The Project Gutenberg eBook of Dal profondo

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org . If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title : Dal profondo

Author : Ada Negri

Release date : May 8, 2011 [eBook #36060]

Language : Italian

Credits : Produced by Maria Grazia Gentili and the online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DAL PROFONDO ***
images/pcover.jpg
ADA NEGRI

DAL PROFONDO
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1910

Secondo migliaio
PROPRIETÀ LETTERARIA.
Riservati tutti i diritti

Copyright, by Fratelli Treves, 1910.

Tip. Fratelli Treves.

Indice

UN FRATELLO

Ti fui compagna per le ignote strade
del mondo e all'ombra dei crocicchi, in una
vita lontana che fu mia, fu mia
come questa non già che s'attorciglia
al mio collo e al mio cor, segni imprimendo
di ferro e corda nelle nude carni.
Avevi, come adesso, una giacchetta
logora, un viso a lama di coltello,
una bocca di fame e di sarcasmo;
e andavi senza meta, e andavi senza
dolore, solo con la tua miseria,
e gran signore della libertà.
Lo so.—Per te non c'era e non c'è posto
nel mondo disegnato a quadratini
ben distinti, con cifre di classifica
ben chiare.—V'è qualcuno che ti crede
un barbaro—e ti esecra—ed ha paura
di te.—Non io, che son della tua razza.
Non mi conosci più?... Forse ti sembro
più bella adesso, flessuosa nella
sottil guaina di velluto fulvo
che mi fa somigliare a una pantera.
So pettinarmi a onde, con la grazia
delle dame che passano in carrozza;
e fingere il sorriso, anche nell'ore
dello strazio, e mentire una promessa,
e offrir la mano e il thè, soavemente,
a chi, se volga il dorso alla mia soglia,
fa la mia vita ed il mio nome a brani.
Ho braccialetti d'oro; ma mi pesano
ai polsi. Ho una collana di rubini,
ma non la metto, chè mi par la riga
vermiglia incisa dal capestro al collo
d'un «sospettato» del Novantatrè.
Sono rimasta zingara, nel fondo
del cuore.—Non si mente al proprio sangue.
E t'invidio.... Tu sei libero e forte:
non hai padre, nè madre, nè fratelli
che vivano di te, che al tuo destino
s'aggrappino: il tuo letto è nell'Asilo
Notturno: la tua casa è tutto il mondo.
Domani puoi senza rimorso ucciderti,
per compiere una tua vendetta oscura
contro la vita.—Amare anche tu puoi,
una donna o un'idea perdutamente
amare; e viver per l'amor tuo grande,
poi che intatto ti resta il tempo e il sogno.
Forte e libero tu fra tanti schiavi,
addio. Colei che passa è tua sorella;
ma la folla l'inghiotte—e ognun va solo
col mistero di sè, fino alla morte.

AQUILA REALE

T'ho vista ieri, irta ferrigna immobile
dietro le sbarre d'una vasta gabbia.
Non guardavi già tu la gente piccola
che ti guardava.—Ferma sugli artigli
d'acciajo, gli occhi disperati al torbido
cielo volgevi, al cielo!...—Uno scenario
t'hanno fatto di rocce, per illuderti:
perchè tu creda ancor d'essere in patria,
fra pietrami di grotte e di valanghe,
fra protervie di rupi e di ciclopici
templi, sospesi in vetta a' precipizii,
in faccia al vento che a procella sibila.
—Ma non t'illudi tu.—Vedi le sbarre,
sai che è finita.—Io voglio ora una storia
dirti d'uomini saggi, che le proprie
mani a foggiar la propria gabbia adoprano,
—d'oro o di ferro—quasi sempre d'oro:—
e bene assai la temprano e la rendono
inaccessa, e là dentro si rinserrano,
e si lamentan poi d'essere in carcere,
guardando il mondo co' tuoi occhi d'odio
vano e di vana disperazïone.
Tu almeno, tu fosti ghermita al laccio,
fosti ferita, tu, nella battaglia
feroce, prima d'esser come un cencio
ignobile fra mano al tuo nemico.
E stai senza speranza e senza gemito
vile; e chi passa ti può creder morta
o sculta in bronzo, così immota e diaccia
t'irrigidisci, chiusa in un disdegno
indomito per tutto che non sia
l'ebbrezza della libertà perduta.
E, se tu comprendessi, con un colpo
di rostro lacerar vorresti il volto
di chi t'offende con la sua pietà.

QUELLA CHE PASSA

E tu, che passi e non mi guardi, rapida,
inguainata nella nera tunica,
avvolto il collo nel tuo boa di martora,
che, pari a un serpe flessile e contrattile,
t'accarezza, ti bacia e t'assomiglia!...
Ne' tuoi capelli bene si dissimula
qualche filo d'argento, sotto il morbido
tòcco a turbante. Hai messo un vel di cipria
a nasconder le prime ombre del tempo
sul volto.—Non sei vecchia: non sei giovane:
sei donna, in piena voluttà d'imperio
sulla vita e sull'uomo.—Ascolta: guardami:
ugual ti sono un poco, e molte femmine
ti sono uguali, e al nostro fianco passano
in questo istante, e sola ognuna credesi
ad amare, a soffrire, ad esser viva.
Se a' tuoi piedi la soffice pelliccia
e la veste procace e le spumose
trine cadesser, te lasciando nella
bianca fralezza dell'ignudo corpo,
sapresti tu vestir questo tuo corpo
d'un'anima?... Scrutar ben io vorrei
il tuo tormento interïor, per ansia
di leggere in un vivo umano libro.
Ma tu menti: a te stessa anche tu menti,
menti se piangi, e se sorridi: t'hanno
insegnata la grazia d'una maschera
bella, fin dai sereni anni d'infanzia:
modi, leggi, costumi e fede e dogmi
altri creò per te: solo ti chiesero
d'esser leggiadra: nè tu mai dall'intimo
di te stessa traesti, a colpi d'unghia,
la verità che ognuno in cuor si porta.
Vuoi darmi la tua mano?... Una son io
(la mia razza è di zingari, e nei boschi
sostano intorno a fuochi di bivacco
le carovane de' miei padri ancora)
una son io che, se lo sguardo figge
in un volto, quel volto si scolora;
e dalle vinte labbra esce il segreto
che il cuor chiuso vorrebbe....
.... o bella femmina
voluttuosa, serpentina e tortile
come il tuo boa, per questa volta il pallido
tuo viso dica quel che a te nè ad altri
dicesti mai: la verità tua vera:
una cosa divina, che la scuola
del mondo contraffece, deturpò,
ridusse a stampo: uno sprizzar di sangue
vermiglio, al colpo d'una lama corta.

LA PIETÀ

Non domandarmi perchè son venuta.
Lascia ch'io sieda qui, presso il tuo letto.
Sei stanca, è vero?... Ti fa male il petto.
Oh, non celarti fra le coltri, muta!...
Dio mi donò le mie piccole mani
perchè soavi fossero ai dolenti:
perchè con gesti di blandizia, lenti,
molcesser l'ansie degli spasmi vani.
Io son Fata Dolcezza.—Se parlare
m'ascolti un poco, in te tutto si queta:
io la posseggo, la malia secreta
che può tutte le pene consolare.
Io non so donde venga alla mia voce
tanta soavità che il cor ne trema.
O sconosciuta, in questa ora suprema
abbandònati a me con la tua croce!
Corpo disfatto dalle febbri, cuore
convulso, aridi labbri vïolastri,
sudate chiome, tese al par di nastri
neri intorno al terribile pallore;
vita che lotti nel disfacimento,
io ti penetro tutta, io ti fo mia:
chiudi gli occhi, raccogli in una pia
rete di sogni il tuo lungo tormento!...
—Non ricordare.—Hai singhiozzato, nelle
notti eterne, anche tu?...—Non ricordare.
Il passato è lontano, è morto, è un mare
di nebbia ove si spengono le stelle
e tutto affonda: la tua pena oscura
di carne schiava, e le dolcezze troppo
brevi, e il giogo dei sensi avidi, ah, troppo
per te pesante—e l'ultima tortura,
sai, quella che ti assilla insino al fondo,
l'inconfessato orror della vecchiezza
sola, senza una casa, una carezza,
un bambino, un perchè d'essere al mondo....
.... Or tu sei pura come il fil di luna
che di silenzio il tuo lettuccio fascia:
tu sbocci dalla vita che ti lascia
siccome fronda dalla scorza bruna:
i tuoi occhi socchiusi hanno tra i cigli
un sogno d'alba che per vie di cielo
salga, spargendo rose senza stelo
frammiste a nivei calici di gigli:
e in pace arridi alla tua morte bella,
tu fra le braccia mie, tu consolata
dalla mia passïone, o Innominata
che nel nome di Dio mi sei sorella.

IL SEGNO DELLA CROCE

—Ho sonno. Fammi il segno della Croce,
mamma.—«In nome del Padre, del Figliuolo,
dello Spirito Santo.—» Amor mio solo,
ecco, e t'addormi alla sommessa voce.
Come calmo il tuo sonno!... Or che non senti,
piangere posso, bimba, al tuo guanciale.
Ho tanto male al cuore, ho tanto male,
che la mia vita strazierei coi denti.
V'è un modo, per fuggir l'affanno atroce.
Ma tu mi tieni col tuo dolce laccio,
tu che non puoi dormir s'io non ti traccio
in fronte, a sera, il segno della Croce.

ORA PIENA

Ora mia, tutta mia, di solitudine
piena!... Dardeggia l'anima al suo vertice,
vermiglia come il sommo di quegli alberi
che il sol d'Ottobre, declinando, imporpora.
Fui dunque cieca sino a ieri?... I liberi
giochi dell'ombra e della luce, il ritmo
d'ogni forma terrena, le flessibili
grazie dei bimbi e delle donne, i rapidi
voli nel cielo di quell'auree frecce
che son gli uccelli, e l'anelar degli uomini
verso un lor segno, e l'acre ansia di gioja
e di potenza che a lottar li scaglia,
nulla io vidi sinora?... Alita e sfolgora
la vita bella, dentro e intorno a me!...
La vita è bella, anche se il cuore piange!...
Ov'è il torvo dolor che inconsolabile
ieri mi parve—e m'uncinava fibra
per fibra—ed io per isfuggirlo uccidermi
volevo?...—Forse in quel polverìo d'atomi
che in un raggio di sol purpurei danzano?...—
Serenamente or mi contemplo vivere:
ondeggia il ritmo del mio sangue al ritmo
dell'ore in terra, delle stelle in cielo:
carne son io che si fa luce ed aria,
puro elemento dell'eternità.

IO

Sotto altri cieli io vissi, in altra forma,
con altro cuore. Fiammule e baleni
d'allora, erranti lucciole tra' fieni,
risfavillano in me, s'io vegli o dorma.
Io so chi fui, nel tempo già travolto
in vorticoso baratro d'oblìo.
Di vertigin barcollo, se nel mio
vivo mister le antiche anime ascolto
destarsi in onde d'energia, frammiste
a strappi di ricordi.—Non si muore.—
Chi nacque un giorno, in gioja ed in dolore
per mille aspetti immortalmente esiste.

*

Compagna fui di minatori: moglie,
figlia, sorella: impuro il corpo, impura
l'anima: chiusa nella gabbia oscura,
calai ne' pozzi con virili spoglie.
Rauco il respir, sudato il collo, ansanti
d'ardua fatica, a mezzo il corpo ignudi,
all'ombra delle vôlte ìnfere, i rudi
uomini miei m'apparvero giganti.
Giocai con essi a sfida e a rimpiattino
colla Morte, tra i fumi del grisou.
E qualcuno di noi non tornò più
nel sole. Io sì, tornai, pel mio destino.
In una sporca alba fangosa, «Muori,
muori, muori!...» gridai, fra un'accozzaglia
di disperati, pronti alla battaglia
rossa, verso le case dei signori.
Ero una furia, coi capelli a serpi,
colle fiamme negli occhi, con le labbia
sfigurate dagli urli. Ebbra di rabbia
i sassi disselciai, svelsi gli sterpi,
maledissi, colpìi, caddi, travolta
venni sotto lo scalpito irrompente
dei cavalli. E passò sulle mie spente
membra il sinistro orror della rivolta.

*

Ebbi un piccolo viso di sognante
bambina, bronzeo sotto il nero casco
dei ricci. Modulai nel gergo basco
le canzoni del vento e delle piante.
Due stracci in croce mi facevan bella;
il mio fiato sapea di fior silvano;
per un soldo, nel palmo della mano,
lessi la buona e la mala novella.
Lavai, cantando, i panni alle sorgenti
boschive, e fui Nausicaa gioconda
che mentre lava specchiasi nell'onda,
sorridendo a' suoi glauchi occhi lucenti.
Libera principessa della tenda
gitana, a notte noverai nei cieli
gli astri, e composi con ben scelti steli
magici beveraggi di leggenda.
Nell'albe fresche, fra l'aulir dell'erba
nuova, ornai le mie trecce di monete
tìnnule—e v'era chi languìa per sete
della mia bocca:—io l'irridevo, acerba....
Ma venne un giorno chi mi fece muta
sotto il suo bacio.—Più non so chi fosse.—
Rivedo, a lampi, quelle labbra rosse
fra la turba che passa e che saluta.

*

I brividi dell'odio e dell'amore
finsi per mille pubblici, su palchi
di legno: ed ogni folla che s'accalchi
suscita in me l'alto ricordo in cuore.
Flessi a ogni gioco la mia grazia varia,
vita morte follia da me fu espressa:
Cordelia pia, Desdemona sommessa,
Lady Macbeth sinistra e sanguinaria.
La mia bocca mutevole in un'ora
ebbe note di gioja e d'innocenza,
e lo stupor del sonno e la scïenza
del male, e l'urlo tragico che implora.
A me ogni sera rinnovò l'incanto
d'esser diversa, di scordare il mio
sogno per altri sogni, il pianto mio
per l'aspra voluttà d'un altro pianto.
E fu la folla come un solo cuore
ch'io mi potessi stringere fra dita
d'acciajo: fu come una sola vita
viva di me, fervente in muto ardore
sotto il mio sguardo.—Ed io, dall'alta scena,
non ebbi nervo che non si spezzasse,
non ebbi vena che non si vuotasse
per il tumulto di sua gioja piena.—

*

Nelle barbare età cinsi il soggòlo
bianco, la scura tonaca e il cilicio.
Di mia pura bellezza il sacrificio
dolce mi parve, per amor d'un Solo.
Tenendo sul mio capo alta la croce
passai fra genti ammutinate, a Cristo
orando: e sangue con velen frammisto
sino al mio petto zampillò, feroce.
Fra saccheggio e fetor di pestilenza
incolume passai, d'infermi in traccia;
e più d'uno spirò fra le mie braccia,
da me bevendo una celeste essenza.
L'acqua col cavo della mano offersi
a bocche nello spasimo contorte.
Bella più de la Vita a me fu Morte.
Amai, baciai le piaghe che detersi.
Quando il furor de le battaglie spento
pareva, chiusa in mia ferrigna tonaca
più nei tugurî del dolor fui monaca,
che ne la cella del mio pio convento.
A papi e re proffersi con serena
favella i detti della verità.
E mi consunsi in fede ed in pietà
come la Mantellata di Siena.

*

Chi ora io sono, è cosa vana il dire:
fragile donna che se stessa ascolta
vivere, con un'ansia avida e stolta
di saper ciò ch'è in fondo al suo soffrire.
D'antiche vite istinti e forze varie
si raggruppano in me, s'urtano a gara:
aspra t'incidi sulla bocca amara,
o ambigua lotta d'anime contrarie!...
Ho cent'anni, ho mille anni. La mia vera
faccia, il mio vero cuore io non li so.
Nè, stanca a morte, io mai conoscerò
l'ebbrezza di poter morire intera.

CAPRICCIO

Veronetta Longhèna, tu mi piaci.
Il tuo sorriso è quello delle zingare,
bianco e rosso, con linee
sinuose, con fremiti fugaci
di sarcasmo e d'orgoglio.—Tu mi piaci.—
Dove l'hai preso il tuo bel nome?... È un nome
di guerra, non è vero?... Qual capriccio
d'amante allegro e ironico
te l'appuntò, qual nastro fra le chiome?...
Veronetta, mi piace il tuo bel nome.
Raccontami la tua vita randagia.
Io m'accovaccio presso a te, sul morbido
tappetino di Persia,
frugando con le molle fra la bragia.—
Raccontami la tua vita randagia.
Dimmi i paesi che vedesti, i porti
donde salpasti, spensierata rondine,
e il tuo piacer di vivere
così, padrona delle varie sorti,
come lo sei de' tuoi capelli attorti.
Io t'assomiglio, se mi guardi bene.
Ma è come fossi chiusa dentro un fodero,
mentre snudata sfolgori
tu, fina lama che in sua punta tiene
il mondo, per gingillo.—Guarda bene.
Quando riparti?... e verso qual ventura?...
.... Io resterò a frugar dentro la cenere;
e mirerò lo specchio
per rivederti in me, nella tua dura
fronte d'enigma, o Donna di ventura.

LA GIOJA

Uscì Fiammetta nel tramonto roseo
dall'opificio, con le eguali a fascio.
Rise, con l'insolenza de' suoi sedici
anni, al cortil di pietra, al folle stridere
delle rondini intorno, al gran comignolo
nericcio, al sol che s'indugiava obliquo
delle montagne sulle vette cupree.
Ma, giunta a salti su l'erboso spiazzo,
sfavillò d'allegrezza udendo un barbaro
organetto suonar la tarantella.
«Ohè, danziamo!...» E si slanciò la vergine
bruna, e fu tutto un turbinar di giovani
coppie in cadenza ondoleggianti, e un vivido
balenìo di pupille e scoppi tremuli
di risa, e strilli, e rapidi richiami.
.... Sovra tutte leggiadra era Fiammetta:
sovra tutte felice era Fiammetta:
i suoi denti splendean nell'olivastro
volto con fresca purità selvaggia,
ogni nervo ogni tendine ogni muscolo
del suo corpo gioir parean nel libero
moto: danzar pareva anche col cuore,
donarsi intera, come offerta a un bacio,
la flessuosa vergine Fiammetta.
Gioja d'essere al mondo; e d'aver sedici
Aprìli, un nastro al collo, una purpurea
bocca fragrante e membra alate al ritmo,
e di sentirsi dir: Come sei bella!...
Gioja di morder nella polpa morbida
dei frutti—e d'esser pari al frutto acerbo
che il sol penètra e niuno ha côlto ancora.—

SUOR NAZARENA

Oggi venni a trovar Suor Nazarena
che sempre ride così dolcemente
col suo riso ove manca qualche dente
e pure ha tanta nobiltà serena;
e che pare una bimba sotto il bianco
soggòlo, curva un poco, un po' rugosa.
Io non conosco più soave cosa
della sua voce, pel mio cuore stanco.
Ella mi disse: «Sono pochi i fiori
nell'orto!... Ottobre ce li porta via
tutti!... V'è qualche rosa tuttavia,
ma i crisantemi sono in boccio ancora.»
Nel piccolo orto c'era odor di bosso
amaro, odor di pace e di convento.
Squillava una campana, alta nel vento,
dalla chiesetta candida di Mosso.
Singhiozzare volevo: «Io soffro. O buona,
aiutatemi voi. Venni per questo.
Come se me l'avessero calpesto
il cor mi duole, e fede m'abbandona:
mi sferzan tutta, carne anima vene,
le passïoni con ardor selvaggio,
ed io sento che vano è il mio coraggio,
sento la morte o la follia che viene....
Toccate quanta arsura ho nelle mani,
guardate quante fiamme ho dentro gli occhi.
Fate ch'io preghi, curva sui ginocchi,
come nei giorni placidi lontani!...»
.... Ma coglieva, tranquilla, le sue rose
d'Ottobre, accanto a me, Suor Nazarena.
Niuna fronte mi parve più serena
fra una ghirlanda di serene cose.
Travolgendo con sè memoria e sensi
con la Rinuncia su di lei l'Oblio
era passato. Ignuda e sacra in Dio,
stava siccome bimba che non pensi.
Così avvenne che il peso della vita
da me cadesse al par di guasto frutto:
e ogni senso d'angoscia fu distrutto,
ogni voce di pianto fu sopita,
quando, sorgendo fra i tumulti vani
del mio dolore e me, lenta mi pose
la Donna in mano un gran fascio di rose,
dicendo: «Tornerai?... Torna, domani....»

L'ERRANTE

Tutte le stazïoni e tutti i porti
videro quella che non è mai stanca
e sotto il nero velo è così bianca,
pallida in viso del pallor dei morti.
Treni in corsa per monti e per radure
la rapiron tuonando e sibilando
nei giorni d'oro, nelle
calde e torbide notti senza stelle:
da treni in corsa vide essa le pure
albe fiorire in cieli ignoti: e quando
s'addormentò sognando
sui cuscini, dal sogno all'improvviso
la scosse un urto, il secco urlar d'un nome
di paese straniero:
e niuno era ad attenderla con riso
di gioja, ed ella non cercò nessuno;
ma, calma, discendendo, il velo nero
ricompose sul volto e sulle chiome.

*

La tristezza di gelo ella conosce
delle stanze d'albergo, ove la gente
passò col suo mistero e il suo pungente
destino a tergo, e le sue sorde angosce:
ove un ignoto visse la sua notte
ultima, forse—e rise e pianse amore
fra baci senza fine,
e l'insonnia spiò fra le cortine,
e l'odio sibilò le rauche e rotte
parole, che di pietra fanno il cuore.
.... Da quale mano il fiore
cadde che or, vizzo, sul tappeto giace?...
Chi morse ieri il candido guanciale?...
.... Non sa, non pensa. È stanca.
Solo vorrebbe riposare in pace.
E scioglie il velo e libera le trecce;
ma fra le trecce v'è una ciocca bianca,
il viso è smorto come il capezzale.

*

Malinconia delle città lontane
ove le sembra d'essere sperduta,
ove ogni cosa agli occhi, al cuore è muta,
voce di folla e voce di campane!...
Malinconia di ferree tettoje
piene di fischi, di fumo, di gente,
di lacrime e di brividi
nella penombra dei tramonti lividi!...
Creature che van verso le gioje
d'una casa o d'un sogno—e il sogno mente,
e un labbro v'è che mente
in quella casa!... Trepide partenze,
singhiozzi e gridi soffocati in gola,
baci, dolore, amore!...
Vana forma fra innumeri parvenze,
va l'Errabonda, e non si volge indietro;
ma quando parla col suo chiuso cuore
si curva, e trema d'esser troppo sola.

*

Oh, fermarsi un momento!... Oh, ritrovare
una casa fedele, un volto amato!...
Ma non può. Dietro a sè tutto ha spezzato.
Ella stessa distrusse il focolare.
E in fondo al cuore seppellì i suoi morti,
e non v'accese lampada a vegliare;
ma fugge; chè una muta
ombra l'incalza, sol da lei veduta.
Cieli acque terre cimiteri ed orti
fuggon dinanzi al suo solingo errare,
fuggono il monte e il mare,
così fuggir potesse anche il ricordo!...
Così strappar da te potessi, o bruna
innominata, il senso
d'ambascia che ti preme, opaco e sordo,
le viscere, se pensi un dolce nido
piccino agli occhi, ma pel cuore immenso,
e in esso, a notte, un dondolìo di cuna....

GIORNO DI FESTA

Anima stanca, andiam dunque in letizia
per le strade e le piazze, oggi ch'è festa.
Le piccole operaje han tutte in testa
un fiore, e in bocca un riso di delizia.
Ridono al sol d'Autunno che riversa
carezze d'oro sugli ippocastani,
ai davanzali rossi di geranî,
alla gente che passa, all'aria tersa.
Non sei dunque tu pure un'operaja
che agucchia sulla tela il suo destino?...
Oggi con esse mettiti in cammino,
cantando qualche canzonetta gaja.
Le campane del vespro han le parole
di pace che in lontani tempi udivi;
quando, fanciulla ancor, pei verdi clivi
del sogno errasti a cogliere viole.
È così dolce vivere il momento
felice, con ingenua contentezza!...
Chi te lo toglie, il filtro di bellezza
che adesso bevi come bevi il vento?...
Lo so: giostra, fanfara, lotteria,
le arancie a un soldo, il ballo popolare....
Tutto questo, lo so, forse è volgare.
.... Sta fra i semplici il gaudio, anima mia!...
Nessuno mai ti darà gioja come
l'agil popolo tuo ch'è sì fanciullo
nell'amore, nell'odio e nel trastullo,
nè chiede, per sorriderti, il tuo nome!...
Segui la giovinetta che s'oblia
nel passo, a fianco del suo forte amante,
e gli s'appoggia, flessile, allacciante,
susurrando una tenera follia:
va come il fiume verso la sua foce:
va come il sogno verso la sua stella:
fatti ogni giorno una bontà novella,
anima stanca, e canta fin che hai voce!...

VANNI E VANNA

Una notte d'inverno, Vanni e Vanna
chiusero gli occhi alla lor dolce madre.
Ad essi non lasciavi, o dolce madre,
che un giaciglio di strame e una capanna.
Nulla sapevan, fuor che verdi boschi
percorsi a gara, e fiumi vinti a nuoto,
e sogni d'astri su nel cielo ignoto,
e rosse nubi di tramonti foschi:
egli biondo, ella bruna: egli con tersi
occhi d'acciajo, ella con lunghi cigli
d'ombra: e nessuno li potea dir figli
d'istessa madre—tanto eran diversi.
Pur s'amavano. E quando fu sepolta
la madre, Vanni disse: Ove s'andrà?...
Ma Vanna scosse con serenità
il casco della chioma arida e folta.
Non per essi la fumida officina
ove d'odio e di sangue gl'ingranaggi
s'intridono talvolta, e nei selvaggi
rombi vibran minacce di ruina:
non gelida bottega o solitaria
soffitta, in lezzo sordido ammuffita.
Fiori eran essi di beltà, di vita,
maturati nel sole, avidi d'aria.
E chiese Vanni ancora: Che faremo?...—
Ella gli rise stranamente in faccia
allacciandogli il collo con le braccia
di zingarella; e disse: Canteremo.—

*

Così, lasciato il bosco e la capanna,
soli con la chitarra e la canzone,
sospinti da una folle passïone
di libertà, partiron Vanni e Vanna.
Molti carmi sapevano: d'amore,
d'odio, di guerra, di promessa. I lenti
ritmi appresi li aveano essi dai venti,
da lo stormir delle frasche sonore,
dalle piogge d'Autunno, dai sospiri
degli usignoli quando Maggio torna,
dal riso della terra che s'adorna
se Primavera in sua freschezza spiri....
Strani talvolta sulle labbra smorte
dei due fanciulli senza posa erranti
dettava la profonda anima i canti.
.... Apparivan le donne sulle porte:
macre fra i cenci, coi piccini al seno,
impallidivan di dolcezza, in cuore
pensando giovinezza e il breve amore
primo, e i sorrisi del tempo sereno.
Sollevavano i fabbri dalle incudi
sudato il volto, e dalla tela gli occhi
le cucitrici, e i bimbi dai balocchi,
e i braccianti dai ferri i polsi rudi;
e ognun tornava ad una sua perduta
gioja, a un lontano bene, a una malia
di tenerezza—a ciò che non s'oblia
anche se per dolore il cor si muta.—

*

«Vanna, sei stanca?... Come in un agguato
la luna piomba dietro un aggroviglio
di nubi nere.—Per il tuo giaciglio
il mio mantello io stenderò sul prato.
Sorella della mia libera gioja,
lucciola d'oro, piccola farfalla!...
Posa, col capo presso la mia spalla,
fino a che l'ombra ad oriente muoja.
Dell'ombra io spierò sogni e misteri,
e del silenzio i fremiti sommessi;
e ingenue laudi comporrò con essi
che tu modulerai lungo i sentieri....»
«.... Vanni, m'ha desta il brivido dell'alba,
dormìi sull'erba come in un lenzuolo:
chi fu che mi vegliò tacito e solo,
sotto l'incanto della luna scialba?...
La luna m'insegnò stanotte un canto
che farà bianche di malinconia
tutte le donne.—Un poco aspra è la via
lungo il fiume che piange un sordo pianto:
giungerem tardi alla città superba
che laggiù, tra le nebbie, innalza i suoi
pinnacoli fumanti.—Oh, dolce a noi
mirare alberi e cieli, e premer l'erba:
e non aver dagli uomini che un pane,
nè chieder altro: ai focolari accanto
stornellando passar senza rimpianto,
dominatori delle vie lontane!...»

*

Livida, immota sotto un ciel di piombo
sta la città dove son giunti. Tetre
minacce par che salgan dalle pietre.
Investe l'aria un vampo ardente, un rombo
di tempesta, di collera. Le porte
son chiuse, chiuse le finestre. Passano
i soldati a nuda arma, a testa bassa.
Sbuca la turba, ecco, a tentar la morte:
d'odio armata, di sassi e di pazzia,
contro la forza il suo delirio scaglia.
Irrompe, ansa, urla, impreca, si sguinzaglia,
si ricompone a barricar la via.
.... Così, così s'ammazzano i fratelli
in Dio, nelle città cariche d'oro?...
.... Dolci rapsòdi, alto a quest'ora è il coro
dei passeri, laggiù, sui pioppi snelli.
Fiori travolti nella gran ruina
con l'orda cieca i due rapsòdi vanno.
Odon sibili e gemiti: non sanno.
Sorridono al furor che li trascina.
Nella trepida gola han le canzoni
della selva, nel sangue onde d'amore;
ma un colpo spacca all'uno all'altra il cuore,
cadono insieme, boccheggiando, proni....
Sulle labbra innocenti amor s'impietra
che agli umili sorrise in gaje note:
l'anima goccia dalle arterie vuote,
e se ne imbeve, gelida, la pietra.

IL GIARDINO DELL'ADOLESCENTE

I.

Gli occhi.
La fanciulla ch'io sveglio in questi vani
versi, altra grazia non avea nel viso
che lo splendor degli occhi sovrumani.
Nessuno sguardo sostener potea
lo sguardo di quegli occhi, ove una fiamma
più intensa della vita era: l'Idea.
Lucean per rogo interno fra l'oscura
massa dei ricci, ammorbidendo il grave
profilo e il taglio della bocca pura.
Ogni raggio ogni fiore ogni diversa
beltà di cieli e di terrene forme
vi si specchiava come in acqua tersa,
e velavan le ciglia un sogno enorme.

II.

La stanza e il balcone.
Era nuda la stanza, con pareti
bianche di calce, un crocifisso al letto,
qualche libro nei freddi angoli queti.
Ma dal balcone Ella scorgea le frecce
delle rondini a volo—e libertà
irrompeva col vento nelle trecce:
e un aroma di prato e di boscaglia
acutamente dal giardin salìa
folle di rose e denso di ramaglia.
L'Adolescente in sè fingea le vite
colà viventi: erba che cresce, fronda
che svetta, arsa tristezza d'appassite
rose, palpito d'ala vagabonda.

III.

Re Sole.
Leggera Ella passava fra le ajuole:
pensava: Sono un fiore o una fanciulla?...
O son l'innamorata di Re Sole?...—
Le penetrava il sol dentro i capelli,
dentro le carni, con sottil delizia
saturando di forza i fianchi snelli:
onde di vita, onde di gioja acerba
s'abbattevan su lei, simili al vento
che bacia e piega al suo passaggio l'erba.
Ell'era una lucente creatura
di sole—nata pei meriggi, quando
su le rïarse terre la calura
sta come un rogo, immota balenando.

IV.

La via.
Dietro il cancello una solinga e tetra
via risognava il suo centenne sogno
e l'erba le crescea fra pietra e pietra.
Appuntava alle sbarre la sua faccia
l'Adolescente, con desìo febbrile
cercando il mondo sulla muta traccia:
ed il mondo per essa era una rete
di giardini e di strade, immerse in una
fulgida e profondissima quiete:
in quel silenzio un'eco di campane,
in quella luce uno sbocciar di fiori:
dietro le porte un balenío di strane
pupille, ardenti di secreti ardori.

V.

La gamma.
«Do re mi fa sol la....» La gamma eterna
da lontana invisibile tastiera
saliva e discendea con ansia alterna.
Saliva al par d'un'ala che s'avventi
al cielo, discendea con la ruina
precipite di frane e di torrenti:
in sè il principio d'ogni ritmo e l'onda
d'ogni cadenza e il vivo cuor del canto
chiudeva, innumerevole e feconda:
e all'anima fanciulla il senso della
vita apparve così, dentro una gamma;
ed ogni voce essa vi udì: da quella
dei sogni al disperato urlo del dramma.

VI.

I fiori del sogno.
Allor che il sonno la gettava inerte
sul capezzale, e in quel sopor parea
morta, nell'ombra, con le palme aperte,
tutti i suoi fiori Ella sognava.—In una
luce scialba e malata, che non era
notte, nè giorno, nè sole, nè luna,
simili a bocche umane le corolle
di viva carne protendeansi ai baci
dell'aria; ed altre sorridean con molle
riso, ed altre eran occhi, occhi splendenti
di passïone in volti di follia;
e mormoravan verso gli astri spenti
parole di divina nostalgia.

VII.

Il sangue.
Il sangue, il sangue!... Lo vedea, nel grembo
d'ogni fiore vermiglio, nelle nubi
d'alba e di vespro, nell'orror del nembo;
lo sentiva nel rombo d'ogni arteria,
denso, caldo, gagliardo, veemente,
sola ricchezza nella sua miseria.
Da quale avo guerriero quell'ebbrezza
del sangue a lei veniva, e, nel sognarlo,
quell'occulta spasmodica dolcezza?...
Fontanelle di sangue zampillare
scorgea dall'imo del suo cor profondo;
e d'un tragico rosso imporporare
ogni giardino ed ogni via del mondo.

VIII.

La visione.
A raccoglier nel cavo della mano
quel suo bel sangue dilagante a rivi,
venìan turbe, da presso e da lontano.
Le vesti in cenci lor cadean da' fianchi,
avean nodose mani e scarni volti,
e labbra ansanti, come di chi manchi.
Col gesto d'una belva che si sazia
bevevano alla dolce fonte umana
generatrice di forza e di grazia.
E più scendea per vene sitibonde
il tesoro di vita, e più nel cuore
della Sognante rifluiva in onde
dense di succhi, turgide d'amore.

IX.

La vita.
Che voleva da lei la vita?...—Tutto.—
Ella sentiva d'esser sacra.—In lei
niun atomo poteva esser distrutto.
L'aria l'erba la terra il fiore il raggio
si trasmutavan nella sua sostanza
con la fecondatrice ansia del Maggio:
dalla punta del piede agile, al torso
nervoso, al casco dei capelli neri,
Ella era frutto che attendeva il morso.
Oh, vivere la piena vita!... Oh, fra le
avide mani stringerla, per sete
di spremerne ogni succo, ed anche il male,
e le più aspre verità segrete!...

X.

La partenza.
Un giorno Ella partì, per la sua strada.
Ogni energia per vincere temprata
aveva, in fiamma e in ghiaccio, al par di spada.
Vide paesi, vide ampie città.
Pulsar sentì nel suo fraterno cuore
il cuore enorme dell'umanità.
Le parve d'esser cento e d'esser mille.
Fu la donna del gran sogno vermiglio.
Nel sole abbacinò le sue pupille.
Ma a poco a poco si trovò smarrita,
nè seppe come.—Ognuno era scomparso.—
Si trovò sola, a mezzo della vita,
fra le sterpaglie d'un campo rïarso.

XI.

La nostalgia.
Ora vorrebbe, ma non può tornare
al tempio di sua fiera adolescenza.
O ricordo, o divina alba sul mare!...
Forse i rovi s'aggrappano alle porte,
ora: forse la quercia è rasa al suolo,
fra l'aggroviglio delle rose morte.
Che direbber, vedendola, i cancelli
arrugginiti?... «Ohimè, come diversa!...
Sei tu colei che aveva occhi sì belli,
labbra sì rosse, e qui tra fronda e fronda
crebbe, ed il lembo del suo cielo scôrse?...
Che cerchi, con la bocca sitibonda?...
Un sorso d'acqua?... Il sogno antico, forse?...»

XII.

Suora Morte.
—Come stanca!... Abbandònati sul fresco
terreno.—Ancor, mattina e sera, l'Ave
suona, in rintocchi píi, da San Francesco.
Ti ricordi di quando eri fanciulla?...
Contavi ad uno ad uno i lunghi steli
dell'erba, e d'essi ti facevi culla....
Se la tua carne soffre e vuol dormire,
oh, nulla qui ti sveglierà, nemmeno
le rondinelle coi lor voli a spire.
Cresceranno dal tuo corpo sottile
cespi di menta e violette smorte,
e tu respirerai l'antico Aprile
per sempre....—Benvenuta, Suora Morte.»

LIED

Suonavi al pianoforte un'ampia e lieve
melodia di dolcezza, un Lied tedesco.
Stillava il suon sulla mia febbre, fresco
sfaldandosi nel cuor come la neve.
L'invincibile arsura che mi strazia
s'abbeverò a gran sorsi alla tua fonte,
o figlia mia, che porti sulla fronte,
simile a stella, il segno della grazia.
Ero in ombra, addossata a una parete.
Tu non vedesti la marmorea faccia,
il muto amor che ti tendea le braccia,
l'amarissima bocca arsa di sete.

LA MASCHERA

Tutto il giorno la bella creatura
rise, mostrando lo splendor dei denti:
carezzò bimbi, ornò la sua cintura
di fiori, gorgheggiò con lieti accenti.
Nulla in essa turbò l'agile e pura
grazia del gesto e dei lineamenti
tanàgrici: la voce e la figura
furono un sogno d'armonie fluenti.
Ma or ch'essa è sola e fitta ombra la cinge,
subitamente si scompone in volto,
irrigidita come in agonia.
Chi è costei che il suo lenzuolo stringe
con l'unghie, ed ha nel torvo occhio stravolto
l'angoscia, la vendetta e la pazzia?...

LA VOCE DEL MARE

Io ti farò morire di dolcezza,
se tu m'ascolterai quando la luna
gonfia il mio cuore come un cuore umano.
Sarà rossa la luna ad orïente,
e poi, salendo, diverrà di perla.
Tu immobile starai tra flutto e spiaggia,
piccola—oh, un punto!...—in mezzo all'infinito.
Io ti dirò l'ore perdute della
tua dolce infanzia, l'ore che tu credi
dimenticate; e i sogni in cui vedevi
fiori simili a bocche aperte al bacio
fiorir per te lungo rupestri lande
ove il giorno non era e non la notte
era, ma Vita somigliava a Morte.
Io ti dirò ciò che hai sofferto.—Ma
mitemente, così, come di cose
lontane, e che non possono colpire
più, tanto nel pensier le trasfigura
la poesia della possente vita.
Io ti dirò le cose che tu speri,
e per incanto le vedrai compiute:
e la pienezza de' tuoi sensi tale
sarà, che ti parrà d'essere eterna,
fulgida innumerevole leggera
quale schiuma di queste onde d'argento
che si gonfian d'amor sotto la luna.
Io ti farò morire di tristezza
se tu m'ascolterai quando di piombo
grava il cielo su gravi acque di piombo.
Starà sospesa dentro la calura,
nel silenzio, un'attesa di tempesta:
l'onde verranno a lacerarsi sulla
spiaggia, con rauche grida appassionate.
Allora, allora, o piccola, che hai
così tenere mani e così grandi
occhi, io ti canterò la veemente
poesia della vita che vivesti
prima d'esser la piccola che sei.
Una zingara fosti.—I tuoi capelli
battenti il dorso eran color del rame,
tutti a riccioli, vivi uno per uno:
e verdastri e mutevoli i tuoi occhi
di sole e d'onda; e tutto di serpente
l'agile corpo, in mille avvolgimenti
esperto, ed arso dall'impuro sangue
dei nomadi. Tu fosti una regina.
Passò il tuo carro lungo le mie rive,
il tuo riso il tuo canto a fior de l'acque.
I tuoi compagni avean denti ferini,
rapaci mani, acuti occhi di falco,
e tu li amavi; ma più d'essi amavi
la libertà.—Tenevi al petto un fiore,
sotto il fiore nascosto un pugnaletto
lucentissimo. E fiera sulle piazze
danzavi le tue danze, le tue danze
di gitana, ricordi?...—Non ricordi
dunque tu nulla?...—Dalla casa errante
le pallide vedesti albe fiorire,
e nei tramonti l'acque invermigliarsi,
e nei meriggi tutto esser di fiamma,
anche il tuo corpo, anche la vagabonda
anima tua come l'arena innumere,
multicolore come l'onda, libera
come il vento del largo. E delle folle
ti piacque il gran clamore, e del deserto
il gran silenzio, e delle vie notturne
i fanali rossastri, i torvi agguati,
il pericolo corso ad ogni istante.
Di desiderio io ti farò morire,
se vorrai ch'io ti dica il nome tuo
d'una volta.—Ricòrdati.—Superbo
era, ma dolce e pieno d'assonanze
strane.—Non giungi a ricordarti?... China
sul mare, ascolta il pianto inconsolabile
dell'acque che s'inseguono s'infrangono
e muojono e rinascono e non sanno
perchè.—Non ti diran forse quel nome;
ma in esse sentirai la sua potenza
dominatrice, o piccola, che hai
così teneri polsi per catene
di perle, e così grandi occhi pel sogno.

MALINCONIA

Malinconia dei primi
capelli bianchi, che timidamente
spuntano tra il vigor della fluente
feminea chioma, intorno al dolce viso!....
Malinconia dei primi
solchi di ruga, oh, lievi, che al sorriso
danno una tenue grazia d'appassita
rosa, e allo sguardo il tuo mistero, o Vita!...
Lenta e sottil tortura
della tristezza che non si può dire,
quando la gioventù sa di morire,
sa di morire tutti i giorni un poco:
ombra su fronte pura,
sordo spavento di colei che al foco
d'amore arse la bianca leggiadria,
e visse di carezze e di follia!...
Piccola donna stanca
che al tuo balcone guardi Primavera
risorgere fra timida e leggera,
fiori e nidi portando al tuo giardino;
piccola donna stanca,
perchè tieni sul petto il capo chino,
mentre il riso dei cieli ed il tepore
ha una dolcezza che ti rompe il cuore?...
Tu sai la vita. Sai
di tutti i baci la delizia lenta,
quando amore ti culla e t'addormenta
abbandonata come cosa morta.
E la malia tu sai
della tua faccia, ove la bocca smorta
sorride sempre, mentre gli occhi sono
tristi, quasi chiedessero perdono.
E tu l'ami, l'amore:
e pensi: Che farò, domani?...—Oh, nulla
al mondo vale un riso di fanciulla
che insegua, a Maggio, lucciole nel prato.
O amore, o folle amore
di giovinezza, o efèbo incoronato
di rose, o calda onda del sangue, o lieve
passo, o chiara bellezza, o gioja breve!...
.... Piccola donna, forse
meglio è morire in questa Primavera
molle, pria che ti renda a te straniera
quello che temi più della tua morte.
Piccola donna, forse
ti è dolce chiuder dietro a te le porte
del silenzio e dell'ombra—ora che in viso
t'arde di gioventù l'ultimo riso.

IL TERZETTO DELLE DAME GRIGIE

Tre dame grigie stan sedute intorno
ad uno stagno, sul finir del giorno.
Guardan la bruma vaporar dall'acque:
pensano un canto che oscillò, poi tacque.
L'una lasciò cadere il suo lavoro,
un giglio bianco sulla trama d'oro:
l'altra perdette al suo volume il segno,
ove si parla d'Elsa e del suo regno:
la terza non ha libro di leggenda,
non ha filo e ricamo—e par che attenda:
che cosa?... o chi?...—Riflette i volti lividi
lo stagno.—Il cielo ha nubi, e l'acqua ha brividi.

*

Dice la prima dama, con un riso
timido e dolce nel pallor del viso,
ma triste, oh, triste al par della memoria
d'un sogno: Io son colei che non ha storia.
Le mie carezze non le seppe alcuno,
poi ch'io serbai tutto il mio cor per uno
che non mi vide.—Io son colei che cuce
sola, al balcone, fin che il giorno ha luce:
che passa come in un deserto fra le
turbe: che non sa il bene e non sa il male:
che irrigidisce in sè chiusa e raccolta,
già morta prima d'essere sepolta.—

*

—Ebbi un fascio di raggi per capelli—
mormora l'altra—e il sol negli occhi belli.
Venne l'Inverno e nevicò sul ramo,
ma «Che t'importa?...» uno mi disse «Io t'amo:
chioma d'argento sarà chioma bionda
sempre, per la mia bocca sitibonda.
Ad ogni filo bianco un bacio scocca
la fida bocca, l'adorata bocca:
più fugge il tempo e più al mio si stringe
il cor che sol da me conforto attinge;
ma è tardi. E già nell'ombra che ci preme
solo temiam di non morire insieme».

*

Geme la terza: Io voglio i miei vent'anni.
Chi me li rende, coi divini inganni
d'allora?... Io dunque fui quella che visse
di baci e «Amor» col proprio sangue scrisse,
e coperse con maschere di grazia
le febbri della carne non mai sazia?...
Le mie labbra han le stimmate roventi
dei morsi. Io so l'orror dei roghi spenti.
So delle rughe l'onta ed il martirio
sulla bellezza; e il torbido delirio
dei sensi vivi in fascino che muore.
Che farai dunque, o mio selvaggio cuore,
se invecchiare non puoi come le chiome?...
Oh, il tempo di sorridere al tuo nome,
di scorger l'orma del tuo piede al suolo,
d'afferrar del tuo manto un lembo a volo,
o Giovinezza, e fuggi!... Oh, il tempo di....»
.... Taccion le bocche stanche. Scolorì
una rossastra nube in cielo, e parve
morire.—Tutto è cenere.—Tre larve
immote e sole, dello stagno a riva,
sì immote che non sembran cosa viva,
restano a guardia della cupa notte:
ombre vane, la vana ombra le inghiotte.

IL SILENZIO

Tu che sussulti a un batter d'ali, ed hai
il nodo del silenzio sulle labbra
color di cenere!...
Perchè taci, e tremando te ne stai
rinchiusa in una torre di tristezza?...
E pure sei così giovine ancora,
così soave è ancor la tua bellezza!...
Non so il tuo male.—Tu mi sembri oppressa
da un cilicio nascosto, che flagelli
la carne fragile,
perdutamente al suo poter sommessa;
e un'ebbrezza indicibile ti è data
forse dal tuo soffrir senza parola,
se al lamento la bocca è sigillata;
se le mani s'aggrappan con terrore
a un mobile, ad un muro, a un davanzale,
per trattenerti
di scagliare il tuo corpo e il tuo dolore
dalla finestra!...—Ma perchè patire
senza rivolta?... Io non lo so, il tuo male;
ma t'insegnerei, forse, a non morire.—
Senti come garriscono le rondini
bianche e nere, nell'ora del tramonto.
Pel ciel s'inseguono
stridendo, in cerchi rapidi e giocondi.
Non hai pensato mai che forse un giorno
fosti la rondin che a Novembre fugge
verso il sole, e nel Marzo fa ritorno?...
Non ti senti quelle ali dentro il cuore
batter, folli d'azzurro?... non lo senti
che tu sei libera
come la rondinella del Signore,
e che sol per gioirne Iddio ti diede
l'anima tua piena di raggi, ardente
di sogni, aperta ad ogni pura fede?...
Vuoi ch'io ti regga al volo?... Oh, non tremare
forte così.—Non ti dirò più nulla.—
Lagrime e lagrime
io verserò su te senza parlare:
su te, che in una torre di tristezza
ti chiudi, e in fondo l'ami, il tuo martirio,
e vi sfiorisci con la tua bellezza.

IL SEGRETO

Spirò stanotte, senza dir parola.
Chi su lei pianse la coprì di rose
bianche, e i capelli in fronte le compose,
poi la lasciò nel gran silenzio sola.
Già intorno agli occhi e a le mascelle forti
si decompone il glacïal pallore.
Odor d'ambra e di ceri: odor di fiore
sfatto—e la calma estatica dei morti.
Ma la bocca che tace è però chiusa
sinistramente, un po' contratta, come
pietrificata su un lamento, un nome
caro, un comando, una suprema accusa.
Chi sa?... Volea la moribonda, forse,
d'un pesante segreto finalmente
purificarsi l'anima, languente
da tanto tempo tra le ferree morse
del silenzio: volea per la sua pace
ultima, forse, chiedere perdono,
o dir, chiudendo gli occhi: «Io ti perdono....».
.... Ma in cor per sempre il suo mister le giace.
Sta fra i neri capelli il sigillato
volto sì dolce un giorno, e par che dorma,
e par che avvolga la marmorea forma
l'ombra del sogno che non fu svelato:
sta la parola che non fu mai detta
sulla bocca di spasimo e di pietra:
dura, solenne, appassionata, tetra,
tace in eterno, ed in eterno aspetta.

FIORITA DI MARZO

La fioritura vostra è troppo breve,
o rosei peschi, o gracili albicocchi
nudi sotto i bei petali di neve.
Troppo rapido è il passo con cui tocchi
il suolo—e al tuo passar l'erba germoglia
o Primavera, o gioja de' miei occhi.
Mentre io contemplo, ferma sulla soglia
dell'orto, il pio miracolo dei fiori
sbocciati sulle rame senza foglia,
essi, ne' loro tenui colori,
tremano già del vento alla carezza,
volan per l'aria densa di languori;
e se ne va così la tua bellezza
come una nube, e come un sogno muori,
o fiorita di Marzo, o Giovinezza!...

ROSE ROSSE

Rose color di sangue
fioriscono in giardino.
.... Il sole a tratti sfolgora
dalle nubi—e si cela:—
un'afa ardente vela
la purità dell'aria
che vibra di fermenti
acuti e d'echi spenti,
e attossica il silenzio
d'un languore felino.
.... Rose color di sangue
fioriscono in giardino.
Purpuree sono, e tragiche
come divelti cuori.
Oh, perchè mai non gocciola
sulle foglie e sull'erba
il flusso dell'acerba
ferita?... O forse l'aria
lo beve avidamente,
e per esso è vivente,
e per esso t'inebria
col ricordo di amori
perduti?...—O rose, tragiche
come divelti cuori!...
V'è il mio fra essi.—È solo
ove il verde è più folto.
Sbocciò fra un raggio e un battito
d'ali e un ronzìo di maggio-
-lino, in questo bel Maggio
d'amor, senza saperlo.
Di novella prestanza,
di novella baldanza
si avviva—e del disìo
d'esser côlto—e travolto.—
.... Rinato è il cuore—solo,
ove il verde è più folto.
.... Rosa d'ebbrezza, flammea
rosa del sogno, è tardi.
Perchè non puoi rinascere
ogni giorno, ogni giorno
con grazie fresche—e intorno
a te fiori sbocciare,
e rondini garrire,
e le frasche stormire,
e la vita rinfonderti
i suoi succhi gagliardi
eternamente?...
O cuore,
è tardi, è troppo tardi....

VERITÀ

Credevi di conoscere il dolore,
tu!... T'ammantavi del suo fosco manto
con ampi gesti di tragedia,—e il pianto
t'era una voluttà, come l'amore!...
Ora che l'incontrasti a viso nudo,
a cuore nudo, il tuo dolore, or tenti
un riso, e taci; o pur, se parli, menti
la calma: ed il mentir t'è orgoglio e scudo.
Dici a chi t'ode: «Nova maraviglia
sempre, la vita, e dolce a chi l'intende!»
.... Gocciola intanto il sangue, e si rapprende
sotto l'unghia che i visceri ti artiglia.

QUELLA CHE DORME

Quella che è stesa sul crocicchio, il lasso
corpo abbattuto al par d'un sacco informe,
d'un così immoto e duro sonno dorme
che il suo viluppo si confonde al sasso.
Per quali impure vie, da che remoti
sentieri d'ombra al lastrico sonoro
giunse, ove sete di potenza e d'oro
scaglia le sue pugnaci orde d'ignoti?...
Un carro può sventrarla, un fiotto umano
travolgerla.—Chi sei, povera carne?...
che storia narran le tue membra scarne
di miseria feroce e pianto vano?...
.... Dormi.—Ti sveglierai quando verrà
l'uomo che nella tua sudicia e magra
forma una pura argilla di Tanagra
scoprir, comprare ed adorar saprà:
e tu, stupita, avrai profumi per le
trecce, e monili ai nudi polsi, e trine
sulle giovani membra serpentine,
e intorno al collo sfavillìi di perle:
piccola principessa della strada,
vestirai di lusinghe il tuo dominio;
e il riso e il bacio insanguinar di minio
saprai, come s'insanguina una spada.

CONTADINA

Bestia opulenta e morbida, che ridi
a me col riso de' bei denti bianchi,
tu somigli alla terra; ed i tuoi fianchi
dan figli come il solco dà la spica.
L'anima tua non t'è fatta nemica,
perchè d'averla tu non sai, nè pensi.
Hanno il tuo sguardo gli orizzonti immensi.
Le zolle han la tua forza e il tuo turgore.
Sia che falci, a meriggio, i prati in fiore,
o ammucchi, a vespro, in auree biche il fieno,
o all'ignudo poppante offra il tuo seno,
o spannocchi sull'aja o lavi al fonte,
ombra non v'ha che turbi la tua fronte,
femmina che bevesti alle sorgenti
di giovinezza, e ridi co' bei denti
di lupatta, e per tutti i sensi godi
cantando sulla terra che dissodi.

PER MUSICA

Le fronde che vedesti rinverdire
nell'Aprile che è già così lontano,
or, tutte d'oro, cadono man mano
a terra, per morire.
Così cade da te, stanca, la gioja
che ti sorrise, e un po' di giovinezza
fugge, e tremi, e ti par che la bellezza
della tua vita muoja;
ma non è vero.—Sboccieran novelli
germi da linfe rifluite, e tu
ritesserai sul sogno che già fu
sogni più dolci e belli....

MARIA GIOVANNA

Maria Giovanna avea trent'anni, un viso
scarno e lungo di vergine avvizzita,
e una profonda vita
d'anima negli azzurri occhi e nel riso.
Lieve il suo passo per le nude sale
ove dai letti in fila i dolci infermi
levavano gli inermi
volti a implorarla, in ansia, dal guanciale:
lieve la mano a sanar piaghe orrende,
su l'arse fronti a chiamar sonno e oblio,
a ricomporre, in pio
atto, intorno ai dolenti arti le bende:
forte il suo cuore nelle notti, quando
paura, insonnia, spasimo, demenza,
in ferreo cerchio, senza
tregua gemean, la grigia alba invocando.
Ella non conosceva altro destino.
Amava il freddo balenar scultorio
del gesto operatorio,
il sangue in getto e l'ulular felino,
e l'acre odor dei corrosivi, e i tersi
bendaggi, freschi come baci santi
su piaghe fumiganti,
e il—grazie—degli umìli occhi riversi.
La sua verginità sapea lo stigma
del vizio, che ogni rea carne suggella;
la frusta che flagella
il senso, eterno e maledetto enigma;
d'ogni male la maschera e il martirio,
d'ogni agonia la smorfia ed il terrore;
sul labbro di chi muore
la verità, più nuda nel delirio.
Tacita e sacra amante era ai morenti,
rapiti in lei nell'ultima preghiera:
vergine-madre ell'era
per cullar fra le braccia i bimbi spenti.

*

Stava tacito in veglia, al capezzale
d'un fanciul, con la Donna dell'Aiuto,
un medico d'acuto
sguardo e di lìgneo volto imperïale.
Nella corsìa senza riposo, un lume
solo, verdastro.—Degl'infermi i rochi
lamenti, i gesti fiochi,
s'attutivan, sinistre ombre fra brume.
E il fanciullo spirò, bianco e sereno,
e i due veglianti a lui chiusero gli occhi:
poi si fissaron, tôcchi
di grazia.—Il lume li colpiva in pieno.
Ella sentì fondersi tutta nella
forza dell'Uomo: di sua vita il senso
perdette, in un immenso
stupore, in un baglior puro di stella.
E l'Uomo a un tratto la sentì nel core,
piccola bimba trepida e sperduta;
ma fu la bocca muta,
le pupille soltanto arser d'amore.
E spuntò l'alba e i giorni ad uno ad uno
caddero e Morte scivolò fra i letti
ridendo co' suoi schietti
denti di teschio entro il cappuccio bruno:
il taciturno seguitò la lotta
tra i recidenti ferri e la cancrena,
la siringa e la vena,
il verme ingordo e la beltà corrotta:
e la vergin fu sua, così, avvampando
a quel gesto d'imperio, ombra sottile
dietro quei passi, umìle
strumento di pietà sacro al comando:
altro non chiese.—Oh, un attimo, col forte
polso egli a sè l'avvinse, al cor la tenne.—
Ma in braccio essa gli svenne,
e quell'amplesso ebbe sapor di morte.

L'IGNOTA

L'uomo del camposanto, o Creatura,
distesa ti trovò sull'erba diaccia,
squallida salma senza sepoltura.
E non avevi più capo nè braccia:
solo il ventre mostravi allo stupore
dei cippi:—altra di te non era traccia.
Non avevi più labbra per l'amore
bugiardo, per la voluttà venduta:
nulla, più nulla: un torso: un arso cuore:
un eterno silenzio, o Sconosciuta.

*

Io lo so, chi tu fosti.—In un oscuro
crepuscolo, alla fiamma d'un fanale,
io ti vidi passar rasente un muro,
con lenti occhi mal desti e viso male
imbellettato e tutto il corpo sfatto
da una stanchezza che parea mortale.
Tentavi con la bocca di scarlatto
un riso di lusinga e di menzogna.
Ed io tremai, dentro il mio cor contratto,
per te, soffrendo della tua vergogna.

*

Mai ti raggiunse, o sempre ignuda e sola
fra turpi amplessi e fiati acri di vino,
la pietà d'una tenera parola.
Vile sino al torpore, affranta sino
a non distinguer più morte da vita!...
Ma venne uno, nell'ombra, a te vicino.
La tua preghiera egli avea forse udita.
Ebbe pietà. Ti soffocò con braccia
di ferro—e la tua forma irrigidita
mutilò, fino a sperderne ogni traccia.

*

Ora, o Ignota, pregando io vo che il sozzo
urlo de la plebea folla loquace
s'acqueti intorno al tuo bel corpo mozzo;
ora che dormi finalmente in pace,
e il cieco infurïar della tormenta
che turbinando ti travolse, tace;
.... e perchè più non gema e più non menta
le divoranti fiamme arser l'impura
bocca—e degli occhi la lusinga lenta
e le lacrime occulte, o Creatura!...

*

Riposa.—Oh, forse mai, nell'errabonda
tua vita, il sonno a te venne con veli
sì casti e santità così profonda.
Senza nome sarai come gli steli
nati domani dal tuo morto cuore
e puri sotto il puro arco dei cieli.
Non ti ricorderai del tuo dolore
che per fissar con iridi novelle
il sol che schiude in ogni boccio un fiore,
l'ombra che in alto palpita di stelle.

LA VOCE

S'incappucciò la donna, e di soppiatto
sgusciò nel bujo, fra la porta e il muro.
Attraversar correndo il vico oscuro
niun la scôrse, sì rapido fu l'atto.
Ella andava a morire.—Alta la riva
non lunge, a picco, dominava il fiume.
Un balzo, un tonfo, un ribollir di schiume,
un cuore in pace, un corpo alla deriva....
In questo sogno ella fendea la notte,
cieca, demente, sotto vento e pioggia.
Sostò d'un tratto, su una pietra roggia,
tutta in un fascio, colle membra rotte,
e fu in ascolto.—Il grembo avea parlato.
Voce non era.—Dal profondo, un fremito
era; ma il corpo si contrasse, in tremito,
come innanzi al suo Verbo rivelato.
E più non fu la donna che un materno
invòlucro, una forza di natura
china e raccolta sulla creatura
del sangue, per difenderla in eterno;
e volse il dorso alla malia del gorgo,
e ritornò verso la vita dura,
e vi fu madre....—Ecco la storia oscura
d'una povera donna del sobborgo.—

IL CIECO

Un cieco è fermo sotto il mio balcone:
suona su un vecchio cembalo una vecchia
danza. M'entra nel cuor, che vi si specchia,
la grazia triste della sua canzone.
Ma perchè innalza i torbidi occhi fissi
fino a me?... Sono vuoti; e pur s'asconde
non so che fiamma in quelle orbite fonde,
non so che viva, intenta ombra d'abissi.
Mi guarda: vede.—Vede, sulla mia
fronte di marmo, il mio segreto strazio:
quel che m'uccide e di cui pur mi sazio,
quel che mi seguirà nell'agonia.

LA MARTIRE

Per Maria Spiridònova.
Maria Spiridònova, sono
io.—Taci.—Nessuno m'ha scôrta.
Strisciai come un serpe nell'andito,
richiusi in silenzio la porta.
Io reco il dolore
del mondo al tuo nudo abbandono:
oh, non mi vedranno i Cosacchi
in ginocchio presso il tuo cuore.
Io venni nel nome di ognuna
che canti con trepida voce,
segnando sul figlio una croce,
la sua nenia sovra una cuna.
Maria Spiridònova, è oscura
la cella ove giaci; e tu aspetto
umano più quasi non hai,
distesa sul fetido letto.
Lo so, ch'eri bionda
al par della messe matura;
ma t'hanno divelti i capelli
a ciocche, ed a guisa di fionda
lanciato il bel corpo a muraglie
di pietra; e accecato un degli occhi,
e pesti e spezzati i ginocchi,
e sovra la carne tua pura,
suggello d'infamia, lo stigma
impresser di ferrei staffili,
di punte infocate, di sputi
villani, di baci più vili
dei colpi....—e tu appari
serena, o terribile enigma
femineo:—più calma dei morti
di Kàrian, nuotanti fra mari
di sangue: di Deef sfracellato,
dei mille che tu hai vendicato,
o pia dal dolcissimo volto.
.... Maria Spiridònova, pensi
talvolta, nel cuore, alla queta
tua casa, alle chiome tue d'oro
disciolte sul collo?...—Era lieta
l'infanzia. Corolle
azzurre, i tuoi occhi fra immensi
giardini fiorivano. E tu
cucivi, sognando, se molle
venìa Primavera in leggiadre
sue vesti a ingemmar prati e dumi,
e a sciogliere i ghiacci sui fiumi.
Cucivi, vicino a tua madre....
Or piange con urla errabonde
la madre.—Tu no.—Tu atterravi
chi Patria colpiva.—E fu giusto.—
C'è Spartaco in terra di schiavi;
e dove si scaglia
ferocia, ferocia risponde.
O bionda omicida, tu sei
la Russia discesa in battaglia,
coperta di neve, grondante
di sangue, sfregiata dal morso
del knut, con indomito corso
dall'ombra dell'evo balzante.
La Russia tu sei di Sofia
Perowska, di Bèlkin, di Gorki,
che rompe i suoi lacci coi denti,
e va, croce in mano, alle forche:
che sbuca con neri
vessilli da la stamperia
segreta, dall'isba selvaggia,
dall'aule, dai bassi cantieri
sul Volga, dal fumo dei roghi
accesi su la steppa madre
un giorno—e cantavan le squadre
le vittorie de i Zaporoghi.
.... Silenzio.—Ora dormi, con puro
sorriso. Non temi più nulla.
Il letto ove stai, muta e rigida,
somiglia una bara o una culla.
Qualche stilla diaccia
risgorga, insistente, dal muro.
Aràcnidi lente traversano
la vôlta. A un pertugio s'affaccia
lo sbirro dal volto camuso,
e ghigna, battendo il fucile
all'uscio.—Il tuo labbro sottile
all'ansia d'un sogno è dischiuso.
E i muri si sfasciano, senza
romore. La cella si fa
deserto ai confini di Patria:
enorme una folla vi sta.
Ti chiamano, i tuoi
compagni. In esilio, in demenza,
in ceppi, in agguato, col cappio
al collo, ti arridono: A noi!...
.... Qual dunque, o martirio, è la gioja
che doni, perchè l'uomo uccida
per essere ucciso, e sorrida
ai colpi, ed in estasi muoja?...

ALLA SBARRA

La donna volge i freddi occhi velati
su l'inquieta folla che la guarda.
La sua bocca ha una smorfia un po' beffarda.
Sotto l'altera maschera bugiarda
vibra un fascio di nervi esasperati.
Ella non dice: No.—Confessa tutto,
tutto, l'ora, la via, l'uccisïone
fulminea, il perchè di passïone,
il perchè d'odio.—Solita canzone....
Non abbassa la donna il ciglio asciutto.
Non ispera, nè invoca essere assolta.
Porta in sè la sua pena, il suo rimorso,
livida impronta di ferino morso
su membra vive, sin che duri il corso
della vita.—Nel cuore è già sepolta.—
Che vuol dunque da lei quella togata
gente che l'attanaglia con indagine
acuta, e scruta le gelose pagine
delle sue notti d'ombra, e la compagine
squarcia della sua carne disperata?...
Che vuol dunque da lei quell'altra gente
trepida, verso il suo pallor protesa
coi più torbidi sensi, e nell'attesa
di più torbidi e rei palpiti, presa
dall'odore del sangue, inconsciamente?...
L'antica anima tragica che dorme
in ogni petto, su ogni fronte appare.
Chi or non vide, nel sogno, dentro un mare
di sangue il suo nemico boccheggiare,
e non tremò nel desiderio enorme?...
Tra la folla e la donna ondeggia il vampo
della ferocia originaria: sale
per vena e vena la follia del male:
d'un'angoscia inconfessa ognun trasale,
sotto le ciglia ogni pupilla ha un lampo.

IL VECCHIO

... Toc-toc...—Chi batte alla mia porta?...-È un vecchio
stanco.—«Entra: lascia sulla soglia i sandali.
Aggiungerò per te sul focolare
un ceppo, e un fascio di formelle amare.
Oh, quanta neve hai sul mantello!... Asciùgati
alla fiamma. Ecco il pane, ospite, e l'acqua.
Un letto antico a baldacchino rosso
per questa notte t'offrirò.»—«Non posso.
Non m'è dato dormir che sulla pietra,
non m'è dato posar che per un attimo.
Ripartirò, signora, a pena io senta
che fra i monti cessata è la tormenta.»
—«Vattene all'alba, quando il gallo squarcia
l'aria col canto. Nella tua bisaccia
io metterò tre pani e tre preghiere,
che t'accompagnin sulle vie straniere.
—«Non odi?... I monti abbandonò la ràffica,
torna il silenzio al bosco, il sogno all'ombra.
Ora io debbo partir, dolce madonna,
sì fina e bianca nella bianca gonna.
Non mi tentano i muri ove t'incarceri,
nè la coltre che m'offri, ampia e purpurea;
porto nel mio mantello un regal bene
che in suoi forzieri il tuo signor non tiene.
Vuoi tu goder di questo bene?... Lascia
orzo e frumento nella madia, e l'olio
nell'orcio, e il vino nelle coppe chiare,
e i frutti all'orto, e il ceppo sull'alare.
Rigetta il tuo nome e i tuoi ricordi, e seguimi:
ti condurrò per strade di delizia:
t'insegnerò le magiche favelle
dei fiori, ed il cammino delle stelle.
Ed io Re Lear e tu sarai Cordelia
bionda, perduti in selve millenarie;
e degli alberi l'anima e dell'acque
nascerà in noi, come da Jèhova nacque.
Non temi, prima di tua morte, infrangere
il laccio d'oro che ti avvince agli uomini?...
Chi lo squillo seguì del mio richiamo
più non ritorna...»—«Io sono pronta. Andiamo.»

L'ORGOGLIO

Soffri in silenzio. Non chiamar nessuno
a numerar le lacrime degli occhi
tuoi. Sia pur grave il colpo che ti tocchi,
chieder coraggio ad altri è inopportuno.
Conta nel tuo segreto ad uno ad uno,
se vuoi, curva e prostrata sui ginocchi,
i singhiozzi del cor—ma non trabocchi
la piena mai, per la pietà d'alcuno.
È un'orribile cosa esser compianti.
Conquista in te, con la tua forza sola
di volontà, l'oblio del tuo cordoglio.
T'insegnerò, per disseccare i pianti
fiacchi e cangiarli in riso entro la gola,
un peccato magnifico: l'Orgoglio.

LA VEGLIA

Ancor la teda antica, per tre becchi
accesa, splende accanto al focolare.
Sul ceppo, a che le fiamme sien più chiare,
fasci hanno aggiunto di rametti secchi.
Traggon le donne il fuso alla conocchia,
altre sull'ago le pupille aguzzano:
fra risa e giochi e strilli, i bimbi ruzzano
delle giovani madri alle ginocchia.
Pendon pannocchie dal soffitto, e fronde
di vischio all'uscio, e il pane è nella madia.
Qui forse, o Pace, il tuo poter s'irradia
dalle radici semplici e profonde!...
Uomini dell'aratro e del rastrello,
vergini che sapete il cigolìo
del secchio al pozzo e il gelido sciacquìo
dei panni al fonte e il peso del mannello,
fatemi un po' di posto, ch'io mi sieda
fra voi, ch'io fili la conocchia d'oro,
mentre scoppietta il vostro allegro coro
d'intorno, e splende sul camin la teda.
Monti e mari ho varcato—e molte so
favole—e narrerò di Vïolante
e Biancabella, trasformate in piante
dalla fata perversa; e narrerò
la storia triste d'una donna triste
che andò andò fino a smarrir la strada....
.... Accoglietela, avanti ch'ella cada;
del campo ignoto fra le mozze ariste.
Datele un sacco ed un lenzuolo, ed ella
vi dormirà del sonno d'un bambino;
e canterà l'albata a mattutino,
salutando con voi l'ultima stella.

IL RECESSO

So la bellezza d'un recesso verde
dove roseti carichi di thee
bisbigliano coi pioppi de le allee,
e in un col passo l'anima si perde.
Ogni cosa del mondo è sì lontana
di là, ch'io forse del mio lungo male
mi guarirei, con l'erba per guanciale,
vestendomi di salvia e maggiorana.
Forse....—ah, m'inganno.—Che un fischiar di serpi
m'accoglierà, sol che il cancello io schiuda:
per sùbita malia selvaggia e cruda
vedrò le rose tramutarsi in sterpi.

SANGUE

Sangue ch'io vedo—se i grand'occhi neri
socchiudo in languidezza di desìo—
scorrer per vene e muscoli nel mio
corpo, dal capo eretto ai piè leggeri:
sangue ch'io sento insorgere al cervello,
fumida vampa, ed affluirmi al cuore:
so la tua forza, gusto il tuo sapore,
da te ogni giorno ho un fremito novello.
E sia tu d'altri, e grondi in mischia, o sgorghi
nerastro da ferita volontaria,
o, decomposto, il sol, la terra, l'aria
ti rïassorban ne' lor vasti gorghi:
o ti rapprenda in grumi all'orifizio
delle piaghe nascoste, che il silenzio
benda di spine, abbevera d'assenzio,
inacerba qual corda di supplizio:
o splenda e arda, animator fecondo,
nelle vene di chi per vincer nacque:
o, col flusso instancabile dell'acque
oceaniche, gonfî il cuor del mondo:
tutto per me ti addensi, meraviglia
di vita, di beltà, di passïone,
in questa che fiorì sul mio balcone
in un'alba d'amor, rosa vermiglia.

NOTTE SANTA

Madre, una notte di Natale io penso
con neve in terra e fulgor d'astri in cielo,
e dentro il gemmeo fluttuante velo
un aroma nostalgico d'incenso.
Tu sfioreresti il suol col passo alato
de' tuoi tempi più belli—allor che il gajo
cuore batteva al ritmo del telajo,
e povertà ridea senza peccato.
L'anima in petto io sentirei tremare
quale a fior della neve il bucaneve;
scendere a me vedrei, con volo lieve,
bianche angelelle, nel candor lunare.
Soavissima notte!...—Uno stupore
d'infanzia, un'innocenza di bambino
addormentato.—Io non avrei vicino
al cuor che il soffio del tuo grande cuore.
Narrerebbero intanto le campane
che nacque ancor fra i poveri Gesù.
E noi s'andrebbe, io senza meta, tu
senza ricordi, per le valli piane,
salmodïando in pace—ed al fiorire
dei cieli, all'alba, in violette e in gigli,
ritorneremmo tacite ai giacigli
rupestri, per sognare e per morire.

VOTO

A mia figlia.

Sien le parole di tua rosea bocca
come i fiori del mandorlo e del pesco
quando il vento d'April vivido e fresco
mette l'ali a ogni petalo che tocca.
Sieno i tuoi occhi come le fiammelle
votive delle lampade notturne
che innanzi a le cappelle taciturne
specchiano il tremolìo dell'alte stelle.
Piòvano dalla tua mano leggera
doni di gioja in luminoso nembo,
come giacinti e primule dal grembo
lucente di Madonna Primavera.
Serba l'anima tua d'allodoletta
innamorata dei lontani cieli,
che più sale e più par che all'alto aneli,
rapida nel suo voi quale saetta.
Tra pure forme di bellezza umana
vivi, aulendo, la tua vita di fiore;
e trova un giorno chi ti prenda il cuore,
e segui accanto a lui la strada piana;
e s'io nella crescente ombra m'arretro,
non penare per me, bimba.—Ho coraggio.—
Col tuo sorriso che somiglia a un raggio,
volgiti solo, qualchevolta, indietro.

PASSIONE

A mia figlia.

Soffro nella tua carne che fu mia,
adolescente pallida, che nove
mesi in grembo mi fosti, e più di nove
anni già conti, in fresca leggiadria.
Quand'io ti davo il latte del mio seno
eri parte di me, chiusa in me stessa:
come un suggello io ti tenevo, impressa
nelle viscere.—Ed era il tuo sereno
volto lo specchio della mia bellezza:
morte me sola non avrebbe côlta,
chè nel gorgo con me t'avrei travolta.
.... Ora ti stacchi, o fior di giovinezza!...
Ti stacchi; e v'è nel tuo destin la via
che tu farai senza di me, la gioja
che tu godrai senza di me, s'io muoja
o viva.—Occhi di luce e di malia,
occhioni ardenti ov'io misi una fiamma
del rogo mio, voi vi socchiuderete
un giorno, per celar l'ombre inquiete
d'un sogno agli occhi della vostra mamma!...
Agile corpo che l'adolescenza
plasma e disegna in puro stil di grazia,
dal nemico che logora e che strazia
salvarti non potrà la mia temenza!...
Io non potrò difenderti da nulla
che sia scritto nel libro della sorte.
Oh, meglio quando le mie labbra smorte
modulavan canzoni alla tua culla!...
Non m'importa di me. Tanto ho sofferto
che mi son fatta un cuor di selce.—Tanto
in lunghe insonnie disperate ho pianto
che or somiglio alla sabbia del deserto.
Tu no, tu, in pura veste anima pura!...
Oh, dove sei, felicità, ch'io possa
coglierti come una rosetta rossa
da offrire a questa dolce creatura?...
In qual giardino ti nascondi, frutto
celeste, ch'io ti spicchi, ch'io ti sprema
sulle sue labbra—e per magia suprema
ella in sè accolga la beltà di tutto?...

LA MADONNA DEL SOCCORSO

La Madre andò col suo piccino in braccio,
avviluppata nell'oscuro scialle.
Aspro un singhiozzo le scotea le spalle:
cerbïatta parea che fugge il laccio.
E scese il monte e traversò la valle,
e la città raggiunse; e ad ogni porta
bussò, chiedendo, per pietà, lavoro.
Alzava sulle braccia il suo tesoro:
ogni rifiuto la facea più smorta,
più spersa in mezzo al lastrico sonoro.
Al suo pavido cuore era nemica
la folla che ti spinge e non ti sa,
che, cogli occhi al suo segno, va e va
soverchiandosi a gara, e par che dica
—Scòstati!...—a chi dappresso le ristà..
la folla con mille arti e mille forme
e mille accenti, rapida, incalzante,
sempre diversa e sempre a sè davante
sospinta in corsa, col suo mugghio enorme,
coll'acre ardor della sua forza ansante....
E la madre cercò deserte vie
ove accucciarsi come un can perduto.
«Dio, che ti stai così lontano e muto
nei cieli, Dio che vedi le agonie
delle madri e dei bimbi, ajuto, ajuto!...»
.... Una porta s'aperse.—Erma, corrosa:
e sulla soglia molte facce emunte
che fame febbre tedio avean consunte
disser cogli occhi: «O Madre dolorosa,
sieno le nostre povertà congiunte!...
«Noi siamo i radïati dalle file
degli uomini. Al lavoro invan le braccia
offrimmo. Civiltà che ne discaccia
dall'opre, questo asil d'inerzia vile
ne schiude. Vieni, o disperata in traccia
di rifugio!...» E col lacero mantello
uno l'avvolse, e arrise al suo bambino:
uno le disse: «Siediti vicino
al focolare.»—E tutti: «Oh, come è bello,
rondinella, il tuo stanco rondinino!...
«Rondinella tu sembri al bianco viso
fra il nero dello scialle e delle chiome:
trepida, senza nido e senza nome,
osi, pur fra le lagrime, un sorriso....
Riso lucente, in fitta ombra di chiome!...
«Resta!... Diventerai Nostra Madonna
del Soccorso!... Ci porterai fortuna!...
Noi faremo al tuo piccolo una cuna
di stracci, e nella tua misera gonna
sarai chiara per noi come la luna....»
.... Ella rimase. E ritrovò per loro
i canti del natìo monte selvaggio.
Vibrava in essi il rullo del coraggio,
vibrava in essi il rullo del lavoro,
qual rombo di guerresco carriaggio.
«Fratello in Cristo, è tua la vita bella,
se forzerai le porte del destino!...
Riprendi il sacco, mettiti in cammino,
taglia le siepi, abbatti i muri, della
tua forza tempra un'arma d'oro fino,
e vinci se non vuoi vinto cadere,
para, se vuoi che colpo non ti tocchi!...»
Così cantò, col riso e il sol negli occhi,
la Madre. Ognuno avidamente a bere
quella dolcezza si gettò a ginocchi.
Poscia, con rude vigoria d'assalto,
verso nuove conquiste si scagliò.
E colui ch'era vinto dominò.
E colui ch'era a terra ascese in alto.
E la Suscitatrice si nomò
per essi e pei lor figli, ora e nel corso
dei secoli, Madonna del Soccorso.

L'AFFILATORE

Chiusa nel velo, coi lunghi occhi obliqui
fissi all'artier da la vermiglia tunica,
ritta presso la porta parlò ella,
e sibilo parea la sua favella:
«Affila, affila sulla cote lucida
i tuoi coltelli dai riflessi lividi.
Affila, affila, scarno affilatore:
questo per l'odio, questo per l'amore.
Nell'alterno strider le lame oscillano,
com'esse, al ghigno, i tuoi denti sfavillano.
Affila, per l'orgoglio e per l'insulto,
per l'ambascia che cela il suo singulto,
per l'invidia che sè con sè dilania,
per la vendetta che in agguato palpita,
per le madri accosciate sulle porte
ad aspettar le creature morte:
per ogni triste uomo e triste femmina
ch'abbia commessa la colpa di nascere,
affila, affila i tuoi coltelli a punta,
fino a quando la cote sia consunta.
Ma il più aguzzo fra essi, il più terribile,
simile ad un gingillo demonìaco,
o affilatore, al desiderio mio
serbalo, pel nemico che so io:
e fra le spalle a tradimento il pènetri,
e si rigiri fra le rosse labbra
della ferita, adagio, con prudenza
raffinata, con perfida scïenza:
sì ch'ei lo senta nelle carni, ogni attimo
di sua vita; e s'aggricci per lo spasimo
talvolta; ed a quel sordo incrudelire
soffra più che in morir, senza morire.»

L'UOMO E LA MACCHINA

Per esser grande l'uom creò la macchina,
e la rese perfetta in ogni ordigno.
Nervi d'acciajo le donò; ed in vero
parve ad essa donare anche il pensiero.
Ingranaggi, stantuffi, anse, cilindri,
tutto in essa ebbe schiavo al suo dominio:
quand'egli volle e comandò, il motore
battè col soffio d'un possente cuore.
E la macchina fu pari a una femmina
bella, asservita a lui da un incantesimo.
Ogni sua grazia occulta, ogni suo segno
palese, ogni finezza di congegno
gli appartenne, fu carne e sangue e palpito
d'amante, amata in pena ed in delizia:
tutto di lei scrutò, strinse, plasmò,
distrusse, ricostrusse, idoleggiò.
Sotto una tenda, avvolto in un cinereo
lucco d'artiere, fra strumenti e cinghie,
dì e notte visse, in veglia intenta e cruda
a fianco della sua macchina ignuda.
Scordò per essa le dolcezze semplici
della vita mortale, i cieli e l'acque,
il desco bianco ove si frange un pane
di pace—e il cerchio delle cure umane.
L'erba scordò che dice all'uomo: «Stenditi
sulla freschezza mia, sogna, ristòrati:»
—il sol che gonfia i germi e arrossa i tralci
e fra le spighe il lampo delle falci.
E tanto l'adorò ch'ella terribile
ne divenne, suo gaudio e sua superbia,
idol d'acciajo fino ai denti armato,
a conquiste implacabili creato.
E un dì ch'ei ne seguìa, scosso da fremiti
d'orgoglio, il gioco delle ferree vertebre,
ratta il ghermì, sè del suo sangue intrise,
più bella al sol perfidamente rise.

ESCONO DAL CANTIERE

Escono dal cantiere, a coppie, in branchi,
con le giacche sull'òmero.—Muraglia
vivente forman sulla via che abbaglia
nel sole.—Ira e tristezza li fan bianchi.—
Su ogni moto dei muscoli riflessa
l'impronta sta della materia inerte
dalla potenza de le braccia esperte
plasmata, martellata, sottomessa.
L'uomo con l'opra una sol forza forma
che non si scinde.—Essi lo sanno.—E il rude
edificio lo sa, ch'oggi si chiude
dietro i ribelli, e par che invitto dorma;
ma doman, nella pura alba serena,
spalancherà le porte all'orda muta:
—non può battere il cuor, se si rifiuta
il sangue di fluir per vena e vena.

SAMARITANA

O tu che vivi sola, sul confine
della foresta ove sei nata, e siedi
d'un cedro all'ombra centenaria, i piedi
ignudi e sciolto sulle spalle il crine:
tu che hai negli occhi la corrente azzurra
del fiume che laggiù splende fra gli elci,
e, nascosta fra l'alte umide felci,
sogni, ascoltando il bosco che susurra:
dammi per questa sete che m'uccide
un sorso:—l'acqua del tuo pozzo invoco,
quella che attingi tu, mentre con roco
gemito il secchio discendendo stride.
Tu che ti stendi per dormir sull'erba
aulente di viole e d'innocenza,
e distingui semenza da semenza
e la mandorla sbucci quand'è acerba:
tu che legger non sai ne' libri impuri
che l'uomo scrisse per offender l'uomo,
e rassembri in tua forza ad un indômo
puledro, che di nulla s'impauri:
lascia ch'io prenda la metà dell'aria
che tu respiri, la metà del frutto
che stai mordendo:—nel cammino io tutto
il mio bene ho perduto, o solitaria.
Io l'ho perduto e più non lo ricerco,
troppo imparai quanto quel ben sia vano:
tu che t'ascondi ad ogni sguardo umano,
dammi la sola voluttà che cerco.
Con l'acqua del tuo pozzo una freschezza
versami nella gola, che mi renda
qual letto di ruscello, e diaccia scenda
ad annientarmi in cuore ogni tristezza.
Dammi l'oblìo di me, fammi novella
come in Aprile un cespo di mentastri,
tu, che misteri di foreste e d'astri
sai, ma null'altro sai, dolce sorella.

SELCIATO CITTADINO

Vampe e vampe a me salgono dal lastrico
che sfioro, errando nel tramonto roseo.
L'ultimo fischio echeggia dalle fabbriche,
l'ultima rondin stride intorno agli embrici,
l'ultimo sogno langue sui garofani
dei davanzali, e van le lune elettriche
sbocciando in alto, tra una rete ferrea
di fili.—Oh, sol per me, pe' miei veggenti
sensi, di vampe e vampe arde il selciato.
Io me ne cingo, come d'una fiammea
veste.—Io ben so di quanta vita è saturo
il selciato, in quest'ora del crepuscolo
misterïosa.—Femmine passarono
snelle nei veli, con profili pallidi
annegati fra dense ombre di piume;
e una scìa di profumi e un lungo fremito
di turbamento dietro al passo ambiguo
lasciaron sull'asfalto e sulla pietra.
Rapidi e chiusi in lor superba maschera
gli ammassatori d'oro, i falchi umani
passarono, celando acute granfie
per ogni bene che si compri ed ogni
perversa ebbrezza della vita breve;
e un odor di rapina e un denso filtro
d'energia bevve da' lor passi il suolo.
Con saettare di carrozze e fremere
d'automobili e fughe di bicicli
e tumulti di plebe e canti e fischi
d'artieri in corsa e duellar di sguardi
cozzanti a gara, fluttuò la vita,
vibrò rifulse divampò la vita.
Ed il dolor che sè credea più squallido
d'ogni dolore, ad un quadrivio urtò
l'ambascia che in sè chiude ogni altra ambascia,
ma non la riconobbe; e passò oltre.
Risa d'infanzia, risa di feminee
labbra scarlatte in dolce arco dischiuse,
schiette risa di popolo e sogghigni
di suggellate bocche s'incrociarono
razzando—e fu una rete di scintille.
Un nemico, con balzo agil di tigre,
si scagliò sul nemico; e nella mischia
brutale il sangue invermigliò la strada.
Fanciulle a gruppi vennero, con freschi
fiori al petto, alle trecce—e i rosei petali
caddero, a fascio, sull'orror del sangue.
I commerci e le industrie in forme innumeri
di sagacia, d'audacia e di conquista,
e amor che sogna, e orgoglio cinto d'armi,
e ambizïon che in fervido silenzio
le proprie arrota, e povertà che obliqua
tende la mano oppur s'asconde, tutto
passò, di sè, di sè la terra e l'aria
saturando, le vene delle pietre
gonfiando di viventi umane linfe.
Sacro tramonto!... Ecco, il mistero io pènetro:
ecco, io perdo la mia forma mortale,
io mi dilato in me, sino ad accogliere
l'altrui sostanza, anche la più segreta,
l'altrui miseria, anche la più profonda,
l'altrui pensiero, anche il più vasto.—Il mondo
col suo bene e il suo male è tutto in me:
ed io somiglio al letto d'un torrente
in piena, allor che l'acqua vi precipita
dal monte, ribollendo nelle torbide
schiume, in sua furia rapinando gli alberi,
empiendo l'aria del suo rauco mugghio;
ma le pietre e le sabbie del ghiareto
frantumate e travolte, abbrividiscono
d'ansia e di gioja all'impeto dell'acqua
che le devasta, follemente viva.

DAL PROFONDO

Nostalgia mi cacciò dalla mia nitida
casa, ove i fiori in snelle coppe odorano.
Ed un guarnello d'operaja indosso
mi mise, e al collo un fazzoletto rosso.
E son venuta ove le basse fabbriche
serpi di fumo snodan dai comignoli;
e di cordami e di carbone e d'assi
ingombri son gli spiazzi irti di sassi.
Ecco, e respiro il noto odor di polvere
e di tintura, odo la danza ritmica
dei telaj dietro alle finestre nere,
e canti uguali a bibliche preghiere.
Fratello, che t'affacci sulla soglia
e assomigli nel sajo a un prence barbaro,
dammi una spola che tra bianchi fili
passi e ripassi con guizzi sottili:
e tu, fabbro, che il maglio sull'incudine
batti in cadenza, a domar ferro e bronzo,
e tu, artiere del legno, che la grezza
pianta ti foggi in forme di bellezza:
e voi che in alto, sovra palchi aerei,
con acciajo e cemento enormi gabbie
costruite, ove un giorno i ricchi schiavi
si chiuderan con sapïenti chiavi:
e voi del marmo, e voi del fulvo cuojo
mastri, ch'io viva nel compatto fremito
del vostro sforzo, fra di voi perduta,
o asservitori di materia bruta.
Nè mi chiedete il nome mio: sui ciottoli
della strada mi cadde, ed a raccoglierlo
io non mi volsi: il nome io l'ho nel viso,
e nell'ardor del mio selvaggio riso.
Camminerò con voi, presa nell'impeto
della corrente rapinosa, in gaudio:
canterò per la vostra anima oscura
il ditirambo della forza pura.
E se materia sull'artier si vendica,
canterò che la morte è necessaria:
l'opera all'uomo e l'uomo all'opra sia
come l'anima al corpo.—E così sia.—
Basti alla nostra sete un sorso d'acqua,
ed alla fame un pane, e al sangue un palpito
di giovinezza; e dai possenti amori
balzino razze di dominatori.
E il Sol su noi, dentro di noi, magnifico
dator di grazia, che pei Puri sfolgori:
e se gioja ne investa dal profondo,
piccolo sia pel mio peana il mondo.

Nota dei trascrittori

I seguenti refusi sono stati corretti (tra parentesi il testo originale):

33 in vorticoso baratro d'oblìo [oblio]
55 soggòlo [soggolo] curva un poco, un po' rugosa
71 ai davanzali rossi di geranî [gerani]
87 lo [o] sentiva nel rombo d'ogni arteria
191 venìa [venia] Primavera in leggiadre
199 Chi or non vide, nel sogno, dentro un mare [mar]

*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK DAL PROFONDO ***