni altro fatto felice; non cavando alcuni passati imperatori o capitani. Che se la nostra etá fosse sí ornata di scrittor degni come fu l'antica, non si ricorderebbe piú, in esempio dei piú famosi e illustri semidei, Augusti, Arsacidi o Iustiniani: ché la fama maggior di Carlo quinto, come fa 'l sol con le minori stelle, offuscherebbe i loro accesi lumi.

FILOCRATE. Ciertamente sus grandes vitorias y empresas honrosas y magnanimos hechos muy felices dexaran tal fama de Su alta Maiestad que, sin scrittores o poetas, haran que su nombre siempre viva, sin falta alguna, despues de mil mondos. Y specialmente por esta vitoria que a avido en Ungaria contra el Turco; la qual a seido nuestra redemption y fortification y esaltation y aumento de la nuestra santa y catholica fé. Donde el vuestro marques del Vasto, de Su Maiestad capitan diño, con illustres obras a ganado tal nombre que qualquiere gentilhombre parece desear non menos de seguir la gherra por militar vascio al dominio de tan generoso señor; que el desea la eterna gloria y accrecientamiento de las vitorias a lo emperador su rey señor. Dichosa edad nuestra, que de tan glorioso emperador sta governada y tan bien regida!

DEMOFILO. Felice è certo questa nostra etade quanto altra mai ne fu, quanto ne fia dopo i dí nostri: poi che 'l ciel l'onora d'un pontefice tal che l'alta sede non manco adorna e imperla e ingemma e inostra, con le rare eccellenze e con la fama de l'opre chiare, ch'ella il suo bel nome rischiari e 'l renda a le future genti colmo di gloria e d'immortali onori. Il cui chiaro valor, se tanto vivo che giunga a la vecchiezza, spero ancora veder rinovellar (come d'alloro esce ramo piú vivo) in due gran piante. Ippolito fia l'un, giá adorno e carco di fama tal che l'Indo e le Colonne passa colma d'onor, dal tempo sciolta. Il qual vedrem, cinto di perle e d'oro e verdi fronde, anzi che cangi il pelo, giungere in cima a l'onorato calle per l'istesso sentieri onde ora sale; e fare al gran valor forse secondi i patri onori; e, come vivo sole, dar lume a questo e quell'altro emispero con sí soave raggio che si eterni la primavera: a che pensando, parmi veder tornata giá l'etá de l'oro. L'altro, Alessandro; che al valore antico del grande antecessore, ne' verdi anni, succede sí che par giá che sostiene ogni speranza che ha 'l Tosco e il Latino. Taccio or del gran legnaggio piú ministri i quai, se avesse aúto ai primi tempi Roma, via piú d'onor l'ariano ornata che né Fabrizio né Caton né Scipio: il gran Salviati, un Tomaso, un Francesco; un di prudenza, un di bontade esempio e l'altro di giustizia, il Guicciardino; il qual la terra nostra or teme ed ama. Ei ben si può dar vanto d'esser nato per governar provincie, imperii e regni: di che, non sol s'allegra l'Arno e Ibero, ma tutto quello che la santa Chiesa onora ed ama; onde confuso trema, sotto il nome Clemente di pastore, non manco che giá fesse il fiero artiglio del Lion valoroso, ogni gran fiera ed ogni lupo al bel gregge nimico.

FILOCRATE. Esta fama se a adquirido nuestro muy Santo Padre, en todo el mondo, con muchas pias y buenas obras; la qual durará tanto quanto del tiempo el movimento. O quanto deve olgarse todo el mondo! que con tanto amor, aora ultimamente, y entera fé an firmado ambos y fortificado los fondamentos de la eterna paz; que no solo seran siempre unidos mas tomas una vida y una alma: porque, al fin de todo, su unidad es asimismo de todo el mondo y de nuestra santa fé.

DEMOFILO. Gli è certo: ché sempre, uniti i capi de le cose, stanno unite anche lor; tanto piú quelle che da quelle son rette e governate come è 'l mondo da lor. Portali cena; ché passa il tempo, cosí, ragionando, che non si vede.

SCENA II

Pilastrino, ricercando qualche suo amico vecchio per mangiar seco, si imbatte in Girifalco e, per ire a cena seco, lo invita a cenar con lui; ed è dal vecchio scorto, onde il disegno vien fallato.

PILASTRINO, GIRIFALCO.

PILASTRINO. Che farai istasera, Pilastrino? S'accosta ora di cena, e tu in casa non hai né pan né fuoco. Sono ora in piazza. Lasciami cercare se trovassi qualcun di questi miei amici vecchi; e non avrò a comprare: ch'oramai m'incomincia a increscer troppo, cosí mi truovo stretto di danari, poi che Crisaulo mi fe' render quello ch'era mio di ragione! Or, come spendo un quattrino, mi par che mi sia tratto un dente de' migliori che abbia in bocca, che gli ho piú cari la metá che gli occhi. Ma guardo pure e non ci veggio alcuno. Quel non è Girifalco? Orsú! Mi voglio apparecchiare a una magra cena. Girifalco da ben, Dio ti contenti. Ti son pur servitor: ma sei un cert'uomo che non mi degni; o che tu m'abbia in odio, non so perché.

GIRIFALCO. T'ho in luogo di fratello.

PILASTRINO. Toccala qui. Vo' che istasera facci una bontá: che venga a cenar meco, se mi vuoi ben.

GIRIFALCO. Non posso.

PILASTRINO. Dissi bene che non mi degneresti. Non ci è peggio che essere, in questo mondo, pover'uomo; ch'ognun ti fugge. Avrem di buon pipioni in colombaia; e buon vin ne le bótte; e 'l pan, se non è poi bianco a tuo modo, manda per esso a casa.

GIRIFALCO. S'io potessi, non mi aresti a pregare.

PILASTRINO. E dove ceni?

GIRIFALCO. A casa.

PILASTRINO. Vedi che tu mi rifiuti.

GIRIFALCO. Dimmi altro, se vuoi nulla.

PILASTRINO. Oh! Va', ch'io voglio, per non cenar da me, venir teco io a casa tua.

GIRIFALCO. Perdonami. Non posso.

PILASTRINO. E perché questo? Oh! co! La cosa è guasta.
Oh! che spilorcio!

GIRIFALCO. Ho forestieri a casa.
Un'altra volta, poi.

PILASTRINO. Ed io che sono? Arei pensato aver luogo nel letto ove tu dormi. T'ho pure ancor fatto qualche piacer.

GIRIFALCO. No, no. Sono oratori de' veniziani. Parti che sia onesto che venga a star fra lor?

PILASTRINO. Sono oratore anch'io, per questo; ma non so concludere. Non avrò premio da la mia republica. Vatti con Dio. S'io non ti pelo, un tratto, quella barbaccia nido di piattoni, non sarò mai contento. Volpe vecchia! ché non penso, cercando tutto il mondo, si ritruovasse un che sopra il quattrino fosse piú scozzonato. Se potesse chi te n'ha giá fatt'una farne un'altra, forse che perderesti il ciaccolare e lo schermo.

SCENA III

Essendo, di notte, Crisaulo andato da Lúcia per l'ordine avanti preso, vien Fileno verso la casa; e trova Timaro il qual, devendo aspettare il padrone, era fuggito. E, mentre li dice villania, Crisaulo scende da le fenestre e manda subito a donare a la roffiana una gran collana che aveva al collo.

TIMARO, FILENO, CRISAULO.

TIMARO. Addio, Fileno. M'avrebbe dato troppo, s'io aspettava. Tu non mi ci corrai. Son quasi stato per non tornar. Mi sta a metter paura. So che venni correndo un pezzo in giú prima ch'io mi fermassi.

FILENO. Io la sapeva. Non restò giá da me che nol dicessi, che cosí potea armare un paracuore. E sei fuggito? Che avesti paura? dei morti?

TIMARO. A la fé, sí, cosí a la prima; ma non fuggiva. Poi vidi venire non so chi camminando per la strada: onde mi entrò paura; e m'appiattai e poi venni correndo in fin qua giú, che non mi son fermato.

FILENO. Se non fosse per non far qui romor, ti caverei quell'arme tutte e ti concerei in modo che ti ricorderesti, manigoldo, sempre di questa sera.

TIMARO. Orsú! Sta' fermo;
lasciami star. Lo saperá il padron, veh!
Eccolo.

FILENO. Corri lá! Tien quella scala.
Buon pro ti faccia.

CRISAULO. Pian! Senza romore. Timaro, va', corri ora e trova Artemona. Dálle questa collana; e sappia dirle ch'io glie la mando perché da lei intenda almen parte di mia sorte felice a cui si truova esser stata presente. Chi è piú contento al mondo?

FILENO. È ben passata. Saranno pur finiti tanti pianti. Sempre ho sperato; ch'io sapeva bene quanto possa in noi l'oro che le porte che fosser di diamante rompe e spezza. Pensa che ci può il cor d'una donzella! Con questo ci ha insegnato vincer Giove la castitá e l'onor, se fosse in carne. Di': come andò?

CRISAULO. Deh! non mi molestare, ché di dolcezza il cor mi si diparte. Poi, un'altra volta.

SCENA IV

Filocrate, il qual, come povero, in abito di pelegrino, era fermatosi ne la corte di Lúcia, con consentimento loro, in su certa paglia, vede Crisaulo andar da lei ed uscirne; e minaccia tutti e duo di ammazzarli, pure in lingua spagnuola, perché ancora non appare che si sia scoperto.

FILOCRATE solo.

Ai porque no me a dado el cielo, pues que era ia de tanta servidumbre salido, de allí léjos morir allá donde el morir podia venir con men dolor? Quisa sará que, con la morte sua, mucho allá contiento andaré; si de un tan grande ultrage yo saco venganza. Quiero ir allá, como el buelva esta noche; y hazer de maniera que su cru- el condition y tan mala natura sea castigada; en exemplo de l'otras que siempre tales costumbres tienen. Quiero que esta man castighe a todos dos y despues me ya mas contento saque de tanto trabaio y pena.

SCENA V

Crisaulo, ritornando a casa, ringrazia il cielo de la felicitá che in quella notte li concesse e racconta a Fileno la istoria tutta succintamente; ed è da lui in modo persuasoli il partirsi de la cittá che si dispuone di partir la mattina a giorno, per non averla a sposare; come, stretto da amore, dubbitava di fare.

CRISAULO, FILENO.

CRISAULO. Grazie immortal ti rendo, grande Iddio, chiunque sei del cielo e de la terra governator, di sí gran benefizio e largo dono; e a te, maggior pianeta, ch'ogni cosa terrena col tuo lume governi e reggi (che giá tante volte, al dipartir, mi lasciasti sí pieno di pensier tristi, ed al ritorno, poi, lontan da ogni riposo a tragger guai), che, rivolgendo altrove il chiaro giorno, lasciando dietro a te l'ombrosa notte, a tanto mio contento desti luogo. Luna, e tu parimente, che porgesti, velando il chiaro viso di piú oscure e fosche nubi, a tal felicitá favor, non sará mai mia lingua stanca in pregar chi che sia che lo può fare ne le tue contentezze; e che ritornino i dolci abbracciamenti de lo amato Endimion quanto mai lieti e spessi. Benigne stelle, cui chiamai sovente in testimonio di mia vita acerba, ma sempre in vano, onde crudeli ed empie vi dissi, non è alcun mortal mio sforzo che mi vaglia a formar degne parole in rendervi le grazie ch'io vi debbo. Cor lasso, che di lagrime e sospiri vivesti un tempo, ond'eri giá ridotto quasi a l'estremo, come puoi di tanta dolcezza esser capace? Occhi, che primi foste a soffrire e mandar dentro al core il dolce amaro, ché non fate segno di cosí gran letizia? ch'or vi involge in dolce pianto, come, in questa notte, vi ha dato il ciel, discacciando a voi lunge ogni tristezza, quanto vi fu prima, ogni riposo. E tu, lingua mia frale, che giá sí spesso, ne l'alte sue lodi, cantando, davi a le acerbe mie pene alleggiamento ed a le fiamme lena, or quanto mai ne l'onorato nome spende tue forze; sí che 'l vivo lume veggiam dritto poggiar verso le stelle onde discese.

FILENO. Vorrei che finissi, Crisaulo, oramai sí lunga predica; e mi partissi cosí gran piacere quanto tu non capisci.

CRISAULO. Sono allegro, certo, in tal modo che, ne la soverchia dolcezza, il cor mio lasso sente pena. Non mi dir nulla.

FILENO. Vo' che tu lo dica;
ché mi fai stare appeso per i piedi.
Non ti far piú pregare.

CRISAULO. Io son forzato.
Eccotel brevemente.

FILENO. Orsú! Incomincia.

CRISAULO. Tu déi saper sí come ier, parlando con Calonide, molto la pregai mi concedesse ch'io parlassi a Lúcia. Ella, che vive come al tempo antico, senza molte parole fu contenta e si tirò da banda.

FILENO. Questa è bella!
Accostare il tizzone al zolfanello
ed aspettar da canto che non brugi!
E le parlasti?

CRISAULO. Ora ti dico il tutto. Questo le dissi:—Cognoscer puoi certo, Lúcia, che siamo omai condotti a tale ch'esser non può ch'io non sia sempre tuo e tu di me. Però vo' che mi attendi, ché ti vo' confidare un mio secreto. Io son diviso giá da mio fratello perché sopra di te non abbi alcuno ne la mia casa ma ne sia signora. E perché il nostro aver, per il passato, maneggiav'io, mi truovo da appiattare un cassettino ov'io missi da canto molti ducati e gioie: ond'io ti prego che mostri avere in te giudizio e ingegno, ché li salviamo; e fidarsi d'altrui cognoscer déi da te che non sta bene. Io verrò qui istasera a le cinque ore. Fa' che mi attenda.—E le mostrai de l'orto la fenestrella. E dissi:—Come dorme tua madre, verrai qui, ché gli avrò meco e insegnerotti quel che vo' che faccia.— Semplicemente (come puoi pensare) la mi rispuose che non sapea come levarsi, che la madre non sentisse. Rimase, al fin, di farlo. E la pregai che facesse che alcun mai nol sapesse e che a la madre ancor trovasse iscusa perché non s'avedesse di tal cosa. Non ti dico altro. La mi venne fatta. E cosí fu la fin d'ogni mio affanno e 'l principio d'un sí felice stato ch'io quasi par che a me istesso nol creda. Che te ne pare?

FILENO. Io, non sol mi stupisco, ma, dentro, d'allegrezza mi confondo. Bene è venuta a tempo: ché comprata l'hai con tanti disagi e tanti pianti e tante amare notti e tanti giorni che appena mi risolvo se ciò basti a compensar tante fatiche e danni. Hai ben da ringraziar tutti li iddii di tanto dono; ch'io cognosco certo, se questo non riusciva, la sposavi. Oh che bel fregio a sí onorata casa! Che direbbe ciascuno?

CRISAULO. È vero e certo ch'io la sposava o che sarebbe in breve seguíto la mia morte; ché non basta il nostro ingegno a schifar le fortune e i casi avversi che sono imminenti. Che possiam contra 'l ciel?

FILENO. Bisogna, adunque, uscir d'errore ed a l'antico male porger rimedio, poi che v'è gagliardo. Fuggiam, per qualche dí, l'occasione, che fa peccar talor l'anime elette, ed andianne a diporto; ove vedrai ogni virtute ed ogni sentimento surgere in te come da morte a vita. Lasciati governare.

CRISAULO. Io sono stato, un tempo, appunto com'un uom che è morto e non esce di pena; e in stato tale mi son trovato che ho portato invidia a chi morio giá un tempo o mai non nacque. E fui giá tal che or sol la rimembranza mi toglie parte del piacer presente. Or che posso gioir, lasciami alquanto restare ove è 'l mio core e la mia vita, se tu non vuoi ch'io mora.

FILENO. Addio, Crisaulo. Dissi ben io che ci saria che fare che tu voglia ora uscir de la calcina, ch'altrui non par sentir mai che l'offenda per fin che non l'ha roso in fine a l'osso. A te verrá come al villanel suole, che, per cogliere il mele ai nidi d'api, si ferma sí che, prima che si parta, guasto n'ha malamente gli occhi e 'l volto. Voglio che ti governi in ogni modo come t'ho detto, ché quel poco amaro in questo ha seco utilitá infinita. Andianne, com'è giorno.

CRISAULO. Sia a tuo modo. Cosí farem, ché anch'io cognosco certo che fia 'l mio meglio. Ma non potrò starvi: ché ci morrò in duo dí.

FILENO. Sí! T'è piú sano che non è 'l cavar sangue agli impestati. Ed è ben peste quella che ti ha preso! Né certo ti devrebbe esser sí grave: perché non si terria impiastro perfetto, se non cuocesse al mal; né medicina fu dolce al gusto mai che fosse sana.

SCENA VI

Artemona si mostra con la collana al collo che ebbe da Crisaulo. E, dicendo alcune cose che sono introdotte come certa conclusione sopra de l'oro, è da Pilastrino trovata. Il quale le fa uno assalto per tôrgliela con violenza; ma non li riesce, ché è interrotto da la gente che al gridare di lei correva.

ARTEMONA sola, PILASTRINO.

ARTEMONA. Crisaulo mio da ben, questa è ben stata una mancia piú degna che 'l mio merto non richiedeva. Io so che l'è ducale. Oh Dio! Potessi almen portarla sempre, che non si disdicesse! ché mi penso, per la allegrezza che mi reca al cuore, farebbe piú mia vita che non fia lunga venti anni. Oh! mi par d'esser bella! Che benedetto sia chi me l'ha data e la sua casa e tutti i suoi parenti! Or vorrei che passasse per la strada qualche bel giovanetto; ché son certa che, cosí vecchia, gli anderei a gusto. Oro sopran, quante son le macagne e' difetti che copri! quanti i visi, che forse senza te parrian di fango, che gli fai risplendenti e pien di grazia! Spècchiati in me, che in alcun tempo bella giá mai non fui, ed or, che son pur vecchia, risplendo giá com'un bacin forbito. Di questo aspetto è 'l sol; questo le stelle mostra sí chiare; e questo è qui fra noi padron di quanto il sol girando vede. Questo dá tutti i ben, tutti i piaceri, tutti i contenti; e, fuor di questo, è nulla che a noi sia a grado. E di qui tutti i mali, tutte le sceleraggini ed inganni, i furti, le rapine e gli omicidii, le iniquitá, gli stupri, i sacrilegi, l'invidie e gli odii e quanto ha di piggiore la nostra vita in sé pullula e nasce. Per questo al padre e la madre e i parenti vegnam nemici; ed occidiamo i figli; e, per vil pregio, vendiam l'alma spesso. Questo è stato tenuto iddio, gran tempo, ed adorato, come è ancora il sole e la luna e le stelle in certe parti. E questo è tutto per la sua bellezza: onde nasce sí fatta gelosia che gli uomini, talora, a poco a poco rodendo, mena a vergognose morti. Questo può tutto; e di qui ciò ch'è al mondo è governato a' suoi debiti fini. Tanto mi piaccio di sí bella cosa ch'io dubito che alfin (come quell'altro) di me, senza specchiarmi, mi innamori. Ché non penso, sí grinza come sono, che alcun mi rifiutasse.

PILASTRINO. Sei in amore, ah?
Eccomi. Piaci a me, vecchia crestosa.
Posa in un punto giú quella catena,
se non vuoi ch'io ti mandi il collo ai piedi.
A chi dico io?

ARTEMONA. Sta' fermo. Oimè meschina!
Sai ben ch'io ti cognosco, Pilastrino.
Lasciami stare. Oimei!

PILASTRINO. Ed anco i miei voglion qualcosa loro. Tu non odi? Lasciala qui; ch'io ti caverò gli occhi, s'io ci metto le mani.

ARTEMONA. Oimè! Ladrone! Prima mi caverai la vita e 'l fiato e gli occhi e 'l cuor che di man la catena, se non mi scanni; e, se 'l fai, ti predíco che, inanzi un mese, tu sarai appiccato. Lasciami, adunque.

PILASTRINO. Dico ch'io la voglio. Dammi la corda, ch'io mi vo' appiccare. Posala giú, ch'io ti pesterò l'ossa. E chiude quella bocca di ranocchia; ché, ad altro suon che di cembalo o pivi, ti farò far la tosa e mazzacrocca. Scanfarda, che sei uscita de l'inferno, e vuoi le cose mie a forza, tu! Ti taglierò le man.

ARTEMONA. Misericordia!
Fuor, vicin! Tutti fuor! ch'io son giá morta;
ché un ladro m'ha assalito in su la strada.
Mi taglia il collo.

PILASTRINO. Se tu te ne vanti…
Cosí si fa, poltrona! Aspetta, aspetta!
ch'io te la caverò d'in mezzo al cuore
e se l'avessi chiusa nel cervello.
Roffianaccia! scorziera!

ARTEMONA. È giá fuggito.
So ben chi è. Non son tre giorni a notte.

SCENA VII

Filocrate, vedendo in casa di Lúcia farsi apparecchi per le nozze che aspettavano di far con Crisaulo, si lamenta solo: il che è come uno epilogare sopra de la fortuna. Ed, al fine, discopre a Fronesia chi egli è; e come, la sera avanti, era ito da Lúcia con animo di vendicarsi di averci veduto andar Crisaulo; e, trovatola in aspettare (per essersi giá, la mattina, per consiglio di Fileno, partito Crisaulo de la cittá), aveva ottenuto il suo desiderio. Ed ègli da Fronesia discoperto come quella che egli pensò esser Lúcia fu essa: onde, veduto pur esser cosí volontà de' cieli, se la sposa.

FILOCRATE solo, FRONESIA.

FILOCRATE. Di quanto amaro, Amor, temprasti il mele! di quanto assenzio che, per farmi al mondo unico esempio d'ogni sventurato, gustar mi festi! Ahi! Qual veleno e tòsco nel core i dolci frutti recato hanno! Di quanto fel, di quanto acerbo ed acro opprimen l'alma! Oimè, lasso! Che vale uman consiglio? poi che ne' miei danni s'arma il ciel tutto e, con la rea fortuna, in me congiura perché il debil filo d'una vita meschina, in mezzo agli anni, tronchin le Parche. Ma condotta omai la veggio a tal che, senza alcun ritegno, corre lá dove è spinta dal destino. Che cosa è, in questa vita, aver le stelle contrarie e 'l cielo! ché, se pur ci viene nulla di quel che ne faria felici, subito in mortal tòsco lo converte quest'empia che dichiam Sorte o Fortuna. Quanto fòra il tuo meglio, se giá mai non avessi gustato il dolce cibo che sí tosto è poi vòlto in amara esca! Dato è a me in sorte una piú acerba pena di quella che si dice ne l'inferno portar Tantalo ingordo: perché a lui il veder sol quel ch'ama è duro scempio e non ne poter tôr; ma quel che 'l gusta e poi gli è tolto e 'l vede son fatt'io. Ché ben cognosco che quella persona debbe esser che si aspetta che la sposi: ond'io resto a me scherno e al mondo gioco. Ho tante volte di fuggir provato l'eterna mia ruina e sol per questo corso son giá da l'uno a l'altro sole. Ma sempre con piú scorno mi rimena il mio destino ove convien ch'io mora, alfin, dopo piú morti.

FRONESIA. È disperato. Io vengo, peregrin, perché ti sento piangere e sospirare e con lamenti esprimer non so che di acerbo e reo; tal che spesso, a sentirti, ancor da lunge mi muovo tutta dal capo alle piante, sol di pietá. Non aver dubbio o téma, per esser, come sei, qui, forastieri in terre altrui; ché sarai governato da me come tu fossi mio fratello. E, se altra cosa è pur che sí t'addoglia, mi serebbe piacer (se 'l si può dire) intender la cagion; perché potrebbe forse a cosí gran mal, se non rimedio, trovarsi almen per noi qualche conforto. Non mel voglia celar.

FILOCRATE. Se alcuno è al mondo che possa avere nel mio mal rimedio, penso che l'abbi tu; benché sia poco, e di parole. E poi, del resto, il male è giunto a tal ch'omai piú cosa umana non li può dar conforto.

FRONESIA. Dillo, adunque; ch'io ti prometto quel che in questa vita onestamente per me si può fare in ogni cosa.

FILOCRATE. Accetta questo, prima; e dammi realmente la tua fede di quello che ti voglio dimandare dirmi la veritá.

FRONESIA. Son ben villana a pigliar sí gran dono! Pur, l'accetto, offerendomi a te parata sempre. T'impegno la mia fede. E sí ti giuro di non mancar, sopra l'anima mia, se gli è cosa ch'io sappia; e dirti il vero, come farei al frate.

FILOCRATE. Io t'ho parlato or ne la lingua nostra per vedere se mi ricognoscevi; ma son certo che ti son tanto fuor di fantasia che non te ne ricordi. Io son Filocrate, Fronesia cara.

FRONESIA. Che sento oggi dire? Filocrate sei tu? Sí! È desso, a fede. Lasciamiti abbracciar, ché di dolcezza e di compassion m'hai mosso il core. Piango e non so di che. Quasi nol credo. Non t'arei in mill'anni affigurato; ché pari un altro.

FILOCRATE. Aimè! Son bene un altro: cangiato di presenza negli affanni; ma quello sventurato di mai sempre. Io piango di dolcezza e di dolore: ché mi veggio condotto, al fin, lá dove mi fia la morte men dogliosa e grave; da poi che piace al ciel.

FRONESIA. Lascia andar questo. E raccontami presto ogni tua pena e quel che vuoi da me; ch'io qui t'attendo con disio d'aiutarti.

FILOCRATE. Ah sfortunato! Onde mai incominciar mi fia concesso? Donna sleale, al tuo trionfo altero, che fia di crudeltá mista con fraude, voglio che aggiunga queste spoglie frali, vinte da te, da te distrutte e sparte, in esempio d'altrui.

FRONESIA. Deh! Affrena alquanto questi lamenti e le lagrime e 'l duolo. Dimmi quel c'ho da fare.

FILOCRATE. A queste notti, chi era quello che sí destro entrava ne le camere vostre? Ove è l'onore? ove è la castitá? dove è l'offizio che conveniva a saputa servente? Devevil comportar?

FRONESIA. Guarda, Filocrate, che non ti inganni; perché veramente io non intendo quel che voglia dire. Son molte volte, quando altrui è infermo, che par veder le cose piú che espresse e non è altro che 'l cervel che varia. E come andò?

FILOCRATE. Per chi bene e chi male.
Per te devette ir mal, per Lúcia bene.
Confessalo oramai.

FRONESIA. Sappilo Iddio; ché tu potresti dir cosí vent'anni, ch'io non ti intenderei. Se guardi bene, certo vedrai che sará stato un sogno o ver fantasma. Io non saprei che dirti sopra di questo.

FILOCRATE. Non lo negar piú; ch'omai incomincio a perder la pazienza. Pensa se san negar, quando a me istesso nega quello che sa che ho giá veduto! Non so se ero intronato o se 'l cervello mi vacillava o se cosí mi penso o se qualcun mel fe' veder d'incanto, la sera inanzi a ier, che una persona per una scala entrò ne la fenestra che guarda l'orto ove era Lúcia.

FRONESIA. Lúcia?

FILOCRATE. Sí, Lúcia. E v'eri tu.

FRONESIA. Io?

FILOCRATE. Sí. Piú forte. Iersera ci venni io in persona come mi vedi: ond'ella ancor si rise perché, fuor de l'usanza di quell'altro, venni di corte e prima fui partito che tu te ne accorgessi; ché eri dentro. E l'animo mio fu sol di vendetta. Ma la sorte non volse perché, quando la vidi sola ivi aspettar quell'altro, dimenticato ogni onta, l'abbracciai (cosí morto foss'io, inanzi quel punto!); ed allor vidi che mi tolse in cambio: ch'ella forte mi strinse e mi pregava che passassi di lá. Paionti sogni? o pur che con effetto io fossi desso? Or vuoi negarlo?

FRONESIA. Non posso, volendo. Meschina a me! Ti dimando perdono. Non era giá promessa da attenere appalesare una sí fatta infamia e scoprir tale error.

FILOCRATE. Basta: io sapeva come faresti. Or dimmi la persona a cui concesso ha il cielo, in mio dispregio, il guiderdon di tante mie fatiche non mai concesso a me.

FRONESIA. Quello è Crisaulo (come debbi saper, gran cavalieri) il qual l'ha tolta; e, fra due giorni al piú, la de' sposare.

FILOCRATE. E questo è senza fallo?

FRONESIA. Altro non resta se non che dimane li metta de le nozze in man l'anello. L'altre cose sai tu come sono ite. Ma ti voglio pur dir che tu ti menti d'averla aúta in braccio…

FILOCRATE. E pure ancora non ti si può far vero?

FRONESIA. … perché quella con chi scherzasti parla ora qui teco. Vedi che t'ingannasti?

FILOCRATE. E come fu? Sarresti mai tu quella? Anima mia, dimmel liberamente; ché, se è vero, poscia che ci ha condotti il cielo a questo, ti prometto sposarti.

FRONESIA. Hai pur giá detto ch'io ti tirava per menarti dentro ove Lúcia aspettava il suo Crisaulo. Onde ne rimaniam tutti beffati, ma dolcemente; e tutti e tre in tal modo l'un con l'altro ci siam rimescolati che appena ritroviamo i propri nomi. Io fui giá Lúcia; e tu fosti Crisaulo, secondo ch'io pensava; e da me, a sorte, in me credendo d'averla ingannata, fu da inganno difesa la padrona. E tu facesti com'un uom che sogna cosa che li sia a grado, che poi, desto, trova tutto il contrario. Ma Crisaulo (se non è ritenuto da qualcuno de' suoi perché nol faccia) ora, in fra poco, forse che dará fine a la comedia con far da vero.

FILOCRATE. Basta: ora io son chiaro. Vedi, al fin, come volge la fortuna! Poi che noi siamo a questo e che vediamo che in questo modo l'ha guidata il cielo, segua quello che debbe: ché 'l destino non si può mai fuggir. Se ti contenti, ti vo' sposare, in questo modo appunto: che ci diamo or la fede, se di Lúcia si fan le nozze; perché vo', se a sorte non fosse fatta, come giá promessa mi fu, poterla, se mi parrá, tôrre. Dimmi se ti contenti.

FRONESIA. Sí, ben mio, poi che ti piace; e ci siam cognosciuti, come a Dio piacque che governa il tutto; ed è stato fra noi, giá tanto tempo, amore e fede. Or durerá in eterno il dolce nodo che non fia mai sciolto fino a l'ultimo giorno.

FILOCRATE. Orsú, Fronesia, giá tanto amata! Tu sei la mia sposa. Serberai questo anello; e poi le nozze farem, quando ci paia tempo e luogo. Sei chiamata di sopra.

SCENA VIII

Crisaulo, non avendo potuto patir fuori che duo giorni, apparisce in su la scena andando a sposar Lúcia; ed ha seco Girifalco il quale si dichiara, nel parlar loro, avere da sposar Calonide: il che si mostra essere stato per mezzo di Crisaulo. Vanno adunque insieme ragionando; e con loro è Pilastrino il quale, giunti a casa, dá licenzia con dir che, di poi cena, si faranno gli sposalizi.

CRISAULO, GIRIFALCO, PILASTRINO, CALONIDE, FRONESIA.

CRISAULO. Io l'ho detto dal primo giorno, che l'andar di fuori era appunto al mio male erba trastulla; ma nondimen, per esser poi iscusato, non ho voluto mancar d'ogni sforzo. Ma non è in poter nostro.

GIRIFALCO. Eh! Questo è poco, Crisaulo, ché sei tal che potrai sempre vivere in questo mondo con onore, se ben ti biasmi il popolo e la plebe: perché questo è lor proprio né alcun vive dai lor morsi securo; e spesso i morti gli sentono anche lor dentro a la terra. E questo è, per il piú, che è gente vòta di robba e di pensieri; e altro non hanno u' esercitar la lor maligna mente che ne' fatti d'altrui. Ma un ben nato non sará tinto di cotesta macchia né assai né poco.

PILASTRINO. È ver. Sol si conviene a simil gentarelle il biasimare: vizio che trovò il diavol de l'inferno. Lascia pur dir chi vuol, ch'è piú d'un mese ch'io veggio, appunto come or veggio te, una gran fame. Oh! Pensa, a queste nozze, s'io m'affaticherò che vadin bene i boccon giú! ché, se devessi ancora durar tre giorni in quella cosa dolce, me ne voglio saziar; né mai partirmi per fin che 'l ventre non mi dice:—Tura.— Andiam pur lá.

CRISAULO. Ma non è ancor gran cosa: ché, quando ben riguardo a le parole che fûr tra noi, non veggio, senza carco e senza dar gran macchia a l'onor mio, poter ritrarmi da sí fatta impresa. È ver che tempo fu ch'io non pensai d'averlo a fare: onde, piú del dovere, son stato di parole liberale per venire a la fin del mio disegno. Or veggio meglio che nol posso fare e mancare a' miei detti: ond'io, in ciò, voglio che la necessitá l'errore iscusi. Ma non ti veggio, Girifalco, lieto com'io vorrei.

GIRIFALCO. Io son pur troppo allegro: tanto che non mi par d'esser capace di tanta gioia; onde l'alma, in se istessa talor rivolta, si stupisce e quasi non crede ch'in vecchiezza tanto bene le venga quanto è questo di tal donna e sí da bene.

PILASTRINO. E che! Sei fatto sposo, padre degli anni, ove tutti i difetti c'ha la vecchiezza in sé son giá scoperti? È vero o mi berteggi?

CRISAULO. Tu nol credi, eh, Pilastrino? Gli è pur troppo vero. Credilo a me, che sono stato il mezzo. Calonide è la sposa; e sallo Iddio, s'io ci ho durato punto di fatica! Pur si contenta; e ne vedrai gli effetti, come siam giunti. E ben ci fia che ridere: che parrá certo, appresso a lui, la sposa piú che donzella.

PILASTRINO. Io vado a sotterarmi per disperato sotto a la mia botte. Ma ci voglio un pitaffio ch'io m'ho fatto per mia memoria.

CRISAULO. Dillo.

PILASTRINO. Falli onore.
«Qui giace un ch'ebbe nome Pilastrino.
Vivo, tanto m'amò che disperato
morio mancando in me lo spirto e el vino».

CRISAULO. Ha odor d'antico.

PILASTRINO. No. Ci manca questo: «Visse di baie e morí disperato, vedendo andare a nozze un che col tempo contendea d'anni».

CRISAULO. Ah! ca!

PILASTRINO. Gli è pure il vero. Non vedi che non ha pur le gengíe? Povera Orgilla, so che l'avrá buona come lo sa! ché questo è appunto un tôrgli la sua provenda de la mangiatoia. Or non manca se non ch'io mi rassetti per poter ben mandar per le mascelle i denti a scrocco e far d'altro che d'esca farina macinata a duo palmenti. Oh! Scherza e salta e pigliati sollazzo or, Pilastrin, ché di troppa dolcezza par che ti senta andar tutto in condime. Oh! Ve' che starò, un tratto, un giorno allegro! ché è giá quindici dí che sono stato come le donne quando han le lor cose, fortuna ladra!

CRISAULO. E che debbo dire io? ch'in duo sol giorni era giá fatto tale ch'ora mi pare uscir di sepultura e tornar vivo. E sarei morto, certo, se non me ne campava la speranza di tornare ove fosse e fare in modo ch'ambo siam prima d'esta salma scossi che lontani o divisi; in fin che 'l cielo, che ci ha congiunti, ne divida e sparta. Dica pur quanto vuol ciascun; ché, al fine, è pazzo quel che ne' propri interessi, per viver sol sotto costumi e usanze, se ne governa come piace altrui. Usciremo or d'affanno.

PILASTRINO. Tocca forte, ché non posson sentir.

CALONIDE. Va'. Guarda a l'uscio, Fronesia. E tu vatti governa, Lúcia, con i panni ordinari; ché Crisaulo oggi verrá come ancor venne ieri. Forse non piace a Dio. Qualcun de' suoi l'avrá tenuto.

FRONESIA. Apri, apri; è lui; è Crisaulo con molta gente. Oh che felice giorno! Lúcia, torna di qua.

CALONIDE. Di' 'l vero? È desso? Èvvi il mio Girifalco? Andiamgli incontra. Suonisi ogni strumento e facciam festa. Abbraccia il tuo Crisaulo. O Girifalco, non v'aspettava piú. Ringrazio Iddio ch'in sí poco ha condotto ad un bel fine sí onesta impresa.

GIRIFALCO. Ed io ringrazio prima il cielo e poi voi duo che a la mia vita dato avete soccorso; ché non era possibil che durasse piú dieci anni. Or son felice, al mondo.

CALONIDE. Entriamo in casa. Fronesia, or puoi chiamare il tuo Filocrate, ché è giunto il fin de' desidèri nostri. Saran tre nozze insieme in una festa. E, perché è tardi e passerebbe l'ora, è meglio cenar, prima. A le quattro ore potrá tornar ciascuno.

SCENA IX

PILASTRINO dá licenzia.

Avete inteso, brigate? Non si balla, inanzi cena; ché ci ha fatto restar tanto per via questo gottoso ch'è passato l'ora di far le cerimonie de li sposi: onde siete pregati da madonna prima andarvene al letto e poi cenare. E, se vorrete pur tornar dimane e lasciarci istasera queste donne, vi fia concesso piú che volentieri. Noi li darem da cena e da dormire e li farem sí buona compagnia che loro istesse vi confesseranno che non vorriano esser tornate a casa: ché balleremo, al suon de le lettiere, tutta la notte. Or pigliate il partito, ché la cena vogliam far qui tra noi. Ma sento giá un odor, che par d'arrosto, entrarmi nel cervello. Addio. Vi lascio. Vado in cucina. Fate ch'io non abbia a cacciarvi con altro che parole.

NOTA

AVVERTENZE GENERALI

Per tutte le illustrazioni relative alle commedie che si raccolgono in questo e in altri successivi volumi rimando alla parte giá pubblicata della mia storia della Commedia italiana (Milano, Vallardi, 1911). Qui occorre solo avvertire che furono esclusi dalla presente raccolta tutti quegli scrittori (ad es. l'Ariosto e il Machiavelli) di cui dovranno ristamparsi le opere complete e quegli altri scrittori (ad es. il Cecchi e il Della Porta) la cui operositá drammatica fu cosí vasta e complessa da esigere una nuova edizione di tutto il loro teatro. La mia scelta si restringe a quei commediografi (o notissimi, come il cardinal da Bibbiena, o del tutto ignoti, come Niccolò Secchi) che non avrebbero potuto entrare per altra via, mentre di entrarvi avevano pur essi diritto, nella grande collezione degli Scrittori d'Italia . E, in tale scelta, mi sono attenuto a un doppio ordine di criteri: storici ed estetici. Ho badato, cioè, non solo all'intima bellezza delle commedie, ma anche a certe loro speciali caratteristiche o ai loro stretti rapporti con la vita e i costumi del Cinquecento o alla varietá delle tendenze che, pur senza uscire dalla tradizione classicheggiante, si manifestano in esse. Dalla Calandria del Bibbiena, composta in sugli inizi del secolo XVI, alla Donna costante del Borghini, venuta in luce al declinar del secolo stesso, v'è gran differenza di spiriti, se non di forme: ridanciana, quella, e giocosa, spensierata e cinica; questa, invece, seria, accigliata, lugubre, quasi preannunziatrice dei molto posteriori drames larmoyants . Per ciò, a rappresentare, in qualche modo, lo svolgimento storico del nostro teatro comico cinquecentesco, ho disposto le commedie che qui si pubblicano in ordine approssimativamente cronologico: solo approssimativamente, pur troppo, giacché di molte fra esse ignoriamo, fin ora, il preciso anno della composizione.

La punteggiatura, quanto mai arbitraria ed irrazionale nelle stampe del Cinquecento, ho rinnovato interamente. Del sistema ortografico nulla ho da dire perché è quel medesimo che fu adottato per tutti i volumi degli Scrittori . Piuttosto è necessario che io renda conto del come mi son comportato rispetto alle parti spagnuole o dialettali che si trovano assai di frequente nelle nostre commedie. Per questo lato (mi limito a discorrere dello spagnuolo, intendendosi che tutto ciò che dico di esso valga, benché in minor proporzione, anche per i vari dialetti italici), le stampe del Cinquecento ci offrono lo spettacolo di una scapigliata anarchia. Troviamo « io » e « yo »; « estoi » e « estoy »; « ablar » e « hablar »; « che » e « que »; « debaxo » e « debascio » e « debajo »; « magnana » e « mañana »; « engannar » e « engagnar » e « engañar »; « acer » e « hacer » e « azer » e « hazer » e « fazer »; « vieio » e « viejo »; « mui » e « muy »; « nocce » e « noche »; « allá » e « agliá »; « a » e « á »; « á chi » e « á qui » e « a qui » e « aqui » e « aquí »; « por que » e « porque »; « tan bien » e « tambien »; e cosí via discorrendo. Di fronte a tale moltiplicitá di espressioni grafiche che cosa dovevo fare? Dovevo ridurle tutte ad un'espressione unica e corretta e scrivere, per es., in tutti i casi, « yo », « hablar », « que », « mañana », « hacer », « muy », « noche », « allá »? oppure dovevo mantenere questo strano ma pur significativo disordine? Mi parve, in principio, che fosse miglior partito attenersi al primo sistema; poi, dopo avere assai dubitato e riflettuto, ho finito coll'appigliarmi al secondo. E le ragioni son queste. Innanzi tutto, le molte incertezze ortografiche possono esser proprie non tanto del tipografo quanto dello stesso autore e indicare la sua maggiore o minor conoscenza e la sua piú o meno esatta pronunzia dello spagnuolo; né è male, anzi è bene, che di questa sua conoscenza e pronunzia restino, anche nella nostra edizione, le tracce. In secondo luogo, può ben darsi che l'autore abbia inteso di usare promiscuamente parole italiane (per es. «io», «engannar») e parole spagnuole (per es. « yo », « engagnar » o « engañar »): sicché, quando si adoperasse una sola grafia, potremmo correre il rischio di allontanarci involontariamente dal suo stesso pensiero. Il Piccolomini, infatti, dichiara nelle sue Annotazioni alla Poetica d'Aristotele di avere «interposto», nell' Amor costante e nell' Alessandro , «qualche scena in lingua spagnuola italianata, accioché manco paresse straniera»[1]. Il quale italianizzamento dello spagnuolo, oltre che giovare a render piú intelligibile il discorso, era anche naturalmente suggerito dalla realtá; come possiam rilevare dalla seguente preziosa testimonianza del Bandello: «E queste parole ella disse mezze spagnuole e mezze italiane, parlando come costumano gli oltramontani quando vogliono parlar italiano»[2]. Ciò spiega, non pur le oscillazioni ortografiche di cui ho discorso fin ora, ma anche la presenza di scorrette forme grammaticali; che sarebbe, evidentemente, errore il voler correggere. Insomma, per questa parte, io ho creduto di dovere essere, quanto piú mi fosse possibile, conservatore: conservatore, dico, dell'anarchia.

1. Annotazioni di M. Alessandro Piccolomini, nel Libro della Poetica d'Aristotele; con la traduttione del medesimo Libro, in Lingua Volgare. Con privilegio . In Vinegia, presso Giovanni Guarisco, e Compagni [in fine l'anno: M.D.LXXV], p. 29.

2. Le novelle a cura di G. BROGNOLIGO, I (Bari, Laterza, 1910), 242 (nov. I, .16)

Ciò non di meno, qualche modificazione o correzione è stata pur necessaria. Non potevano, per es., nella scena 3 dell'atto II degl' Ingannati rimanere un « lamas hermosas mozas » e un « ellacca ob alcatieta » che sono stati rispettivamente ridotti a « la mas hermosa moza » e « vellacca alcahueta ». E cosí, nell'uso degli accenti e del « h » iniziale, se ho rispettato di regola le antiche stampe da me poste a fondamento di questa nuova edizione, e se ho scritto indifferentemente « á » e « a », « hacer » e « acer » ecc., me ne son però allontanato ogni qual volta la mancanza dell'accento o del « h » potesse ingenerare confusioni ed equivoci. Per es., un « alla » o un « alli », che sembrano preposizioni articolate italiane mentre sono avverbi spagnuoli, ho creduto bene di accentarli (« allá, allí »); un « resucitare » o un « andare » o un « ire », che possono prendersi per infiniti mentre non sono che la prima persona singolare del futuro, li ho pure accentati (« resucitaré, andaré, iré »); e ho fatto precedere dal « h » un « e » che, invece d'essere la nostra congiunzione copulativa, sia la prima persona singolare del presente indicativo del verbo spagnuolo « haber » (« he »); e altre simili modificazioni ho introdotte quando mi sia parso opportuno. Ma ciò non infirma punto il general criterio di conservazione al quale, come piú sopra dissi, mi sono, nel maggior numero dei casi, rigorosamente attenuto.

I TRE TIRANNI

Ecco il titolo della sola stampa che di questa commedia sia stata fatta dal Cinquecento ad oggi: Comedia di Agostino Ricchi da Lucca, intittolata i Tre Tiranni. Recitata in Bologna a N. Signore, et a Cesare, Il giorno de la Commemoratione de la Corona di sua Maestá. Con Privilegio Apostolico, et Venitiano M.D.XXXIII [in fine: Stampata in Vinegia per Bernardino de Vitali, A di xiiij di Settembre del MDXXXIII ]. Precedono la commedia una lettera dedicatoria dell'autore stesso a Ippolito de' Medici, che io qui riproduco, e un avvertimento «ai lettori» di Alessandro Vellutello, che ometto, come troppo lungo e di troppo scarso interesse. Delle correzioni da me introdotte basterá indicar le seguenti. A. I, sc. 5: «ch'io caschi morta» (ediz.: «ch'io corri morta»).—A. II, sc. 1: «Non dubitar, figliuola» (ediz.: «Non dubitar lola»).—A. II, sc. 6: «men… men… mentir per la gola» (ediz.: «… morir per la gola»).—A. III, sc. 1. Dei molti epiteti greci, coi quali Listagiro designa il diavolo da lui invocato, cambio « ágniptos » in « ániptos » (ἄνιπτος), « Cantíglios » in « cantílios » (κανθήλιος) e « criau » in « criós » (κριός); lascio immutati un « cladéutir » e un « inófliz » e un « orchózo » che non mi riescono chiari; e parimente conservo un « chielévo » nel quale non so se siano da riconoscere le due parole « chiè lévo » (καὶ λεύω) o l'unica parola « chelévo » (κελεύω). Quanto agli accenti, che nell'edizione sono a volta a volta bene o mal collocati o anche del tutto omessi, li pongo sempre su quelle sillabe ove devono effettivamente trovarsi secondo l'accentuazione greca. In fine, poiché l'invocazione di Listagiro è diretta al demone Maladies, mi è parso necessario, lá dove la stampa legge «per la gran virtú di questi nomi suoi», cambiare «suoi» in «tuo».—A. V, sc. 4: « de allí léjos » (ediz.: « de alli llesos »); « si de un tan grande ultrage yo saco venganza » (ediz.: « … ae sacho vengan »); « me ya mas contento saque » (ediz.: « me yu… sache »). Scrivo « saco » e « saque » invece di « sacho » e « sache » perché piú chiaro apparisca che si hanno qui due forme del verbo « sacar » e perché si eviti l'equivoco col suono palatale « ch » quale è nel « mucho » e nel « noche » di questa medesima scena. Compio il « vengan » nel modo che mi sembra piú naturale, quantunque non sia da escludere la possibilitá che si abbia qui l'infinito sostantivato « vengar ». Quanto all'« ae », che non dá alcun senso ed è certamente un errore, lo muto in « yo ».—A. V, sc. 5: «un sí felice stato ch'io quasi par che a me istesso nol creda» (ediz.: «… mil creda»).