The Project Gutenberg eBook of La vita militare: bozzetti

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Title : La vita militare: bozzetti

Author : Edmondo De Amicis

Release date : May 14, 2014 [eBook #45647]
Most recently updated: October 24, 2024

Language : Italian

Credits : Produced by Giovanni Fini, and the Online Distributed
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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA VITA MILITARE: BOZZETTI ***

[Pg i]

[Pg ii]

LA VITA MILITARE.

Proprietà degli Editori.


[Pg iii]

LA
VITA MILITARE


BOZZETTI

DI

EDMONDO DE AMICIS

UFFIZIALE DELL'ESERCITO.

FIRENZE.
SUCCESSORI LE MONNIER.


1869


INDICE DEL VOLUME.

Una marcia d'estate Pag. 1
L'ordinanza 9
L'ufficiale di picchetto 20
L'ospitalità 29
Una sassata 47
La madre 61
Il figlio del reggimento 79
Il coscritto 137
Una marcia notturna 154
Un mazzolino di fiori 165
Carmela 174
Quel giorno 215
La sentinella 228
Il campo 239
Il mutilato 258
L'esercito italiano durante il colèra del 1867 283
Una medaglia 349
Partenza e ritorno. Ricordi del 1866 367
Una morte sul campo 422
Il più bel giorno della vita 443

[Pg iv]

[Pg v]

A MIA MADRE

TERESA—BUSSETI—DE AMICIS

DEDICO QUESTO LIBRO

DOLENTE DI NON POTER LEGARE IL SUO CARO NOME
A UN'OPERA GENTILE COME IL SUO CUORE
ELETTA COME LE SUE VIRTÙ
SANTA COME LA SUA VITA.

[Pg vi]


[Pg vii]

Tempo fa, parlando d'uno di questi bozzetti, due lettori molto facili a commoversi hanno significato, senza volerlo, il doppio scopo che mi sono proposto nello scrivere l'intero libro.

Un popolano disse:—«Finito di leggere, avrei stretto la mano al primo soldato in cui mi fossi imbattuto per via.»

Un soldato disse:—«È un racconto che consola e mette un po' di buona volontà.»

Che si voglia bene al soldato, e ch'egli faccia il soldato con cuore: se io riuscissi a ottenere questi due effetti in qualcuno dei miei lettori, stimerei largamente compensate le mie fatiche, e sarebbe pago il mio desiderio più vivo e più caro.


[Pg viii]
[Pg 1]

UNA MARCIA D'ESTATE.


Era una bella giornata d'agosto; non una nuvola, non un soffio di vento; l'aria immobile e infocata. La strada per cui il reggimento camminava era larga diritta e lunga che non se ne vedeva la fine, e coperta d'una polvere finissima che si sollevava a nuvoli, penetrando negli occhi, nella bocca, sotto i panni, e imbiancando barbe e capelli. A destra e a sinistra della strada non un albero, non un cespuglio, non un palmo d'ombra, non una goccia d'acqua. La campagna era secca, nuda, deserta; nelle poche case sparse qua e là, un silenzio, una quiete, che parevano disabitate. Non si poteva fermar lo sguardo sulla via, nè sui muri, nè sui campi, tanto vi batteva il sole. Si camminava a capo basso e a occhi socchiusi. Insomma, una bellissima giornata d'agosto, una pessima giornata di marcia.

Il reggimento camminava da poco più di un'ora. Malgrado quella polvere e quel caldo soffocante, i soldati erano ancora vispi ed allegri come al momento ch'eran partiti. Due file camminavano a destra e due a sinistra della strada, e dall'una all'altra parte era un continuo scoccare e incrociarsi e ricambiarsi di motti, di frizzi e di mille voci lepide e strane; e di tratto in tratto una gran risata e un batter clamoroso di mani, a cui seguiva sempre un:—Al posto, via, in ordine!—che [Pg 2] ristabiliva momentaneamente il silenzio e la quiete. A tre, a quattro, a cinque voci assieme, si sentiva cantare qua l'allegro stornello toscano, là la patetica romanza meridionale, più oltre la canzone guerriera delle Alpi; ed altri smettere, ed altri cominciare, e mille accenti e dialetti svariati succedersi e mescolarsi. La marcia procedeva in tutto e per tutto a norma del regolamento; le file serrate, il passo franco, gli ufficiali al posto; tutto in ordine, tutto appuntino. Benone! E si andava, e si andava.................

Ma—oh vedete là il second'uomo della prima fila, che comincia a perder la distanza! Adesso l'aggiusto io. Oh là! Volete serrare sì o no?...—Ha serrato.

Altri dieci o dodici passi.—Un altro.—E dàgli! Volete marciare al posto, sì o no?—Oh vedete come va quella coda! Corpo di.... Animo, serriamo, laggiù; passo di corsa.—Una rapida corsa, un gran battere di borraccie sui fianchi, un rumoroso ballar di cartucce nelle giberne, una confusione, un polverio che tutto investe, che tutto copre.... La coda ha serrato.—Bisogna sfiatarsi, non c'è che dire; ci vorrebbero dei polmoni di ferro. Gli è un gran brutto marciare quest'oggi.... Un sole che brucia il cervello.... una polvere che leva il respiro.... e questa strada che non finisce mai... e questo cheppì.... Ci fosse un albero almeno! un palmo d'ombra, un po' d'acqua! Ma niente.... È un deserto questo.—

I canti che si udivano dianzi son già calati di una nota; il dialogo è un po' meno vivo; le file un po' meno serrate. Il comandante del primo pelottone è già alla testa della seconda squadra; il comandante del secondo è alla coda della terza. Si vede che il reggimento è in marcia da tre ore.

La via diritta è finita; comincia a serpeggiare. L'occhio [Pg 3] non può precorrere il cammino e confortarsi sui tetti di qualche lontano villaggio, sul campanile di una chiesuola, su qualcosa che dia indizio di abitazione e prometta una fermata, un po' di riposo, un po' di respiro.... un momento di vita. Dio mio, che strada! Non si vede cento passi innanzi. Coraggio, via; ancora cinque minuti, e saremo alla voltata. Chi sa che, svoltando, non ci apparisca, lontano lontano, un paesello o un folto d'alberi, dove ci facciano fermare! La speranza rinvigorisce le forze; si studia il passo; siamo alla voltata; si corre per mettersi presto sulla nuova direzione, si allunga il collo, si spinge innanzi avidamente lo sguardo.... Case? Alberi? Villaggi? Fermate? Niente! Strada, strada, e sempre strada. Oh disperazione! I menti ripiombano sui petti, gli occhi ricadono a terra, le schiene si ricurvano sotto gli zaini; le file, dalla momentanea pressa ristrette, si riaprono; la coda segna il passo; il comandante del primo pelottone è già alla testa del secondo, il comandante del secondo è già alla testa della compagnia che vien dietro; il capitano.... dove sarà il capitano?

I canti che si udivano due ore fa son già calati di due note. Si canta perchè s'è cominciato a cantare; forse non si ricomincerebbe più. Il dialogo è stentato; gli scherzi non hanno più sale. Ah! si vede che il reggimento è in marcia da quattro ore.

E si va, e si va, e si va. I volti arsi dal sole, grondanti sudore, neri, contratti, trasfigurati; il respiro affannoso; le labbra pendenti; la lingua grossa; le mani gonfie, pesanti; le piante indolenzite; in tutta la persona una cascaggine, un abbandono; gli zaini vengon giù sulle reni, le giberne sulle natiche, i cappotti su per la schiena raggrinzati e fradici; le cravatte sciolte; i cheppì spinti all'indietro fin sulla nuca o colla tesa calata sul [Pg 4] naso. Gli occhi, offesi dalla luce soverchia, o si figgono immobili sull'orma del compagno che precede, o errano qua e là avidamente in cerca di un rigagnolo, di una fonte, di.... di un pantano, anco; purchè si potesse mitigare questo foco infernale che ci brucia le viscere.... Oh la sete! E qui s'affacciano alla mente alterata immagini varie e confuse di caffè altra volta (quando si era felici!) frequentati; si vedon là gli avventori sorbire lentamente dei grandi bicchieri di birra spumante, gelata; si vedono delle fonti d'acqua viva sgorgare, spumeggiando, da una roccia; se ne sente il mormorio, se ne vede lo splendore cristallino serpeggiare e perdersi fra l'erbe.... Oh poterlo raggiungere!—Arrivato alla tappa, beverò tanto da morire! Volerò subito al caffè, vuoterò una bottiglia di un fiato, due, e se non basta, tre....

E si va, e si va. I canti sono cessati; il dialogo morto. Uno scherzo forzato scocca qualche volta dalle labbra dei più vigorosi; indarno; è accolto con glaciale silenzio. Si marcia taciti taciti. Molti che erano alla testa, ora, zoppicando, si trovano alla coda. I più forti che erano alla coda, eccoli, senza che se ne avvedano, alla testa. Le compagnie si confondono—Al posto! per Dio! al posto! Gli è il modo di marciare codesto?...—Non dan retta; è lo stesso che predicare ai muri.—Ohe là! voi! perchè vi fermate? Avanti, animo, su.—Tenente, non mi fido.—Niente, niente; levatevi; avanti.... Inutile; egli già dorme.—Serrate, voi altri, laggiù. Animo. Oramai non c'è che poco.

—Oh sì, c'è poco!—Dicono sempre così.—Intanto non si fa mai alto.—E il brodo di questa mattina era acqua.—E il prestito non l'hanno ancora dato.—E con questo sole, ci potevano far partire un po' prima.—E alto intanto non si fa mai,—e il brodo....-e il prestito....

[Pg 5]

Largo! largo!—Che c'è? Chi viene?... Un precipitoso scalpitìo di cavali, un denso nuvolo di polvere.... è passato. Era un ufficiale di stato maggiore.

Già, eccoli lì quelli che ci fanno correre.—Gli è comodo, da cavallo, gridare avanti a quelli che vanno a piedi!—Se avesse lui lo zaino.... Ohe, tu, di'! alza quei piedi; non ce n'è abbastanza della polvere, non è vero?—

Molti si arrestano. Molti, accorciando il passo, lasciano passare innanzi la propria compagnia per fermarsi non visti. La voce dei superiori suona stizzosa, non più autorevole. Gli ordini sono radi radi.—Il comandante del primo pelottone.... Dov'è il comandante del primo pelottone?—Ah, si vede che il reggimento è in marcia da cinque ore!

O ch'è questo? S'udì uno squillo di tromba. Un oh! prolungato gli fece eco dall'uno all'altro capo della colonna. Tutti si arrestano, e qui comincia una confusione, un parapiglia, un rovesciarsi di zaini, un cader di fucili, un rotolar di cheppì giù pei fossi della via, un correre a destra e a sinistra.... In due minuti il reggimento è sparito. Dentro i fossi, di qua e di là della strada, un serra serra, un gridìo, un disputarsi a spintoni e a colpi di gomito un palmo d'ombra, un palmo d'erba. Pei campi un va e vieni di assetati in traccia d'acqua, che si cercano, si scontrano e si arrestano, come una processione di formiche su per la scorza d'un albero; un chiedere da bere con voce lamentevole, un negare di voci stizzite, o un concedere a stento, uno strapparsi dalle mani i gamellini con rabbia gelosa.... A poco a poco il tumulto scema, il movimento diminuisce, la quiete ritorna; tutti, o bene o male, giacciono a terra, tutti riposano, tutti chiudono gli occhi.... Ancora un minuto e tutto il reggimento dormirà.

[Pg 6]

—Largo! largo, ragazzi! Un po' di passo. Di', tu, bada che ti passerà addosso la ruota. E tu leva quello zaino di mezzo alla strada.... Un po' di passo, via. Fatemi largo.—Oh eccolo l'apportatore della vita, ecco l'amico dei galantuomini, ecco la provvidenza! Il vivandiere!—I dormenti si scuotono, stirano le braccia, si fregano gli occhi, puntano i gomiti in terra; su, su, su, eccoli in piedi; corrono e fanno ressa intorno al carro, e vi si rimescolano e vi si addossano come i cavalloni del mare attorno alla nave nel forte della tempesta. Al disopra di tutta quella calca un tender di mani, un agitar di braccia, un porgere e un ricevere quattrini, un lamentarsi cruccioso di esser là da un'ora e di non aver ancora avuto niente, un insistere ora minaccioso ora supplichevole.... Il pover uomo è ansante, suda, sbuffa, domanda un po' di largo, un po' di fiato....

Un altro squillo di tromba; è l' attenti . Un lungo mormorio di sorpresa e di malcontento gli fa eco.—Non c'è tempo di mandar giù un boccone.—Era meglio non fermarsi, allora.—Ci vogliono ammazzare.—Sicuro.—La folla si disperde lentamente; i giacenti si levano faticosamente a sedere; parte si drizzano in piedi lemme lemme; parte stan lì a godere l'ultimo minuto, l'ultimo istante; a poco a poco tutti son saliti dai fossi sulla via, gli zaini sono sulle spalle, gli ordini son ricomposti.—Un altro suono; la prima compagnia si muove.... la seconda, la terza.... tutto il reggimento è in moto.—Al posto, eh! Non ripetiamo la babilonia di prima.

Per una mezz'ora le cose vanno un po' meno peggio che per l'addietro; comunque le membra si risentano dolorosamente del breve riposo, e non tutti abbiano sazia la sete.—Ma guardate come marcia quella coda! Ma volete serrare una volta?—Per una mezz'ora, come si diceva, le cose vanno un po' men peggio di prima; le [Pg 7] file si sono serrate, chi stava addietro ha raggiunto la sua compagnia, gli ufficiali sono tornati al posto....—Ma questo sole brucia il cervello! Questo è un caldo d'Africa! È impossibile resistere!.... I piedi non han più forza di sollevarsi da terra, strisciano; le braccia cadono spenzoloni, il cinturino scivola giù dai fianchi, le cinghie dello zaino segano le spalle, il cappotto opprime lo stomaco.... E non si arriva mai! E dove ci vogliono condurre?

—Una fontana! una fontana!—Un grido di gioia risponde all'avviso. Gli ordini si rompono, tutti accorrono; a cinque, a sei, a dieci si cacciano a corpo morto sull'acqua: urti, spintoni, litigi, grida, percosse.—Al posto, al posto, per Dio!—tuona un ufficiale sdegnato. La turba si rompe e si sperde in tutte le direzioni; molti, lo stomaco gravato dall'acqua, tentano invano di raggiungere il proprio posto; altri vi giungono dopo una corsa affannosa e sono costretti a fermarsi poco dopo; altri restano là ancora per un sorso, per una goccia, un minuto, un momento!... Le forze mancano, i vacui si allargano, i fossi si popolano di estenuati; tutto vacilla, tutto cade.... All'improvviso, allo svoltare della via, si vede un campanile, un villaggio.—È la tappa! È la tappa!—Il grido si propaga in un istante dalla testa alla coda; l'effetto è mirabile; le forze si rinfrancano, le file si serrano, le compagnie si riformano, gli sbandati accorrono; tutto è mutato. Echeggia la musica; siamo al villaggio; si entra. Le soglie delle officine, le imboccature delle vie, le finestre, i balconi, si riempiono di curiosi; qua e là ai davanzali si affacciano dei visini atteggiati a pietosa curiosità.—Poveretti! come saranno stanchi!—Oh, gli effetti di quegli occhi! Chi andava curvo si addirizza con grande sforzo per l'ultima volta; chi zoppicava piglia un'andatura più risoluta; chi stava [Pg 8] per cadere, stremato di forze, si fa animo e tira innanzi....—Olà, voi, dove andate?—Un sorso d'acqua, tenente.—Niente, niente! al posto!—Oh, i crudeli!—si mormora all'intorno dalle mamme compassionevoli;—come li trattano, poveri ragazzi! Neppure un sorso d'acqua!—

Il reggimento è passato, ha posate le armi, ha spiegato le tende.... Oh che campo animato ed allegro! E le fatiche e gli stenti della marcia non si ricordano più?

Ah!.... nemmen per sogno.


[Pg 9]

L'ORDINANZA.


Erano quattro anni che vivevano assieme; nè mai un solo momento l'un d'essi avea dimenticato di essere l'uffiziale, l'altro di essere il soldato. L'uno soldatescamente austero, l'altro soldatescamente sommesso. E si amavano; ma di quell'affetto duro, ruvido, muto, che non fa pompa di sè, che non si palesa, che cela un trasporto di tenerezza sotto un atto sgarbato; eloquente quando tace, inetto e barocco quando parla; nemico delle blandizie e accostumato, quando lo assale il bisogno di piangere, a stringer le labbra e a ribeversi le lagrime per non parer fiacco e sdolcinato. Correva fra loro un linguaggio costantemente laconico, rapido, rotto; si capivano a monosillabi, a occhiate, a gesti: interprete comune l'orologio, che regolava tutto, anco i passi e le parole, colla più stretta disciplina.—Tenente, comanda altro?—Nulla.—Posso andare?—Va.—Era la formola quotidiana di comiato; mai una parola di più. E così erano passati i giorni, i mesi, gli anni—quattro anni—in quartiere, in casa, in campo, in marcia, in guerra, ed era a poco a poco cresciuto nel cuor di entrambi un affetto profondo, severo, e quasi sconosciuto a sè stesso. V'era in quella inalterabile taciturnità, in quel parlar soldatesco, in quel ricambiarsi fuggitivo di sguardi che volean dire, l'uno—fa questo,—e l'altro—ho capito; [Pg 10] v'era dico, per chi avesse conosciuta la natura di entrambi, tanta cortesia, tanta amorevolezza, tanto cuore, che al confronto la più espansiva corrispondenza di tenerezze ne avrebbe scapitato.

Si erano trovati a fianco sul campo in momenti solenni, a poche centinaia di passi dai cannoni nemici, e, ad ogni sibilar di granata, l'uno avea girato rapidamente gli occhi in cerca dell'altro, e, trovatolo, avea messo un sospiro, pensando:—Anche questa è passata.—Aveano vegliato assieme agli avamposti più di una notte gelida e piovosa, coi piedi nel pantano e il vento sulla faccia; e il mattino, al giunger del battaglione di muta, s'erano scambiati un sorriso, come per dirsi a vicenda:—Ora si ritorna al campo; rallegrati; potrai riposare.—Molte volte, durante una lunga marcia d'estate, s'erano tutti e due ad un tempo voltati in dietro a riguardare le pietre miliari sulla proda della via, e molte volte, ne avean contate meglio di quaranta, scambiandosi, quand'eran giunti all'ultime, uno sguardo di conforto e di compiacenza che volea dire:—Ancora due,—ancora una,—ci siamo.—Più di una sera, nei campi, quando si prepara l'animo alle fucilate che ci verranno a svegliare la notte, dopo che l'un d'essi si era adagiato sotto la tenda e l'altro gli aveva disteso ed accomodato addosso il pastrano per difenderlo dalle brezze notturne,—buona notte, signor tenente,—aveva detto il soldato allontanandosi, e al tenente era parso che quella voce avesse lievemente tremato e l'ultima parola non fosse uscita intera, e con pari accento gli aveva rimandato il saluto. Qualche altra volta, mentre l'uno porgeva all'altro una lettera e questi stendeva avidamente la mano per prenderla, era passato sui due volti un leggerissimo sorriso.—È una lettera di casa; ne riconobbi i caratteri; è tua madre—l'uno avea voluto dire;—grazie, [Pg 11] l'altro aveva voluto rispondere, tu mi hai anticipato la gioia.—

Dopo tutto ciò ritornavano entrambi ai soliti modi taciturni e severi. Nè mai una volta il fiero soldato, o presentandosi al suo uffiziale, o pigliandone comiato, dimenticava di fissargli gli occhi in faccia, alzando la testa, portando energicamente la mano al cheppì, ritto, immobile e fiero. Partendo, il suo fronte indietro era sempre fatto a norma del regolamento.

Vivevano assieme da soli quattro anni; ma il soldato, che aveva cominciato a far l'ordinanza dopo il primo anno di servizio, stava per compiere la sua ferma.

Un giorno giunse al comandante del corpo l'ordine di congedar la sua classe.

Quel giorno, fra l'uffiziale e il soldato passarono poche parole più del consueto; ma i due cuori si favellarono lungamente.—Comanda altro?—Nulla.... È giunto l'ordine di congedare la tua classe; fra dieci giorni tu partirai.

Seguì un breve silenzio senza che i loro occhi s'incontrassero....—Posso andare?—Va pure.—Questa volta si era aggiunto un pure , ed era già un gran passo sulla via delle tenerezze.

Si strinse il cuore ad entrambi; non però ad entrambi ugualmente. L'uno perdeva un amico, anzi, più che un amico, un fratello, che l'amava d'un affetto reverente, religioso. L'altro perdeva del pari un amico, un fratello; ma quegli restava, questi tornava a casa. E ciò gli era un grande sollievo. Tornare a casa! Dopo tanti anni, dopo tanti pericoli, dopo aver tante volte la sera, nel campo, quando squillano le lunghe e melanconiche note del silenzio , e sotto le tende muoiono i lumicini, e in tutta quella mobile città di tela, poc'anzi così animata ed allegra, si sparge una quiete profonda; [Pg 12] dopo aver tante volte, in quei momenti di scorata malinconia, chinato la testa fra le mani pensando alla madre e domandandosi:—Che farà in questo momento quella povera donna?—tornare a casa! Dopo aver tante volte, sul far della notte, al bivacco, udito qua e là fra i crocchi dei compaesani suonare i noti ritornelli campestri, quei che si cantavano un giorno laggiù, a casa, in estate, quando si vegliava sull'aia e vi batteva quel bellissimo lume di luna, e, fra le tante voci degli amici e dei congiunti, se ne sentiva una distinta, chiara, argentina, tremola, che sapeva così bene le vie del cuore; dopo aver tante volte benedetto quei canti come un saluto di nostra madre lontana.... tornare! Tornare inaspettato! Rivedere quella campagna, quei casali; riconoscere da lontano quel tetto, studiare il passo, giungere trafelati su quella cara aiuola, vedersi comparir dinanzi la sorellina fatta adulta, il fratello più piccolo ormai adolescente, alle loro grida sopraggiungere tutti gli altri, lanciarsi in mezzo a loro, poi svincolarsi da tutti, correre in casa, chiamare la vecchia madre, vedersela venire incontro colle braccia aperte e gli occhi pieni di lagrime, gettarsele al collo e sentirsi stretto da quelle care braccia e provar tutte le più sante estasi umane, le son cose che, anche a pensarle soltanto, addolciscono qualunque amarezza, sanano qualunque ferita.

Pur non di meno a quel buon giovanotto passava l'anima il pensiero di aversi a separare dal suo uffiziale. E poi un soldato di cuore non si spoglia mai del ruvido cappotto che gli ha servito per tanti anni da coperta e da guanciale, e su cui egli ha fatto tanto lavoro di spazzola, d'ago e di sapone, senza sentirsi dentro un certo struggimento, una certa tenerezza dispettosa ed inquieta, come al separarsi da un amico che ce ne ha fatta qualcuna delle [Pg 13] grosse e con cui si vorrebbe tener il broncio, ma che in fondo si è sempre stimato ed amato. Quelle tasche di dietro, dove in prigione si nascondeva la pipa all'apparire dell'uffiziale di picchetto, di tanto in tanto, per isbaglio, e fin che non se ne sia affatto smessa l'abitudine, si cercheranno ancora colle mani.... Che stizza non trovarle più!

Il buon uffiziale s'era fatto pensieroso, e non aveva più aggiunto una parola alle formole consuete. E così il suo soldato. Ma i loro sguardi s'incontravano più frequenti e più lunghi, e pareva che si dicessero:—Tu soffri, lo so.—Il soldato faceva le sue cose più adagio per trattenersi più a lungo in casa e compensarsi, in quegli ultimi giorni, della separazione imminente. Dapprima procedeva con una certa lentezza; poi con lentezza apertamente studiata; da ultimo faceva le viste di levar via la polvere dai tavolini e dalle sedie; ma il più delle volte, assorto nel suo triste pensiero, agitava ciecamente la pezzuola senza nulla toccare. Intanto l'uffiziale ritto ed immobile colle braccia incrociate davanti allo specchio, che rifletteva l'immagine del suo soldato, ne seguiva attentamente i passi, gli atti, i moti del viso, e ne scansava gli sguardi alzando prontamente la faccia e gli occhi al soffitto in aria distratta.—Tenente, posso andare?—Va pure.—E il soldato se ne andava. Non aveva ancora sceso due scalini che dentro la stanza suonava un frettoloso:—vieni qua—ed egli tornava.—Comanda altro?—Niente. Voleva dirti.... niente, niente; lo farai domani; va pure.—E forse l'aveva richiamato per vederlo, e, vedutolo un'altra volta partire, continuava a tener per qualche tempo gli occhi fissi al limitare della porta da cui era uscito.

Venne finalmente il giorno della partenza. L'ufficiale stava seduto in casa, al tavolino, dirimpetto alla porta [Pg 14] socchiusa. Di lì a mezz'ora il suo soldato doveva venire a pigliare comiato da lui, e partire. Egli fumava soffiando in alto i nuvoli del fumo, e ne seguiva sbadatamente coll'occhio il viaggio lento e vorticoso fin che si dileguavano nell'aria. Il fumo che gli passava sugli occhi glieli facea lagrimare, ed egli a quando a quando se li asciugava col rovescio della mano, pur maravigliandosi che le lacrime venissero giù così grosse da parer ch'ei piangesse. Ne attribuiva tutta la causa al fumo, voleva illudersi sulla sua commozione, dissimularla a sè stesso, attribuire al sigaro ciò che spettava al cuore. E pensava:—....Già, c'era da aspettarselo. Dunque, a che serve pigliarsela a cuore? Non lo sapeva io, quando l'ho preso con me, che non l'avrei tenuto eternamente? Non lo sapeva che la ferma è di cinque anni? E che quest'uomo ha una casa, un campo, una famiglia, dove è nato, dove è cresciuto, da cui è partito con dolore e a cui ritornerà con gioia? Pretenderei che continuasse a fare il soldato per la mia bella faccia? Sarei un egoista.... Anzi lo sono. Qual vincolo di gratitudine lo lega a me? Che cosa gli ho fatto io? Che cosa mi deve costui?... Oh molto, davvero. Non gli ho mai fatto che delle sgarbatezze, io. Gli sto sempre lì davanti con questo maladetto muso da padre inquisitore.... Gli è il mio temperamento, già; che ci posso fare? È inutile, io non le so trovare le parole per dir certe cose. E poi.... non si debbono dire. Ma.... almeno fargli una faccia un po' umana!... Adesso se ne va. Ritorna a casa a lavorare nei suoi campi, a ripigliar la vita di prima; a poco a poco perderà tutte le abitudini militari, dimenticherà tutto.... e il suo reggimento, e i suoi compagni, e il suo uffiziale. Non importa; purchè viva contento. Ma io potrò forse dimenticar lui? Quanto tempo dovrà passare prima ch'io mi sia assuefatto ad una faccia nuova; prima che la [Pg 15] mattina, svegliandomi, non mi abbia più a parere di vedermelo davanti tutto intento a sbrigar le sue faccende là in un canto della stanza, cheto cheto, quasi senza muoversi, quasi senza alitare, per non destarmi prima del tempo? Quante volte, appena desto, non lo chiamerò per nome? Tanti anni di compagnia, di attaccamento devoto, di servizio affettuoso, e poi.... vederselo andar via così.... da un giorno all'altro.... Mah! è il nostro mestiere, non c'è che dire. Bisogna rassegnarsi.... Che buon ragazzo! Che cuore! Se talora, marciando, oppresso dalla fatica, riarso dal sole, affogato dal polverone, io mi soffermava un istante e volgeva gli occhi attorno come per cercare un po' d'acqua, subito mi appariva dinanzi una borraccia e mi suonava al fianco una voce:—Tenente, vuol bere?—Era lui. Era uscito di nascosto dalle file, era corso a pigliare dell'acqua.... lontano forse, chi sa dove; era, in un batter d'occhio, tornato, ansante, grondante di sudore, spossato, ed era venuto dietro a me ed avea aspettato che io mostrassi desiderio di bere. Se talora, in campo, io pigliava sonno all'ombra d'un albero, e il sole a poco a poco mi veniva a batter sul viso, una mano sollecita mi rizzava al fianco una frasca, o tendeva una tenda, o poneva l'un sull'altro tre o quattro zaini, o allargava sopra un fascio d'armi un cappotto, e il sole non mi dava più noia. Di chi era quella mano? Sua era, sempre sua. Appena giunti alla tappa dopo sei, sette, otto ore di cammino, appena spiegate le tende, egli spariva; ed io a cercarlo, a chiamarlo ad alta voce pel campo, a stizzirmi: e dov'è, e chi sa dove siasi rintanato, e vedete un po' che testa, e se questo gli è il modo di fare, e appena verrà lo concerò io pel dì delle feste; e avanti di questo passo. Di lì a un minuto lo vedeva giungere di lontano curvo curvo sotto un gran carico di paglia, a [Pg 16] passi ineguali, a sbalzelloni, urlando a destra e a sinistra con chi gliene voleva portar via una manata, inciampando nelle cordicelle delle tende, valicando siepi e fossi, calpestando gli zaini e le camicie tese al sole, inciampando negli addormentati, e tirandosi addosso una tempesta di bestemmie e d'imprecazioni. Mi giungeva accanto, gettava la paglia in terra, metteva fuori un gran sospirone, si asciugava la fronte e:—Signor tenente,—mi diceva tutto peritoso—mi sono fatto aspettare, non è vero? Che vuole, ho dovuto andare così lontano!—Distendeva la paglia sull'erba per tutta la lunghezza d'una persona, ne ammontava una parte, vi poneva sotto il suo zaino a mo' di guanciale, e poi volgendosi verso di me:—Tenente, va bene così?—Buon ragazzo, io pensava, ho avuto torto a stizzirmi con te;—va, gli diceva poi, va a riposare chè n'avrai bisogno.—Ma va bene così? egli insisteva; se no ne vado a pigliar dell'altra.—Sì, sì, va bene; va a riposarti, va; non perder più tempo.—Se talora, in marcia, di notte, io mi sentiva pigliar dal sonno e camminava, come suol farsi, vacillando e serpeggiando da un lato all'altro della via e mi avvicinava di troppo alla proda di un fosso, una mano leggiera si posava sul mio braccio e mi spingeva lentamente verso il mezzo della strada, mentre una voce sommessa e premurosa mi mormorava:—Badi, signor tenente, c'è il fosso.—E sempre lui!... Ma che cosa ho fatto io a quest'uomo perch'e' mi debba circondar di cure e di tenerezze come una madre? Che cos'ho, che cosa sono io perch'ei m'abbia ad amare con tanta virtù, con tanta religione? Che merito ho io verso costui, che non vive che per me, e che per me, ne son certo, darebbe la vita? Per qual ragione, in qual maniera questo povero giovane dai lineamenti rozzi, dalle mani incallite sulla vanga, dalle membra indurite nei [Pg 17] disagi e nelle fatiche, senza coltura, senza educazione, nato e cresciuto in un romito abituro di campagna, ignaro d'ogni uso di vita cittadina, s'è fatto peritoso e gentile come una fanciulla, e trattiene il respiro per non destarmi dal sonno, e mi sfiora i panni colla mano per rimuovermi da un fosso, e mi porge una lettera tenendola colla punta delle dita quasi temesse di profanarla, e si sente felice d'un mio sorriso benevolo, d'una mia parola garbata, d'un mio cenno, d'un mio sguardo che voglia dire: Va bene?... Com'è questo? Ah! bisogna pur dire che il cuore umano impari sotto questi panni dei palpiti nuovi e sconosciuti a chi non è soldato o non fu. La gente non suppone in noi altri affetti fuori di quelli che ci tempestano nell'anima nei giorni di guerra; in verità che la gente ci conosce ben poco; essa non sa che a fare il soldato il cuore non solo non invecchia mai, ma ringiovanisce e si riapre alle tenerezze più soavi della prima età, e in quelle vive e si esalta, assai più che nelle procellose e tremende gioie della guerra.... Oh! chi non è soldato non comprenderà mai che cosa sia l'affetto che mi lega a questo giovane! È impossibile. Bisogna aver passato molte notti al bivacco, aver fatto molte marcie nel mese di luglio, essere stato molte volte d'avamposto sotto una pioggia dirotta, aver patito la fame e la sete tanto da svenirsi, e aver avuto sempre al fianco un amico che vi ha steso addosso il suo cappotto per ripararvi dal freddo, che vi ha asciugato i panni, che vi ha porto un sorso d'acqua, che vi ha offerto un tozzo di pane, privando sè di quel che porgeva a voi. Servitore! domestico! E v'è chi lo chiama così! Oh (esclamava facendo un atto come di sdegno e di ribrezzo) è una bestemmia! Sì...., perchè quando quest'uomo mi si affaccia là sulla soglia, e mi saluta, e mi fissa in volto quel suo sguardo pieno di sommessione timida e [Pg 18] amorosa, sento che tanto è rispettoso il cenno che gli faccio io perchè abbassi la mano quanto è rispettoso l'atto che egli fa per alzarla.... E quest'uomo mi abbandona,—mi lascia solo,—parte,—non tornerà più! Ma no! no! io lo andrò a trovare, io! Lo andrò a cercare quando sarà in congedo; il nome del suo paesello lo so, domanderò quello della sua parrocchia, quello del suo poderetto, correrò là, lo sorprenderò a lavorare nei campi, lo chiamerò per nome.—Non riconosci più il tuo uffiziale?—Chi vedo! Tenente! Lei qui! egli mi dirà tutto commosso. Sì, sì! avevo bisogno di vederti! Vieni qua, mio caro soldato, abbracciami.—

In questo punto sentì su per le scale un passo leggero, lento ed ineguale, come di chi salga titubando e cerchi di indugiare la salita. Tende l'orecchio senza volger la testa; il passo si avvicina; si sente una stretta al cuore; si volge, eccolo,—è desso,—è il soldato.

Aveva la faccia turbata e gli occhi rossi; salutò, fece un passo innanzi e stette guardando il suo uffiziale. Questi tenea la testa rivolta dalla parte opposta.

—Signor tenente, io parto.

—A rivederci—gli rispose questi stringendo le labbra ad ogni parola e continuando a guardar altrove.—A rivederci.... Fa buon viaggio.... torna a casa.... lavora.... continua a vivere da buon figliuolo.... come hai vissuto finora e.... a rivederci.

—Signor tenente!—sclamò il soldato con voce tremante e facendo un passo verso di lui.

—Va, va, che non ti passi l'ora; va; è già tardi; sbrigati; presto.

E gli porse la mano; il soldato gliela strinse fortemente.

—Fa buon viaggio.... e ricordati di me, sai? Ricordati qualche volta del tuo uffiziale.

[Pg 19]

Il buon giovanotto voleva rispondere, tentò di mandar fuori una parola e mandò un gemito; serrò un'altra volta quella mano, si volse, guardò la porta, guardò di nuovo l'uffiziale che continuava a tener la testa vôlta dall'altra parte, fece un altro passo innanzi....—Ah! signor tenente!—esclamò singhiozzando, e fuggì.

L'altro, rimasto solo, si guardò attorno, stette un po' di tempo coll'occhio immobile sul limitare della porta, poi appuntellò i gomiti sul tavolino, appoggiò la testa sulle mani, due grosse lacrime gli si formarono nel cavo degli occhi, vi luccicarono dentro un istante e gli scesero giù per le gote rapidamente come se temessero d'essere vedute. Egli si passò la mano sugli occhi, guardò il sigaro, era spento; ah! questa volta erano lacrime davvero; abbandonò la testa sull'un dei gomiti, e le lasciò scorrere tutte, chè ne aveva proprio bisogno.


[Pg 20]

L'UFFICIALE DI PICCHETTO.


Dopo aver fatto battere i colpi del silenzio , l'ufficiale di picchetto diede un'occhiata in giro al cortile del quartiere, non c'era più nessuno; s'affacciò alle scale che mettono ai cameroni, nessuno; alzò gli occhi ai terrazzini, nessuno; uno sguardo al portone, chiuso; una sbirciata nel corpo di guardia, c'erano tutti; i lumi sui pianerottoli e nei corridoi c'erano, le sentinelle c'erano, i piantoni c'erano; tutto era in ordine, tutto era quieto, il reggimento dormiva. Che restava da fare all'ufficiale di picchetto? Niente, dormire. E così pensò di fare. Volse ancora una volta gli occhi intorno, di sopra, di sotto; si avvicinò alla porta della cantina, la tentò colla mano, era chiusa; tese l'orecchio, nessun rumore.—Ora me ne posso andare a dormire,—disse fra sè, e si mosse verso la sua camera. Mormorò prima qualche paroletta nell'orecchio al sergente di guardia:—Siamo intesi, eh?—e avutone in risposta un rispettoso:—Non dubiti!—accompagnato da un posar della mano sul petto in atto di coscienziosa promessa, entrò, chiuse, si levò berretto, sciabola, sciarpa, si accostò al letto, accomodò la rimboccatura delle lenzuola, portò la destra al primo bottone della tunica.... Ma—e la ronda?—pensò facendo un lieve cenno col capo come se movesse la domanda ad un altro; e, preso il lume in atto dispettoso, si andò a piantare diritto [Pg 21] come un palo dinanzi alla tabella dell'orario, affissa ad una delle pareti sotto il ritratto del Re. Puntò l'indice in fondo al foglio e cominciò a farlo serpeggiare sotto le righe leggendo rapidamente e masticando le parole in suono inarticolato e stizzoso, finchè si fermò ad un tratto e pronunciò con voce distinta: Ronda nell'interno delle camerate, alle undici.—Ih!—soggiunse tosto ritornando verso il letto e battendo con forza il candeliere sopra il tavolino, n'ero ben certo io!—e stava lì dritto, immobile, cogli occhi fissi sul guanciale, e le mani in atto di sbottonare la tunica.

Ronda! Ronda!—prese a dir poi, facendo lentamente uscir dall'occhiello bottone per bottone;—dopo essere stati in piedi tutto il giorno, dopo aver corso di qua e di là e di su e di giù senza un minuto di requie, ed essersi sfiatati a gridare dalla mattina alla sera, viene finalmente l'ora di posar le ossa in un po' di letto e godere un momento di pace; ma nossignori, c'è la ronda! la ronda alle undici. Voi dovete pigliare in mano la vostra brava lanterna e da capo a girare, a frugare, a strillare, e perchè tutti siano a letto, e perchè la cantina sia chiusa, e perchè non aprano il portone, e perchè nessuno se la batta dalle finestre, e dàgli e dàgli, che la durerà fin che la può durare. Finalmente....

Intanto aveva gettata la tunica sopra una seggiola accanto al letto.

—Finalmente sono di carne anch'io come tutti gli altri, e la pelle pel servizio non ce la voglio lasciare; oh no di sicuro. Già a questo modo non si va più avanti; è impossibile. Senza burle, non c'è nemmeno tempo per mangiare, non c'è; e la tabella è lì che lo può dire. Niente di più facile...

E i calzoni erano andati a far compagnia alla tunica.

—Niente di più facile che metter fuori un orario, [Pg 22] seduti a tavolino, con un buon pranzo in corpo e un sigaro da sette in bocca; niente di più facile. Il guaio è per i poveri diavoli che ci hanno da stare, all'orario. Gli è sempre in basso che si sgobba. Che un povero uffiziale di picchetto non abbia tempo a fare un po' di chilo, o che importa a certi signori? Sgobbi, sgobbi; e se sgarra, dentro. In fin dei conti....

E le mutande erano andate a riposar coi calzoni.

—In fin dei conti poi, chi ha da capitare qui a quest'ora, alle dieci? Chi si piglierà la scesa di testa di venire a vedere se io faccio o non faccio la ronda? Fuori, un freddo da cani, un vento che fa gelar la faccia; una strada poi, che c'è da rompersi il collo ad ogni passo. Il colonnello sta dall'altra parte della città, e poi non è solito a far delle sorprese. Il maggior di servizio.... oh quello lì è ammogliato e non c'è pericolo che si risolva a venire. Il capitano d'ispezione a quest'ora è là che fa la sua partita a tarocchi e non gli salta certo il ghiribizzo di trascinarsi fin qua. E poi, e quand'anco venisse? Convien pure....

Intanto s'era ficcato nel letto, tutto tremante di freddo, e rannicchiandosi e rivoltandosi mollemente sotto le coltri moveva le labbra ad un risolino di voluttuosa poltroneria.

—Convien pure che picchi per farsi aprire. E prima che il caporale di guardia l'abbia sentito, e si sia mosso, ed abbia trovato il buco della serratura, ed abbia aperto, son cinque minuti che corrono ed io ho tempo di vestirmi o bene o male, volare alla porta, aprirla, afferrar la lanterna nel corpo di guardia e via nei cameroni a recitare la mia parte....

E qui die' un gran soffio nel lume, si tirò le coperte sul capo, si voltò sopra un fianco, cercò una comoda positura e chiuse gli occhi, pensando:—e via nei [Pg 23] cameroni a recitar la mia parte. Oh gli è pure un gran gusto il cacciarsi in un letto dopo aver faticato tutto il giorno! Che mestiere! E dire che con tutto il mio buon volere non ne indovino mai una, con quel barbone di capitano. La carne è cruda? Di chi è la colpa? Mia. Le scale son sudice? Chi ne ha il torto? Io, diavolo. I cameroni sono in disordine? Chi se la piglia la parrucca? Io, io, sempre io, non altri che io.—Oh che buon letto.—E a sentir certuni noi siam gente che non ha altro da fare che empir di fumo i caffè e dar dietro alle ragazze. Venite a provare, venite, ora che tutto il mondo è in aspettativa.... e con quel fior di stipendio.... e le imposte....

A mano a mano, divagando in questa difesa di sè stesso, i pensieri e le immagini gli si intorbidarono; il capitano, il maggiore, la moglie, le aspettative, le imposte si confusero in una mescolanza bizzarra che si dileguò a poco a poco, a poco a poco.... Sonno profondo.

Ma non s'era addormentato senza un po' di inquietudine, senza un po' di rimorso. Ogni volta che gli veniva in capo l'idea della ronda ei si sentiva dentro un po' di stringimento. Lo stesso accade al discoletto che mancò alla scuola per andar coi compagni a far alle palle di neve: l'immagine del maestro e della mamma lo assale a quando a quando e l'inquieta, e più ei la scaccia da sè, più quella ritorna importuna e piccosa come una mosca.

Sognò. Cominciarono a passargli per la mente l'un dopo l'altro, que' dieci o dodici soldatacci indisciplinati che in tutti i reggimenti salgono in fama per iscappate notturne e baraonde di bettola e furfantesche imprese condotte a termine fortunatamente; altri celebri per farla franca ; altri famosi invece per consegne e per prigioni e per lunghe appendici al numero diciotto ; e [Pg 24] gli pareva che ciascun d'essi, passando, gli bisbigliasse a fior di labbra:—Dormi, dormi, chè te la faccio.—E si dileguava. E gli passavano dinanzi, col sigaretto in bocca e un mazzettino di fiori in mano, tutti i più eleganti e più azzimati sott'uffiziali del reggimento, quelli che portano la divisa sulla nuca e le scarpettine col tacco fatto a punta, ed hanno l'amorosa in città, e quando se la possono svignare un momento al chiaro di luna non ne aspettano l'ispirazione due volte. E gli pareva che ciascun d'essi, passando, mormorasse sommessamente:—Dormi, dormi, chè te la faccio.—Lo stesso sergente di guardia che poc'anzi gli aveva risposto quel rispettoso:—Non dubiti,—e gli aveva fatto quel gesto così rassicurante, ora, ricordandolo bene, parevagli di aver notato che gli occhi gli scintillassero di malizia e sotto i baffi avesse atteggiato le labbra ad una smorfia sospetta, come per dire:—Va pure a dormire, chè te la faccio.

E d'una in altra cosa, gli pareva di trovarsi in mezzo alla via, dietro la caserma, e guardava intorno attentamente se le sentinelle vegliassero e stessero al posto. C'erano tutte. Anzi ne scorse una che non gli era sconosciuta; un soldato della sua compagnia, il più coscritto, il più tondo, e il più poltrone; per giunta di vista corta e un po' duro d'orecchio.—Ma vedete, egli pensava, se non pare che me l'abbian messo lì per dispetto un citrullo di quella sorte, che non è buono a niente!—E lo spiava. La sentinella allungò il collo fuori del suo casotto, guardò a destra e a sinistra se nessuno venisse, appoggiò il fucile in un canto, si ravviluppò nel mantello, sedette, chinò la testa sulle ginocchia e s'addormentò. Il povero sognatore si avventò stizzito contro quel briccone, lo ghermì per una spalla, lo scrollò, aperse la bocca ad un'imprecazione....

In quel punto gli parve di sentire un lieve rumore [Pg 25] sopra il suo capo; levò gli occhi in su alle finestre. Dall'un de' davanzali spunta e si muove incertamente una cosa nera, si allunga, discende lenta lenta, arriva a terra; è una corda. Dopo averla accompagnata cogli occhi fino a terra, li rialza alla finestra; vede sporgere una testa, due spalle, tutta una persona, girare guardinga sopra sè stessa, afferrare la fune, discendere, sparire. Dietro subito, di corsa. Già gli è vicino, già lo raggiunge, già stende le mani a ghermirlo pei panni....

In quel punto gli si para davanti una porta; la porta della cantina. La tenta leggermente colla mano; essa cede. Uh! che baccano! Un acciottolio di piatti, un tintinnio di bicchieri, un urlìo di voci rauche e dissonanti, un sonar confuso di bestemmie e di canti e un puzzo di fumo di pipa che lo respinge indietro. Si fermò un istante; spinse un'altra volta la porta, e si spalancò. Quale spettacolo! La stanza piena zeppa di soldati; chi vestito, chi in farsetto, chi col cappotto sulle spalle a mo' di mantellina spagnola e il berretto indietro alla bravaccia; chi seduto sulle tavole, chi a cavalcioni, chi lungo disteso sulle panche, chi sdraiato sconciamente sul pavimento; gli occhi lustri, vitrei, istupiditi; le faccie accese; altri brillo, altri briaco affatto; altri sonnacchioso, altri dormente sonno profondo; qualcuno tentava di rizzarsi in piedi e ricadeva pesantemente sopra la panca; qualche altro, riuscito a levarsi su, barcollava per la stanza urtando e facendo tentennare le tavole e tremar sonoramente i bicchieri e le bottiglie; in ogni parte un gran moto di carte e di quattrini, e un trinciar l'aria colle mani a modo di scongiuri cabalistici, e grida e risate, e tutto avvolto in un denso nuvolo di fumo da restarne soffocati in dieci minuti.—Fuori! fuori!—pareva di gridare al povero sognatore;—sergente! sergente! mi noti il nome di tutti, tutti dentro, tutti ai ferri, tutti....

[Pg 26]

In questo punto gli parve di sentirsi dietro un cigolìo come di grossa porta che si muova lentamente sui cardini; si volse, guardò attorno, e si accorse che era nel corridoio d'entrata, vicino alla porta del quartiere. Un'ombra nera si avanzava sospettosa rasente il muro, come una figura di bassorilievo ambulante; moveva due passi, si fermava, si guardava attorno, ricominciava ad andare, si fermava un'altra volta, come avesse paura; giunse alla porta, tossì, strisciò i piedi, ed ecco sul limitare della porta del corpo di guardia un'altra figura, come la prima, circospetta e guardinga. Si scambiarono poche parole sommessamente; la porta s'aperse adagio adagio, uno di que' due spari.—Ah! lo riconobbi,—pensò il sognatore, il sergente dell'ottava.—E si volse e ne vide un altro. Dietro a questo un terzo. E poi un quarto. Il sergente della quinta. Il furiere della sesta. Il furiere della terza.—Ah! traditori!—sognò di gridare—alla sala tutti! tutti alla sala! sergente di guardia! sergente....

In questo momento gli parve di dar della mano contro qualche cosa di cedevole e di lanoso. Si volge; è un letto. Dietro a questo un altro, e poi un altro, e un altro ancora, una lunga fila di letti. Guarda intorno e s'accorge d'essere in un dormentorio; un lumicino in fondo al camerone rischiarava velatamente gli oggetti; tutto taceva; si sarebbe sentito volare una mosca. All'improvviso uno dei dormenti comincia a russare, dapprima leggermente, poi più forte, poi in un modo da farsi sentir nella strada. Qualcuno si sveglia. Un vicino tende le braccia, sbadiglia, si frega gli occhi e scappa fuori a dire:—Ohè! non potresti dormire un po' più da cristiano?—Niente, non se ne dà per inteso.—Hai capito di dormire un po' più da cristiano?—gli urla più forte il vicino. Niente; gli è come parlare al muro.—Corpo di una bomba!—esclama questi saltando giù dal letto, ora t'aggiusto [Pg 27] io.—Se gli avvicina, lo afferra per ambe le braccia e gli dà una scossa così gagliarda che ne trema il suo letto e quello dei vicini. Il russatore si scuote, si desta, intravvede, comprende, un calcio alle coperte, un grido, un salto, è in piedi col guanciale nelle mani, e giù sulla nuca all'importuno una botta da orbo. Questi gli rende la pariglia; il primo incalza; un terzo accorre in sostegno del più debole; un quarto vola in difesa del primo; s'impegna la zuffa; tutti balzan dal letto; cresce il baccano; il lume si spegne; le schiere si confondono; un vetro è andato in pezzi; un altro; gli zaini vengon giù dalle assicelle, le lenzuola giù dai letti, i fucili giù dalle rastrelliere.... Il povero sognatore stordito, convulso, cieco d'ira, sta per mandar fuori un grido poderoso che copra quel frastuono d'inferno e inarca la persona per slanciarsi in mezzo alla mischia....

In quel punto sentì bussare gagliardamente alla porta, e gli parve che una voce lo chiamasse per nome. Palpitante, esterrefatto, tutto grondante di sudore, si levò faticosamente a sedere, tese l'orecchio, trattenne il respiro.—Tenente! tenente! il capitano d'ispezione,—disse un'altra volta quella voce.

—Dio mio! presto, le calze, le calze; dove sono le calze? No, non importa; i calzoni.... dove sono? Ah! eccoli.... presto. Le scarpe, ih! non possono entrare; su, su, su, ci sono. La tunica; un braccio, un altro.... la tunica c'è. La sciabola.... Ma dov'è in nome di Dio questa sciabola? La sciarpa, adesso, la sciarpa, va a trovare la sciarpa.... Eccola qui; ah! finalmente....

E così vestito alla carlona, colla tunica sbottonata, senza calze, senza cravatta, senza mutande, s'avventò trafelando alla porta, l'aperse, guardò intorno e lo vide.... Vide il capitano d'ispezione, dritto, immobile, rigido, colle braccia incrociate sul petto e la tesa del berretto [Pg 28] calata sugli occhi e gli occhi scintillanti sotto le sopracciglia aggrottate come due carboni roventi.

—Ha fatto la ronda?

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ora io domando: è peggio fare un sogno di questa sorte, o buscarsi una scalmana facendo la ronda, od anco dare una stincata in qualche letto allo scuro? Io sono per la stincata e per l'infreddatura. E credo che la più parte dei lettori siano con me.


[Pg 29]

L'OSPITALITÀ.


Una sera, sul cadere di ottobre del mille ottocento sessantasei, un reggimento di fanteria venne colto a mezza marcia fra San Donnino e Piacenza da un così furioso acquazzone, che in pochi minuti i soldati furon fradici fino all'ossa, e la via diventò tutta un pantano. Potevano essere le nove della sera. I soldati, ravvolti il capo e le spalle nelle coperte da campo e nelle tele da tenda, tiravano innanzi lentamente e stentatamente, e nessuno parlava. Dopo un breve tratto di via il reggimento si fermò; la maggior parte dei soldati si coricarono per le prode dei fossi e presero sonno; gli altri si ripararono sotto gli alberi che fiancheggiavano la strada.

Tonava e lampeggiava maledettamente. Cessata la prima furia del temporale, s'era levato un vento a folate che spingeva di traverso una pioggia minuta e fredda da cui non v'era modo di schermirsi la faccia per quanto la s'imbacuccasse colla coperta da campo e col bavero del cappotto. A poca distanza dalla strada appariva tratto tratto, rischiarata dai lampi, una bella e signorile villetta, e fra questa e la via un piccolo giardino a scompartimenti e ad aiuole, sparso di mortelle e di vasi di fiori. Fra lampo e lampo, si vedeva muovere l'ombra di due persone sulle tendine di una finestra illuminata.

[Pg 30]

In quella stanza, stava raccolta in quell'ora la famiglia d'un ricco possidente piacentino, il quale soleva ogni anno protrarre la villeggiatura fino alla fine d'ottobre, in compagnia dei suoi figli e di una sua sorella vedova, attempata, bizzarra, e con certi fumi di boria patrizia pel capo; ma, in fondo, di buona indole e di buon cuore. Il salotto era mobiliato riccamente e illuminato da un'elegante lampadario appeso alla vôlta. Due bei bimbi si baloccavano attorno alla tavola da pranzo; un giovanetto leggeva un giornale in un canto; dall'altro lato due ragazze di diciotto in vent'anni sedevano davanti a un tavolino da lavoro discorrendo col fratello maggiore; il babbo e la sorella in piedi accanto alla finestra erano assorti in una conversazione animata.

—Con vostra buona pace—brontolava la sorella—io non partecipo nè punto nè poco ai vostri sacri entusiasmi.

—Tanto peggio per voi; avrete molte consolazioni di meno.

—Belle consolazioni! Guardate la vostra campagna in che stato vi si è ridotta con questo continuo passar di soldati. Ci siete stato nelle vigne?

—Ci son stato; e per questo? Potevano fare assai peggio. Già, più d'un grappolo per uno credo che non n'avranno preso, perchè da una mano debbon tenere il fucile, e nello zaino l'uva non ce la possono mettere senza sciuparla.

—Allora tanto valeva invitarli a rubare.

—A servirsi, volete dire; era inutile.

—Sarebbe stato più generoso.

—....È vero, e mi pento di non averlo fatto.

—Mi fate dispetto.—

Il fratello si mise a ridere.

[Pg 31]

—Sicuro che mi fate dispetto, perchè, scusatemi, avete una filosofia senza sugo. Bene, sì, ammetto, sono soldati, difensori della patria, martiri, eroi, tutto quel che vi piace, tutto quel che volete; amiamoli, incensiamoli, idolatriamoli, passi anche questo; ma da lontano, Dio mio! da lontano e in complesso. Tutto l'esercito insieme lo rispetto anche io; ma i soldati uno per uno, poi.... In fin dei conti non son altro che contadini vestiti tutti d'un colore. O che c'è bisogno di andar loro incontro per la campagna, come fate voi, per ringraziarli d'avervi rubato, e condurveli in casa a bere, e trattarli a pasticcini, e accompagnarli al cancello come se fossero principi?

Il fratello continuava a ridere.

—Ridete, ridete. E ogni volta che passa un reggimento continuate a scender giù voi e tutta la vostra famiglia a vederlo passare, e a star là sulla porta con due ragazze di quell'età, e ne sentirete delle belle da quei vostri guerrieri assuefatti a bazzicar le bettole, a ubriacarsi di acquavite e a masticar tabacco. L'altro giorno intanto....

—Avete fatto un gran che d'un nonnulla. Se quella parola l'avesse detta chiunque altro, che non fosse un soldato, non l'avreste nemmeno avvertita. Bisogna condonar qualcosa alla gioventù. E poi son guerrieri in fin dei conti, e non frati.

—Sì, sì, continuate pure a idolatrare il cappotto bigio, e un giorno o l'altro vi toccherà qualche lezione.

—L'aspetto. Ma non volete capirla che non è il cappotto bigio che io idolatro; ma proprio quei contadinacci che lo vestono, rozzi, come dite voi, e beoni e scostumati, e quelle loro manaccie incallite, e quelle loro faccie ossute e arse dal sole, e quelle loro fronti che per tanti anni stettero curvate sui solchi ed ora....

—Ed ora mi fate più dispetto di prima.—

[Pg 32]

In quel punto s'udì picchiare alla porta di casa.—Dopo un minuto, un servitore venne a dire che un soldato il quale avea smarrita la via cercava ricovero.

—Stiamo a vedere che lo fate salir qui a ricevere i vostri complimenti,—disse la sorella.

—Fatelo salir subito,—disse risolutamente il padrone.

—Oh!

—Subito; qui, in questa stanza.—

Il servitore scomparve.

Si sente un passo lento e strascicato venir su per le scale. Poi un colpo come di corpo pesante lasciato cader sul pavimento;... ha lasciato cader lo zaino. Poi il suono del fucile appoggiato alla parete. Subito dopo la porta del salotto s'apre; eccolo sul limitare. Pallido, cascante, grondante d'acqua, sordido di fango il viso e le mani, e il capo inclinato languidamente sulla spalla, gira l'occhio intorno peritoso e meravigliato.

Primo il padrone, e tutti gli altri dopo lui, gli si fanno intorno sollecitamente.

—Avanti, avanti, giovinotto; avanti liberamente.—

Egli fa un passo innanzi, abbassa gli occhi, vede il tappeto e si ritrae mormorando:

—Scusino.... io non avevo veduto.

—Ma che!—sclama il padrone, e lo piglia pel braccio e lo fa venire avanti e lo costringe a sedere accanto al cammino. Egli si fa bianco bianco nel viso, abbandona il capo all'indietro e lascia cadere le braccia penzoloni.—Oh Dio mio!—gridano tutti insieme spaventati; il padrone gli sorregge il capo, uno dei figliuoli gli asciuga la fronte, l'altro gli sbottona il cappotto e gli fa odorare una boccetta di aceto; le ragazze e le donne di servizio corrono di qua e di là, confuse, affannate, senza saper che si fare. Finalmente ei rinvenne e la sua prima [Pg 33] parola fu un grazie detto con una voce trepida e fioca che veniva schietta schietta dal cuore. In quel momento, facendogli un po' di violenza, gli tolsero il cappotto e la cravatta, gli fecero indossare una giacchetta, e gli avvolsero attorno al collo un fazzoletto.—Grazie!—ripeteva il soldato opponendo una timida resistenza;—grazie!—

—Oh che scena!—diceva intanto tra sè la sorella del padrone; ma non diceva per l'appunto quel che sentiva. E mostrava alla figlia maggiore le orme di fango rimaste sul tappeto; ma nell'atto stesso che le mostrava sentiva quasi dispetto di non provare dispetto.

—O che v'è accaduto, buon giovane, che v'è accaduto?—dimandava con viva sollecitudine il padrone di casa.—Siete malato? Siete caduto? Eravate solo? D'onde venite?—

A voce bassa e lenta, e interrompendosi tratto tratto come se gli venisse meno il respiro, il povero soldato raccontò tutto quel che gli era seguìto. Era partito da San Donnino che già si trovava male in arnese; lungo la via aveva molto sofferto di stomaco e di testa, e ad ogni breve sosta che s'era fatta aveva temuto di non potersi più rialzare. S'era però rialzato e avea tirato innanzi con grande sforzo fino all'ultima fermata, in prossimità di quella casa. Quivi s'era gettato in un fosso, s'era lasciato cogliere dal sonno, un torpore profondo gli aveva invaso tutte le membra, non avea inteso lo squillo delle trombe che davano il cenno dell'avanti, non aveva visto partire il reggimento, s'era svegliato mezz'ora dopo, s'era trovato solo, avea tentato di rimettersi in cammino ed era ricaduto per terra.... Che fare? dove andare? Vista là presso una casa, s'era diretto, barcollando, alla porta, e avea picchiato, e avea pregato che lo ricoverassero per un quarto d'ora nella stalla, o nel fienile, o dove si fosse.

[Pg 34]

Questo racconto durò un buon quarto d'ora. Frattanto egli ritornò in sè interamente e riprese una parte delle forze smarrite. Ma a misura che la sua mente si rischiarava ed egli acquistava conoscenza viva e distinta del luogo dov'era e delle persone che lo circondavano, vieppiù s'accresceva il suo imbarazzo, la sua timidità e la sua confusione, e rispondeva alle domande balbettando e arrossendo come un bambino.

Essendo ora di cena, la donna di casa, in quel frattempo, aveva apparecchiato, senza che il povero ospite, confuso e sbalordito come era, se ne fosse avveduto. Ad un tratto, il padrone fe' un cenno e tutti s'alzarono e si accostarono alla tavola. Il soldato si alzò anch'esso, diede una rapida occhiata alla mensa e alle persone, e si rimise subito a sedere abbassando gli occhi e vergognandosi d'aver guardato.

—Ci abbiamo a mettere a tavola?—gli disse amabilmente il padrone, facendoglisi accanto.

—Ah! è vero!—pensò il soldato, e si rizzò in piedi di scatto, e mormorando qualche parola di scusa si mosse per uscir dal salotto.

—Dove andate?—domandò vivamente il padrone. Tutti gli altri si guardarono in atto di sorpresa: il soldato si fermò e si volse indietro.

—Dove andate?—ripetè il padrone.

—Mi hanno detto che si mettono a tavola....—quegli rispose timidamente.

—Sì; ebbene, sedete a tavola con noi.—

La sorella del padrone allungò il labbro di sotto; il soldato rimase a bocca aperta.

—Sicuro, a tavola. Sedete qui, se non vi spiace.—E con una mano scostò una seggiola dalla tavola e coll'altra gli fece cenno che sedesse.

—Ma.... domandò il soldato ripiegando ambe le [Pg 35] mani coll'indice teso contro il proprio petto,—a tavola, io?—E sorrise.

—Ma sicuro.

—....Con loro?

—Con noi, con noi.—

Il povero giovane non poteva credere a quel che sentiva. Tutti gli altri lo guardavano con un'aria di curiosità e di compassione affettuosa; anche la sorella del padron di casa.

—No.... senta, signore, (proruppe il soldato con voce dolce e tremante e facendosi serio serio) io non merito.... io non son degno di stare.... son tutto così (e si guardò i panni).... e poi io non saprei stare come si deve, perchè.... Quindi risolutamente:—Mi faccia questo piacere, mio buon signore; mi lasci andare di là, nella stanza vicina alla porta; io sto più volentieri di là; aspetterò che loro abbiano finito; non importa nemmeno che accendano il lume; aspetterò al buio, per me è lo stesso....

—Ma no, ma no,—esclamarono ad una voce il padre e i figliuoli, dopo averlo ascoltato con un'attenzione mista di sorpresa e di tenerezza;—non permetteremo mai questo, non....

—Sì, sì, mi lascino andare, mi lascino andare; io non voglio incomodarli....—e si mosse un'altra volta per andarsene.

—Ma sentite.... ripresero gli altri trattenendolo;—voi avrete bisogno di mangiar qualcosa, è impossibile di no; restate, fateci questo piacere....

—No, grazie, grazie; io non ho bisogno di nulla, io ho ancora tutto il mio pane nello zaino, e mi basta....

—Ma sentite....

—Ma guardino.—

Volò di là, prese il pane, e tornò mostrandolo in atto di compiacenza:—Vedono?—

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Tutti tacquero e si guardarono l'un l'altro in viso.

—Qua!—gridò improvvisamente il padrone colla voce commossa, strappando di mano al soldato il suo pane e battendolo forte sulla tavola;—lo mangeremo assieme; sedete.—

Quell'atto, quella voce, quel volto erano improntati di un affetto e d'un'emozione così viva e così risoluta, che al soldato non parve più possibile di ricusare, e sedette.

Non sapeva dove metter le mani, non s'attentava a levar gli occhi in volto a nessuno, non ardiva nemmeno di guardare sulla tavola; guardava fisso il piatto che gli stava davanti, teneva le ginocchia strette e i piedi indietro indietro sotto la seggiola, e gingillava colle dita intorno ai bottoni del cappotto. Comunque ei nol guardasse, pure tutto quel cristallame svariato e luccicante lo abbarbagliava; quel bel tovagliolo fine, bianco, che odorava ancora di bucato, non aveva il coraggio di toccarlo, con quelle sue mani ruvide e nere. E gli si cominciarono a svegliare nella mente certi ricordi vaghi e confusi e da lungo tempo sopiti, di certi modi, di certe consuetudini, di certe norme di buona creanza e di cortesia, di cui molti anni addietro, quand'egli era ancora ragazzo, sua sorella maggiore, che avea soggiornato un pezzo in città, gli soleva fare in fretta un po' di scuola su per le scale della casa del fattore, quei giorni di festa solenne ch'essi erano invitati a desinare da lui. E cercava di richiamarsele a memoria quelle norme, quelle consuetudini, e si sforzava di metterle in pratica con quel miglior garbo che per lui si potesse, e guardava tratto tratto colla coda dell'occhio il padrone di casa che gli era seduto accanto per regolarsi da lui sul modo di tenere il tovagliolo, e di spezzare il pane, e di maneggiare il coltello, e via via. A ogni piatto che gli [Pg 37] s'offerisse ei si credeva in dovere di dire di no, e diceva no due o tre volte, e faceva atto di respingerlo colla mano e torceva il capo dall'altra parte, finchè accettava a stento, mormorando:—Grazie!—e facendo un certo viso compunto che voleva dire:—È troppo. È troppo!—E tagliava certi bocconcini così minuti che gli andavan giù senza farsi sentire; e ad ogni centellino d'acqua o di vino che bevesse si forbiva due o tre volte la bocca tenendo il tovagliolo, con tutt'e due le mani, e con gran sollecitudine porgeva alla donna di servizio i piatti ch'essa andava intorno a raccogliere, e si guardava bene dal gettar pure un'occhiata alle pietanze recate in tavola prima che gli fosser messe dinanzi; e quando il padrone gli offriva del vino egli non si contentava di dir di no, ma turava il bicchiere colla palma di una mano, spingendo in là la boccia coll'altra. Del pepe, del sale, dell'oliera, di tutto rendeva grazie particolari, come se l'offrirgli ciascuna di quelle cose fosse una particolare degnazione, un favore affatto distinto dagli altri.

Se egli avesse guardato qualche volta i suoi commensali, questi si sarebbero astenuti dal guardar lui, per non metterlo in più suggezione, per lasciarlo mangiare in pace, per non farlo penare. Ma come ei non guardava nessuno, così tutti guardavano lui; ne notavano tutti i moti, tutti gli atti; gli leggevano sulla fronte ciò che gli passava nell'anima, e di quella sua rozzezza ingenua e peritosa, di quel suo stupore, di quel suo sbalordimento, di quella tenera e reverente gratitudine che tratto tratto gli lampeggiava in un lieve sorriso o in uno sguardo fuggevole, provavan tutti un senso come di pietà e di compiacimento soave. Il padrone di tempo in tempo l'interrogava delle vicende della guerra, delle marcie, dei campi, del reggimento, ed egli rispondeva con dei sì, con dei no, con dei sorrisi, con qualche gesto cominciato e [Pg 38] non saputo finire, e tra una domanda e l'altra, quando supponeva che tutti gli occhi fossero volti sopra di lui, pigliava in mano e fingeva di osservare attentamente il coltello o la forchetta. In fin di tavola, sorbendo il caffè, ne lasciò cadere una goccia sulla tovaglia.—Oh! Dio!—sclamò tutto turbato—scusi, sa: non l'ho fatto apposta.—E volgendosi al padrone si mise una mano sul petto. Povero giovane! disse tra sè la sorella; e portò il bicchiere alla bocca per nascondere quel po' d'alterazione che quel senso fugace di pietà avrebbe potuto produrre sull'altera gravità del suo volto.

S'alzarono da tavola.

—Adesso.... disse il soldato, e restò in asso.

—Adesso?... domandarono gli altri e stettero in atto di aspettare ch'ei finisse.

—Mi rincresce....

—Che cosa?—interrogò amorevolmente il padrone.

—Mi rincresce; bisogna ch'io me ne vada.

—Oh!

—Per forza.

—Come! Come! E perchè? proruppero vivamente il padrone e i figliuoli:—bisogna che restiate qui con noi questa notte; non siete ancora in grado di rimettervi in strada; avete bisogno di dormire; e poi con questo tempo è impossibile....

—Ma scusino....

—Ma con questo tempo è impossibile che voi vi rimettiate in cammino. Sentite.—

E tutti tacquero. La pioggia veniva giù a catinelle; la si sentiva batter forte contro i vetri delle finestre e tirava un vento d'inferno.

—Avete sentito? Come volete partire con cotesto diluvio? E con cotesto buio che non ci si vede un palmo più in là del naso?...

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—Ma sentano; io sono stato anche troppo qui con loro; sa il cielo se non ci rimarrei ancora volentieri.... magari per sempre (e sorrise); ma se domattina di buon'ora io non mi trovo a Piacenza, mi metteranno in prigione.... e adesso, camminando di buon passo, sarei ancora in tempo a raggiungere il reggimento...; se tardo anche un poco....

—Ma voi non vi sentite bene; vi si vede in viso....

—Sì che mi sento bene; davvero; mi sento proprio bene adesso; mi lasci andare....

—Ma no, ma no; io farei molto male a lasciarvi andare, ve lo dico schiettamente; e se smarriste la via? E se vi mancassero le forze a mezza strada? E se vi venisse male? Restate; seguite il mio consiglio; ve lo do pel vostro bene; se credessi che voi poteste partire senza pericolo, sarei io il primo a consigliarvi di partire; ma stanco e malato come siete, con questo tempo, a quest'ora, credetemelo, non vi conviene d'uscire. Restate qui con noi, via; fateci questo piacere; ve ne preghiamo pel vostro bene.—

Il soldato stette un momento sopra pensiero.

—No, no,—proruppe poi tutto ad un tratto;—non posso, mio buon signore; domattina per tempo bisogna ch'io sia col mio reggimento; lo posso ancora raggiungere; mi scusi, non posso, bisogna ch'io vada.—

E corse nella stanza d'ingresso; dietro a lui la famiglia co' lumi. S'infilò il cappotto, si mise il cheppì, si allacciò il cinturino, si gettò in spalla lo zaino...; ma all'improvviso le ginocchia gli si piegarono sotto, lasciò cader lo zaino in terra e s'appoggiò alla parete.

—Vedete? vedete?—s'affrettarono a dire tutti gli altri; vedete che non vi sentite bene? che non siete ancora in grado di camminare? che avete bisogno di dormire?—

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Egli tacque.

—Restate, restate; riprese il padron di casa pigliandolo per un braccio; dormite in casa nostra; domattina vi desteremo per tempo; vi faremo noi una lettera pel colonnello per giustificare il vostro ritardo....

Il soldato sorrise.

—Restate; ve ne preghiamo per la vostra salute; è necessario che restiate. Non è vero che restate?—

Il soldato stette un po' di tempo sopra pensiero e poi, levandosi il cheppì e il cinturino, mise un sospiro e disse:—Resterò!—

—Sia lodato il cielo!—esclamò il padrone; e gli strinse la mano. Povero giovane! pensò la sorella, e, prevedendo uno sguardo del fratello, volse il capo verso la finestra come per sentire se pioveva ancora.

Pochi minuti dopo, il padrone di casa, precedendo il soldato con un lume in mano, lo condusse alla porta d'un'elegante cameretta, l'aperse e gli disse:—Entrate.—

Il soldato entrò e, girato attentamente lo sguardo intorno, si volse al suo ospite e gli fissò gli occhi negli occhi in aria d'interrogarlo.

—Dormirete qui,—gli disse con un sorriso il buon vecchio.

—Qui?

—Già.—

Il soldato fece un atto di sorpresa e quasi di rincrescimento.—Qui non è luogo per me, signor padrone; mi faccia dormire in un'altra camera; qui, vede, io non potrei nemmeno prender sonno, me lo creda; io sono assuefatto a dormir sulla terra; io le insudicerei tutto, qui.... Mi lasci dormire in un altro luogo.—

E queste preghiere erano profferite con un accento così umile e soave, che toccavano il cuore. Il padrone [Pg 41] lo guardò un momento e poi, dissimulando la commozione, gli rispose che non c'era altra stanza disponibile, che bisognava ch'egli dormisse in quella.

—Mi metta a dormire in cucina.

—Ma vi pare! mettervi a dormire in cucina io che vi cederei il mio letto se non n'avessi un altro da darvi, e che per voi dormirei anche giù per le scale? E poi in cucina dorme la donna di servizio.

—Allora.... allora mi metta a dormir lì fuori.

—Dove lì fuori?

—Sul pianerottolo.

—Oh!

—Ci starei bene, sa? Prima di tutto mi troverei al coperto, e poi ho la mia coperta da campo, e lo zaino per appoggiarvi la testa; e poi, già, io ci sono assuefatto a dormire al fresco e.... e poi domattina farei più presto a scendere giù; sì, sì, mi lasci dormire sul pianerottolo, signor padrone; mi ci lasci dormire.—

E stette aspettando la risposta in un certo atteggiamento di timidità e d'ansietà puerile, e con un sorriso pieno d'una così viva ed ingenua espressione di preghiera, che il padrone ne fu tocco nel più vivo dell'anima; lo guardò, s'intese battere il cuore forte forte, si sentì un impulso come d'una mano gagliarda che lo spingesse verso il suo ospite, allargò le braccia, le ritrasse, e, stringendo rapidamente la mano al soldato.—Buona notte!—gridò con voce soffocata, e scomparve.

—Buona notte!—ripetè il soldato, e rimase attonito in mezzo alla stanza coll'occhio fisso alla porta. Lo riscosse un lieve rumore alle spalle; si volse, era un bell'orologio a pendolo accosto alla parete. Lo guardò per un pezzo e poi rivolse gli occhi al letto; un bellissimo letto con parato di percalle e coperta a fiorami e piumino. Guardò il tavolino: c'era su un bel lume da notte [Pg 42] che spandendo intorno sulle pareti e sui mobili una languida luce, ne abbelliva d'un cotal velo di mistero la splendidezza. Egli guardava or l'una or l'altra cosa colla bocca aperta e le braccia penzoloni; gli pareva di sognare.

Tornato interamente in sè, riavutosi da quello stupore e da quella confusione che gli avean pieno sino allora il cuore e la testa, ripensò pacatamente ai suoi ospiti, si risovvenne distintamente di tutte le garbatezze che gli avevano fatte, gli parve di udirsi risonar di nuovo all'orecchio tutte le affettuose parole che gli avevano dette, si ricordò del reggimento, della marcia, della pioggia, del suo svenimento; si guardò un'altra volta intorno, giunse le mani con impeto, mandò fuori una voce convulsa come tra il gemito e il riso.... Il suo cuore era già colmo di tenerezza; per farlo traboccare non ci voleva più che un'idea; l'idea venne; pensò a un'altra casa, alla sua, e il confronto gli suscitò nel cuore una così profonda e strana emozione ch'egli si abbandonò sulla sponda del letto colla faccia nelle mani.

Poco dopo era coricato e dormiva. Quel volto rozzo e abbronzato, e così com'era rischiarato da quel fioco lume, faceva un singolare contrasto colla bianchezza purissima dei lini su cui riposava; e quel cappottone infangato e quegli altri poveri cenci spiccavano stranamente su quella seggiola dorata e accanto a quel parato ampio e signorile. Egli dormiva d'un sonno queto e pieno. Avea la fronte leggermente corrugata; forse sognava il cipiglio irato con che il suo capitano l'avrebbe accolto il domani; ma sulle labbra gli errava un lieve sorriso, e forse, intorno al capitano, gli pareva di vedere i suoi ospiti in atto di chieder grazia per lui.

Dormi in pace, povero soldato; non ti saran messi i ferri domani, no; non fu tua colpa se mancasti,.... è [Pg 43] stata una disgrazia; sì povero soldato; sì, dormi in pace.

—Ebbene, che ve ne pare?—domandò il padrone di casa alla sorella dopo averle fatta una descrizione enfatica della scena accaduta poc'anzi. Essa si sforzò di sorridere e rispose:—Non c'è male.—Solamente?—Solamente. Che cosa volete ch'io vi dica di più?—

Il padrone s'avviò alla sua camera da letto scrollando la testa in segno di compatimento. Essa restò un po' pensierosa e poi scrollò la testa anch'essa mormorando:—povero giovane!—E andò a dormire.

L'indomani mattina, mentre il grand'orologio del salotto da pranzo scoccava le sette, il nostro soldato, vestito e armato di tutto punto, pigliava comiato da' suoi ospiti che gli stavan tutti attorno nella stanza d'ingresso.

—Dunque....

—Dunque, buon viaggio!—dissero ad una voce il padre e i figliuoli.

—Buon viaggio! ripetè macchinalmente il soldato, sospirando.

—E state sano; abbiate cura della vostra salute; e se ripasserete un giorno per di qua, veniteci a fare una visita, chè per noi sarà sempre un piacere. E se non ci ripasserete più.... allora, ricordatevi qualche volta di noi.

—Se mi ricorderò!... Sempre mi ricorderò di loro!... Sempre....

—E se per caso aveste bisogno di qualcosa, se noi potessimo riuscirvi utili in nulla, fate conto di noi come se fossimo la vostra famiglia, in qualunque caso e per qualunque motivo, senza riguardi, senza complimenti.—

Il soldato stava a sentire colla faccia attonita e convulsa.

—Avete inteso? Scrivete, quando vi occorra, o fateci scrivere un rigo....

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—Io un poco so scrivere—disse tutto contento il soldato.

—Benissimo; mi fa piacere; c'intenderemo più facilmente. Anzi.... vedete che smemorato! Io mi dimenticava di domandarvi il nome.—E trasse di tasca un portafoglio.

—Lo scrivo io! Lo scrivo io!—proruppe il soldato, lieto e orgoglioso di far vedere che sapeva scrivere. Posò il fucile in un canto, si frugò in tasca, ne trasse un piccolo portafoglio unto e sdrucito, e un pezzettino di lapis che appena si potea tenere fra le dita, appoggiò i gomiti sull'angolo d'un tavolino e si mise a scrivere in grossi caratteri il suo nome. Finito, staccò il foglio, e datogli un ultimo sguardo allungando il braccio, lo porse al padrone.

—Benissimo, grazie,—questi rispose, e scrisse il nome suo e lo diede al soldato. Egli si ripose il biglietto in tasca coll'atto e il volto d'un divoto a cui si porga una reliquia di santo. E poi balbettò:

—Adesso....

Aveva qualcosa da dire; ma non se ne sentiva il coraggio.

—Dite, dite; dite pure liberamente.

—Io—sentano—loro che son tanto buoni mi scuseranno.... capisco anch'io che sono uno sfacciato a domandare.... dopo tutto quello che m'han fatto.... ma.... mi par quasi d'averne bisogno, che so io?... perchè....—E sorrideva e abbassava la testa e si stropicciava le dita e apriva la bocca per parlare e tosto la richiudeva, non soddisfatto della espressione che ne sarebbe uscita, e ne cercava un'altra, e non la trovava....

—Non vi pigliate suggezione di noi, caro amico; non v'ho detto che ci dovete riguardare come vostra famiglia?

[Pg 45]

—Ecco.... io vorrei domandarle un piacere (e guardò il padrone....) se me lo potesse fare.... un piacere che.... lei si metterà a ridere, e a ragione; ma pure, che cosa vuole?... non posso fare a meno di domandarglielo. Io non lo guasterei mica, sa! Lo metterei nello zaino in mezzo alla biancheria, lo terrei con tutte le cure, non lo mostrerei a nessuno, mi contenterei di guardarlo da me....

—Ma che cosa?—

Il soldato stese la mano verso il padrone, e ritraendola tosto dietro la schiena e abbassando la faccia come fanno i bambini quando domandano qualche balocco prezioso colla certezza che si dirà loro di no, mormorò rapidamente:

—Il suo ritratto.

—Oh subito! subito!—esclamò il padrone; volò di là; tornò col ritratto, e glie lo porse. Il povero soldato pareva fuor di sè; tutti gli altri lo guardavano inteneriti.

S'accomiatò esclamando qualche parola rotta e senza senso, scese velocemente le scale, traversò il giardino, giunse al cancello, si fermò, si volse per dare un ultimo sguardo a quella casa benedetta, e vide.... Tutti i suoi ospiti affacciati alle finestre e appoggiati alla ringhiera del terrazzino lo guardavano e lo salutavano colla mano gridando:—Buon viaggio! A rivederci presto! Addio! Addio!—

Egli restò un istante immobile, come stordito e sopraffatto dalla tenerezza; poi si riscosse, cercò un modo di rispondere a quell'ultimo e inatteso saluto, pensò, pensò....

—Ah!—gridò poi con un trasporto di gioia; cacciò le mani in tasca, ne trasse il ritratto, lo mostrò, stendendo il braccio, al padrone, lo baciò tre volte e disparve.

[Pg 46]

—Ebbene, sorella?—dimandò il padrone col sorriso sulle labbra, ma colla voce mal ferma.

La sorella trasse di tasca il fazzoletto.

—L'avrei giurato!—esclamò il vecchio percuotendosi col pugno la palma della mano.


[Pg 47]

UNA SASSATA


Cominciava a farsi buio. Le vie della città formicolavano di gente. Quelle botteghe che di sera sogliono restar aperte erano in gran parte già chiuse, e l'altre si andavano a mano a mano chiudendo. Qua e là, sui crocicchi, nelle piazze, davanti ai caffè, sulle gradinate delle chiese, v'eran molti capannelli d'uomini e di ragazzi che parlavano fra loro a voce bassa e concitata, volgendosi di tratto in tratto a guardare intorno se nessuna faccia sospetta li stesse ad ascoltare. Era un continuo scendere di gente dalle case nella strada; sostavano un momento sulla soglia, guardavano a destra e a sinistra come incerti del dove dirigersi, e poi s'internavano nella folla. Era un insolito moto, un insolito brulichìo; ma pure nel bisbiglio della moltitudine, comunque più continuo e più forte del consueto, si sentiva un non so che di sommesso e quasi di peritoso. Di quando in quando, una frotta di persone attraversava la via a passo frettoloso, e dietro a loro un lungo codazzo di monelli che si facevano strada fra le gambe della gente a pugni e a spallate, mettendo gridi e sibili acuti. Ad ogni voce che s'udisse un po' distintamente tra il bisbiglio generale, molte persone si soffermavano e si voltavano indietro domandando che fosse. Era uno che avea detto una parola un po' più forte dell'altre, ecco tutto; [Pg 48] dopo che la gente lo aveva un po' guardato ed egli aveva un po' guardato la gente, ognuno ripigliava la sua strada. Di lì a un momento s'udiva un gran colpo da una parte della via: tutti si voltavano da quella parte:—Chi è? cosa c'è? cos'è stato?—Era un bottegaio che aveva chiuso e sprangato la porta della bottega. Le carrozze procedevano lente lente, e i cocchieri pregavano che si facesse largo con un sorriso insolitamente gentile e un cenno della frusta insolitamente garbato. Sugli angoli delle vie, al chiarore dei lampioni, si vedevano que' poveri rivenditori di giornali assaliti ad un tempo da cinque, sette, dieci persone, che porgendo il soldo con una mano strappavan coll'altra il foglio sgualcito, e si ritraevan poi in disparte, lo spiegavano in fretta, e cercavan qua e là coll'avido sguardo se vi fosse la notizia di qualche gran cosa. Qualche passante si fermava e faceva crocchio intorno al possessore del giornale; questi leggeva a bassa voce, gli altri ascoltavano attenti.

All'improvviso, si vede correre tutta la gente verso l'imboccatura d'una strada; vi si fa subito un gran serra serra, un gran gridìo, un gran rimescolamento; al di sopra delle teste si vedono quattro o cinque canne di fucile sbattute di qua e di là, s'ode uno scoppio di battimani, la folla ondeggia, dà indietro, si apre da una parte; n'escono a passi concitati quattro o cinque figuri sinistri con un fucile fra le mani, danno un'occhiata intorno in aria di trionfo, imboccano la prima viuzza e via di corsa. Uno sciame di ragazzi, urlando e fischiando, li segue—Che fu? Che è accaduto?—Niente, niente; è stata disarmata una pattuglia di guardia nazionale. Di lì a un momento, la folla si apre da un'altra parte, e n'escono quattro o cinque disgraziati, col volto pallido, col capo scoperto, coi capelli rabbuffati, colla cravatta e coi panni laceri e scomposti; intorno intorno si leva un [Pg 49] mormorio di compassione; qualche pietoso se li piglia a braccetto, li conduce fuori della calca, e gli accompagna a casa esortandoli con atti e con parole a farsi coraggio.

Intanto fra la moltitudine s'è destato un vivo fermento, un'agitazione convulsa, uno strepito assordante.—Largo! Largo!—si grida improvvisamente da una parte della via. Tutti si voltano da quella parte:—Chi è? Che c'è? Chi viene?—Largo! Largo!—La folla si divide, indietreggia rapidamente, fa siepe ai lati della strada, e una compagnia di bersaglieri l'attraversa a passo di corsa. Una ragazzaglia cenciosa e schiamazzante le tien dietro. La folla si richiude.

Di repente, si leva in un altro punto un rumore confuso di molte voci sdegnate e minacciose; la gente accorre e si accalca in quel punto; al di sopra delle teste si vedono due o tre volte apparire e sparire due cappelli da carabiniere, poi scoppia una salva d'applausi, la folla si divide, n'esce correndo un uomo tutto lacero, pallido, ansante, la gente gli fa largo, è sparito.—E' volevano mettergli le manette—si mormora da qualcuno in accento di viva soddisfazione—ma non ci son mica riusciti, veh! E' c'eran dei musi duri che si son messi frammezzo. Oh le vorremo veder belle! Glieli leveremo via noi i ghiribizzi dal capo!—

La folla procede lentamente tutta in una direzione; ancora pochi passi e la via svolta: ad un tratto, la gente che è innanzi si ferma, la gente che le vien dietro le si serra addosso, quella retrocede di alcuni passi, questa è respinta addietro violentemente; poi ritorna a spingere innanzi e poi daccapo retrocede, e ne nasce un parapiglia infinito.—Che c'è? Chi impedisce d'andare avanti? Avanti, avanti—Oh sì, avanti! C'è nientemeno che una compagnia di soldati colla baionetta in canna che sbarra il passaggio.—Urli, fischi, bestemmie, imprecazioni;—abbasso [Pg 50] i prepotenti—non vogliamo prepotenze—giù quei fucili—libero il passo—via di lì.—Ad un tratto la folla volge le spalle a' soldati, si dà a una fuga precipitosa lasciando il suolo ingombro di caduti, e invade in men d'un istante le vie laterali, i caffè, i vestiboli e i cortili delle case vicine. I soldati banno abbassato le baionette.

—Largo! Largo!—si urla da un'altra parte. Da una delle viuzze laterali s'ode uno scalpitare di cavalli e un suonar di sciabole rumoroso; è uno squadrone di cavalleria che s'avanza; ecco, si veggono luccicare i primi elmi; ecco i primi cavalli; tutto lo squadrone è nella strada; la folla si getta a destra e a sinistra contro i muri delle case; lo squadrone passa, silenzio generale; è già quasi passato, qua e là si leva qualche fischio e qualche voce; è passato, urli, sibili, improperi, e una pioggia di torsi di cavolo e di buccie di limone sopra gli ultimi cavalli. Lo squadrone si ferma, gli ultimi cavalli indietreggiano di pochi passi, la folla volge le spalle e sgombra per un cento passi di strada.

Dal crocicchio più vicino si sente tutto ad un tratto uno scoppio rabbioso di bestemmie, un picchiare di bastoni, un grido acuto, un lamento fioco, e poi un lungo bisbiglio, e poi un pauroso silenzio.—Che è stato? che fu?—Niente, niente; non si tratta che di quattro dita di lama cacciate nella schiena a una guardia di pubblica sicurezza.—La folla si ritira a destra e a sinistra, e un carabiniere col capo scoperto e con ambe le mani nei capelli attraversa la via tentennando e barcollando a mo' d'un ubriaco.—Che cos'ha? Che gli hanno fatto?—Niente, niente, non gli han dato che una bastonata sul capo.—In piazza! In piazza!—grida all'improvviso una voce poderosa.—In piazza!—si risponde concordemente da tutte le parti. E la moltitudine irrompe [Pg 51] tumultuando nella via più vicina, e si dirige alla piazza.

Tutto questo accadeva non sono molti anni in una delle principali città d'Italia, mentre in una strada vicina al centro del tumulto passava un drappello di otto soldati, un caporale e un sergente di fanteria di linea, per recarsi a dare il cambio a un altro drappello, che stava alla guardia di un edifizio pubblico in una piazzetta vicina. Il drappello andava innanzi a passo lento, e i soldati guardavano curiosamente di qua e di là. Appunto in quella strada appariva più viva che altrove l'effervescenza degli animi e più risoluto e più fiero il contegno della gente.

La pattuglia passò vicino ad un folto crocchio di que' tali figuri che vengono a galla solamente in codeste sere, i quali colle faccie torve ed accese discorrevano molto clamorosamente in mezzo a un circolo di monellacci adulti, intorno a cui s'era affollata una quantità d'altri monelli piccini. Uno del crocchio vede la pattuglia, si volta, e appuntando il dito verso i soldati esclama a mezza voce:—Guardateli là.—Tutto il crocchio si volta da quella parte, e l'un dopo l'altro alzando gradatamente la voce cominciano a dire:—Già; eccoli là quei che non mancan mai di venir fuori quando il popolo vuol far valere le sue ragioni.—Loro? Se la fanno col calcio del fucile la ragione.—Le baionette son fatte per forar la pancia a quelli che hanno fame.—A loro la pagnotta non manca, capite; crepino di fame gli altri; che importa a loro? E per chi grida ci son delle buone cartucce nella giberna.—

I soldati si allontanavano senza voltarsi indietro. Il gruppo si mosse e, preceduto da un'avanguardia di monelli, li seguì. In un momento li raggiunse, e tenne loro dietro a qualche passo di distanza. I soldati continuavano [Pg 52] a camminare senza volger la testa. Uno del gruppo comincia a tossire; un altro starnuta; un terzo tosse più forte; un quarto tira su dai precordi un gran sputo e, volgendosi verso il drappello, lo butta fuori con un gridaccio rantoloso che termina in uno scoppio di risa sguaiate; tutti gli altri battono le mani. I ragazzi fischiano, strillano, e, istigati e sospinti dagli adulti, si vanno adagio adagio avvicinando ai soldati. Questi continuano a camminare senza dar segno d'avvedersi di nulla. Quelli si avvicinano ancora e camminano accanto a' soldati guardandoli in faccia con un muso di me-ne-rido. Uno di loro comincia ad imitare grottescamente il passo di scuola gridando con voce nasale:—Uno, due! Uno, due!—Un altro prende a contraffare la stanca andatura dei soldati curvi e zoppicanti sotto il peso dello zaino. Un terzo, messo su da uno di quegli sciagurati di dietro, afferra la falda del cappotto del caporale, dà una tirata e via. Il caporale si volta ed alza una mano in atto di dargli un ceffone.

—Eh! Eh!—si grida tosto intorno.—Stiamo un po' a vedere, adesso.—A un ragazzo! vergogna!—È passato il tempo dei croati.—Si vogliono usare altri modi, adesso!—A un ragazzo! Si provi un'altra volta.—

Uno di que' soldati, a sentir quelle parole, si morse un dito, vi confisse i denti profondamente, e mise un gemito di rabbia e di dolore. In quel punto, si sentì percuotere il gamellino da un pugno impetuoso, il sangue gli salì violentemente alla testa, si voltò, allungò il braccio e die' una manata nella spalla al monello che l'aveva percosso, cacciandolo indietro di alcuni passi.

—Ecco! Ecco!—proruppe minacciosamente la turba.—Eccoli i prepotenti!—Peggio dei croati! Peggio dei birri!—Oh n'avremo a veder delle belle!—Te la faremo pagare, sai, razza di cane!—Prepotenti! [Pg 53] Peggio dei croati! Vergogna, percuotere un ragazzo inerme!—

E i monelli, imbaldanziti dall'ira della turba e dalla sicurezza dell'impunità, andavan proprio a cacciar la testa tra soldato e soldato, bisbigliando con voce rauca e invelenita:—Brutto soldato—Prepotente—Birro—Mangia-pane a tradimento—Aguzzino—Crepa, crepa.—

E la turba intorno:—Vergogna! Percuotere un ragazzo inerme!—

—Vigliacchi!—diceva intanto fra sè e sè il povero soldato mordendosi or l'uno or l'altro labbro in modo che il sangue ne schizzava fuori:—Vigliacchi! Un ragazzo inerme! Ma non sapete che ci son delle parole che uccidono? Birro! Croato! A me! A me! Oh!—E si addentava un'altra volta la mano scrollando la testa in atto disperato.

Dopo pochi minuti, sempre seguìto da quella gente, il drappello giungeva nella piazza ed entrava nel suo corpo di guardia: una stanzaccia bassa e squallida, illuminata debolmente da una lanterna. Fu subito mutata la sentinella alla porta del palazzo, a un venti o trenta passi dalla guardia, il drappello che v'era prima se n'andò, e i nuovi arrivati si misero ad assestare gli zaini sui tavolacci e ad appendere le sacche e le borraccie agli uncini.

Giunta a una cinquantina di passi dal corpo di guardia, la gente che tenea dietro al drappello si era fermata e di là andava provocando i soldati con atti e con parole di scherno, a cui essi facevano le viste di non badare. Vedendo che non c'era modo nè verso di suscitare uno scandalo, stavano già per allontanarsi quando uno di loro osservò che il soldato in sentinella era appunto quel tale che poco prima avea percosso il ragazzo nella spalla.

[Pg 54]

—È proprio lui?—Proprio lui.—Ma davvero?—Ma sì vi dico, è quello stesso.—Ah, razza di cane, adesso t'aggiustiamo noi pel dì delle feste. Aspetta, aspetta.—

E si mossero tutti verso la sentinella. A una trentina di passi, si fermarono, si schierarono, e la stettero guardando in cagnesco. Il soldato stava là, accanto al suo casotto immobile, rigido, colla testa alta e gli occhi fissi in quelle bieche figure che gli si erano parate dinanzi. Ad un tratto, si stacca dal gruppo un giovanastro cencioso, col cappello schiacciato sur un orecchio e un mozzicone di sigaro in bocca, si fa innanzi colle mani in tasca canterellando in aria di corbellatura, e si viene a piantare a un quindici passi di fronte alla sentinella, figgendole in faccia uno sguardo insolente, e incrociando le braccia e atteggiando tutta la persona ad una sprezzante spavalderia.

Il soldato lo guardò.

Allora quel giovanastro girò improvvisamente sui tacchi e gli voltò le spalle, dando in una gran risata di concerto cogli altri, che lo stavano a guardare istigandolo co' cenni a farsi onore e a dar qualche bella prova di sè.

Il soldato scrollò due o tre volte la testa, strinse le labbra e mandò fuori un lungo sospiro, battendo ripetutamente il piede in terra come per dire:—Ah la pazienza! la pazienza!... è una cosa dura!—

Il monello si voltò un'altra volta di fronte al soldato e, dopo un istante di esitazione, si tolse di bocca il mozzicone di sigaro e glielo gettò ai piedi, indietreggiando di otto o dieci passi per mettersi al sicuro da uno scoppio d'ira e da un assalto improvviso.

Il soldato tremò, impallidì e alzò gli occhi al cielo stringendo i pugni e arrotando i denti; gli si cominciava a offuscar la ragione.—Ma perchè mi fate così?—diceva [Pg 55] poi dolorosamente tra sè volgendo gli occhi e sporgendo la faccia verso quella gente come se in realtà parlasse con loro;—perchè mi fate così? che cos'avete con me tutti voi altri? v'ho fatto forse qualche cosa di male? Io non vi ho fatto niente, io. Gli è perchè ho dato un pugno a un ragazzo? Ma e lui perchè mi è venuto a insultare? chi l'aveva provocato, lui? E chi vi aveva cercati tutti voi altri? Che cosa volete da me? Io non ho offeso nessuno; io non vi conosco nemmeno; io sono un povero soldato, e faccio il mio dovere, e sto qui perchè me l'han comandato. Sì sì, sbeffeggiatemi, fischiatemi, vi fate un bell'onore a trattare i vostri soldati in quel modo.... come se fossero briganti, come se....

In quel punto, un torso di cavolo lanciato con gran violenza rasente la terra, saltellando, sibilando, gli venne a cadere ai piedi.—Dio! Dio!—egli gridò disperatamente, coprendosi con una mano la faccia e chinando la fronte sull'altra che teneva appoggiata sopra la bocca del fucile.—Io perdo la testa! Io non posso più resistere! Io mi brucio il cervello!... Ma allora è inutile,—gridò poi con voce soffocata e tremante dall'ira e dal dolore—è inutile che ci facciano portare queste....—e die' una forte manata di sotto in su nelle due medaglie che portava sul petto facendole urtare fra loro e risonare;—è inutile che ci diano le medaglie perchè abbiamo fatto la guerra pel nostro paese, se poi ci gettano in faccia i mozziconi di sigaro e i torsi di cavolo! Ah voi volete farmi abbandonare il mio posto? Voi volete che io tradisca la consegna? Ci foste anche cinquanta, vedete, ci foste anche cento, non mi fareste movere di qui; mi saltaste pure addosso tutti in una volta; io mi farei sventrare come un cane; ma al primo venuto, almeno al primo, una palla nel petto e a due altri, almeno a due, la baionetta nel ventre. Venite [Pg 56] avanti, vigliacchi. Non insultate da lontano. Sì, sì, lo capisco, è inutile che mi facciate segno, lo so bene io che avete i coltelli nelle tasche; ma non siete mica da tanto da piantarceli nello stomaco e alla luce del sole! Voi ce li volete piantare nella schiena e di notte e....

Ad un tratto ruppe in un altissimo grido, lasciò cadere il fucile, portò tutt'e due le mani alla faccia, vacillò e cadde ai piedi del casotto: aveva toccato una sassata nella fronte.

Tutti gli altri soldati accorsero; la turba si disperse e scomparve; il ferito fu trasportato nel corpo di guardia col viso e le mani e i panni sanguinosi; gli fu subito lavata la ferita, fasciata la fronte, dato da bere, e preparato un po' di letto sul tavolaccio colle coperte da campo degli altri soldati. Mentre tutti gli si fanno attorno, e l'affollano di domande e di conforti, e il sergente lo rimprovera perchè non ha chiesto soccorso al primo insolentire di quella gente, entra all'improvviso un uffiziale, e dietro a lui le prime file d'un pelottone di soldati, e nello stesso punto, cacciato innanzi da un vigoroso spintone, balza in mezzo alla stanza un uomo colla faccia livida di terrore, i capelli rovesciati sulla fronte, i vestiti e la camicia ridotti un informe stracciume. Lo avevano arrestato poc'anzi su quella stessa piazzetta i soldati del pelottone allora arrivato: egli aveva opposto una resistenza accanita.

Al primo apparire del prigioniero, il soldato ferito balzò dal tavolaccio, fe' un salto verso di lui, gli si pose dinanzi faccia contro faccia, lo fissò un momento cogli occhi stralunati ed accesi, mise un grido che gli uscì tronco e rauco fra i denti digrignati, die' un passo indietro, e appoggiandosi fieramente sopra il piede destro e levando la mano sinistra coll'indice teso sul volto a quel miserabile che lo guardava atterrito:—Ah sei tu!—urlò con una voce che gli agghiacciò il sangue;—sei tu! ti [Pg 57] riconosco! Tu m'hai dato del birro nella via, m'hai rotto la testa con un sasso sulla piazza; birro! birro a me! a un soldato! Ah!—Gli si avventò contro, lo afferrò al collo per la giacchetta e per la camicia, lo inchiodò con una spinta alla parete, sollevò un pugno nocchiuto, convulso, gli pigliò la mira del capo coll'occhio bieco e sanguigno.... Tutto questo in un lampo; i presenti s'interposero, li divisero, due soldati afferrarono e trattennero per le braccia il ferito, un caporale sorresse quell'altro disgraziato che stava per cadere, e tutti e due stettero così qualche momento a guardarsi negli occhi ansando e sbuffando; l'uno, bianco dalla paura, le braccia penzoloni e il capo abbandonato sopra una spalla; l'altro colla faccia alta ed accesa, i pugni serrati e tutta la persona agitata da un tremito violento. Intanto una folla di curiosi s'era radunata davanti alla porta del corpo di guardia.

L'uffiziale guardava attonito gli uni e gli altri, e collo sguardo e col gesto dimandava al sergente e al caporale la cagione dell'accaduto. Il sergente, in mezzo a un silenzio generale, raccontò tutto quel che sapeva. L'uffiziale ascoltò attentamente, stette un minuto sopra pensiero, diede uno sguardo ai cittadini che s'erano avanzati fino alla soglia della stanza, come per dire:—Sentite,—e poi volgendosi al prigioniero:—Cosa faresti tu—gli domandò—a un soldato che t'avesse tirato una pietra nella testa?... Non temere; per parte nostra non ti sarà torto un capello; i soldati non si vendicano; stanne pur sicuro. Lo vedi questo qui?—E indicò il soldato ferito.—Se adesso i tuoi compagni se la pigliassero con te e ti volessero ammazzare, egli si getterebbe fra te e loro e si buscherebbe un'altra sassata per difenderti. Ma tienti bene a mente, e questo lo dico per tutti quelli che mi sentono (e accennò la porta); tenetevi bene a mente questa verità: che c'è qualcuno ancor più scellerato, [Pg 58] più vigliacco e più spregevole dell'assassino che salta dal cespuglio sulla strada e pianta il coltello nelle reni al viandante senza sospetto e senza difesa; e questo qualcuno è colui che tira un sasso nella testa a un soldato e poi fugge a nascondersi nella folla dei curiosi e degli onesti, dove sa che la sua baionetta non può penetrare. E poi se quella baionetta lo raggiunge.... eravamo inermi! si grida, eravamo inermi! e s'incrociano le braccia sul petto e si abbassa la testa e si fa le vittime!... Eravamo inermi! È una menzogna! Voi lo sapete che vi son degl'insulti che ci straziano l'anima, che ci offuscano la ragione, e che per noi i vostri torsi di cavolo sono punte di coltello nel cuore.... Credetelo; perchè i soldati si facciano rompere coraggiosamente il petto dalle palle dei nemici bisogna che essi vadano alla guerra senza il cappotto macchiato dalle buccie di limone dei loro concittadini; il soldato assuefatto ai fischi del suo popolo non si assuefarà mai ai fischi delle palle sul campo di battaglia.... Non crediate per questo che egli serbi rancore contro di voi, e che le vostre offese possan mai fargli intiepidire nel cuore l'affetto pel suo paese. Se domani il paese lo manda alla guerra, egli ci va allegramente colle cicatrici delle vostre sassate sul viso, e in mezzo agli applausi e ai saluti dimentica i fischi del giorno innanzi, e stringe le mani che lo hanno percosso. Ma pensate però che questo soldato che pone il suo petto fra voi e i vostri nemici, che accorre al vostro capezzale nei giorni delle epidemie, che spegne gl'incendi delle vostre case, che veglia le notti alla campagna per difendere le vostre terre e le vostre famiglie dalle bande degli assassini; pensate che questo soldato non ha che un solo conforto, un solo compenso a tante fatiche, a tanti pericoli, a tanti sacrifizi, e questo compenso è la stima e l'affetto dei suoi concittadini.... Guai se glielo torrete! [Pg 59] Le fatiche gli diventeranno insopportabili, i pericoli gli faranno paura, la virtù del sacrifizio troverà il suo cuore chiuso e ghiacciato, e allora.... allora pensate che in quest'esercito avete i vostri fratelli, i vostri amici, che domani ci sarete forse voi stessi, che un giorno ci manderete i vostri figliuoli.... Basta così; alzati, sciagurato.—

Il prigioniero era caduto ai piedi dell'uffiziale.

—Bravo! Sicuro! Giustissimo!—esclamò con voce commossa la gente che era sulla soglia, e a poco a poco entrò nella stanza.

—Alzati!—ripetè l'uffiziale. Quegli si alzò.—Scusi, signor tenente—disse uno della folla facendosi innanzi e ponendosi una mano sul petto;—quest'uomo deve domandar perdono al soldato che ha ferito.—Tutti approvarono.

L'uffiziale interrogò collo sguardo il soldato; questi scrollò una spalla. La gente insistè; l'uffiziale e il soldato dissero un'altra volta di no. La folla, più vivamente commossa dalla generosità di entrambi, ripetè con molto calore le sue istanze. Allora il prigioniero si prostrò spontaneamente ai piedi del soldato. Metteva pietà: era tutto stravolto e tremante; ansava forte colla faccia nascosta nelle mani e tentava e non poteva profferire quella parola, che più che dal volere degli astanti, gli era forse imposta dal cuore. Il soldato lo guardò un istante in aria di compassione.

—Perdonagli!—gli disse l'uffiziale.

—Per me,—rispose il soldato con un accento che volea parer noncurante e non l'era,—per me.... gli ho già bell'e perdonato.

—Bravo!—dissero ad una voce i soldati, i cittadini e l'uffiziale.

Intanto questi aveva acceso un sigaro alla lanterna e lo teneva fra le dita. Il prigioniero uscì, scortato [Pg 60] dal sergente e da quattro soldati, asciugandosi gli occhi colla manica della giacchetta; tutta l'altra gente, mormorando, lo seguì.

—E tu sta allegro, veh!—disse l'uffiziale al ferito battendogli una mano sulla spalla e ponendogli coll'altra il sigaro in bocca.

Il soldato addentò il sigaro sorridendo, mandò fuori due o tre boccate di fumo, e poi, premendone la punta tra l'indice e il pollice per farlo meglio fumare, rispose con una faccia perfettamente serena:

—Sicuro che sto allegro.... ma capirà bene, signor tenente, che, in fin dei conti, le son cose che annoiano.

—Oh! te lo credo!—esclamò l'uffiziale ridendo.

Tutti i soldati risero, rise anch'esso il povero ferito, e si continuò a chiacchierar di bubbole per un altro paio d'ore, tanto che, in fin dei conti, la fu una delle più allegre serate.... che si possano passare in un corpo di guardia.


[Pg 61]

LA MADRE.


Allorchè l'inverno muore lentamente nella primavera, nelle sere di que' bei giorni limpidi, queti, senza vento, in cui si tennero spalancate per le prime volte le porte e le finestre, e si stesero fuori dei davanzali i vestiti da estate, e si portarono sulle terrazze i vasi dei fiori, in codeste belle sere chiare e stellate, anche le città,—non solamente quell'eterna campagna de' poeti,—offrono uno spettacolo vago, gentile, pieno di allegrezza e di vita. A passeggiar per le vie, si sente di tratto in tratto nel viso un'ondata d'aria tepida, odorosa, di che? di quai fiori? di quali erbe? non si sa; son profumi indistinti, ignoti, che sentono di freschezza, di gioventù, di vita. E quell'aria si aspira con voluttà aprendo la bocca e dilatando le narici, e pare che ci rinfreschi il sangue e ci rinnuovi la vita.—Oh, che buon'aria!—esclamiamo di tratto in tratto, e, quasi senza volerlo, quasi senza addarcene, di cantonata in cantonata, di via in via, ci troviamo fuori delle mura, lungo i viali circostanti alla città, nei giardini, e scopriamo e solleviamo la testa per sentirci alitare su tutta la fronte e scorrere fra mezzo ai capelli quella buon'aria soave.

Quelle sere non si può stare in casa, o, se ci si ha da stare, si sta affacciati alla finestra a guardar giù nella strada la insolita frequenza e l'insolito moto, e a rodersi [Pg 62] del non poter discendere in mezzo a quella gente; che andare a letto per tempo e non godere, neppure dalla finestra, una così bella serata, ci parrebbe un peccato.

Nelle vie principali è un vero formicolìo. Le case son vote. Le famigliuole, anche le più casalinghe, si decisero ad uscire dal guscio; il babbo si affacciò alla finestra, guardò giù, guardò il cielo:—Bel tempo!—esclamò, e voltosi alla famiglia che gli stava dietro aspettando un cenno:—usciamo—disse allegramente, e dopo molto correre e vociare di qua e di là per tutte le stanze battendo palma a palma e mettendo sossopra la casa per cercare le vestine e i cappelli al buio, i ragazzi son pronti e la brigatella si mette in moto. Anche la nonna, povera vecchia, si sente quella sera fuggire qualche anno d'addosso e, malgrado i malanni abituali, esce anch'essa, appoggiata al braccio del nipote più savio. La comitiva si allunga giù per la via, due a due; i ragazzi innanzi salterellano e sfringuellano tra loro dando colla testa e colle mani nelle gambe a chi passa; i vecchi indietro, zoppicando e tossendo, badano a scansare le carrozze e a non perder d'occhio i fanciulli. Gli sposi di fresco e i fidanzati girano, due a due, e rigirano per le vie più quiete e pei viali dei giardini, stretti pel braccio, appiccicati, le teste che si toccano, le dita che si stropicciano, le gambe che si rasentano, e lì a dire e a dire e a dire, e a scambiarsi delle lunghe occhiate, e dei lunghi sospiri, e delle lunghe strette di mano, esclamando di tratto in tratto cogli occhi volti al cielo:—Com'è bella, questa sera, la luna!—La sartina torna dalla bottega alla casa dondolando rasente i muri la personcina leggera, e facendo le viste di non accorgersi di un cappello cilindrico che le tien dietro passo per passo, e le si parerà dinanzi alla svolta di quella tal cantonata, buia che è un piacere. Le fanciulle più poverelle, [Pg 63] che hanno lavorato in casa dal levar del sole al tramonto, scendono, saltellando, le scale, incontrano sulla soglia della porta le vicine che stavano ad aspettare, fan crocchio e levano un cicaleggio garrulo e vivace, aggruppando le testoline come i fiori di un mazzetto, e facendo rotare attorno all'indice teso il nastro delle forbici attaccato alla cintola, e rispondendo alle parolette bisbigliate dai giovani che passano:—Grazioso! col cuore, e colla bocca: sfacciato!—E volgon loro, con un moto dispettoso, le spalle, non tanto però che colla coda dell'occhio non arrivi a squadrarli dalla testa ai piedi per veder chi sono e come sono. Altre, schierate in quattro o cinque a braccetto, col capo scoperto, giungono fino in fondo alla via, toccandosi nei gomiti al passar dell'uno e dell'altro, e parlandosi nell'orecchio e ridendo forte, e volgendosi di quando in quando a garrire con un piglio materno alle più piccine che scorrazzano attorno. Intanto i garzonetti vengon via dalle fabbriche e dalle officine col cappello schiacciato sur un orecchio, la giacchetta gettata a casaccio sopra una spalla, un mozzicone di sigaro sprezzatamente addentato e volto e rivolto fra le labbra nere; vengon giù a stormi per la via, dimenando le spalle con quel certo vezzo sgarbato e vociando lo stornello di moda; s'imbattono in quelle fanciulle, si accostano, dan del gomito nel gomito, del ginocchio nei cerchi, una gran boccata di fumo nel viso; le poverette si sparpagliano strillando, tossendo, passando le mani sugli occhi lagrimosi. I monelli staccano coll'unghie e tiran giù dai muri gli avvisi de' teatri; i fanciulletti fanno il chiasso nelle piazze, e le madri, ritte in crocchio sulle porte coi bimbi in collo, indugiano il grido consueto:—A letto!—grazie alla tepidezza inconsueta dell'aria e alla serenità purissima del cielo. Lungo le vie, dalle botteghe a dritta e a sinistra, si sente uno sbatter continuo d'imposte, [Pg 64] un suonar violento di spranghe e uno scorrere rumoroso de' paletti negli anelli, e un darsi e un ricevere la buona notte dagli operai che vanno a casa. Rimangono aperte le botteghe signorili, illuminate, lucenti, dalle ampie vetrine, dalla soglia affollata di curiosi; notevoli, fra le altre, quelle de' librai, per quei concistori di letteratoni antiquati, tabaccosi, colle chiome lunghe e scarmigliate, rincantucciati là in fondo a brontolar di politica barbogia o di cartapecore dissotterrate; i caffè pieni zeppi di avventori avvolti in una gran nebbia di fumo, e un cicalìo rumoroso che, ad ogni aprire e chiudere della vetrata, risuona a ondate nella via. Nelle piazze, come dissi, e nelle strade un vero formicolìo, e un andirivieni di carrozze veloci.

Era una di codeste belle sere, quando il mio reggimento, giunto la mattina in una delle più cospicue città d'Italia, si trovava sparpagliato per le vie aspettando che si sgombrasse la caserma ch'ei doveva occupare, e si desse nei tamburi per la ritirata.

I soldati erano tuttora in pieno assetto di marcia, le ghette abbottonate sopra i calzoni, la giberna alla cintura, la sacca del pane e la borraccia a tracolla. Stanchi della marcia e tuttora bianchi di polvere i panni e i capelli, stavan fermi a gruppi sulle cantonate, le spalle al muro, le braccia incrociate sul petto, l'una gamba piegata sull'altra; o immobili dinanzi alle botteghe degli orefici a contemplare a bocca aperta quelle vetrine tappezzate di medaglie e di croci d'ogni forma e d'ogni colore, a cui gl'impiegati vecchi e i maggiori anziani sogliono, passando, lanciare un'amorosa occhiata di traverso, e un sospiro. Molti s'erano impancati nelle osterie a rifocillarsi con un sorso di vino; altri, i meno rifiniti, vagavano per le vie. Tutti però, o quasi tutti, avevano la cera seria, ingrognata, e parlavano rado, [Pg 65] sommesso e svogliato; un po' per la spossatezza e la sonnolenza, e più per quell'attonitaggine, quello stordimento da cui suol esser presa la mente quando ci troviamo per la prima volta in mezzo a una città sconosciuta e rumorosa.

In mezzo alla serietà taciturna d'un piccolo gruppo di soldati che stavan seduti sulla gradinata d'una chiesa accanto alla caserma, spiccava in singolar modo la gaiezza irrequieta e l'incessante parlantina di uno di loro, bassetto della persona, di forme esili e snelle e di volto imberbe e simpatico per due grand'occhi color del cielo, il quale saliva e scendeva e risaliva continuamente la gradinata, saltellando a mo' di un ragazzo; e si fermava ora accanto all'uno, ora accanto all'altro, ed empiva l'orecchio di chiacchiere a tutti, e a questi tirava le falde del cappotto, a quell'altro levava dal cheppì la nappina per posargliela sulle ginocchia, a un terzo metteva le mani sugli occhi dicendogli. Indovina!—Insomma, pareva che avesse l'argento vivo addosso. Passando davanti a quella chiesa, lo notai; mi fermai rasente al muro opposto della via, e stetti qualche minuto a guardarlo, pensando quale potesse mai essere la cagione di quella tanta e così strana festività. La fisonomia aperta e piacevole di quel soldato mi si scolpì nella memoria. Mi allontanai.

Il dì dopo mi venne fatto di sapere, per mero accidente, ciò che avevo dimandato a me stesso la sera. Quel soldato era soldato da quattr'anni; per una serie fortuita di casi che non importa narrare, dal dì della sua partenza da casa fino a quel giorno, egli non aveva ancora ottenuto un congedo, nemmeno brevissimo, per ritornare al suo paese e rivedere la sua famiglia. Quattr'anni! A un soldato, come seppi ch'egli era, di cuore, svisceratissimo dei suoi parenti e del luogo ov'era nato e cresciuto, [Pg 66] d'indole mite e pacata e abborrente da ogni maniera di stravizzo (gli stravizzi, fatti abituali, addormentano, o, almeno, illanguidiscono gli affetti più vivi e le memorie più care), a un soldato siffatto quattro anni passati senza vedere la famiglia e il paese natìo dovevano esser parsi assai lunghi! E gli eran parsi tali davvero; si era sempre mostrato un po' malinconico; in caserma, taciturno; fuori, per lo più, solo. Nelle ore di libertà, mentre i suoi compagni gironzavano pei giardini pubblici facendo delle carezze interessate ai bimbi condotti per mano dalle belle ragazze, egli soleva misurare in lungo e in largo la piazza d'armi col mento inchiodato sul petto, o stava seduto sur un sedile di pietra all'estremità d'un viale solitario a disegnar dei fantocci nell'arena colla punta dei piedi. E pensava sempre ai parenti, agli amici, ai luoghi che non aveva più visti da quattro anni; e sopra tutti e sopra tutto pensava a sua madre. Sua madre era una povera contadina, vecchia, infermiccia, ma di natura gioviale e intensamente amorosa; un cuor d'angiolo. Dei suoi figli, quel ch'ell'amava con più viva tenerezza ed anche con un cotal sentimento particolare di sollecitudine e di pietà gentile, era il figlio soldato; cosa naturale. E gli scriveva o gli faceva scrivere di frequente, e le sue lettere lette, rilette e baciate e ribaciate e portate lungamente in seno come una reliquia di santo, avevano virtù di mitigarle d'assai l'amarezza di quella lontananza. E così al figlio le lettere della madre. Ma sì! ci vuol altro! La carta, alla fin fine, è carta, e le madri amorose li voglion vedere, i figliuoli, li vogliono aver sotto gli occhi, vogliono toccarseli colle mani e baciarseli in fronte dieci e dieci volte d'un fiato; e ai figliuoli non basta il saper che quella cara testa dai capelli bianchi è a casa e pensa a loro; vogliono stringersela fra le braccia, quella testa; voglion posarci la bocca sopra, [Pg 67] a quei capelli bianchi. E però, così la buona vecchia come il suo caro soldato avean vissuto, in quei quattr'anni, una vita di continue speranze e di continue aspettazioni deluse, di malinconie, di ansietà, di batticuori. Il figliuolo, partito da un paesello del settentrione d'Italia, era stato condotto, col suo reggimento, in Sicilia e vi s'era trattenuto due anni (in Sicilia, povera mamma, con quel mare così lungo fra mezzo); dalla Sicilia era passato nelle Calabrie e v'era stato un anno, un altr'anno nell'Italia centrale. Finalmente, un bel giorno, si sparse nel reggimento una voce di partenza.—Dove si va?—domandò il nostro soldato al suo sergente di squadra, e stette ad aspettar la risposta col respiro sospeso e colla mano sul cuore che gli batteva da rompersi.—Nell'Italia settentrionale—gli fu risposto. Gli si rimescolò il sangue.—Dove?—domandò un'altra volta mutandosi in volto dalla gioia; il sergente gli disse la città; era la più prossima al suo paese; pianse. La sera stessa, appena potè, scrisse a casa.

Ecco la ragione della sua allegrezza di quella sera; quella città era a poche miglia dal suo villaggio.

Ora, con quel ch'io seppi dappoi e quel ch'io vidi e quel ch'io non potei che immaginare o supporre, ma che può e dev'essere accaduto tal quale, voglio farvi un racconto che forse vi farà venir la voglia di dare un bacio un po' più forte del solito a vostra madre.

Eran trascorsi due giorni da quel dell'arrivo. Il nostro soldato stava ancora ventilando il disegno di chiedere un congedo di pochi giorni per volare a casa, quand'ecco, una bella sera, nel dormentorio della compagnia, il furiere cerca di lui, e, trovatolo:—To'—gli dice porgendogli una lettera—vien di vicino.—Glie l'avea porta appena, ch'era già dissigillata e spiegata al chiarore d'una lucerna, in un cantuccio del camerone [Pg 68] fra due mani malferme e sotto due occhi dilatati e luccicanti di due belle goccie di pianto. Lesse la lettera rapidissimamente seguendo col moto della testa il serpeggiamento dell'occhio e borbottando affollatamente le parole; lettala, la strinse fra i pugni e lasciò cadere ambe le braccia alzando i grandi occhi al cielo, e quelle due grosse goccie, dopo aver tremolato incerte sulla palpebra, caddero, gli corsero le guancie senza disfarsi, e gli si vennero a sciogliere calde calde sulle mani. La lettera era di sua madre e diceva: «Domani verrò in città, a piedi; sono quattro anni che non ti vedo! Oh, figliuolo, io non posso più stare; ho tanto bisogno di gettarti le braccia al collo!»

Quella notte non potè chiuder occhio. Si cacciò sotto le coltri irrequieto, e non trovò posa, e non fece che scontorcersi e voltarsi ora sull'uno, ora sull'altro fianco, ora supino, ora bocconi; sempre invano, chè la coperta gli parea grave grave, e si sentiva addosso una gran caldura, un gran peso sul petto, una irrequietezza, una smania di moto, un'avidità tormentosa d'aria aperta. Afferrava ogni momento la rimboccatura della coperta e la spingeva in giù fino al ginocchio, sospirando, soffiando, chè gli pareva di giacere accanto ad una fornace. Di tratto in tratto si metteva a sedere sul letto e guardava intorno i compagni: dormivano tutti un sonno quieto e pieno, quale si suol dormire in primavera. Guardava quel po' di cielo stellato che appariva per un'angusta finestra della parete opposta, e pensava: oh, se fossi in campagna a respirare quell'aria! Guardava una lucerna posta in un angolo lontano, la quale mandava intorno una luce tremola che appariva e spariva a vicenda, e gli pareva che quella luce gli crescesse l'affanno e facesse il tempo più lungo. Poi si stendeva di nuovo nel letto e si metteva a pensare al dimani, chiudendo [Pg 69] gli occhi e stando immobile per vedere d'addormentarsi in quel dolce pensiero; ma sempre invano. Quel dolce pensiero non gli dava pace; la persona era immobile, gli occhi erano chiusi; ma il cuore batteva batteva come gli dicesse: non dormirai, non dormirai; e dopo un po' di tempo gli era forza riaprire gli occhi, e guardare intorno da capo. E molte e lunghe ore passarono così. Finalmente la stanchezza lo vinse, il cuore tacque, la fantasia ardente si quetò. Egli dormì; sognò il dimani; sognò sua madre. Gli pareva di vedersela là, ritta accanto al suo capezzale, sorridente; gli pareva di sentirsi passare sulla fronte la sua mano, e sognava di afferrarla e posarvi le labbra su. Poi d'un tratto gli parve di essere tornato fanciullo, in casa, e gli rivennero in mente, una ad una, cento piccole scene della vita domestica dei suoi primi anni, e in quelle scene sempre sua madre in atto di confortarlo, piangente; o di difenderlo, minacciato dal padre; o di curarlo, ferito per caduta; o di assisterlo, malato; e sempre ansante di pietà e di sollecitudine, sempre amorosa, sempre madre! Poi si sognò adulto; si risovvenne del dì della partenza, il pianto materno, i lunghi e rinnovati abbracciamenti, le date e ricevute parole di addio e di conforto, e si sentì stringere il cuore proprio come quel giorno; si sentì attorno alla vita le braccia di sua madre che non voleva lasciarlo partire; tentò di sciogliersi, non potè; mise un gemito.... Era desto. Guardò attorno, pensò, si ravvide, e quello fu un momento di gioia che si può forse immaginare; ma non si potrà esprimere mai.

Giù nel cortile della caserma scoppiò un fragoroso rullo di tamburi. Tutti balzarono dal letto. Egli si vestì in fretta e fece cogli altri le solite cose della mattina, ilare e sereno in volto; ma colla febbre addosso e col cuore violentemente agitato. Andava soffregando [Pg 70] coi piedi il pavimento, si morsicava or l'uno or l'altro labbro, si passava e ripassava la mano sulla fronte calda calda, e chiedeva tratto tratto ai vicini che ora fosse, e si guardava ogni momento dal petto ai piedi s'era pulito e se aveva ogni cosa al suo punto. Finalmente giunse quel sospirato mezzogiorno. Sospirato, però che sua madre, partendo da casa, come era detto nella lettera, intorno alle nove del mattino, avrebbe dovuto giungere in città fra il mezzogiorno e il tocco, tenuto conto della via ch'ella aveva a percorrere e della lentezza con cui, povera vecchia, l'avrebbe percorsa. Appunto in quell'ora i soldati doveano uscir di quartiere per attendere alla scuola del bastone. Il nostro buon figliuolo, facendo valere la lettera di sua madre, ottenne la dispensa da quella scuola. I soldati uscirono; i cameroni rimasero deserti; egli salì di corsa le scale, volò al suo letto, vi si appoggiò colla mano, e stette un istante fermo, chè gli pareva non potersi reggere sulle gambe, e il petto gli ansava forte forte.

Di lì a un poco, sedette sul letto; appuntellò i gomiti sulle ginocchia, appoggiò la faccia sulle palme, fissò gli occhi sul pavimento, e pensò:—Essa verrà. Verrà qui; proprio qui; in questa caserma. Oh Dio!—E ridendo in suoni tronchi e repressi si grattava con le mani la fronte.—Quattro anni che non la vedo! Quattro anni!—E faceva cenno colle quattro dita della mano.—Come sono stati lunghi!—E riandava colla mente le malinconie, gli scoraggiamenti e le ambasce patite.—Oh!—esclamava poi con un accento soave e tremante di amorosa pietà, giungendo le mani e scuotendo lievemente la testa cogli occhi fissi sur un punto del muro, come in atto di dire: povera mamma! e diceva infatti:—Povera mamma! E tu parti di così lontano per venirmi a vedere, e vieni sola sola, e a piedi, e fai tante ore di [Pg 71] cammino sotto il sole, e arriverai qui in questa città così grande, in mezzo a tanta gente, senza saper dov'io mi sia, e dovrai domandare qua e là dov'è la mia caserma, e stare ancora in piedi per tanto tempo, tu, sola, vecchia, malaticcia, spossata, e forse ti perderai per le vie della città e vagherai senza saper dove e ti piangerà il cuore di non trovarmi.... Oh povera vecchia!—E seguitava a tener le mani giunte e gli occhi fissi sul muro, e andava serrando con rapida vicenda fra i denti ora un labbro ora l'altro e battendo celere celere le palpebre come per ricacciar giù il pianto ch'era in procinto di uscire. E ripeteva di tratto in tratto:—Povera vecchia!—

Poi si passava tutt'e due le mani sul viso, scuoteva la testa, mandava un sospiro, si rizzava in piedi impetuosamente e passeggiava per la stanza col passo d'un viaggiatore frettoloso. Dopo un po' s'arrestava tutt'ad un tratto:—Sarà ora?—Correva alla finestra che dava sulla strada, si sporgeva fuori del parapetto, guardava a destra e a sinistra, una, due, tre volte:—nessuno. Gli saliva il sangue alla testa.—Pensiamo ad altro!—diceva a sè stesso; e si metteva di proposito a scacciar dalla mente l'immagine di sua madre per ingannare così il tempo dell'aspettazione penosa. Scacciar quell'immagine! Poveretto! Era impossibile; vi rinunziò.

—Guarda, mamma,—diceva poi a viva voce scuotendo dinanzi al viso le due mani aperte, io ti voglio un bene, sai, un bene....—Guardò attorno; non c'era alcuno; proseguì:—Un bene che a questo mondo non si può volerne di più!—E lasciando cader le mani giunte sul letto, seguitava a scrollar dolcemente la testa come per significare più chiaramente coll'atto il senso delle sue ultime parole:—Non si può volerne di più.—Poi, all'improvviso, si scuoteva e:—Sarà ora?—domandavasi [Pg 72] un'altra volta, e un'altra volta si lanciava verso la finestra, e, giuntovi presso, si fermava ad un tratto e le volgeva le spalle:—no—dicendo a sè stesso—non devi guardare. E batteva col piede il pavimento come per ripetere:—no.—Ma sorrideva, e quel sorriso voleva dire: Eh, non ci riesco! E difatti, dopo un istante, si riaffacciava alla finestra e guardava:—nessuno.

Ritornava accanto al letto e studiava un modo di ingannare il tempo. Piegava un braccio coll'indice teso contro il mento, sorreggeva il gomito di quel braccio colla palma dell'altro, e, figgendo gli occhi sul letto e appoggiando sulla sponda un ginocchio, correva colla mente a casa, vedeva sua madre fare un involto di camicie e di fazzoletti per portarlo a lui, la vedeva pigliar comiato dai suoi, mettersi in strada; l'accompagnava cogli occhi della mente lungo la via, quella via così lunga! sotto la sferza del sole, in mezzo ai nuvoli di polvere sollevati dai carri e dalle carrozze trascorrenti rapidamente. Quei carri, ei li vedeva rasentare le gonnelle della povera donna, toccarle, scoterle; ella, vecchia e stanca e mal ferma sulle gambe, non faceva in tempo a scansarli, quei carri; ecco, uno ne sopraggiunge di gran corsa, le è vicino, sta per urtarla.—Ah! scansati—esclamava a fior di labbra il figliuolo, facendo, senza addarsene, un cenno della mano come per afferrarla pel braccio e trarla da un lato. E le indicava col dito i paracarri da evitare, e i punti della via ingombri di pietre e i tratti sdrucciolevoli delle sponde; e, dopo molto andare e andare, gli pareva di vedere la povera vecchia camminar vacillando, curva sotto il peso dell'involto, stremata di forze, assetata, ed ei se ne struggeva in cuore e ne gemeva e andava dicendo fra sè:—Oh, povera donna, dammelo a me quell'involto; lascia che io te lo porti; dammi il braccio.—E scostava il gomito destro e gli pareva di [Pg 73] sentirsi entrare fra il braccio e la vita un braccio tremante, e colla mano manca, sempre tenendo gli occhi attonitamente immoti, andava tastando l'aria verso destra, all'altezza del fianco, in cerca della mano di sua madre.

Poi ritornava in sè; il pensiero che indi a pochi minuti avrebbe abbracciato sua madre gli ritornava limpido nella mente, e ne sentiva, come per la prima volta, tutta la dolcezza; gli occhi gli si animavano, le labbra gli fremevano, tutti i tratti del viso gli si tramutavano dalla gioja. Un lieve sorriso, poi un sorriso aperto, poi gli veniva su un singhiozzo di riso convulso, il petto e le spalle gli si andavano alzando e abbassando come per l'affanno di una corsa; un altro singhiozzo, un altro più forte, un altro ancora, uno scoppio di pianto, e si lasciava cadere sul letto colla faccia nelle mani e soffocava contro le coltri quel misto violento di pianto e di riso, scrollando ancora la testa come se dicesse:—Povera mamma!—

—Diventi imbecille?—urlò un caporale attraversando il camerone e soffermandosi sulla soglia della porta per cui doveva uscire.

Il soldato si scosse, si rizzò in piedi, si voltò e lo guardò cogli occhi molli di lagrime e la bocca aperta a un sorriso; non aveva capito. Il caporale sparì mormorando:—Che stupido!—

Rimasto solo, stette un minuto sopra pensiero; quindi, come spinto dal sorgere improvviso d'un'idea, afferrò lo zaino appoggiato sull'asse del pane, lo trasse giù sul letto, lo aperse dopo aver gingillato un pezzo colle dita tremanti intorno alle fibbie delle cigne, vi frugò dentro in furia con ambe le mani e ne trasse frettolosamente spazzole, pettini, scatolette, cencerelli; ordinò tutte queste cose sulla coperta; afferrò una spazzola, appoggiò il piede sull'estremità d'un'asse del letto, si chinò e cominciò a lustrare a tutta forza le [Pg 74] scarpe fermandosi tratto tratto a guardare se luccicassero per bene.—Voglio farmi pulito—diceva a se stesso facendo un viso serio serio e seguitando a dar di spazzola.—Sicuro; lustro come uno specchio voglio farmi. Voglio farmi un bel soldato, voglio piacerle.—Lustrate le scarpe, afferrò la spazzola da panni, poi il pettine, poi frugò un'altra volta nello zaino, ne trasse uno specchietto rotondo, l'aperse, si guardò.... Quando l'anima è profondamente agitata da un affetto forte e gentile, e la mente è tutta piena di pensieri e d'immagini ridenti, gli occhi e il sorriso s'improntano così della gentilezza di quell'affetto e della serenità di quei pensieri, che anche il viso men bello, in quei momenti, s'illumina d'un raggio di bellezza; ond'è che quel buon soldato, guardandosi nello specchio e vedendosi brillar l'anima sul viso, sorrise d'ingenuo compiacimento....

Si sente giù per le scale il rumore d'un passo accelerato; il soldato tende l'orecchio; il rumore s'appressa; si sente il passo nella stanza vicina; è il caporale di guardia; entra, guarda intorno, scorge il nostro buon giovane.—Di'—esclama chiamandolo a nome—c'è una donna alla porta che ti cerca.—

—Mia madre!—gridò con subito slancio il figliuolo, e prese la corsa; traversò, volando, i cameroni; si precipitò giù per le scale, divorò il cortile, si gettò nell'androne, intravvide una figura di donna, si slanciò verso di lei, essa gli aperse le braccia, egli le cadde sul seno, e tutti e due gettarono un grido. Il figliuolo posò le palme aperte sulle tempie alla mamma, gliele fe' scorrere dentro i capelli grigi, le piegò indietro la testa, la guardò, guardato, negli occhi; poi si serrò quel caro capo contro la spalla, lo coprì colle braccia e le inchiodò la bocca sui capelli, rimasti scoperti per la pezzuola caduta. La buona donna soffocava i singhiozzi contro la spalla [Pg 75] del figlio e, strettolo attorno alla vita, gli faceva scorrere le scarne mani sul ruvido cappotto, che per lei, in quei momenti, valeva cento volte il più bel manto di re. I soldati di guardia, trattisi rispettosamente in disparte, guardavano, immobili e silenziosi, quel santo amplesso, col volto atteggiato a una commozione profonda. Io, che quel giorno era di picchetto al quartiere, stavo là presso ritto sulla porta della mia stanza, e guardavo.

—Via, rimettiti, mamma; fatti coraggio; non pianger così. Oh, Dio buono, o che c'è ragione di piangere?—andava dicendo con voce carezzevole il figliuolo, e con ambe le mani le rimetteva dietro gli orecchi i capelli che le s'erano scarmigliati e sparsi sulla fronte nell'impeto di quel primo abbraccio. La vecchia seguitava a singhiozzar forte, senza pianto e senza parola; finchè, alzati gli occhi in volto al figliuolo, sorrise, mise un respiro aperto come le fosse tolto un peso dal cuore, e mormorando:—mio figlio!—lo abbracciò un'altra volta.—Sei stanca?—domandò premurosamente il soldato svincolandosi delle sue braccia.—Un po'—rispose sorridendo la donna. E girò gli occhi attorno in cerca d'un luogo ove posare il grosso involto che avea recato con sè.—Entrate qua—diss'io spalancando la porta della mia stanza.—Oh! l'ufficiale—diss'ella volgendosi verso di me e facendomi un inchino.—Grazie, signor ufficiale.—Suo figlio restò un po' confuso.—Entrate,—io ripetei—entrate pure.—Entrarono timidamente e s'avvicinarono al tavolino; la vecchia vi posò su l'involto; io mi ritrassi in disparte.

—Fatti vedere, figliuolo; voltati indietro; lasciati guardare.—Il soldato, sorridendo, si rigirava per essere osservato da ogni parte. E la madre traendosi indietro, squadrandolo da capo a piedi, e giungendo le palme esclamava affettuosamente:—Come sei bello [Pg 76] così!—E si sentiva ringiovanire, la poveretta; e le veniva quasi voglia di mettersegli a saltellare intorno. Gli si accostava, si riallontanava, ritornava a farsegli presso, e se lo divorava cogli occhi; gli posava le mani sulle spalle e gliele faceva scorrer giù lungo le braccia fino a prendergli le mani; gli appressava il volto al petto per guardargli i bottoni; poi, accortasi di avergli appannato coll'alito la croce del cinturino, gliela soffregava colla cocca del grembiale; finalmente, dopo averlo guardato e riguardato un pezzo, gli gettò ancora una volta le braccia al collo chiamandolo amorosamente per nome. Poi si staccò ad un tratto da lui e gli domandò sollecitamente: E la guerra?—Il figliuolo sorrise; essa ripetè:—E la guerra, dimmelo figliuolo, quando la fate la guerra?—Oh, Dio benedetto! Ma chi ha mai parlato di guerra, buona donna che sei?—Dunque non c'è la guerra?—domandò tutta contenta;—non la farete mai più, non è vero?—Mai più? Mai più non si può dire, mia cara....—Ah! dunque la fate! Dimmi la verità, figliuolo.—Oh buona donna, e che cosa vuoi che se ne sappia, noi soldati?—Ma se non lo sapete voi altri che la fate,—rispose con un accento di convinzione profonda la madre—se non lo sapete voi altri, poveri ragazzi, e chi l'ha da sapere?—

E dette queste parole, rimase immobile ad aspettare la risposta in un atteggiamento di volto e di persona così caramente curioso, con un sorriso così affettuosamente piacevole sulla bocca, e con un certo lume ineffabile negli occhi, che suo figlio, sorridendo anch'esso, rimase quasi estatico a mirarla, e gli piacque tanto in quel momento, si sentì nel cuore un nuovo e così veemente impulso verso di lei, che le fu sopra d'un salto, le strinse la testa fra le mani, gliela baciò, gliela scosse scherzevolmente come si fa ai bambini, e, posatale [Pg 77] un'altra volta la bocca sulla fronte, mormorò sorridendo:—Povera la mia vecchierella!—

Ed io, sempre là fermo, colle spalle appoggiate al muro e le braccia incrociate sul petto, pensava:

—Ecco, quello là è un uomo che adora sua madre! Non può non essere un buon soldato, rispettoso, docile, pieno di amor proprio, e di coraggio. Sì, anche di coraggio, perchè le anime che sentono profondamente e fortemente l'amore non possono essere anime codarde. Quel soldato là, condotto sul campo, si farà ammazzare senza paura e morirà col nome di sua madre sul labbro. Insegnategli che cosa è patria, fategli capire che la patria son centomila madri e centomila famiglie come la sua, ed egli amerà la patria con entusiasmo. Ma bisogna cominciar dalla madre. Oh! se di tutti gli affetti gentili e di tutte le azioni oneste e generose di cui andiamo superbi si potesse scoprire il primo e vero germe, noi lo scopriremmo quasi sempre nel cuore di nostra madre. Quante medaglie al valor militare dovrebbero splendere sul petto, invece che ai figli, alle madri, e quante corone d'alloro invece che su una testa giovane e chiomata si dovrebbero posare sopra una vecchia testa calva! Ah madri, voi non dovreste mai morire! O dovreste almeno star al fianco de' vostri figliuoli e accompagnarli fino al termine del cammino della vita. Davanti a voi, anche vecchi, noi saremmo sempre fanciulli, e v'ameremmo sempre dello stesso amore. Voi, invece, ci lasciate soli.... Oh no, no! non soli; la vostra soave memoria ci resta, la vostra diletta immagine sempre viva dinanzi agli occhi, i vostri amorosi consigli sempre presenti allo spirito. E questo ci basta. Ogni volta che ci assalga l'anima un tedio sconsolato della vita e qualche duro disinganno ci faccia nascere nel cuore un sentimento d'odio o di avversione per gli uomini fra questi uomini e noi sorgeranno [Pg 78] le vostre immagini sante, benigne, pacificatrici; ne parrà di sentirci chiamare per nome da quella vostra cara voce con cui ci ammonivate quando eravamo bambini, e piegheremo irresistibilmente i ginocchi e giungeremo le palme dinanzi alle vostre immagini, e vi chiederemo perdono!—

In quel punto capitò in quartiere brontolando il capitano d'ispezione.—Dov'è l'ufficiale di picchetto?—domandò a qualcuno fuori della porta. Intesi, mi scossi, uscii, me gli piantai davanti ritto, impalato, colla mano alla visiera:—Presente!—

Egli mi guardò fiso e fece una certa faccia come per domandarmi:—Che diavolo ha?—


[Pg 79]

IL FIGLIO DEL REGGIMENTO.

I.

Tra i fanciulli dell'uno e dell'altro sesso, fin che non v'è differenza apparente nelle forme, v'è comunanza di giocattoli e di sollazzi; ma quando, rimanendo alle bambine la soavità e la mollezza dei contorni infantili, cominciano nei fanciulli a pronunciarsi le forme dell'uomo, allora quella comunanza a poco a poco si rompe; l'un sesso si volge e si attiene definitivamente alle bambole; l'altro agli schioppi, alle trombette e ai tamburi. Insieme alla passione delle armi suol nascere nei fanciulli la passione dei soldati; in alcuni temperata e fugace; in altri violenta, irresistibile e duratura. Ed è in ciò appunto che prima e più notabilmente si manifestano diverse le due nature, chè, mentre la donna cerca ed ama tutto ciò che significa pace, debolezza ed amore, l'uomo si slancia con trasporto verso tutto ciò che rappresenta la forza, la potenza e la gloria.

Dopo le persone della famiglia e della casa, il nostro primo affetto, il nostro primo palpito d'entusiasmo è il soldato. Soldati sono i primi fantocci che rabeschiamo sulle pareti della scuola e sulla coperta dei libri; soldati le prime persone che ci voltiamo indietro a guardar per la via, fermandoci ed obbligando a fermarsi chi ci conduce per mano; il primo soldo che ci si regala lo spendiamo da un libraio per una stampa di [Pg 80] soldatini coloriti; e tutto ciò che ai soldati appartiene, armi, assise, galloni, pennacchi, ciondoli, ciarpe, tutto diventa oggetto dei nostri desiderii più ardenti, dei nostri sogni, delle nostre speranze più care; a tal segno da farci fermar nell'animo che a prezzo di qualunque sacrificio e malgrado qualunque contrarietà, appena giunti all'età voluta, ci arroleremo soldati; sì, sì, soldati, soldati, assolutamente, a qualunque costo; la mamma piangerà, il babbo manderà fuori quel certo vocione che tiene in serbo per le scappatelle più ardite: non importa; la è decisa, soldati.

E qui comincia la manìa delle armi; e cerca, e fruga, e rimugina, non vi sarà in casa tua una canna, un bastone, o una gamba di tavola rotta, che, risparmiata dalla lama del tuo temperino, non t'abbia a fare per molto o per poco il suo servizio di stocco o di daga o di fucile. Chi di noi non passò lunghe ore a cavalcioni d'una seggiola, col petto contro la spalliera, dimenando le gambe come per ispronare un cavallo, agitando in alto il manico d'una granata, e mandando fuori certe voci lente, profonde, solenni come d'un generale che comandi una divisione? Chi non si ricorda della prima sciabola che ci regalò lo zio o il compare o qualche ufficiale in riposo, vecchio amico di casa, il giorno del nostro nome, o in premio dell'esserci fatti onore alla scuola? E intendiamoci, veh! non mica di quelle solite sciabole di legno, che si fasciano di carta argentata, roba da ragazzi piccini che non serve neppure a uccidere una mosca; chè! proprio una sciabola vera, una vera lama, di quelle che si adoperano alla guerra.... Oh! la prima sciabola è una grande felicità.

E quelle belle mattinate di primavera, (che fanno uscir la voglia dei libri, come dice il Giusti, e mettono la smania nelle gambe) quando, seduti a tavolino, sbadigliando [Pg 81] e sonnecchiando sopra una favola di Fedro da voltare in italiano, sentivamo prorompere all'improvviso giù nella via un gran frastuono di tamburi o di trombe, e noi subito al diavolo quaderni e libri, e via a rompicollo giù per le scale, dietro ai soldati, fino alla piazza d'armi, a contemplare estatici quel vivo sfolgorìo delle baionette che appare e dispare come un lampo al di sopra delle teste dei battaglioni, e a sentire quel clamoroso e prolungato urrà degli attacchi, che già fin d'allora ci rimescolava il sangue e facea sì che stringendo involontariamente i nostri piccoli pugni ci sentissimo raddoppiate le forze; chi non le ricorda quelle belle mattinate? È vero che, tornati a casa, c'era da subire gli occhiacci del babbo o anche di peggio; ma quel poter dire:—sono stato in piazza d'armi—ah! gli era pure un grande sgravio di coscienza, e una ragione che si poteva addurre e s'adduceva in fatti senza umiltà e senza paura.

E il primo soldato con cui, a forza di ronzargli attorno, riuscimmo a stringere un po' d'amicizia, chi non se lo ricorda? E chi non ricorda la prima volta che, in piazza d'armi o al tiro al bersaglio, abbiamo avuto l'onore di andargli ad attingere un po' d'acqua alla fonte vicina colla sua stessa gamella? Noi gliela portavamo piena, ricolma, lì lì per traboccare al menomo moto; eppure non se ne versava una goccia, così attentamente cogli occhi, colle braccia, con tutta la persona, con tutta l'anima ci sforzavamo di riuscire degnamente nell'onorevole incarico! E poi, farsi vedere al passeggio con un caporale, per esempio, dei bersaglieri! Ma è una di quelle felicità, vedete, che quando io mi metto a pensarci su, vorrei ritornare fanciullo per poterla riprovare, o provarla, pur rimanendo un uomo, anche a costo di parer rimbambito. E noi, la sera, all'ora della ritirata, si accompagnava il nostro caporalotto sino alla [Pg 82] porta del quartiere, e gli si dava e se ne riceveva la buona notte o la promessa d'un convegno pel domani, ad alta voce, perchè sentissero gli altri ragazzi ch'erano là attorno; e il domani si faceva assieme una bella passeggiata fuori di città, e giunti in un luogo solitario, pregavamo il nostro amico che ci facesse veder la daga, ed egli rispondeva che è proibito, e noi continuavamo a pregare ed egli:—no,—e noi:—sì, mi faccia il piacere, bravo, un momento solo, appena un momento;—e il povero caporale, data un'occhiata intorno se nessuno venisse, tirava fuori la daga dal fodero con una cert'aria di mistero, e la vista di quella bella lama nuda e luccicante ci metteva un fremito nelle vene, e ne toccavamo leggermente la punta col dito, e domandavamo se fosse affilata e se con un colpo avrebbe ammazzato un uomo.... Oh poi, l'amicizia d'un caporale vi porta di gran bei frutti! Quello, fra gli altri, di aver sempre in tasca qualche capsula bella e nuova, qualche volta anche della polvere, e fors'anco una bella croce d'una piastra vecchia, o dei bottoni di stagno ammaccati, e persino,—ma son fortune che capitan di rado,—è possibile persino che diventiate possessore d'un paio di galloni, un po' logori forse, ma sempre tali da fare una stupenda figura sulle maniche della vostra giacchetta da casa. E tutta la ragazzaglia del vicinato vi porterà rispetto.

Il concetto che s'ha da fanciulli dell'autorità e della prevalenza fisica e morale dei soldati sugli altri cittadini è un concetto smisurato. Soldati che non siano prodigi di coraggio non ce ne può essere; soldati meno forti d'uno qualunque dei cittadini più forti, assolutamente non ve n'è; nessuno al mondo può correre quanto un bersagliere; le più belle barbe della città son quelle degli zappatori; nulla v'ha di più terribile in terra che [Pg 83] un ufficiale colla sciabola sguainata, tanto più se la sia uscita poco prima dalle mani dell'arrotino. E di fatti, quando si facevano ballar le marionette e s'improvvisavano le commedie, ci poteva ben essere sul palco scenico una lotta accanita di dieci individui armati, potevano ben esserci anco dei principi e dei re a fare il chiasso colla spada in pugno; ma al solo apparire di due soldati collo schioppo a tracolla, tutte le altre teste di legno mettevan giudizio ad un tratto, e si quetavano, e qualche volta anche i re, sì signori, anche le corone s'inchinavano dinanzi ai cheppì. E quando la sera, a ora tarda, sentivamo tutto ad un tratto giù nella strada, presso alla porta d'una osteria, un gridìo confuso di voci irate e minacciose, e un risuonare di bestemmie, di pugni e di bastonate, e un pianger di donne e di bambini, e affacciatici alla finestra e vedute luccicar delle daghe, capivamo che s'era impegnata una rissa fra soldati e operai, non abbiamo noi sempre fatto voto che questi ne buscassero di molte, e quelli ne uscissero immuni? E se accadeva il contrario, oh che stizza, che rodimento! Quanto ad autorità poi, i fanciulli non ne suppongono alcuna al di sopra del colonnello o del generale comandante il presidio della città. È ben naturale. Una volta, non mi ricordo in occasione di che festa cittadina, mentre passavano per la via l'intendente e un luogotenente-colonnello dei bersaglieri con un lungo codazzo di impiegati e di ufficiali d'ogni grado, mio fratello che conosceva il mio debole e voleva pungermi sul vivo:—Guarda—mi disse indicandomi l'intendente—quell'uomo là vestito di nero comanda assai più dell'altro che ha tutto quell'oro addosso.—Chè!—io risposi scotendo sgarbatamente una spalla,—non è vero, è impossibile.—

E questo vivissimo affetto dei fanciulli è ricambiato dai soldati con un affetto meno entusiastico, ma non [Pg 84] meno profondo. Coscritti, appena arrivati al corpo, o puranco vecchi soldati, appena giunti in una città sconosciuta, dove li cercano, dove li trovano i loro primi amici, i loro primi conforti, i loro primi diletti? In quello sciame di monellucci che scorrazzano intorno ai tamburini quando il reggimento va in piazza d'armi. Da loro i primi sorrisi, le prime strette di mano; con loro i primi convegni, i primi colloqui confidenti e geniali, le prime passeggiate solitarie in campagna, i primi sfoghi di rancore contro i superiori prepotenti, e i primi lamenti sulle durezze della disciplina, e da loro le prime parole di conforto e le prime consolazioni. Si fanno scrivere e leggere le lettere di casa da loro, e raccontare tutte le particolarità più insignificanti della vita di famiglia, e le ascoltano con gran piacere, e tal volta con una certa tenerezza melanconica, perchè, lontani, come e' sono, dai proprii parenti, quei discorsi ravvivano nel loro cuore un cotal sentimento, direi quasi, di casa, un sentimento delicato, soave, quale non si prova sempre nelle rumorose camerate della caserma. Per mezzo di quei fanciulli, essi a poco a poco stringono amicizia col portinaio, e per mezzo di questi riescono in breve tempo ad allargar la rete delle relazioni amichevoli, così che, a un bisogno, sanno a cui ricorrere, e, in ogni caso, con chi scambiare due chiacchiere alla buona, tanto più se fra le loro amiche vi sia qualche buona donna che abbia un figliuolo soldato. Quindi, nel loro cuore, alla simpatia e all'affetto pei fanciulli s'aggiunge la gratitudine; e per mezzo loro, anche i loro piccoli amici stringon nuove amicizie; a poco a poco in quella tal compagnia, in quel tal battaglione non v'ha più per essi una faccia ignota o indifferente, e il loro affetto, cessato il primo bollore dell'entusiasmo, mette radici profonde e tenaci. E quando il reggimento se ne va.... io l'ho provato; quando [Pg 85] il reggimento se ne va, allora cerchiamo la mamma, ce le andiamo a mettere accanto e stiamo lì con un viso serio serio per farci fare una domanda, che provocherà uno sfogo al nostro dolore.—Che cos'hai, bambino?—Non si risponde; si stringon le labbra.—Che cos'hai? parla, bambino; diglielo che cos'hai a tua madre.—Non si risponde; vien giù una lagrima.—Oh in nome del cielo, non mi tenere in ansietà! Che cosa ti è accaduto? che cosa è stato?—Allora si scoppia in pianto e ci si getta nelle sue braccia e le si dice la cosa com'è, e la madre, commossa, ci passa la mano sulla fronte esclamando:—Oh povero ragazzo! Datti pace, ne verranno degli altri;—e allora noi sentiamo il nostro dolore tramutarsi a poco a poco in un sentimento di mestizia calma e rassegnata.

O madri, lasciateli venir con noi i vostri ragazzi; noi li ameremo come fratelli, come figliuoli; usciti di mezzo a noi essi ritorneranno al vostro seno più amorosi e più forti, perchè fra i soldati s'impara ad amare, e di un affetto che fortifica precocemente la tempra dell'animo e del cuore.

In prova di ciò racconterò un fatto che seguì qualche anno fa in un reggimento del nostro esercito, e che mi fu narrato da un amico il quale v'ebbe molta parte; cercherò di richiamarmi alla memoria le sue stesse parole. Sentite dunque; ma, intendiamoci, è il mio amico che parla, non son'io.

II.

Una delle ultime sere di luglio del 1866, la nostra divisione, partita nel pomeriggio da Battaglia, grosso borgo situato alle falde orientali dei colli Euganei, entrava [Pg 86] per porta Santa Croce nella città di Padova, che doveva attraversare per proseguire il suo cammino verso Venezia. Quantunque vari altri corpi dell'esercito fossero già passati per quella città e le vie da noi traversate fossero le più remote dal centro e d'ordinario le meno frequenti di gente, pure l'accoglienza che ci fece il popolo fu oltre ogni fede stupenda. Io però non me ne ricordo che come d'un sogno; ne serbo una memoria confusa come s'ha dei primi colloqui coll'innamorata, da giovinetti, quando tremano le gambe e si diventa bianchi nel viso come un cencio uscito di bucato e intorno intorno ci si fa buio. Già, nell'avvicinarmi a Padova, la prima grande città del Veneto che incontravamo sul cammino, il cuore mi batteva forte e i pensieri mi si cominciavano un po' a confondere. Quando poi entrammo, e una moltitudine immensa, prorompendo in altissime grida, si precipitò fra le nostre file e le ruppe e ci avvolse e ci sparpagliò in men di un istante da tutte le parti, per modo che non rimase traccia dell'ordine di colonna in cui eravamo disposti, allora la mia vista si annebbiò e, più della vista, la mente. Ricordo d'essermi sentito stringere molte volte al collo e alla vita da due braccia convulse, e palpar le spalle e le braccia da due mani tremanti; d'essermi sentito baciar nel viso da molte bocche ardenti, con quella stessa furia che porrebbe una madre nel baciare il suo figliuolo al primo rivederlo dopo una lunga assenza; d'aver sentito il contatto di molte guancie umide di pianto; d'essermi fermato più d'una volta per liberare la mia sciabola dalle manine d'un fanciullo che me la scoteva con violenza perch'io mi volgessi ed avvertissi anche il suo umile evviva; d'aver camminato per un pezzo con una mezza serqua di mazzettini di fiori negli occhielli della tunica che parevo uno sposo di campagna; infine di essermi sentito [Pg 87] sonare intorno un continuo ed altissimo evviva.... Ma che! Non erano evviva, erano grida inarticolate, rotte dai singhiozzi, soffocate dagli amplessi; erano gemiti come di petti oppressi e spossati dalla foga della gioia; voci di un tal accento che il mio orecchio non aveva inteso mai prima d'allora, ma che molte volte m'eran sonate nella mente, immaginando meco stesso l'espressione d'una gioia superiore alle forze umane. La folla si rimescolava con una rapidità vertiginosa, e ondeggiando ondeggiando portava i soldati di qua, di là, sempre però avanzando nella direzione che aveva presa la colonna in sull'entrare; e al di sopra delle teste della moltitudine si vedeva un grande agitarsi di braccia, di fucili e di bandiere, e quelli e queste raggrupparsi ed urtarsi con impeto e dividersi e sparpagliarsi subitamente a seconda dell'impetuoso abbracciarsi e del rapido svincolarsi che facevano cittadini e soldati; e i ragazzi afferravano i soldati per le falde del cappotto o pel fodero della baionetta e se ne disputavano gelosamente le mani per piantarvi sopra la bocca; e le donne anch'esse, giovani, vecchie, povere e signore alla rinfusa, stringevan la mano ai soldati e mettevan loro dei fiori negli occhielli del cappotto e domandavano soavemente se fossero venuti di molto lontano e si sentissero stracchi, e porgevano sigari e frutta, e offerivano la mensa e la casa, sdegnandosi con amabile affettazione dei rifiuti e rinnovando calorosamente inviti e preghiere; e non si vedeva in tanta moltitudine una faccia che dalla profonda emozione non fosse trasfigurata; occhi dilatati ed accesi, guancie pallide e rigate di lacrime, labbra frementi; e in ogni atto poi, in ogni cenno, in ogni movenza un che di convulso, di febbrile, che ti si trasfondeva nel sangue mettendoti un tremito violento per tutte le membra; tantochè ai saluti e alle benedizioni della gente tentavi più volte [Pg 88] di rispondere e non potevi articolare una parola. Le case eran coperte di bandiere; ad ogni finestra un gruppo di persone addossate le une alle altre, le ultime ritte sopra una seggiola colle mani sulle spalle delle prime, queste pigiate contro il parapetto da averne rotto lo stomaco; e chi sventolava fazzoletti, e chi agitava le mani in segno di saluto, e chi gettava giù fiori; tutti poi col collo teso e la bocca splancata ad un continuo grido a somiglianza degli uccelletti nel nido all'apparir della madre. Certi bambini tenuti in braccio dalla mamma agitavano anch'essi le manine verso di noi e mandavano fuori di tanto in tanto qualche gridetto, che si perdeva a mezz'aria negli alti clamori della folla. Le imboccature delle vie a destra e a sinistra, le soglie delle officine, delle botteghe, delle case erano piene di gente. Vidi molti di quei buoni operai porre un sigaro nelle mani a uno dei propri ragazzi e accennargli un soldato e spingerlo verso di quello; vidi certe buone donne sporgere i bambini agli ufficiali perchè li abbracciassero come se quell'abbraccio fosse una benedizione del cielo; vidi qualche vecchio cadente stringersi contro il petto la testa d'un soldato e tenersela lì ferma come volendo che non se ne staccasse mai più.... In mezzo a tante e tali dimostrazioni di gratitudine, di affetto, d'entusiasmo, i soldati, poveri giovani, restavano come istupiditi e ridevano e lagrimavano ad un tempo e non trovavan parole a render grazie; o se pur le trovavano, non le potean mandar fuori, e s'ingegnavano a dire coi gesti:—È troppo! è troppo! Il nostro cuore non regge; voi volete farci morire di gioia.—

A misura che ci avvicinavamo alla porta per cui si doveva uscire, la folla si faceva men fitta e i soldati si andavano lentamente riordinando.

La porta per cui dovevamo uscire era quella che i Padovani chiamano il Portello. Fummo accompagnati fin [Pg 89] sul limitare da moltissimi cittadini, la più parte di ceto signorile, frammisti ai soldati, stretti con loro a braccetto, e tutti assorti in un conversar vivo, clamoroso, rapido, rotto, poichè alla foga del primo entusiasmo, il quale non trovava che lagrime e grida, era seguito un gran bisogno di sfogarsi a parole, di farsi mille domande, mille proteste di affetto e di gratitudine, interrompendosi tratto tratto per guardarsi ben bene l'un l'altro nel volto, con un sorriso che voleva dire:—Dunque gli è proprio un soldato italiano che ho a braccetto!—Dunque ci siamo proprio in mezzo a questi benedetti Padovani!—e lì una gran stretta di mano e una scossa reciproca al braccio che significava:—Sei qui; ti sento; non ti lascio scappare.—In quella mezz'ora che si era impiegata ad attraversar la città, si eran già strette molte amicizie, s'eran già scambiate molte promesse di scriversi, s'eran già fatti molti proponimenti di rivedersi al ritorno, e stabiliti i convegni, e notati sul portafoglio i nomi e gli indirizzi.—Mi scriverà lei il primo!—Io il primo.—Appena arrivato al campo!—Appena arrivato al campo.—Me lo promette?—Non dubiti.—Grazie!—E un'altra gagliarda stretta di mano e un'altra scossetta al braccio. E a misura che il reggimento s'avvicinava alla porta, i dialoghi si facean sempre più rapidi, più caldi, più rumorosi, e i gesti più concitati, e più animata l'espressione dei volti, e si rinnuovavano gli evviva e le grida che già erano cessate da un po' di tempo, e i soldati ricominciavano a sparpagliarsi, finchè, giunti che fummo alla porta, il grosso della folla si fermò. E lì di nuovo, figuratevi, una confusione e un gridìo da non potersi dire; un abbracciarsi, un baciarsi, uno sciogliersi dalle braccia dell'uno per gettarsi in quelle d'un altro, e da questi ad un terzo, e via via, ricambiandosi affollatamente augurii e saluti e benedizioni. [Pg 90] Finalmente il reggimento fu fuor della porta, e si dispose in ordine di marcia, due file a destra e due file a sinistra della via. Per un po' di tempo i soldati si volsero di tanto in tanto verso la porta, dove la folla, tuttavia ferma, andava agitando i fazzoletti e mettendo alte e lunghe grida di saluto; ma a poco a poco, cominciando a farsi buio, la folla non si vide più, le grida, che già giungean fioche fioche, tacquero affatto, i soldati ripresero a camminare in ordine, e gli ufficiali, che prima andavano a gruppi, ritornarono al proprio posto.

Eravamo in cammino da molte ore; prima di giungere a Padova si era già stanchi e si andava già lenti e disordinati; eppure, usciti dalla città, camminavamo come se pur allora ci fossimo mossi dal campo dopo un lungo riposo. I soldati procedevano ritti, sciolti, spediti; gli ordini erano serrati, e ferveva da ogni parte un vivissimo cicaleccio. Naturale; c'eran tante cose da dirsi!

Io stetti ancora un pezzo come trasognato. Ma quando ritornai interamente in me stesso, allora mi sentii crescere nel cuore una gioia, per dir così, pura, limpida, scevra di quella impressione di sorpresa e di meraviglia che prima me ne attutiva il sentimento; era la vera gioia, e piansi. Piansi tre volte in tutta la durata della guerra. La prima, e furon lagrime d'entusiasmo, il giorno che si passò il Mincio, il ventitrè giugno, quando, essendo ancora il mio reggimento sulla sinistra del fiume, presso al ponte di Ferri, già si vedevano lampeggiare sull'opposta sponda le baionette della settima divisione, e io mi sentiva fremere intorno i soldati impazienti e sonar nell'orecchio il rumor cupo del ponte tremante sotto il peso delle nostre artiglierie. La seconda volta piansi a Villafranca, e furon lagrime d'ira e di dolore. La terza volta piansi per te, o Padova cara, Padova illustre e generosa, e furono lagrime di gioia e di gratitudine; di gioia divina, [Pg 91] di gratitudine eterna.—Oh perchè le città non si possono abbracciare!—pensai, fra le tante altre stranezze, quella sera.

Essendo oramai buio fitto, si accessero le lanterne. L'apparire della luce richiamò a ciò che mi circondava la mia mente, che fino allora non era per anche uscita da Padova, e, guardando subitamente qua e là cogli occhi dilatati, come quando ci si sveglia in una stanza di albergo e non si raccapezza sull'istante nè dove si sia nè perchè nè come, vidi al dubbio lume d'una lanterna due ragazzini condotti per mano da due soldati. Mi volsi dalla parte opposta, ne vidi un altro. Guardai più in là, altri due, e via via, ve n'era di molti; e tutti venivan condotti per mano dai soldati e parlavan basso basso e si nascondevano, quanto era possibile, nell'ombre, per non essere scorti dagli ufficiali, che forse, chi lo sa? avrebbero potuto rimandarli a casa, e bruscamente, chè quella non era ora d'allontanarsi dalla città e di tenere in pensiero la mamma. La più parte di quei ragazzi, si vedeva ai panni, erano poverelli; ma ve n'era pure, e non pochi, di condizione agiata, e si conoscevano alla cera e ai modi peritosi e ai vestitini puliti. Ad ogni dieci o dodici passi se ne fermava qualcuno, e data e ricevuta qualche stretta di mano e qualche saluto affettuoso, se ne tornava. È impossibile significare quanta dolcezza, quanta effusione di cuore e che delicato senso di mestizia si sentiva in que' comiati. E poi, l'accento particolare del dialetto che si presta tanto all'espressione degli affetti soavi, e poi la commozione profonda di poco prima, e poi la notte, e il silenzio che si cominciava a diffondere nelle file;... insomma, ogni parola di quei ragazzi mi toccava nel più vivo dell'anima. Ho sempre in mente uno di essi che, accomiatandosi e salutando intorno intorno tutti i soldati, esclamò con una [Pg 92] certa vocina sottile e tremola, in cui si sentiva proprio il cuore:— Dio ve salva, fioi, tuti!

—Oh grazie, caro!—io dissi tra me;—possa tu essere benedetto da Dio d'ogni bene; possa non morirti mai la madre; possa tu godere ogni giorno della vita una felicità com'è questa di cui mi trabocca l'anima questa sera. Addio, buon ragazzo.—

Ma a poco a poco tutti que' ragazzi se ne tornarono a casa, primi i più piccini e più timidi, ultimi i già grandicelli e più arditi, e nel reggimento rimasto solo si diffuse un silenzio profondo; unico rumore quello dei passi stanchi e strascicati e il monotono ticcheticche dei puntali delle baionette contro i puntali delle daghe. E si cominciava a sonnecchiare e a camminare barcollando di qua e di là urtandosi l'un l'altro violentemente come segue agli ubriachi che vanno a braccetto. Ed io sonnecchiava e barcollava più di tutti.

Tutto ad un tratto, mi sentii urtare in un braccio, mi voltai, era un ragazzo.—Chi sei?—gli chiesi, fermandomi, con una voce piena di sonno. Esitò a rispondere, dormicchiava anch'egli.—Carluccio,—rispose poi con voce bassa e tremante.—D'onde vieni?—Da Padova.—E dove vuoi andare?—Coi soldati.—Coi soldati! E sai tu dove vadano i soldati?—

Non rispose; io ripigliai:—Torna a casa, via, torna a casa; te ne sei dilungato già troppo. Chi sa tuo padre e tua madre come staranno in pensiero per te, a quest'ora. Da' retta a me, torna a casa.—Non rispose e non si mosse.—Non vuoi tornare?—No.—E perchè?—Non rispose.—Hai sonno?—Un poco....—Qua la mano, dunque.—

Lo presi per mano, raggiunsi la mia compagnia che era già passata oltre un buon tratto, e, pensando che il rimandarlo a casa per forza e fargli rifare tutto [Pg 93] quel cammino di notte e solo gli era un esporlo a qualche grossa paura, decisi di condurlo meco fino alla tappa. Quivi giunto, avrei trovato modo di farlo ritornare.

—Abbiamo una recluta—dissi a un mio compagno, passandogli accanto. Egli mi si accostò, e dopo lui alcuni altri che avevano intese le mie parole; e mentre si facevan tutti intorno al ragazzo e mi domandavano chi fosse e dove l'avessi trovato, s'udì uno squillo di tromba e il reggimento si fermò. Mentre le file si rompono e i soldati si mettono a giacere, io, traendomi dietro il piccolo fuggitivo, passo nel prato a destra della strada, e gli altri mi seguono. Giunti a un dieci passi dal fosso, ci fermammo; sopraggiunse un soldato con una lanterna, ci stringemmo attorno al ragazzo, e facendogli batter la luce sul viso, ci chinammo a guardarlo. Era bello; ma smunto, pallido, e avea negli occhi,—un par di begli occhi grandi e scuri,—una espressione di mestizia assai strana per un fanciullo della sua età che non poteva passare i dodici anni. Col suo aspetto dilicato e gentile facevano un brutto contrasto i panni logori, rappezzati e male adatti. Un cappelluccio di paglia cui mancava gran parte della tesa, un fazzoletto turchino attorno al collo, una giacchetta di frustagno fatta al dosso d'un uomo, un par di calzoni che non gli arrivavano fino alla noce del piede, due grandi scarpaccie allacciate collo spago: così era vestito. Ma lindo, e senza stracciature; il fazzoletto che portava al collo era annodato con un certo garbo; e aveva i capelli ravviati, e il viso, le mani e la camicia, tutto pulito. L'osservammo in silenzio per qualche momento. Egli guardava in faccia ora l'uno ora l'altro cogli occhi spalancati ed immobili.

—Ma non sai che sei solo?—io gli domandai.

Mi guardò fiso e non rispose.

—Tutti gli altri ragazzi se ne sono già andati,—gli [Pg 94] disse un mio amico,—e tu perchè non sei tornato con loro?—

E un altro:—Che cosa vuoi fare qui con noi? Dove vuoi andare?—

Egli guardò prima l'uno e poi l'altro, sempre con un par d'occhioni stralunati; poi chinò lo sguardo e tacque.

—Parla, su, di' qualche cosa,—ripigliò un di noi scotendogli leggermente la spalla;—o che hai perso la lingua?—

Ed egli zitto, e sempre cogli occhi fissi a terra, duro e cocciuto che metteva dispetto. Tentai ancora una prova: gli presi il mento tra l'indice e il pollice, e, sollevandogli la testa dolcemente, gli chiesi:

—Che cosa dirà tua madre che non ti vede tornare?—

Alzò gli occhi e mi guardò, non più con quella cera attonita e quasi stupidita di prima, ma colle sopracciglia aggrottate e la bocca aperta come se in quel punto soltanto ei cominciasse a capire le nostre parole e aspettasse che, interrogandolo ancora, gli facessimo dire quel che aveva bisogno, e non coraggio, di dire.

—Perchè sei fuggito da casa?—gli domandai di nuovo.

Strinse le labbra, battè celere celere le palpebre, fece un moto della testa e del collo come se trangugiasse qualcosa, e mi ripiantò gli occhi nel viso.

—Ma via, ma parla una volta, dicci la cosa com'è, fatti coraggio. O che hai paura di noi? Perchè sei fuggito da casa?—

Stette muto un momento, e poi diede in uno scroscio di pianto, e tra singhiozzo e singhiozzo mormorò:

—Mi.... pic.... chia.... no!

—Oh povero bambino!—esclamammo tutti a una [Pg 95] voce ponendogli le mani sul capo e sulle spalle e accarezzandogli il mento e le guancie;—oh povero bambino! E chi ti picchia?

—La.... mamma.

—La mamma?—gli chiedemmo tutti insieme guardandoci in volto meravigliati.—O come mai?

—Ma.... non è.... la mia mamma.

Qui il povero ragazzo, pregato e ripregato ancora, ci disse che suo padre era morto da un pezzo, ch'egli non aveva più altri che la matrigna, la quale voleva bene soltanto ai suoi bimbi, e non poteva veder lui, e lo trattava male, molto male, e ch'era un pezzo ch'egli soffriva, e che era fuggito da casa per venire con noi. Non aveva ancora finito di parlare, che noi l'affollammo di carezze e di conforti:—Verrai con noi, buon ragazzo; non ti dar pensiero di nulla. Avrai tanti babbi quanti sono i soldati. Ti vorremo bene per tua madre, per tuo padre, per tutti; sta' tranquillo.—E volendo rasserenarlo e farlo sorridere, io gli soggiunsi:—E a chi ti domanderà di chi sei figliolo e donde sei venuto, tu risponderai che sei figlio del reggimento, e che noi ti abbiamo trovato nel fodero della bandiera; hai inteso?—

Egli, sorridendo lievemente, fe' cenno di sì.

—E intanto,—io continuai,—appena ci metteremo in cammino, tu verrai con me o con un altro qualunque di noi, e gli starai sempre accanto, e camminerai fino che le gambe ti reggano, e quando ti sentirai stanco lo dirai, hai inteso? e noi ti faremo salire sopra un carro.—

Il povero Carluccio, che non potea credere a tante dimostrazioni di benevolenza e temea di sognare, accennava di sì abbassando e rialzando la testa e guardandoci cogli occhi pieni di stupore.

—E adesso come stai?—Ti senti stanco?—Hai sete?—Hai bisogno di mangiare?—Vuoi un po' di caffè?—Vuoi [Pg 96] un po' di rosolio? Di', amico, dove hai messo la fiaschetta del rosolio?—Eccola,—To', bevine un sorso.

—No, grazie, non ho sete;—e faceva atto di respingere la fiaschetta colla mano.

—Bevi, bevi; ti farà bene, ti ridarà un po' di forza.—Bevve.

—Vuoi mangiare? Per ora non c'è altro che un po' di pane.—Oh! lanterna, porgi un pezzo di pane.—

Il soldato che tenea la lanterna trasse premurosamente un pezzo di pane dalla tasca e glie lo porse.

—No, grazie.... non ho mica fame.

—Mangia, mangia; è molto tempo che cammini; hai bisogno di rinvigorirti lo stomaco, mangia.—

Esitò un momento; poi afferrò il pane con tutte e due le mani e lo addentò coll'avidità d'un affamato.

Ci guardammo tutti in faccia.—Di' la verità: quanto tempo è che non mangi?

—È da questa mattina di buon'ora.

—Oh!—

In quel punto s'udì uno squillo di tromba; ci rimettemmo in via. Dopo poco più d'una mezz'ora Carluccio fu colto un'altra volta dal sonno. Gli domandammo ripetutamente s'ei volesse coricarsi sur uno dei carri del vivandiere, ed egli ripetutamente ricusò dicendo:—Non son mica stanco io.... non ho mica sonno.—Ma tratto tratto gli si chiudevan gli occhi irresistibilmente, e si soffermava, e, rimasto un istante immobile come una statua, ripigliava poi l'andare a passi ineguali, descrivendo sulla strada dei lunghi zig-zag e andando talvolta a dar colla testa nel gomito dei soldati....—Animo, Carluccio, vieni con me.—Lo presi per mano e lo condussi alla coda della colonna, dove, scambiata una parola col vivandiere, lo feci coricare sopra un carro, mentre ei mi andava tuttavia ripetendo: [Pg 97] —Non sono mica stanco, io.... non ho mica sonno.... voglio camminare ancora.... voglio....—E s'addormentò d'un sonno profondo mormorando che non aveva bisogno di dormire e che voleva camminare. Poco più di un'ora dopo il reggimento si fermò di nuovo per qualche minuto. Appena sonata la tromba, i soldati dell'ultima compagnia, che mi avevano veduto condurre Carluccio dal vivandiere, accorsero e si affollarono intorno al carro. Un d'essi staccò la lanterna dal fucile e l'avvicinò al volto del ragazzo; gli altri si chinarono a guardarlo. Seguitava a dormire placidamente; teneva la testa appoggiata sopra un sacco di pane, ed aveva ancora gli occhi rossi e la guancia molle di lagrime.—Che bel bambino!—disse sottovoce un soldato.—Come dorme di gusto!—mormorò un altro.—Un terzo allungò la mano e gli strinse una guancia tra l'indice e il medio.—Giù quelle manaccie!—gridarono tutti gli altri.—Lascialo stare.—Lascialo dormire.—Carluccio si svegliò, e lì sul momento, a vedersi tutti quei soldati davanti, ebbe un po' di paura; ma si tranquillò tosto, e sorrise.—Di chi sei figlio?—gli domandò un soldato. Carluccio esitò un istante e poi, sovvenendosi del mio consiglio, rispose serio serio:—Sono il figlio del reggimento.

Tutti i soldati si misero a ridere.—Chi ti ha condotto con noi? Dove fosti trovato?

Altra esitazione, e poi colla più gran serietà:—Mi hanno trovato nel fodero della bandiera.—

I soldati diedero in una risata più forte di prima.—Qua la mano, camerata!—gridò un caporale porgendogli la mano. Carluccio gli porse la sua e se la strinsero.—Anche a me!—disse un altro soldato, e Carluccio strinse la mano anche a lui. E così l'un dopo l'altro tutti gliela porsero ed egli la strinse a tutti. L'ultimo gli disse forte:—Amici per la pelle, non è vero, bambino?—Ed [Pg 98] egli rispose gravemente:—Amici per la pelle.—In quel momento sonò la tromba, i soldati s'allontanarono ridendo, ed io, comparso tutto ad un tratto dinanzi a Carluccio, gli domandai:—Ebbene? Che cosa m'hai da dire di bello?—Mi guardò, sorrise, e rispose:—I soldati mi vogliono bene.—

III.

Arrivammo al campo intorno alla mezzanotte; non mi ricordo quante miglia si fossero fatte da Padova in poi, nè in che punto, presso a poco, si spiegassero le tende. Qualche villaggio, in vicinanza del campo, v'era di sicuro; ma per quanto si guardasse in giro non appariva cima di campanile nè vicino nè lontano. Il cielo, già nuvoloso e scuro che non ci si vedeva una stella, si era fatto sereno. Il prato dove il reggimento doveva piantar le tende era tutto rischiarato dalla luna e circondato d'alberi grandi e folti, che gli facevano intorno intorno un'ombra scurissima; vi regnava un silenzio e una quiete di cimitero; era un luogo pieno di bellezza cupa e severa; e l'animo nostro ne fu in tal modo colpito che si entrò nel campo tacitamente, e tacitamente ci si schierò, guardando attoniti di qua e di là, come se ci trovassimo in un giardino incantato.

In poco d'ora si piantò il campo, si condussero i carri al loro posto, si posero le sentinelle; le compagnie si riordinarono, senz'armi, in mezzo alle proprie tende; e i sedici furieri cominciarono ad alta voce l'appello, ciascuno ritto dinanzi alla sua compagnia, con da un lato gli ufficiali e dall'altro un soldato colla lanterna a illuminargli il taccuino. Intanto Carluccio, ricondottomi [Pg 99] dal vivandiere, era corso a nascondersi in mezzo a due tende e stava là tra impaurito ed attonito a contemplare quello stupendo spettacolo che è un campo illuminato dalla luna. Quella moltitudine di tende biancheggianti in lunghe file fino a perdersi nell'ombra degli alberi lontani; quei cinquecento fasci di baionette luccicanti; tutta quella gente e pur quella sì profonda quiete; e quelle voci monotone dei furieri gradatamente men distinte e più fioche, dalla compagnia li accosto giù giù fino all'ultima, là in fondo, dove la lanterna appare appena appena come una lucciola; e poi il tacersi successivo anche di queste voci, e il misterioso silenzio, e, a un segno di tromba, il subito rompersi delle file e lo sparpagliarsi rumoroso; e sotto le tende, al buio, quel confuso gridìo e quell'affaccendarsi frettoloso a comporre i letti co' cappotti, le coperte e gli zaini, finchè a poco a poco in tutto il vasto campo si ristabilisce la quiete e una tromba non vista impone con prolungati e quasi lamentevoli squilli il silenzio.... è uno spettacolo che commove. Carluccio non aveva mai veduto un campo, e ne rimase profondamente ammirato e quasi intenerito. E ci sarebbe di che intenerirsi davvero, chi potesse vedere dentro tutte quelle tende! Quanti moccolini accesi segretamente in mezzo a due zaini, accanto a un foglio di carta da lettere sgualcito, dinanzi a una faccia in cui si palesano ad un tempo e la fatica del lungo cammino e la paura dell'ufficiale di guardia, che pover'a noi se si avvede del lume, e la lotta penosa fra l'affetto che prorompe impaziente e la parola che s'ostina a non venir fuori! Quello è il luogo e quella è l'ora dei ricordi melanconici. Là, sotto quelle tende, quando tutto tace all'intorno, là s'affollano le immagini dei parenti lontani e degli amici del proprio paese, immagini vive e parlanti; care, su tutte, quelle delle [Pg 100] madri che vengono ad accomodar lo zaino sotto la testa al figliuolo pregando dentro al core:—Dio mio! fate che non sia questo il suo ultimo sonno!—Chi non ha versato una lagrima, la sera, sotto la tenda, a quell'ora?

—Vieni qua, Carluccio.—

Venne, e io lo condussi sotto la tenda conica della mia compagnia, dove m'avevano preceduto gli altri due ufficiali subalterni (il capitano era malato); due di que' giovani pieni di cuore, che, sotto l'apparenza d'un'indole dolce e mansueta, racchiudono un'anima capace di grandi cose; di quei bravi soldati che, ignorati o indistinti dai più nelle congiunture della vita ordinaria, giganteggiano improvvisamente sul campo di battaglia, e si rivelano eroi, e fanno dire dalla gente:—chi l'avrebbe mai detto!—Gente che ama la vita soltanto per questo, che, quando occorre, si può spenderla a un buon fine.

La tenda era illuminata da una candela confitta in terra, e i miei due amici stavan seduti uno di qua e l'altro di là, colle gambe incrociate sopra uno strato di paglia che le nostre ordinanze aveano frettolosamente raccolta in una scappatella dal campo. Appena entrati, ci sedemmo anche noi e si cominciò a chiacchierare.

Carluccio teneva gli sguardi bassi e appena appena, quand'era interrogato, osava levarceli in volto un momento per riabbassarli subito dopo. Aveva ancora gli occhi gonfi e rossi dal gran piangere, e gli tremavano le mani e la voce, e quelle non sapea come muovere o dove tenere, e questa gli usciva rauca e fioca, che era una pietà a sentirlo; imbarazzato e confuso come un colpevole, povero ragazzo! A forza d'interrogarlo e di pregarlo e di fargli coraggio a parlare, riuscimmo a snodargli la lingua e a cavargli di bocca qualcosa di più particolare intorno alla sua famiglia. Poi a poco a poco [Pg 101] egli pigliò animo e s'infervorò nel discorso, confortato dagli atti d'assentimento e di pietà che andavamo continuamente facendo alle sue parole, per modo che, a un certo punto, noi pendevamo dal suo labbro, meravigliati e commossi.

—Non è mia madre vera—egli diceva—ecco perchè non mi vuol bene. L'altra che era mia madre vera e che è morta, l'altra mi voleva bene, e molto; ma questa che ho adesso.... È lo stesso come se non ci fossi, io, in casa; mi dà da mangiare, questo sì, e anche da dormire; ma non mi guarda quasi mai, e quando mi parla mi parla sempre come se fossi un.... come se avessi fatto qualche gran male; e io invece non faccio mai niente di male a nessuno, e tutti possono dirlo, e i vicini di casa mi vogliono più bene di lei.... Gli altri due ragazzi che sono più piccoli di me, oh quelli lì non c'è caso che li faccia piangere! Sono sempre ben vestiti, ed io paio uno di quelli che vanno a domandare l'elemosina....

—Poverino!—gli disse uno dei miei amici facendogli una carezza.

—E poi essa non mi conduceva mai a passeggiare cogli altri due. Certe volte mi lasciava chiuso in casa, solo, quelle sere di domenica che si vede passare tanta gente nella strada, e io stava alla finestra ad aspettare che essi ritornassero, ed essi non tornavano mai e io mi addormentavo colla testa sopra il davanzale. Poi, quando tornavano, essa mi sgridava; io era rimasto chiuso in casa, e loro erano andati al teatro o al caffè, e gli altri due ragazzi me lo venivano a dire nell'orecchio:—Noi siamo andati, e tu no, e tu no,—e poi mi facevano anche le corna perchè io mi arrabbiassi, e se io mi metteva a piangere, essi mi burlavano e la mamma non diceva niente. E a me quelle cose lì mi facevano dispiacere, ecco, perchè io a loro non avevo mai fatto [Pg 102] niente di male, e tutte le volte che l'uno o l'altro mi veniva a far le belle e mi pigliava la voglia di lasciargli andar giù qualche.... mi trattenevo sempre e avevo pazienza. V'era delle volte che la mamma, quando avevano finito di mangiare, mi faceva portar via i piatti, e mentre li portavo via i ragazzi mi dicevano:—Guattero.—Oh Dio! Se mi avessero dato un pugno sulla testa non mi sarebbe rincresciuto tanto come sentirmi dire quella parola.... Una volta, la sera d'un giorno di festa, la mamma tornò a casa tardi tardi e aveva il viso tutto rosso e gli occhi tutti lustri lustri e parlava e rideva forte cogli altri due, e tutti e tre si posero a cenare e la mamma bevve tutta la bottiglia del vino. E dopo che ebbero finito, mi chiamò, mi pose tutti i piatti tra le mani, e mi disse:—To', porta via, mariuolo; è il tuo mestiere.—E mi diede un calcio e si misero a ridere tutti e tre. Io non dissi niente; ma quando fui in cucina posai i piatti e mi gettai sopra una seggiola e stetti lì a piangere come un disperato, al bujo, fin che se ne andarono a dormire. Se non era Giovannina, una giovane che stava di casa vicino a noi e faceva la sarta e mi voleva bene, io sarei stato sempre tutto stracciato....

—Povero bambino! ripetè il mio amico. Io gli domandai in che modo s'era risoluto a fuggire.

—Da principio—egli rispose—io volevo scappare con una compagnia di ciarlatani, di quei che fanno i giuochi e che quando trovano dei ragazzi che nessuno li vuole, se li pigliano con sè; ma poi mi hanno detto che c'è dei giuochi che per insegnarli a fare i ciarlatani bisogna che sloghino le ossa delle spalle, e che bisogna averle slogate fin da piccoli, e io era già troppo grande, e non sono scappato. La mamma intanto continuava a trattarmi male e a darmi poco da mangiare. Ma un bel giorno cominciarono a passare i soldati dell'Italia, e tutta la [Pg 103] gente faceva una gran festa a quei soldati, e i ragazzi li accompagnavano fuori di città e ce n'era di quelli che li accompagnavano anche per molte miglia; e anzi io ho saputo che ce n'erano scappati da casa due o tre, ed erano stati via due o tre giorni, e poi se n'erano tornati, e dicevano di aver mangiato del pane dei soldati e dormito sotto le tende. Io pensai subito a scappare. Mi ci provai due o tre volte; ma quando cominciava a farsi buio, mi pigliava un po' di paura, e tornavo a casa. Ma ieri mattina mia madre mi picchiò con una verga e mi fece molto male; guardino qui i segni nelle mani, e poi me ne ha date anche nel viso, e tutto questo perchè io avevo risposto:—Crepa,—a uno dei ragazzi che mi burlava dicendo che ho le scarpe che sembrano barche; e non mi diedero nemmeno un pezzo di pane, e po' la sera mi lasciarono solo in casa. Io stava alla finestra colle lagrime agli occhi ed ero proprio disperato, quando tutto ad un tratto ho sentito suonar la musica, sono uscito subito di casa e appena vidi che erano i soldati del re che c'è adesso, di quello che è venuto a liberare, mi sono gettato in mezzo a loro, e non li ho più lasciati... Poi lei mi parlò.... (e mi guardava). Poi mi hanno detto che non avessi paura, mi hanno dato da mangiare... Io avevo una fame! E mi dissero poi ancora che mi volevano tenere con loro.... Ma io non voglio mica star qui come un povero a mangiare il pane per niente; io voglio lavorare.... spazzolerò i panni.... (e mi toccava la tunica), porterò da bere, andrò a prendere la paglia per dor....—

Ci alzò gli occhi in volto, fece un atto di sorpresa e rimase attonito a guardarci. Uno dei miei amici gli gettò le braccia al collo e se lo strinse sul petto, mormorando:—Povero ragazzo!—

E stettero tutti e due immobili così.

[Pg 104]

IV.

Sul far del giorno, prima ancora che si sonasse la sveglia, ci destò il rumore d'una pioggia fittissima e un violento scoppio di tuono. Misi io pel primo la testa fuori della tenda. Nel campo, all'infuori delle sentinelle, non si vedeva anima viva; ma tutti o quasi tutti i soldati eran già desti. Di fatti, allo sfolgorar d'ogni lampo, sonava da tutte le parti dell'accampamento un acutissimo e prolungatissimo brrr, come fanno i burattinai per annunziar l'apparire e lo sparire del diavolo; e ad ogni scoppio di tuono un altro fragoroso e prolungato grido ad imitazione di quello scoppio. Indi a poco fu sonata la sveglia, e il capitano di guardia chiamò gli ufficiali di settimana al rapporto per annunziare che dentro tre ore ci saremmo rimessi in cammino. Questo annunzio mi fece subito pensare a Carluccio. Io non m'ero ancora domandato che cosa alla fin fine avremmo fatto di quel ragazzo.—Il figlio del reggimento! Son due belle parole e presto dette; ma avevamo noi il diritto di tenerlo lontano da casa? E chi si sarebbe addossata questa responsabilità, poichè qualcuno avrebbe pur dovuto addossarsela?—Parlai di questo agli amici e tutti convennero ch'era necessario provvedere al rinvio di Carluccio, scrivendo al Sindaco di Padova e rivolgendosi alle Autorità del villaggio più vicino. Era una decisione dolorosa codesta; ma come farne a meno? Mi restava però una speranza: e se da Padova non rispondessero? E se la matrigna non rivolesse più il suo figliastro? L'incarico di scrivere a Padova me lo assunsi io stesso e a gran malincuore e a stento, scrissi; ma l'altro incarico, quello di condur Carluccio al villaggio e di consegnarlo alle Autorità, oh [Pg 105] questo poi non me lo volli proprio addossare.—Ci pensino gli altri—dissi tra me;—io la mia parte l'ho fatta.—E cercai e pregai uno per uno i miei amici perchè facessero quel che restava da farsi.—Che c'entro io?—mi fu risposto da ognuno di loro.—Ed io?—domandavo alla mia volta.—Ebbene, non c'entriamo nessun dei due.—E il dialogo si troncava così. Tornai alla tenda indispettito.

—Carluccio!

—Che cosa vuole, signor ufficiale?

Bisogna che tu venga con me fino al villaggio, a pochi passi di qua.—

Un subito sospetto gli attraversò la mente; si fece serio serio, e mi guardò fiso negli occhi. Io non aveva saputo dissimulare il mio disegno nè col suono della voce nè coll'espressione del viso; mi voltai da un'altra parte, e finsi di cercar qualcosa nella mia borsa da viaggio.

—Mi vogliono mandare a casa!—egli gridò tutt'ad un tratto; ruppe in un pianto disperato, si gettò in ginocchio ai miei piedi, e ora giungendo le mani, ora afferrandomi per la tunica, cominciò a dire con impeto vivissimo di passione:—No, no, signor ufficiale, non mi mandino a casa, per pietà, per pietà; io non posso tornare a casa, io piuttosto vorrei morire; mi tengano qui, mi diano da fare tutto quello che vogliono chè io farò tutto, e al mangiare ci penserò io.... Per pietà, signor ufficiale, non mi facciano tornare a casa....

Io mi sentiva straziare il cuore; mi contenni un istante e poi proruppi anch'io:—No, no, datti pace, Carluccio, non piangere, non aver paura, non ti rimanderemo a casa, no; resterai con noi, sempre con noi, ti vorremo sempre bene...; te lo prometto, stanne sicuro, non piangere, povero ragazzo; non pianger più....

A poco a poco si quietò.

[Pg 106]

—Non sono proprio nato per far le parti terribili, via,—dissi tra me uscendo dalla tenda;—non c'è altro che aspettare la risposta da Padova, e poi.... e poi vedremo ciò che sarà da fare.—

Due giorni dopo ci accampavamo in vicinanza di Mestre, dove restammo fermi quasi un mese, fino alla stipulazione dell'ultimo armistizio, vale a dire fino a quando ritornammo indietro verso Ferrara.

Passano cinque giorni, ne passano sette, ne passano dieci, e la risposta da Padova non arriva. Si scrive un'altra volta, s'aspetta altri cinque giorni, altri sette, altri dieci, e nessuna risposta.—Che si siano smarrite le lettere? io pensava. Niente di più facile con questo bel servizio di posta! O che l'abbiano ricevute e, assorti in cure più gravi, non se ne sian dati per intesi? Anche questo è possibile. O che, bandita la voce del fatto, la matrigna, pur riconoscendo dai contrassegni che il ragazzo in quistione era il suo, abbia fatto orecchie da mercante, contentona che l'esercito liberatore abbia liberato anche lei da un ospite importuno? Ah! questa è la più probabile. Anzi la dev'essere andata così di sicuro. E in questa certezza non si scrisse più nè a Padova nè altrove. E con che pro si sarebbe scritto se non eravamo riusciti nè colle buone, nè colle cattive a strappar dalla bocca di Carluccio nè il cognome suo, nè quello della matrigna, nè la casa, nè il mestiere, nè qualsivoglia altro indizio per cui riuscisse possibile di scuoprire la sua famiglia?

V.

Carluccio continuò a restare con noi. Si provvide subito a rinnovargli i vestiti, perchè i suoi, già dapprima ricisi e rattoppati da tutte le parti, oramai gli si [Pg 107] erano sciupati del tutto in quei due o tre giorni di marcia, e gli cadevano a brani. Un cappelletto di paglia, una giacchettina e un par di calzoni di tela, una bella cravatta rossa, due scarpette ben adatte al suo piccolo piede: oh povero ragazzo, come fu contento quando gli presentammo tutta codesta roba! Pareva che non credesse ai suoi occhi; si fece rosso, voltò la testa da un'altra parte, aveva quasi il sospetto che gli si volesse fare una burla, fece molte volte col gomito l'atto di respingere da sè quell'insperato regalo, e tenne lungamente il mento sul petto. Ma quando vide che noi cominciavamo a stizzirci un poco di quella sua restìa incredulità e facevamo l'atto di andarcene dicendo:—Vestiremo un altro ragazzo;—allora alzò all'improvviso la testa, fece un passo verso di noi, accennò colla mano che ci fermassimo ed esclamò con voce di pianto:—No! no!—Ma si vergognò tosto di quel suo pregare, e chinò un'altra volta la testa e stette là immobile cogli occhi bassi e pieni di lagrime. Quando poi ebbe i suoi panni in dosso ne fu tanto imbarazzato che non sapea più nè camminare, nè gestire, nè parlare.

—Cospetto, Carluccio!—gli dicevano i soldati facendogli largo quando passava furtivamente in mezzo a loro;—cospetto che lusso!—Ed egli diventava rosso, e via di corsa.

Ma in capo a poco più d'una settimana si fe' vispo, disinvolto e arditello come un tamburino; divenne amico di tutti i soldati della nostra compagnia e di gran parte dei soldati delle altre, e di tutti gli ufficiali del reggimento, e d'allora in poi prese a condurre una vita continuamente operosa e utile a sè ed agli altri. Dormiva sotto la nostra tenda. La mattina, al primo rullo di tamburo, era in piedi e spariva. Non eravamo ancora ben desti, che già egli era tornato dalla cucina del nostro [Pg 108] battaglione col caffè, col rum, o con altro che fossimo assuefatti a pigliare, e:—Signor ufficiale,—diceva con quella sua vocina rispettosa,—è ora....—Ora di che?—si brontolava noi con voce aspra e arrantolata, soffregandoci gli occhi.—Ora che si levino.—Ah! sei tu Carluccio? Qua la mano.—E gli davamo una stretta di mano che lo metteva di buon umore per tutto il giorno.

Contendeva il compito alle nostre ordinanze, voleva spazzolar panni, lustrar bottoni e sciabole e stivali, lavar camicie e pezzuole: volea far tutto lui, e pregava umilmente ora l'uno ora l'altro soldato che per piacere gli dessero qualcosa da fare, che lui avrebbe fatto tanto volentieri, e che si sarebbe anco ingegnato di far bene, e che a ogni modo bisognava ch'egli imparasse, che aveva bisogno d'imparare, che voleva imparare. Qualche volta noi eravamo costretti a levargli gli oggetti di mano, e a dirgli con una certa severità:—Fa quel che ti si dice di fare, e non cercare più in là.—E bisognava fare i severi perchè in buona coscienza non potevamo permettere ch'ei pigliasse l'uso di farci il servitore. Perchè, povero ragazzo? L'avevamo forse condotto con noi a tal condizione? Egli aveva un gran timore che a poco a poco lo pigliassimo in uggia, comunque non si facesse che colmarlo di carezze e circondarlo di cure e di cortesie; gli pareva che, a non lavorare, ei dovesse finire col parerci un aggravio inutile, e però si sforzava di mostrarci ch'era pur buono a far qualcosa o che, se non altro, aveva del buon volere. Pure il timore di parerci importuno qualche volta lo assaliva e gli dava pena. Tratto tratto, mentre mangiava con noi seduto in terra attorno a un tovagliolo steso sull'erba, accorgendosi improvvisamente d'esser guardato, si vergognava di mangiare, diventava un po' rosso, abbassava gli occhi, faceva [Pg 109] dei bocconi piccini piccini, e se non si badava noi ad empirgli il bicchiere, egli non ardiva di farlo, e stava a bocca asciutta magari per tutto il tempo del desinare. Talvolta sotto la tenda, mentre si stava pigliando sonno, egli, all'improvviso, si vergognava di occupar tanto spazio e di giacere sopra tanto strame, e si levava a sedere e lo sparpagliava di qua e di là verso i nostri posti, riserbandone una piccola parte per sè, e coricandosi poi tutto rannicchiato rasente la tela della tenda, a rischio di pigliar qualche malanno per causa della brezza. Non mi sfuggiva pur uno di tutti questi suoi atti, nè uno de' suoi pensieri, e mi affrettavo sempre a dissipare le sue vergogne o apostrofandolo allegramente:—Ebbene, Carluccio?—o stringendoli la guancia fra l'indice e il medio con quel fare che significa:—Vivi in pace, ti proteggo io.—Ed egli subito si rassicurava. Oh che mesta e amorosa pietà mi metteva in cuore quella sua delicata vergogna!—Povero Carluccio,—pensavo io, quando, ardendo ancora il lume sotto la tenda, lo vedevo dormire quieto e tranquillo, tutto ravvolto nel mio cappotto e colla faccia nascosta per metà dentro il berretto d'un soldato;—povero Carluccio! Perchè non hai più madre, tu ti credevi solo sopra la terra, e non ti immaginavi che alcuno ti potesse voler bene! No, Carluccio; pei fanciulli senza madre e senza padre ci sono i soldati; essi non hanno che un pezzo di pane in tasca; ma in compenso chiudono molto tesoro d'affetto nel cuore, e dispensano generosamente l'una e l'altra cosa a chi n'ha bisogno. Dormi tranquillo, Carluccio, e sogna tua madre; ella certo ti guarda di lassù, ed è ben lieta che tu sia fra noi, perchè sa che sotto i nostri ruvidi cappotti batte il suo cuore.

Di giorno era continuamente in faccende. Andava fuori del campo a prender acqua pei soldati quando era proibito d'uscire; e lo si vedeva in giro in mezzo alle [Pg 110] tende tutto carico di borraccie e di gamelle, rosso in viso, sudante, accompagnato da una folla di assetati, che gli si stringevano ai panni e gli facevano ressa.—Carluccio, la mia gamella;—la mia borraccia, Carluccio;—voglio prima la mia;—no, la mia, te l'ho data prima di lui;—e no,—e sì.—Ed egli a far cenno che si quetassero e a sospingerli indietro:—Uno alla volta, da bravi; fatemi il piacere; tiratevi un po' in là; lasciatemi respirare.—E si asciugava la fronte e pigliava fiato, chè proprio gli era stanco e sfinito da non poterne più. Di quando in quando qualche soldato lo ricercava per farsi scrivere una lettera a casa, o per farsene leggere e spiegare una ricevuta. Questo favore ei lo faceva con molta gravità. Stava un momento sopra pensiero e poi diceva serio serio:—Vediamo.—Si sedevano sotto la tenda e, dopo aver molto ragionato tutti e due coll'indice teso verso il foglio scritto o da scriversi, finalmente Carluccio, rimboccate le maniche della giacchetta, si metteva all'opera agrottando le sopracciglia, stringendo le labbra e mandando fuori un suono inarticolato che voleva dire:—È un affar serio; ma via, farò tutto quel che potrò.—

Aiutava poi ora l'uno ora l'altro ad accomodare le tende, e ci aveva un garbo a tirare quelle cordicelle e a conficcare in terra quei piuoli, da far credere ch'ei non avesse fatto mai altro in vita sua.

Quando si facevano gli esercizi egli si ritraeva in un angolo del campo, e di là ci guardava estaticamente per tutto il tempo che gli esercizii duravano. Quando tutto il reggimento era schierato e faceva il maneggio dell'armi, quel povero ragazzo andava in visibilio. Quel battere sulla terra di mille e cinquecento fucili, in un colpo solo, come un solo fucile; quel lungo ed acuto tintinnìo di mille cinquecento baionette inastate, tolte, [Pg 111] rimesse e ringuainate in un momento; quel poderoso tonar dei comandi, e quel profondo silenzio delle file e tutte quelle faccie immobili ed intente come statue; lo spettacolo di tutte queste novità lo accendeva d'entusiasmo, gli metteva addosso una irrequietezza, una smania di fare, di gridare, di correre, di saltare, e tutto questo egli faceva sempre e subito appena il reggimento aveva rotto le righe; prima no. Prima si contentava di pigliare degli atteggiamenti eroici e di guardarci colla testa alta e l'occhio fiero, senza accorgerssene, notate; assecondava inconsapevolmente i moti dell'animo, come quando qualcuno, narrando, ci commove, e noi esprimiamo coi moti del volto intento il senso e gli affetti delle cose narrate.

Quando poi sentiva la musica del reggimento, pareva matto.

Quelle sere che qualcuno di noi doveva andare agli avamposti, egli si mostrava di un umore un po' men gajo del consueto.—Buona notte, signor ufficiale!—ci diceva, con un lungo sguardo, quando partivamo; e, uscito fuor della tenda, stava a guardarci fin che non eravamo spariti.

Questi modi affettuosi e così spontaneamente gentili ei li usava con tutti, ufficiali e soldati; e però tutti lo amavano. Quando passava in mezzo alle tende d'una compagnia qual si fosse, era un chiamarlo da tutte le parti, un tender di braccia per trattenerlo, un alzarsi e un corrergli dietro dei soldati con le lettere in mano:—Carluccio, un momento, un momento solo, una parola, solamente una parola.—Gli ufficiali li salutava militarmente e con un'espressione di più o meno profondo rispetto a seconda de' gradi, che egli aveva imparato a distinguere fin dai primi giorni. Aveva una gran paura del colonnello. Quando lo vedeva di lontano o se la dava [Pg 112] a gambe o si rannicchiava dietro una tenda; il perchè non lo sapeva neanco lui. Ma un giorno, mentre egli stava a chiacchiera con due o tre soldati presso alla tenda d'un aiutante maggiore, eccoti sbucare all'improvviso il colonnello. Tremò da capo a piedi; non era più in tempo a nascondersi; bisognava guardarlo e salutarlo; alzò gli occhi timidamente e portò la mano al cappello. Il colonnello lo guardò, gli passò la mano sotto il mento e gli disse:—Addio, buon ragazzo.—Carluccio andò a un pelo dall'impazzare; volò subito da noi, e, ansando e balbettando, narrò l'accaduto.

Cosa strana in un ragazzo della sua età, egli non abusò mai menomamente della famigliarità con cui si trattava. Sempre docile, umile, rispettoso, come il primo giorno in cui lo raccogliemmo sulla via. E di quel fortunato giorno tratto tratto ei ce ne soleva parlare; non mai però senza che gli luccicasse qualche lagrima negli occhi. Aveva anche le sue ore melanconiche, specialmente i giorni di pioggia, quando tutti i soldati stanno raccolti sotto le tende, e il campo è tacito e deserto. In quell'ore egli stava seduto sotto la tenda colla faccia verso l'apertura e gli occhi immobili a terra come se contasse le goccie di pioggia che venivano dentro.—Carluccio a che cosa pensi?—gli domandavo.—Io? a niente.—Non è vero, vieni qua, povero Carluccio, vieni qui accanto a me; io non sono che uno fra i tanti che ti vogliono bene; ma ti voglio bene per tutti. Siediti qua; discorriamocela fra noi altri due, e via dal cuore tutte le malinconie.—Egli piangeva. Ma eran malinconie che svanivano presto.

[Pg 113]

VI.

In un angolo del campo v'erano due piccole case, abitate da una buona famigliola di contadini, nelle quali si era stabilito il quartier generale delle cucine di tutti gli ufficiali dei quattro battaglioni. Figuratevi che confusione! V'erano da sei a otto soldati, tra cuochi e guatteri, per ogni cucina; un continuo litigarsi dei primi che non sapevano far niente e volevano insegnarsi l'un l'altro a far tutto; un continuo bisticciarsi degli altri che rivaleggiavano per diventar cuochi; un continuo va e vieni di ordinanze a prendere il desinare per gli ufficiali agli avamposti, e contadini, e venditori, e ragazzaglia dei dintorni: una babilonia.

In una nuda stanzaccia di quelle case fu ricoverato Carluccio quando lo colse la febbre. La quale da molti giorni infieriva nel reggimento a tal segno che, ogni giorno, n'eran colti da tre a cinque a sette soldati per ogni compagnia. Carluccio l'ebbe tanto forte che si temeva ne morisse. Il medico del reggimento lo curò con una sollecitudine che non si poteva maggiore; tutti noi gli femmo un'assistenza più che paterna.

Fra le tende e la porta della sua stanza era un incessante andirivieni di soldati. Entravano in punta di piedi, s'avvicinavano adagio adagio al suo letticciuolo, lo guardavano negli occhi ch'ei moveva intorno gravi e socchiusi o teneva lungamente immobili sul volto delle persone senza dar segno di conoscerle; lo chiamavano per nome, gli posavano una mano sulla fronte, si facevano l'un l'altro certi cenni per dirsi il proprio parere sullo stato del piccolo infermo; poi si allontanavano tacitamente, si soffermavano sul limitare della porta per [Pg 114] guardarlo ancora una volta, e uscivano scotendo la testa in atto di dire:—Poveretto!

—Carluccio, come stai?—gli chiesi un giorno quand'ei cominciava a star meglio.

—Mi rincresce.... egli rispose, e lasciò la risposta a mezzo.

—Che cosa ti rincresce?

—Non posso....

—Ma che cosa non puoi?

—.... Far qualche cosa.—E abbassò gli occhi e mi guardò le scarpe e i calzoni, e soggiunse:—.... Fanno tutto gli altri....

Voleva dire delle ordinanze che ripulivano tutta la nostra roba esse sole, senza che egli le potesse aiutare.

—E io son qui...., disse ancora con voce di pianto,... son qui.... a non far niente.... d'imbarazzo.... Voglio....—E fece uno sforzo per levarsi a sedere; non ci riuscì e ricadde colla testa sul guanciale e si mise a piangere.—Che bell'anima!—io esclamai, e dissi e feci quanto seppi per consolarlo.

VII.

—Come si fa a far le ritirate i giorni delle battaglie? È vero che i soldati non camminano più al loro posto e vanno ognuno dove gli pare?—Questa domanda dirigeva Carluccio, una sera, ad uno degli ufficiali della mia compagnia, il quale, seduto accanto al suo letto, lo svagava con que' fantastici racconti di guerre e di battaglie, che si soglion fare ai fanciulli. L'interrogato sorrise, certamente pensando quanto una tale domanda avrebbe potuto parer sottile e furbesca dove non l'avesse fatta un fanciullo di quell'età, ed anco beffarda se non l'avesse fatta un amico.

[Pg 115]

E sorrisero pure altre due persone che si trovavano là, sedute anch'esse accanto al letticciuolo; l'una delle quali era un consigliere comunale d'un paesello vicino; l'altra il proprietario di quegli stessi terreni che il nostro reggimento occupava; due ometti di mezza età, molto gioviali, molto panciuti e, ben inteso, molto sviscerati della causa italiana; soliti a venir la sera in quella stanzuccia per istare un po' a chiacchiera coi «valorosi» ufficiali dell'esercito italiano; gente di campagna, alla buona, cui si leggeva il buon cuore sul viso, e che ogni giorno, prima di accomiatarsi da noi, non tralasciavan mai di ripetere molto enfaticamente che con de' soldati come i nostri la fortezza di Malghera si poteva pigliarla addirittura con un assalto alla baionetta.—Ma credano,—dicevamo noi;—la cosa non è poi tanto facile come pare a loro!—Oh!—rispondevano sorridendo con molta dignità,—lo slancio del soldato italiano....—E compivano la frase con un gesto che voleva dire:—Eh, eh, ben altri miracoli può fare.

—Come si fa a far le ritirate?—domandò alla sua volta l'uffiziale interrogato.—È una domanda un po'....

—Vaga,—suggerì il consigliere.

—Appunto.—

Carluccio tacque e si diede a pensare qualcos'altro da domandare. Intanto il Consigliere, che era stato un momento sopra pensiero, uscì fuori a dire:

—Eppure, a pensarci su, ha da essere un gran doloroso spettacolo quello d'una ritirata.

E tacque in atto di aspettare una risposta.

—Sentano,—rispose l'ufficiale facendosi tutto ad un tratto pensieroso.

Gli altri due, presentendo un discorso lungo, avvicinarono le loro seggiole a quella del mio amico, e composero anch'essi la faccia a un'intenta serietà.

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—Sentano,—ripigliò l'ufficiale con voce vibrata;—v'è un dolore appetto al quale la morte dei nostri più cari, la perdita delle nostre più belle speranze e i più inattesi e più fieri disinganni della vita non sono che una mestizia sfuggevole, un turbamento leggero, un nonnulla; e questo dolore è quello che ci strinse l'anima quella sera.... Il mattino felici, ebbri di gioia, ardenti di un entusiasmo che ci cavava le lagrime e ci faceva prorompere in grida da forsennati, impazienti della battaglia, certi, si può dire, della vittoria; e poche ore dopo.... ecco quell'esercito tanto fresco di gioventù, tanto pieno di vita, tanto forte di ardimento e di fede, quell'esercito idolatrato dalla patria, frutto di tanti sacrifici, oggetto di tante cure, argomento di tante trepidazioni e di tante speranze; eccolo, poche ore dopo, vinto, disordinato e sparpagliato per la campagna, rifar mestamente le vie percorse il mattino quasi in sembianza di vincitore.... Ah! gli è uno spettacolo che strazia l'anima, che atterra, che schiaccia; è un dolore che nessuna parola umana basta a significare.—Chi ci renderà,—domandavamo desolatamente a noi stessi,—chi ci renderà il nostro cuore di stamane, il nostro orgoglio, la nostra fede, la nostra forza? Chi ci richiamerà negli occhi quelle lagrime d'entusiasmo? Chi rialzerà l'edifizio su queste dolorose rovine? E che dirà il paese?... Oh, il paese!—Il pensiero ne rifuggiva atterrito; ci pareva di risentire le grida e gli applausi con cui le popolazioni delle città ci avevano accompagnati alle porte, e quegli applausi e quelle grida ci scendevano nel cuore e gli davan delle strette terribilmente dolorose.—Oh tacete!—dicevamo dentro di noi—tacete, siamo soldati, e il nostro povero cuore si spezza!—

Seguì un minuto di silenzio. Il consigliere esclamò mestamente:

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—E che scompiglio, figuriamoci, dev'esservi stato quella sera!...—

L'ufficiale rispose con un cenno del capo. Altro minuto di silenzio.

—E la sua divisione—interrogò con molta dolcezza il padrone di casa—a che ora, presso a poco, cominciò a ritirarsi?—

L'accento della domanda e l'atteggiamento del volto esprimevano apertamente il suo vivo desiderio di sapere come le cose fossero veramente andate, e non come le dicevano o l'avevano dette i giornali. L'ufficiale capì, e, come egli era un molto facondo parlatore, cominciò subito così:

—Se la memoria non m'inganna, la mia divisione cominciò a ritirarsi dal campo poco dopo il tramonto. I diversi corpi giungevano a passi concitati dalle diverse parti della campagna sullo stradone che mette in Villafranca; quivi le file si disfacevano, i reggimenti si mescolavano, ogni apparenza di ordine scompariva, e una turba tumultuosa si versava di corsa nella città, allagando rapidamente la via principale e la piazza e i vicoli e i cortili di gran parte delle case. Arsi dalla lunga sete, una gran parte dei soldati si slanciò ai pozzi con un'avidità rabbiosa e con certe grida di gioia selvaggia che mettevano spavento. Dieci, venti, trenta, i primi col ventre sul parapetto, gli altri col petto sulla schiena dei primi, si spenzolavano sopra la bocca d'un pozzo, co' piedi sollevati da terra, a gran rischio di cader giù a capo fitto, e si contendevano colle mani convulse la fune, il secchio, la manovella, respingendosi l'un l'altro a colpi di gomito, a fiancate, a pedate, minacciandosi di por mano alle baionette e urlandosi nell'orecchio imprecazioni e bestemmie; finchè il secchio, tirato su da dieci braccia vigorose, cominciava a vedersi luccicare; e [Pg 118] allora le ire e le grida e le percosse raddoppiavano, tutte le braccia si protendevano all'ingiù per afferrarlo le prime; su, su, ancora un tratto, ancor un altro, eccolo; venti mani lo afferrano, dieci bocche infocate gli s'inchiodano agli orli, tira di qua, tira di là, l'acqua agitata trabocca e si spande sulle faccie e sui panni e sul terreno; chi ha bevuto? nessuno; così da per tutto. La più parte dei soldati si erano sparpagliati pel paese; qualche battaglione, fraintesi gli ordini ricevuti, non era nemmeno entrato in Villafranca, e s'era diretto verso la strada di Goito pei sentieri dei campi; ond'è che dei corpi non restava più, si può dire, che il nucleo; il colonnello, il portabandiera, gran parte degli ufficiali e pochi soldati; delle bande, nessuna. La folla di cui eran piene le strade mandava un gridìo assordante; era un chiamarsi ad alta voce, un fender la calca a spintoni, un correre di ufficiali qua e là ad agguantare soldati pel braccio e riunirli e spingerli intorno alla bandiera, un via vai di aiutanti di campo e di staffette a cavallo; nel centro della piazza un aggrupparsi frettoloso di colonnelli e di ufficiali di stato maggiore, un interrogare ansioso, un dare e rivocare concitato di comandi; tutti ansanti, co' volti accesi; gli sguardi, gli atti, gli accenti improntati d'un abbattimento, d'una costernazione profonda: uno spettacolo desolante. Finalmente, come Dio volle, seguìto da una trentina di soldati, che dovettero sfilare uno a uno fra una colonna di carri e le ultime case del paese, fui fuori all'aperta campagna, sulla strada che mena a Goito. Ritrovai il mio battaglione, ridotto a uno sciame di poco più di duecento soldati, e con esso proseguii il calmino. A poco a poco si fece buio perfetto; non ci si vedeva di qui a lì; mezza la strada ingombra di carri d'artiglieria e di provianda che si fermavano ad ogni tratto, così che s'aveva un gran da fare a non [Pg 119] rompersi il viso contro la punta di qualche sbarra e a guardarsi i piedi dalle ruote; fossi a destra e a sinistra della via; paracarri e mucchi di pietre ad ogni passo; di tratto in tratto carri rovesciati nel bel mezzo della strada, e sacca aperte ed ogni maniera di provvisioni da bocca sparpagliate; ad ogni po' di cammino il carretto d'un vivandiere fermo, con suvvi un lumicino e attorno una grossa turba di soldati che impedivano il passo ai sopravvegnenti; di tempo in tempo un qualche maggiore o ufficiale di stato maggiore a cavallo che ti capitava alle spalle mentre men te 'l pensavi, e pover'a te se non eri lesto a scansarti; da tutte le parti gruppi di soldati che ti obbligavano a serpeggiare sulla via come una saetta; ad ogni momento canne di fucili che venivano a un pelo dal cavarti gli occhi e violenti urtoni di addormentati; un polverio denso e continuo che t'empiva gli occhi e la bocca; un incessante vociare di soldati d'artiglieria contro i carrettieri borghesi, che, storditi in mezzo a tanto scompiglio, ingombravano malamente la strada; un gridar rabbioso d'ufficiali che s'affaccendavano invano a rannodare gli sparsi avanzi del proprio pelottone; soldati che salivano e scendevano continuamente dalla strada nei campi e da' campi sulla strada, precipitando e rotolando giù per le sponde dei fossi; in somma una confusione, un frastuono, uno stordimento da non potersi ridire; una notte d'inferno. Oh! gli è un gran tristo spettacolo quello d'una ritirata!

Gli stenti della giornata, e più ancora le tante e sì varie e sì violente commozioni dell'animo in così breve spazio di tempo, avevano stremate le mie forze; io era stanco morto; adocchiai un carro d'artiglieria dove c'era un posto vuoto, colsi il primo momento in cui si fermò, salii, gli artiglieri mi fecero largo, sedetti, mi appoggiai e presi sonno. Mi svegliai sul far del giorno. [Pg 120] Eravamo a pochi passi dal ponte di Goito. Pioveva. Mi toccai i panni; erano fradici. Guardai in su; il cielo era tutto velato da un nuvolone scuro, eguale, che prometteva la pioggia per tutta la giornata. Guardai intorno, pei campi; sempre soldati a stormi che procedevano lentamente, coi capi dimessi, cogli sguardi a terra. Molti di essi avevan sciolto la tela della tenda e se l'eran posta in dosso a guisa d'uno scialle per ripararsi dall'acqua; molti che avevan perduto lo zaino e la tela si ricoveravano sotto quella d'un compagno e andavano così due a due, stretti a braccetto, colle teste avviluppate; altri, perduto il cheppì, s'era posto in capo il fazzoletto; altri; buttato via lo zaino, portava la sua roba in un involto appeso alla baionetta; tutti poi camminavano a gran fatica, zoppicando e inciampando ad ogni momento. Qualcuno di tratto in tratto si arrestava e si appoggiava a un albero o si adagiava in terra, e si levava faticosamente poco dopo, e ripigliava la via. Passai sul ponte; quel ponte su cui, poche ore prima, stavan di fronte una sentinella austriaca e una sentinella italiana squadrandosi in cagnesco; entrai in Goito; svoltai a destra nella strada principale.... Quale spettacolo! A destra e sinistra della strada, sui canti, rasente i muri, sotto le gronde, sulle soglie delle botteghe e delle porte di casa, dappertutto soldati rifiniti dal cammino e dal digiuno, chi in piedi colle spalle appoggiate al muro, chi accosciato, raggricchiato, colle mani sulle ginocchia e il mento sulle mani e gli occhi vaganti qua e là con uno sguardo stanco e pieno di sonno; altri sdraiati e dormienti colla testa sullo zaino; qualcuno che sbocconcellava un tozzo di pane tenendolo stretto con tutte e due le mani e girando intorno uno sguardo sospettoso, come se altri minacciasse di venirglielo a strappare dai denti; qualcun altro che riassestava gli oggetti nello zaino, [Pg 121] o lento e svogliato rasciugava colla falda del cappotto le armi. E intanto la strada formicolava di soldati che si avviavano verso Cerlungo; molti, guardando di qua e di là con un viso tra l'attonito e il disgustato, passavan oltre; altri si fermavano accanto al muro, gettavano trascuratamente lo zaino a terra e vi si lasciavan cadere su con una specie d'inanimato abbandono; di tratto in tratto qualcuno di que' che giacevano, appuntellando i gomiti in terra, si levava con grande sforzo in piedi, e il primo soldato del suo reggimento che gli venisse fatto di veder passare, con quello s'accozzava e si rimetteva in cammino. Alle porte delle poche botteghe ch'erano aperte, un continuo affacciarsi di soldati, a tre, a sette, a dieci alla volta, e un chiedere insistente se vi fosse qualcosa da mangiare, ch'essi l'avrebbero pagato, s'intende, e tendevan le braccia e allargavan le mani per far vedere i quattrini.—No, giovanotti,—rispondeva dal fondo della bottega una voce tutta pietosa,—mi rincresce, non c'è più niente.—A un'altra bottega dunque; niente neanco a questa; via, ad un altra; lo stesso. E via così. Passando dinanzi a certe tane di caffè, si vedevano molti ufficiali dormire colle braccia incrociate sul tavolino e la testa appoggiata sulle braccia; sopra ogni tavolino tre o quattro teste, e in mezzo bicchieri e bottiglie e tozzi di pane sbocconcellati. Qualcuno, la testa abbandonata sulla mano, guardava nella via coll'occhio fisso e stralunato; erano faccie triste, pallide, stravolte come dopo una malattia. Il caffettiere, ritto in fondo alla bottega, colle braccia incrociate sul petto, stava osservando gli uni e gli altri, tacito e pensieroso. Gli sbocchi delle vie laterali erano ingombri di carri e di cavalli, intorno ai quali si affaccendavano in silenzio alla rinfusa soldati del treno e carrettieri borghesi. Intanto passavano per la strada principale alcune batterie di artiglieria; quell'andare [Pg 122] lento e grave, quel rumore monotono e cupo dei carri che facea tremare i vetri delle finestre, e quei robusti artiglieri pensosi, seri, ravvolti nei loro grandi mantelli grigi; tutto, insomma, l'assieme di quel tremendo convoglio metteva nell'animo una profonda mestizia. Molte carrozze, con entro ufficiali feriti, venivan dietro l'artiglieria adagio adagio, fermandosi ogni volta che la colonna ond'eran preceduti si fermava. Comunque vi formicolasse una tanta e tale moltitudine, pure, all'infuori del rumore dei carri e delle carrozze, regnava in Goito un alto silenzio come di città disabitata.

I corpi della mia divisione s'erano accampati sulla sinistra della strada che conduce da Goito a Cerlungo e va oltre fiancheggiando la destra sponda del Mincio. I campi avevano un aspetto melanconico. Non vi si vedevano che pochi gruppi di soldati sparsi qua e là, che spiegavano le loro tende fradice e ripulivano i panni e le armi; tutti gli altri stavan sotto le tende; ad ogni momento nuovi soldati sopraggiungevano, erravano incertamente pel campo in cerca della loro compagnia, e, come la più parte avevan perduto lo zaino ed i bastoni e la tela, stavan poi là in piedi accanto alle tende dei compagni, colle mani in mano, mortificati, imbronciti, a guardarsi attorno con quella cera di chi non sa che pesci si pigliare. In quei campi non si sentiva alcuna voce, alcuno strepito; vi regnava una quiete stanca e severa.

Raggiunto il campo del mio reggimento, andai a gettarmi subito sotto la tenda e sedetti, senza parlare, accanto ai miei compagni, che da più d'un'ora erano là. Non ci salutammo, non iscambiammo una parola, non ci guardammo neppure in viso; stemmo là muti e immobili come smemorati.

All'improvviso, sentiamo un grido acuto a pochi [Pg 123] passi fuor della tenda; un altro grido più lontano; un terzo più presso: dieci, cento, mille voci prorompono come di concerto da tutte le parti del campo, e s'ode un rumor diffuso di passi concitati. Che è questo? Ci slanciamo fuor della tenda. Oh che magnifico spettacolo! Tutto il reggimento affollato correva di rapidissima corsa verso la strada di Goito; e non solamente il nostro, ma quel che avevamo a destra, e quello di sinistra, e gli altri più lontani, tutti volavano verso la strada colla furia d'un assalto. Guardai in faccia ai soldati; eran faccie mutate, convulse, radianti; e mandavano alte grida di gioia, e fragorosi e prolungati scoppi di battimani si elevavano al cielo da tutte le parti del campo. Volammo verso la strada; passarono due carabinieri a cavallo colle sciabole nude; apparì una carrozza...; tutte le teste si scoprirono, tutte le braccia si sollevarono, un solo e poderosissimo grido proruppe dalle mille bocche della moltitudine accalcata; la carrozza passò; i soldati se ne tornarono.... Ma il campo mutò aspetto improvvisamente; si riaccese in tutti la speranza e la fede; nessuno rientrò nelle tende; in ogni angolo del campo si levò e durò fino a sera uno strepito pieno di gaiezza e di vita; le bande risonarono le note marcie, vecchie e care compagne dei nostri entusiasmi, e il nostro cuore risentì per un momento i divini palpiti di due giorni prima.—Oh si combatterà ancora! noi dicevamo; si combatterà ancora!

—Chi c'era in quella carrozza?—domandò Carluccio con viva curiosità.

—Il Re.—

[Pg 124]

VIII.

—Signori miei,—ci disse il medico la prima volta che Carluccio si levò,—sono in dovere di dirvi che questo ragazzo ha assolutamente bisogno di tornarsene a casa. È guarito; ma il menomo strapazzo gli può riuscire fatale. Forse tra pochi giorni, fatta la pace, volteremo le spalle a Venezia, ce n'andremo a Ferrara, e da Ferrara Dio sa dove; ci metteremo in corpo la piccola bagattella di quindici o venti giorni di marcia, o anco di più, ed è impossibile che questo ragazzo ci segua; egli ha bisogno di quiete, di riposo, e non di marciar sette ore al giorno e di dormire sull'erba. Questa non è vita per un fanciullo convalescente; ne converrete anche voi.—

E ci lasciò. Restammo qualche tempo soprapensiero. Ma alle parole del medico, per quanto si scavizzolasse a cercarle, non c'era ragioni da opporre. Ch'egli ritornasse a casa era una necessità evidente, imperiosa; ma come farlo tornare? Ma a qual casa ei tornerebbe, povero infelice? Alla sua, per morirvi di crepacuore? No, certo; e dove dunque? Si pensò, si consultò, si discusse, e non si riusciva a concludere nulla, e si era già quasi in procinto di non far caso dei consigli del medico, quando un ufficiale padovano, un giovanotto di tanto cuore che a darne un po' per uno a tutto il reggimento gliene sarebbe avanzato, uscì fuori a dire:

—Me ne incarico io, solo ch'io sappia il suo cognome e dove sta di casa. Lo metterò sotto la protezione della mia famiglia; scriverò a casa oggi stesso. Protetto dai miei potrà tornare colla matrigna, e se ci sarà bisogno [Pg 125] ce lo piglieremo in casa e ce lo terremo fin che occorra; ve ne do parola; va bene?—

La proposta fu accolta con un generale «benissimo» e un gran batter di mani sulle spalle al proponente che gli fece sollevare dalla tunica tutta la polvere presa alla manovra.

—Ora viene il difficile però!—egli soggiunse liberandosi da noi con un paio di pizzicotti ben'azzeccati.

—Che cosa? si domandò.

—Persuaderlo.—

Risolvetti d'incaricarmene io, e ci separammo.

La sera di quello stesso giorno, prima del calar del sole, mentre stavamo in dieci o dodici a chiacchierar di bubbole accanto alla baracca del vivandiere, quello stesso ufficiale padovano di cui dissi poco fa, levò la voce sopra il cicalìo della brigata, ed esclamò:

—È stato concluso un nuovo armistizio; possiamo allontanarci dal campo; chi viene a veder Venezia?

—Io—risposero tutti ad una voce.

—Andiamo subito?

—Andiamo subito.—

E tutti si mossero.

—Carluccio, vieni con noi, andiamo a veder Venezia.—

Dal nostro campo, situato in vicinanza di Mestre, Venezia non si vedeva; ma in assai meno d'un'ora potevamo condurci in un punto di dove ell'era visibilissima; quel punto, voglio dire, in cui dalla grande strada che corre fra Padova e Mestre si dirama, dalla parte di Venezia, una piccola via, la quale sopra un argine assai rilevato giunge sino a Fusina, sulla spiaggia della laguna. In quel luogo v'è un gruppo di case di campagna e una locanda nota e cara per due dei più graziosi visini ch'io m'abbia mai veduto dacchè porto questi occhi. Pigliammo [Pg 126] la via di Padova e ci dirigemmo a quelle case. Appena oltrepassata la locanda, che delle case era l'ultima, ci si doveva presentare allo sguardo, tutta ad un tratto, Venezia. La più parte di noi non l'aveva mai veduta; e però, come fummo giunti presso al casale, ci cominciò a battere il cuore molto forte. La vedremo finalmente, si pensava, la vedremo codesta benedetta città; ancora cinquanta passi; ancora quaranta; ancora.... oh come mi tremano le gambe! Ancora venti passi, dieci.... Qualcuno si soffermò e si guardò intorno sorridendo come per dire:—Oh vedete un po' come sono ancora ragazzo! Ancora cinque passi.... Eccola!—Un fremito mi corse da capo a piedi, e il sangue mi si rimescolò precipitoso. Restammo tutti immobili e senza parola.

Dinanzi a noi si stendeva un vasto spazio di terreno incolto e nudo, sparso qua e là di guazzi e di larghi pantani, dopo il quale si vedeva in lontananza luccicare un tratto di lacuna e al di là di questo, Venezia. Essa ci appariva, come a traverso di una nebbia rada, in un lieve colore azzurrino, che le dava un non so che di delicato e di misterioso. A sinistra, quel suo ponte immenso, stupendo; a destra, lontano lontano, il forte di San Giorgio, e più in là molti altri forti sparsi per le lagune, che apparivano appena come punti neri. Era uno spettacolo maraviglioso. Il luogo intorno intorno era deserto, e tirava una brezzolina che faceva stormir forte gli alberi vicini; unico rumore che si sentisse.

Nessuno parlava, tutti contemplavano attonitamente Venezia.

—Orsù!—gridò all'improvviso uno de' miei compagni, un bell'umore, amico un po' troppo tenero, se si vuole, delle bottiglie e del baccano; ma buon ragazzo quanto altri mai.—Orsù, non istiamo qui a fare i sentimentali. Chi lo beve un dito di vino?—

[Pg 127]

Qualcuno gridò di sì, altri assentirono coi cenni, Carluccio corse alla locanda, e noi ci sedemmo lungo il ciglio dell'argine vôlti dalla parte di Venezia.

—Ecco l'amico dei galantuomini!—esclamò quel mio amico accennando il vino che giungeva.—Mano alle bottiglie, su i bicchieri!—Si sa, noi militari, in campagna, non si sta lì alla goccia; si tracanna a occhi chiusi, e però non è a maravigliarsi se dopo qualche minuto vi fu qualcuno che si sentì in vena di cantare.

—Di', tu, padovano, insegnaci una bella barcarola, tu che ne sai tante e ce le urli nell'orecchio dalla mattina alla sera, volerti o non volerti sentire.—

E tutti gli altri:—Sì, insegnaci una bella barcarola.—

—Rivolgetevi a lui,—rispose il padovano appuntando il dito verso un suo vicino, che pizzicava di poeta e di tenore.—Fategli improvvisare una romanza a lui, che è del mestiere.

—Bravo! Sicuro!—esclamarono tutti gli altri in coro.—Animo, signor poeta, fuori la romanza, fuori la musica, fuori la voce, e presto, e senza farsi tanto pregare, com'è uso di voi altri accozzatori di strofe.—

Credo che il mio amico, a cui erano rivolte queste parole, avesse già una poesia bella e fatta nella testa, perchè accettò l'invito troppo prontamente e con un troppo aperto sorriso di compiacenza. Ad ogni modo però, egli non tirò fuori che dei versi dozzinali; versi da campo, che vuol dire roba da strapazzo.

—Ci vorrebbe una chitarra....

—O dove s'ha da pigliarla qui una chitarra? Mi fai ridere.

—Aspetta, aspetta,—gridò un terzo e si diresse di corsa verso la locanda. Indi a poco, tornò con una chitarra in mano:—Voleva ben dire io che non s'avesse [Pg 128] a trovare una chitarra qui a poche miglia dalla città delle gondole e degli amori notturni. To'!—

Il poeta (scusate) prese la chitarra, si pose in atto di sonare: tutti gli si strinsero attorno, tacquero, e stettero aspettando.

—Sentite. Prima vi recito i versi, strofa e ritornello; poi la strofa la canto io e il ritornello lo cantate voialtri; va bene?

—Benissimo. Animo, cominciamo.—

Ed egli incominciò:

Pur ti saluto anch'io,
O Venezia immortale!
Che infinito desìo,
Cara, io n'avea nel cor!
Che divino m'assale
Entusiasmo d'amor!

—Ma che! ma che!—interruppe schiamazzando quello stesso originale che avea fatto la proposta di bere;—cos'è cotesta roba? Non vogliamo delle malinconie noi, vogliamo star allegri; ci vuole una barcarola, ci vuole; ma che «immortale» ma che «disìo» ma che «fremito», ma che mi vai fantasticando, caro il mio poeta? Ti paion musi questi da fare i sentimentali?—

Tutti quelli che aveano alzato il gomito più del dovere approvarono clamorosamente.

—Bel gusto,—io risposi,—fare i buffoni! Oh ne abbiamo proprio di che, con questa probabilità che c'è in aria di dover rimetter la sciabola nel fodero, e ripigliar gloriosamente la via di Ferrara e tornarsene chi sa dove a menar la vita papaverica della guarnigione! Oh abbiamo proprio di che fare i buffoni!—

I «sentimentali» si dichiararono dalla mia, i bevitori insistettero, il poeta tenne duro, e la brigata si divise in due. Una metà si scostò da noi di alcuni passi, e accesi [Pg 129] i sigari, seguitò a trincare col miglior gusto del mondo; l'altra metà ripigliò il canto interrotto.

—Vi canteremo un ritornello anche noi, signori poeti piagnoloni!—gridò uno dei baccanti alzando il bicchiere: tutti gli altri risero.

—Cantate pure!—si rispose dalla nostra parte.

E il poeta (scusate) ripigliò:

Che divino m'assale
Entusiasmo d'amor!

E il coro:

Sì, Venezia immortale,
T'abbiam tutti nel cor.

E i baccanti:

Che poeta bestiale!
Che cane di tenor!

E lì una gran risata.—La vocina di Carluccio si sentiva distintamente in mezzo a tutte l'altre, sottile, tremola, armoniosa.

Da capo:

Ma pur mentr'io ti miro
E canto e ti sorrido,
Perchè un lieve sospiro
Come di mesto amor,
E non di gioia un grido
Prorompe dal mio cor?

Il coro:

Ti guardo, ti sorrido,
Ma non ho lieto il cor.

E i baccanti:

Invece io me la rido,
È il partito miglior.

E qui un gran frastuono di bicchieri e un altro rumoroso [Pg 130] scoppio di risa; il sole era scomparso, e la brezza alitava fresca più che mai.

Ahi! da questa contrada
Che in noi si affida e spera
Ahi! non la nostra spada,
Non l'italo valor,
Ma una virtù straniera
Caccierà l'oppressor!

E il coro:

Quanto è mesta la sera
Con tal presagio in cor!

E i baccanti:

Che squisito barbèra!
Che spuma! Che color!

Questi due ultimi versi furon cantati con meno vivezza degli altri. Che la solitudine del luogo, e il morire del giorno, e la vista di Venezia che si andava popolando di lumi cominciasse a mettere un po' di malinconia anche nel cuore dei baccanti?

O madre, sul tuo seno
Vorrei chinar la testa,
E sciorre al pianto il freno,
E infonder nel tuo cor
Questa dolcezza mesta
Che mi sembra dolor.

E il coro:

Vorrei chinar la testa
Di mia madre sul cor.

E due voci dell'altro gruppo:

Non mi romper la testa,
Fammi questo favor.

Gli altri non risero più. Fu ripetuta altre due volte [Pg 131] l'ultima strofa. I baccanti non fecero più parola e si voltarono tutti verso Venezia. Cantammo una quarta volta l'ultima strofa; ma Carluccio non la cantò più; ne aveva compreso il significato, povero ragazzo, e gli si era stretto il cuore; l'ora, il luogo e quella stessa musica lenta e mesta della canzone gli avean destato nell'anima una subita e viva tenerezza.

—Cos'hai Carluccio che tieni la faccia nascosta nelle mani?—io gli sussurrai nell'orecchio.

—Nulla.

—Senti.... E se noi ti dessimo un'altra mamma che ti volesse bene davvero?

Mi guardò cogli occhi spalancati. Io gli parlai lungamente a bassa voce; egli stette ad ascoltarmi senza batter palpebra.—Ebbene?—gli domandai quand'ebbi finito. Non mi rispose; andava strappando i fili d'erba che aveva intorno.—Ebbene?—

Si alzò di scatto, salì di corsa sull'argine e s'andò a nascondere al di là; dopo un momento si sentì uno scoppio di pianto così disperato che mi fece tremare il cuore.

—Cosa c'è?—domandarono gli altri.

—C'è quello che si poteva prevedere.—Tutti tacquero e si udirono distintamente i singhiozzi di Carluccio.

—Bisogna lasciar che si sfoghi,—disse uno;—ne ha bisogno, povero fanciullo, e gli farà bene.

Ripigliarono la canzone:

O madre, sul tuo seno
Vorrei chinar la testa
E sciorre al pianto il freno,
E infonder nel tuo cor
Questa dolcezza mesta
Che mi sembra dolor.

[Pg 132]

Fra verso e verso si sentiva il singhiozzare stanco e lamentoso di quel poveretto.

Lo spettacolo di Venezia, in quel punto, era incantevole.

—Zitti!—disse improvvisamente un di noi.—Tutti ammutolirono e tesero l'orecchio: il vento ci portava or sì or no un suono fioco di trombe.

—È la fanfara dei croati di Malghera!—esclamò il padovano.

Non dimenticherò mai lo strano senso di malinconia che provai in quel momento.

È inutile ch'io ripeta i pianti, le disperazioni e le preghiere di Carluccio; basti il dire che più d'una volta la pietà ch'ei ci fece fu tanta da metterci in procinto di mandar tutto a monte. Ma si trattava della sua salute e tenemmo fermo. L'idea però d'una buona famiglia che lo avrebbe protetto, e messo alla scuola e mandato ogni giorno alla passeggiata coi fratelli piccini dell'ufficiale, e che, a un bisogno, se lo sarebbe preso in casa come un figliuolo, e lo considerava già fin d'allora come tale; questa idea, e più l'avergli letto una lettera affettuosissima della madre del suo ospite in cui erano fette mille promesse e mille assicurazioni che Carluccio sarebbe stato il più caro oggetto dei suoi affetti e delle sue cure; tutto ciò mitigò d'assai il suo dolore e fece sì che, dopo aver tentato e ritentato più volte di smuoverci dalla nostra risoluzione, egli si rassegnasse alla dura necessità, sospirando:—Ebbene.... allora.... tornerò a casa!—

Dopo qualche giorno levammo il campo a ci mettemmo in cammino alla volta di Padova. Vi arrivammo un bel mattino allo spuntar del sole. Si entrò per il Portello e si passò per quasi tutte quelle medesime strade che avevamo percorse la prima volta. Giunti ad un certo [Pg 133] punto, vedemmo tutto ad un tratto staccarsi dalle file l'ufficiale padovano e con esso Carluccio che si teneva con tutte e due le mani il fazzoletto sugli occhi, e dirigersi tutt'e due rapidamente verso il portone d'una casa signorile. Giunto al limitare, Carluccio si arrestò un istante, voltò verso di noi la faccia convulsa e lagrimosa e, alzando le braccia, singhiozzò una parola che nessuno capì; i soldati gli rimandarono il saluto coll'atto della mano; egli scomparve.

Dopo quel giorno non lo vedemmo più. Abbiamo però saputo quindici giorni dopo, che appena lasciato il reggimento egli era stato condotto in casa di quel mio amico, e quivi ricevuto da tutta la famiglia colle più vive dimostrazioni di sollecitudine e d'amore; come la matrigna, che già da qualche giorno l'aspettava, s'era recata piangendo a visitarlo in quella casa, e se l'era ricondotto con sè, e gli usava ogni maniera di riguardi e di garbatezze; non certo per sua bontà, chè non n'era capace; ma perchè, sapendolo amato e protetto da una famiglia agiata, ne sperava e ne aspettava qualche soccorso di danaro per sè, oltre i frequenti regali che riceveva il figliuolo. Il qual soccorso, tra parentesi, non si fece attendere molto, e fu largo e si andò ripetendo di mese in mese con sua grande sorpresa e non meno grande soddisfazione. In seguito ci fu scritto che Carluccio stava bene; ma ch'era sempre un po' malinconico; specialmente quando vedeva andare alla piazza d'armi i reggimenti della guarnigione e sentiva sonar le bande e i tamburi. Allora diventava pensoso e sospirava, e qualche volta si andava a rincantucciare in un angolo della stanza, e piangeva in segreto.

[Pg 134]

IX.

Cinque mesi erano trascorsi dall'ultima volta che l'avevamo veduto. Il mio reggimento era di presidio in una piccola città della Lombardia. Una mattina, uscendo di casa, incontro il mio amico di Padova, che mi si accosta, e con un viso stranamente turbato mi porge una lettera, dicendomi:—Leggi.—E senz'altre parole mi lascia e si allontana. Spiego il foglio, guardo; erano due lettere: l'una scritta da Carluccio, di cui riconobbi, a prima vista, i grossi caratteri; l'altra sottoscritta:—la tua affezionatissima sorella.—Era la sorella del mio amico. La lettera del ragazzo aveva la data di dieci giorni addietro; quella della sorella era del giorno innanzi. Lessi questa per la prima.

Due ore dopo ero in quartiere.

La mia compagnia era divisa in sette o otto gruppi, sparsi pei cameroni, e seduti dinanzi a certi cartelloni dov'erano stampate a caratteri di scatola le lettere dell'alfabeto. Un caporale per ogni gruppo insegnava a leggere indicando le lettere con una bacchetta di fucile. Mi avvicinai, non visto, ad uno di quei gruppi. Due soldati, seduti sull'ultima panca e mezzo nascosti all'occhio del caporale da coloro che avevano davanti, stavan col capo chinato e l'occhio intento sur un foglio di carta, dove l'un di essi andava disegnando non so che cosa con un mozzicone di matita. Quando mi videro, non furono più in tempo a nascondere il foglio, e levatisi in piedi subitamente, me lo porsero e stettero ad aspettare cogli occhi bassi una lavata di capo. Su quella carta v'era un abbozzo informe di una testa, che però, da una tal quale rotondità di [Pg 135] contorni e da una certa boccuccia piccina piccina, poteva interpretarsi per la testa d'un fanciullo.

—Chi avete voluto fare con questo sgorbio?—domandai.

All'udir la mia voce, tutti gli altri s'alzarono in piedi.

—Chi avete voluto fare?—domandai un'altra volta.

—Carluccio.

—Carluccio è morto.

—Oh!—esclamarono tutti ad una voce guardandosi l'un l'altro.

—Già, proprio morto, povero ragazzo, a causa di quelle maledette febbri. Ecco, questa è una sua lettera ch'egli scrisse qualche giorno fa, ed è diretta a tutti i soldati della compagnia. Prendete, caporale, e leggetela.—

E mi trassi in disparte. Tutti si strinsero tacitamente attorno al caporale e questi cominciò a leggere. Non ne aveva letto ancora due righe che passò la lettera ad un altro, e cavò di tasca il fazzoletto; la più parte degli altri soldati fecero lo stesso.

—Buoni ragazzi!—io pensavo intanto guardandoli da un angolo del camerone.—Carluccio non c'è più, Carluccio è morto; avete tutti perduto un amico che amavate e che vi amava; è vero, poveri ragazzi, pur troppo; anch'io ne soffro nel più vivo del cuore; ma.... Ebbene, e io amerò lui in voi; tutta quella parte di affetto ch'io portava a Carluccio, d'ora innanzi l'avrete tutta voi altri...; vi amerò più di prima. E tu, o povero Carluccio, assicurati che la tua memoria non si perderà mai più fra di noi; io ti giuro in nome di tutti i soldati che amasti e che t'amarono, ti giuro che il tuo nome rimarrà legato alla bandiera del nostro reggimento come una tradizione preziosa, la quale ci terrà sempre vivo nell'anima il culto degli affetti gentili e una mesta pietà degli infelici. [Pg 136]

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

—E la morale?—io domandai al mio amico appena ebbe detta l'ultima parola.

—La morale,—mi rispose,—è questa. Vi ha un segreto per cui la vita del soldato, anche quando è più dura e penosa, possiamo farcela parer bella e contenta; è il segreto che ci dà il vigore nelle fatiche, la costanza nei sacrifizi, l'ardimento nei pericoli, e una forte e serena tranquillità in faccia alla morte; e questo segreto è tutto compreso in una parola.... Amare!

Io gli strinsi la mano.

—Se mai ti piglierà vaghezza di scrivere questo racconto,—egli soggiunse—e se, avendolo scritto, te ne verrà alcuna lode, ti prego di non farne un merito a me; io non ti avrei raccontato nulla, o t'avrei fatto un racconto freddo e sbiadito, se l'amicizia che strinsi poco tempo fa con un bel ragazzino, affettuoso e gentile come Carluccio, non mi avesse ravvivate nella memoria tutte le particolarità di quel fatto, e ridestata nel cuore quella fiamma di affetto che era necessaria perch'io te le narrassi con un po' di vivezza. Il merito del lavoro, se merito avrà, sarà in parte tuo e in parte di quel caro ragazzo. Egli ha nome Ridolfo. Te lo dico pel caso che tu volessi dedicargli, in mio nome, il tuo racconto, e aggiungere in fondo all'ultima pagina queste mie parole, acciocchè, dov'egli le legga, si ricordi di me.—


Dunque io dedico il racconto a te, caro Ridolfo; è poca cosa; ma tu che sei tanto buono, baderai soltanto a quel che v'è di meglio: il cuore.

Vogli un po' di bene a me pure, caro bambino. Addio.


[Pg 137]

IL COSCRITTO.


Era di domenica verso le cinque di sera e faceva un tempo bellissimo. La caserma era presso che vuota. Quasi tutti i soldati erano andati a spasso per la città; i pochi rimasti, parte nei dormentorii a finir di vestirsi, parte giù nel cortile ad aspettare, stavano per andarsene anch'essi, quei di sotto gridando di tratto in tratto:—Fa presto,—e quei di sopra rispondendo:—Un momento, —chè forse stentavano a mettersi il cinturino da tanto che se l'erano stretto per far la vita sottile. Anche i coscritti, arrivati al reggimento due giorni prima, parte erano usciti, parte andavano uscendo, a sei, a otto, a dieci assieme, seri, impalati, coi berretti per traverso, i cappotti affagottati, le mani aperte e stecchite in un par di guantoni bianchi che parean manopole da scherma; e i soldati di guardia, seduti sur una panca alla porta della caserma, li andavano motteggiando man mano che passavano, malgrado che il sergente brontolasse di tratto in tratto:—Lasciateli in pace, poveri giovani.—L'ufficiale di picchetto, sdraiato sul letto in una camera al primo piano, leggicchiava un giornale.

Nell'angolo più appartato del cortile v'era un coscritto solo solo, seduto sullo scalino d'una porta, co' gomiti appoggiati sulle ginocchia e il mento sulle mani. Seguiva uno per uno collo sguardo i suoi compagni che [Pg 138] uscivano, e quando nessuno passava teneva gli occhi immobili a terra. Aveva l'aria d'uno di quei buoni figliuoli, che si staccano bensì con molto dolore dalla famiglia e dal villaggio dove son nati; ma vengono a fare il soldato coll'animo pieno di rassegnazione, di serenità, di buon volere:—e perchè c'è tanto di legge stampata che parla chiaro, e sulla lista attaccata alla porta della comunità c'era il loro bravo nome e cognome scritto per disteso, e i loro vecchi ci sono andati, e i loro compagni ci vanno, e in fin dei conti poi perchè è il loro Re che li chiama, e non c'è niente da ridire e non occorre cercar più in là.—Ma sul suo viso c'era qualcosa di più di quell'espressione tra il pensieroso e l'attonito che è propria dei coscritti nei primi giorni; c'era della malinconia. Forse s'era pentito di non aver voluto uscire cogli altri. Di domenica, quando fa bel tempo, a stare in casa si prova sempre un po' di tristezza.

A poco a poco il quartiere rimase deserto, e vi fu un silenzio perfetto.

Un caporale in montura di fatica, attraversando frettolosamente il cortile, vede il coscritto, si ferma e gli domanda bruscamente:

—Che cosa fai costì, colle mani in mano?

—....Io?—il coscritto risponde.

—Io?—ripete il caporale strascicando con affettazione la voce e facendo un viso di stupido.—Quest'è curiosa! A chi parlo adesso? alla luna? Sì, proprio tu. E levati in piedi quando parli coi tuoi superiori.—

Il coscritto si leva in piedi.

—Chi sei tu? Di che compagnia?

—.... Compagnia?

—Compagnia?—domanda alla sua volta il caporale in tono di canzonatura.—Ma sai che sei un gran testa di rapa, tu?—

[Pg 139]

Gli s'avvicina, lo afferra per la falda del cappotto e dandogli una gran tirata che lo fa traballare:—Guarda!—gli grida—guarda come ti sei conciato il cappotto a star lì seduto in terra come un accattone.—

Il coscritto si mette a pulir il cappotto colla mano.

—Guarda in che stato ti sei ridotto le scarpe!—e gli dà un colpo del piede nella punta dei piedi.

Questi tira fuori il fazzoletto e si china per spolverare le scarpe.

—Accomodati codesta cravatta che ti vien su fino alle orecchie.—E afferratolo per la cravatta gli dà una scrollata che un po' più lo butta in terra.

Il coscritto alza le mani alla cravatta.

—Mettiti un po' meglio quel berretto.—

E porta le mani al berretto.

—E tirati su quei calzoni se non vuoi che ti si sciupino in una settimana, e volta per diritto i bottoni del cappotto, e levati quegli orecchini che sono una ridicolezza, e non istar lì col mento sul petto che mi sembri un frate, e non guardar la gente con quel muso di minchione....

Il povero giovane andava toccandosi colle mani tremanti ora la cravatta, ora i calzoni, ora i bottoni, ora il berretto, e non riusciva a far nulla, e quanto più si affrettava e si affannava, e tanto meno sapeva o vedeva quel che si facesse. In quel momento passò là presso la vivandiera, giovane e belloccia, e si fermò, spietata! a guardare. Comparir ridicolo agli occhi d'una bella donna! Ah! è la più tormentosa delle vergogne! Il povero coscritto perdette affatto la testa; gingillò ancora un po' colle dita intorno alla cravatta e ai bottoni, e poi si sentì andar giù le braccia, e il mento gli cadde sul petto e gli occhi sulla punta dei piedi, e stette così immobile come una statua; era annichilito.

[Pg 140]

La vivandiera sorrise e se n'andò. Il caporale, guardandolo e scrollando la testa in aria di compassione sprezzante, gli andava ripetendo:—Ah marmotta!... marmotta!—

E poi, alzando tutt'ad un tratto la voce:—Bisogna svegliarsi, mio caro, e presto, chè se no vi sveglieremo noi, ve lo assicuro io, e come! Consegne e pane ed acqua, pane ed acqua e consegne, alternati, tanto per non annoiarvi. Tenetevelo bene a mente. E adesso andate al vostro letto a ripulir le vostre robe, marche!

E rinforzò il comando alzando il braccio coll'indice teso verso le finestre del dormitorio.

—Ma io....

—Silenzio!

—Io non....

—Tacete, vi dico, quando parlate coi vostri superiori; o la prigione è là; la vedete?

E s'allontana brontolando:—Oh che gente! Oh che gente! Povero esercito! Povera Italia!

—Signor caporale!... esclama timidamente il coscritto.

Il caporale si volta e gli accenna di nuovo la prigione facendo un par d'occhi terribili.

—Vorrei domandarle una cosa.—

L'accento era così peritoso e sommesso che non si poteva proprio a meno di lasciarlo parlare.

—Che cosa volete?

—Vorrei domandarle se lei sapesse che qui in questo reggimento c'è un ufficiale del mio paese, che ci dev'essere, ma che io non so se ci sia....

—Del vostro paese? Se al vostro paese son tutti di cotesto stampo, c'è da augurarsi che nel reggimento non ci siate che voi.—

E scrollando le spalle se n'andò via.

[Pg 141]

—Che maniera!—mormorò tristamente il coscritto guardandolo mentre s'allontanava.—Eppure m'hanno detto che c'è...—soggiunse poi rimettendosi a sedere.—Ma perchè ci fanno così? Perchè ci trattano tanto male? Che cos'hanno con noi? Che cosa siamo noi? Siamo cani?... E bisogna far cinque anni di questa vita! Oh.... è troppo, è troppo!—E si coperse la faccia colle mani e pensò alla sua famiglia lontana.—Se mi vedessero in questo stato!—diceva in cuor suo;—povera gente!—

Lo scosse una sonora risata di fondo al cortile; alzò gli occhi e vide tre soldati di guardia che lo guardavano discorrendo e ridendo tra loro.

—Oh che merlo!—cominciarono a dire que' tre.—È innamorato.—Pensa all'amorosa.—Dove l'hai lasciata l'amorosa, di'?—Poverina, a quest'ora avrà già trovato modo di consolarsi.—Guarda, guarda che par d'occhioni ti fa!—E poi tutti e tre ad una voce col tono del prete che canta la messa:—Oh che merlo!—

Il povero giovane diventò pallido; lo avevano ferito sul vivo; non si potè più contenere; si alzò....

—Chi è quest'innamorato?—disse tra sè l'ufficiale di picchetto affacciandosi alla finestra col giornale in mano. I soldati di guardia lo videro e scapparono; il coscritto alzò la faccia stravolta verso la finestra e lo guardò. L'ufficiale guardò anch'egli il soldato, e vedendolo far prima un segno di attenzione, poi di sorpresa e poi di contentezza senza levargli mai gli occhi d'addosso,—Chi sarà quest'originale?—pensò, e scese nel cortile e gli si andò a piantare davanti.

—Che cos'avete da ridere e da stropicciarvi le mani?—gli domandò con accento severo.

E il soldato, pur vergognandosi un poco, seguitava a sorridere.

[Pg 142]

—Ma sapete che siete un minchione di nuovo conio, voi?... Vi domando perchè ridete.

—Ecco..., rispose il coscritto, abbassando gli occhi e stropicciandosi con tutt'e due le mani una falda;—io sapevo che lei era qui in questo reggimento, e mi ci hanno mandato anche me.... Già lei non si ricorderà più; ma io sì; lei è tre anni che è andato via, e io lo conoscevo, e conoscevo anche la sua famiglia; ma loro non conoscevano noi, ed eravamo vicini di casa, e la mattina io lo vedeva sempre passare che andava a caccia, e.... siamo dello stesso paese, ecco.

—Ah! ora capisco—rispose l'ufficiale guardandolo attentamente per raccapezzare chi fosse.

—Io sapevo che lei era andato a far l'uffiziale quando è partito, e ch'era entrato nel collegio, e poi non è più tornato, e intanto hanno rifatto la facciata del duomo e nella piazza hanno messo su un caffè grande.... (e guardò intorno), quasi grande come mezzo questo cortile, ed è sempre pieno di gente....

—Aspetta, aspetta; ora mi ricordo; Renzo, ti chiami, non è vero?

—Proprio!—

—Stavi in quella casina accanto alla chiesa fuor del paese, mi pare.

—Oh Dio!... Già, sicuro, nella casina fuor del paese.—

E non potea più star nella pelle quel povero giovanotto.

—Mi ricordo benissimo. E.... dimmi un po': come ti trovi contento di fare il soldato?—

Il coscritto mutò viso ad un tratto, abbassò gli occhi e tacque.

—Perchè non sei uscito a passeggiare cogli altri?—

Non rispose, e si guardava le unghie come pensando [Pg 143] a quel che aveva da dire; ma gli si leggeva il cuore negli occhi.

L'ufficiale capì, e con una voce affabile che gli scese e lo scosse nel più profondo dell'anima, gli domandò:

—Che cos'hai?—

Gli si ruppe il nodo alla lingua, e animandosi poi a grado a grado, cominciò con voce commossa:—Ho...; senta, signor ufficiale; ho che.... non so nemmeno io quello che ho; ma ci trattano in un modo che fa dispiacere, ecco. A domandare una cosa, non rispondono, e poi ci dicono delle parole che offendono, e bisogna stare zitti, se no la prigione eccola là (e imitava la voce del caporale). Lo so anch'io che non ci sappiamo ancora vestire, e non siamo ancora buoni a fare i soldati; ma sono soltanto due giorni che siamo qui; che colpa ci abbiamo noi? ci possiamo qualcosa noi? Si sa; siamo venuti apposta per imparare, e bisognerebbe che avessero un po' più di pazienza, mi pare. E poi ci burlano in presenza della gente, e mettono anche le mani addosso, e ci danno degli urtoni, e noi dobbiamo sopportar tutto, e loro ridono, e io non so capire perchè ci maltrattino così. Io era venuto volentieri a fare il soldato, e dicevo dentro di me: Farò il mio dovere, e i superiori mi vorranno bene; ma adesso che vedo.... Forse quando ci avremo fatta l'abitudine, non ci baderemo più; ma adesso ci fa male di vederci maltrattare in questo modo. Eravamo assuefatti a casa, colla famiglia, e tutti ci volevano bene, e qui, invece,... burlano anche i nostri.... pazienza noi.... ma.... fa pena, ecco, fa troppa pena!—

Quest'ultime parole furon pronunciate con un accento veramente sconsolato: tacque, e abbassò gli occhi continuando a borbottare tra sè.

L'ufficiale lasciò passare qualche momento in silenzio, accese un sigaro, e poi, con un fare trascurato [Pg 144] come se non avesse inteso o voluto intendere nulla gli disse:

—Tirati un po' in giù quella cravatta (e l'aiutò egli stesso); così; ora va bene. Voltati.—

Il soldato si voltò; l'ufficiale gli afferrò e gli tirò le falde del cappotto:—Il cappotto non deve far grinze, dev'esser liscio come un busto. Voltati.—

Si voltò; l'ufficiale gli accomodò il berretto.—Così; un po' per traverso, chè dia l'aria di monello.—

Il coscritto sorrise.

—E sta' ben ritto sulla vita, e tieni la testa alta, e quando cammini, cammina sciolto, franco, svelto, come quando giuocavi alle bocce nel cortile di casa nostra, ti ricordi?—

Rise, e accennò di sì.

—Oh bene,—continuò l'ufficiale appoggiando le spalle al muro e una gamba sull'altra;—e guarda sempre tutti nel viso, perchè non hai da aver paura nè da vergognarti di nessuno; hai capito? Passasse anche il Re, e tu alza la fronte e piantagli gli occhi negli occhi come per dirgli:—son io,—chè il rispetto, noi soldati, lo dobbiamo mostrare in codesto modo; ricordatene.—

Il soldato accennò di sì; si cominciava a rasserenare.

—E ricordati pure che, una volta entrati in caserma, bisogna cambiar maniera di parlare; poche parole, ma franche, sonore e vibrate, con chiunque tu parli: sì e no, no e sì, e se non hai da dir altro, tanto meglio. E quando sei in riga, gli è come se fossi in chiesa, e zitto; rotte le righe, sei a casa tua; e se gli altri fanno il chiasso, e tu fallo più di loro, e non istar soltanto a vedere, che vien la malinconia; cacciaviti subito dentro. E vogli bene ai tuoi compagni, chè troverai degli amici d'oro, te lo prometto; troverai dei giovinotti [Pg 145] che ti vorranno bene come a un fratello; vedrai; chè qui ci sarà carestia di tutto, ma di cuore no di sicuro.... Hai la pipa?

—Nossignore.

—Se no potevi fumare. E quando un superiore sgrida..., se ha ragione, stare a sentire e farne pro; se ha torto, stare a sentire lo stesso e non pigliarsela a cuore, perchè a questo mondo tutti hanno dei difetti e possono fare degli spropositi tutti; a sgridare si sbaglia qualche volta; a disobbedire si sbaglia sempre. E non credere che tutti quelli che ti sgridano abbiano cattivo cuore e siano in collera con te e ti vogliano male. Non c'è niente di più falso. Codesti burberoni hanno più buon cuore che gli altri, e vi vogliono bene, e se li levassero di mezzo a voialtri morirebbero di malinconia in quindici giorni. Urlano, inveiscono; è un'abitudine, un affar dei polmoni; niente di più, credilo. Finirai col voler più bene a loro che agli altri. Li vedrai quando andranno via; piangono. Io ne ho visti tanti. Ne ho visti a Custoza....

—Quella battaglia ch'è andata male?

—Quella; ho visto un capitano ch'era lo spavento della compagnia e nessuno lo poteva vedere, e aveano tutti torto; ebbene, non cadeva un ferito ch'egli non corresse a soccorrerlo, a guardargli la ferita, a fargli coraggio; sempre in moto di qua e di là, ed era stanco da morire.—Oh capitano! capitano! non m'abbandoni, capitano!—gridavano i feriti trattenendolo per le braccia e per la tunica.—No, figliuolo—egli rispondeva—starò qui con te, starò sempre con te fin che tu sia guarito; coraggio, figliuolo, coraggio; il tuo capitano non t'abbandona.—Capisci, che uomo? E come lui ce ne son tanti, e bisogna non giudicar gli uomini dalle apparenze, e poi compatire i cattivi, e volere un bene dell'anima [Pg 146] ai buoni, e rispettar tutti, perchè son tutti soldati e da oggi a domani possiamo vederceli morir sotto gli occhi da valorosi. E quando si vuol bene a qualcuno, si sopporta di buon animo ogni sorta di vita, tienlo per fermo. Cerca, domanda, fattelo dire da' tuoi compagni; vedrai che i soldati più bravi volevano tutti bene ai loro superiori. Guarda il soldato.... come si chiamava?... il soldato Perrier, nel quarant'otto, che si gettò fra il suo ufficiale e i nemici, e cadde a terra con tre palle nel petto gridando:—Ricordatevi di me, mio buon ufficiale; io muoio contento d'avervi salvata la vita!—E quell'altro granatiere, non mi ricordo il nome, che piuttosto di abbandonare il suo capitano ferito, s'è fatto uccidere a colpi di baionetta, gridando ai nemici:—Se non mi uccidete, io non ve lo lascio.—E quegli altri otto o dieci, che sotto una pioggia di palle, alla battaglia di Rivoli, sono andati a strappare dalle mani dei tedeschi il cadavere del loro ufficiale, chè lo volevano seppellire di propria mano e rendergli gli ultimi onori nel proprio campo; e tanti e tanti altri, che ci sono i nomi e i fatti stampati in cento libri, e tutti li ricordano e li amano ancora come se fossero vivi.... Hai un fiammifero?—

Il coscritto che fino allora era stato colla bocca e gli occhi spalancati che pareva estatico, tirò fuori in fretta un fiammifero e glie lo porse.

—Quando si pensa a queste cose e si ha un po' di cuore, certi piccoli dispiaceri, certe meschinità della vita del soldato si dimenticano; e bisogna pensarci a queste cose, e te le insegneranno, e tu che sei un buon figliuolo le terrai a mente; non è vero?—

Il coscritto fece segno di sì, chè lì su quel subito non potè raccogliere la voce.

—Sicuro;—continuò l'ufficiale;—a far volentieri il soldato, e a farlo bene, bisogna guardare un po' più [Pg 147] alto della caserma e un po' più in là della piazza d'armi. E poi, già, si fa l'abitudine a tutto. Lo zaino, da principio, oh che peso, mio Dio! oh che tormento; dicono tutti così; e poi, a poco a poco, poh, diventa una cosa da nulla. E il mangiare? Non si mangia mica da principi, si sa; anzi, qualche volta, a voler essere schietti, si mangia maluccio; ma bisogna aver pazienza, pazienza e sempre pazienza, che è la gran virtù del soldato; e non lamentarsi e piagnucolare, come fanno certuni, a diritto e a torto, di tutto e di tutti; ma mangiare quello che c'è e contentarsi del poco. E poi l'appetito, quando si lavora, si fatica, si fa il proprio dovere e si ha il cuore contento, l'appetito non manca mai, e l'appetito è un gran cuoco. Sono gli svogliati e i poltroni che trovano a ridire su tutto e non si contentano mai. Io vedo che i bravi giovani fanno tutti il soldato volentieri, perchè i superiori li vedon di buon occhio, i compagni li stimano, quei del paese li rispettano, e ce n'è di quelli che in cinque anni ch'han fatto il soldato non sono stati un giorno ch'è un giorno in consegna e han lasciato il loro numero diciotto bianco e pulito come un fazzoletto di bucato; e tu sarai uno di questi, non è vero?—

Il soldato accennò vivamente di sì.

—Benone. E non credere poi che sia tutto spine il nostro mestiere; c'è anco dei fiori per chi li sa cercare, e i bravi soldati li trovano. Impara a fare il tuo dovere per bene, sii sempre pulito, rispettoso e di buona volontà, e dal tuo capitano e dai tuoi ufficiali ti sentirai dire certi: bravo! che ti suoneranno in fondo al cuore, e ti cresceranno l'appetito e l'allegria. E i giorni ti passeranno presto. Poi, in cinque anni, non si sa mai che cosa possa accadere, potrebbero anche farci cambiar dieci volte di guarnigione, e allora il tempo vola che i mesi paiono giorni. Vedrai dei nuovi paesi; città, [Pg 148] genti, campagne, monti, mari, tutto un mondo nuovo, svariato, stupendo, tutto il nostro bel paese, l'Italia, che finora tu conosci soltanto di nome; e troverai delle meraviglie per ogni parte: statue, chiese, palazzi, giardini; e nelle ore di libertà andrai a vedere ogni cosa, per poter poi raccontar tutto alla famiglia e agli amici, quando sarai a casa. Nell'estate andremo ai campi d'istruzione, otto, dieci, venti reggimenti, e cavalleria e artiglieria, e vedrai che bella figura fa un accampamento, e che rumore, che allegrezza, che vita ci sarà tutto il giorno, e quelle grandi manovre a fuoco, e quelle feste che si faranno prima di levare il campo, musiche, balli, tombole, corse, e tutti gli ufficiali e i generali a fare il chiasso e a divertirsi in mezzo ai soldati, e tutta la gente venuta dai paesi vicini a godere quello spettacolo e a batter le mani. Allora tu conoscerai già tutti i soldati del corpo, avrai un'infinità di buoni amici, il reggimento ti parrà una grande famiglia, e tutti gli onori che si faranno al reggimento ti parranno fatti a te, e vorrai bene al tuo vecchio colonnello come a un altro padre, e quando vedrai comparire la bandiera davanti ai battaglioni schierati, e la banda suonerà la marcia del corpo, e tutti presenteranno le armi, ti sentirai battere il cuore di contentezza e di orgoglio, e tremerai tutto dalla commozione. E a poco a poco porrai affetto a ogni cosa: alle tue armi, alla tua divisa, al tuo gamellino, a questo cortile, a queste scale, a queste mura; e quando starai per partire, e sarai già stato a salutare il tuo capitano, i tuoi ufficiali, i tuoi sergenti, e tutti gli altri soldati ti verranno intorno a far festa, e—addio, e—buon viaggio,—e—ricordati di noi;—allora ti si stringerà il cuore, sai! ti si stringerà il cuore come quando sei partito da casa; e sceso giù nella strada, ti volterai a guardare per l'ultima [Pg 149] volta quelle finestre della caserma, e ti fermerai, e se ti basterà la voce, dirai ancora una volta:—Addio, o mia seconda casa paterna, dove ho amato tanti amici, dove ho passati tanti bei giorni colla coscienza serena, dove ho tanto pensato e sospirato i miei cari; addio, mio povero letticciuolo; addio, mio buon sergente di squadra; addio; mio capitano, addio.... Che cos'hai?—

Il coscritto era immobile, attonito, colla faccia convulsa, il respiro affannoso e gli occhi lacrimosi scintillanti d'un sorriso ineffabile.

—Che cos'hai?

Fece uno sforzo per raccogliere la voce abbassando la testa e allungando il collo come se mandasse giù un grosso boccone; ma non la raccolse intera e gli venne appena fatto di dire in fretta e a mezza voce:—Niente.—

L'ufficiale sorrise.

—Sai scrivere?

—....Un poco—rispose il coscritto col respiro tuttavia affannoso.

—Allora vieni con me.—

S'avviò verso la sua camera e il coscritto lo seguì. Entrati che furono, l'ufficiale fece sedere il suo buon paesano al tavolino, gli mise una penna in mano, un foglio di carta davanti, e gli disse:—Scrivi a tuo padre.—

Il coscritto lo guardò a bocca aperta.

—Scrivi a tuo padre.

—....Che cosa?

—Che cosa hai visto, che cosa pensi, che cosa senti; quello che vuoi.

—Ma....

—Zitto; fin che non hai finito non ti permetto di dire una parola.—

[Pg 150]

E si rimise a leggere il giornale accanto alla finestra. Il coscritto continuò a guardarlo in aria di stupore, poi chinò la testa, pensò qualche minuto e cominciò a scrivere adagio adagio.

Dopo un quarto d'ora, l'ufficiale domandò:—Siamo vicini a finire?

—Finito,—rispose il soldato tutto contento.

—Leggi.

—Leggere?

—Già.—

Si vergognava.

—Leggi, ti dico.—

Si dispose a leggere.

—Ma dimmi prima: hai scritto la verità? Sei stato sincero? Hai detto proprio quello che pensi e quello che senti?—

Il soldato si pose una mano sul petto e alzò gli occhi al cielo.

—Leggi, dunque.—

Cominciò a leggere:

«Caro padre.

»Sono arrivato al reggimento e ci fecero subito tagliare i capelli e poi ci vestirono. Quel signor ufficiale del nostro paese che tu sai come si chiama l'ho veduto quest'oggi nel cortile e abbiamo parlato insieme più d'un'ora. Non si mangia da signori, si sa; ma a far da mangiare per tanti è difficile farlo bene, e poi l'appetito non manca, basta fare il suo dovere. I superiori sgridano; ma non sono mica tutti cattivi, chè anzi c'è dei soldati che si sono fatti ammazzare per salvarli, e non volevano lasciarli neanche morti nelle mani dei nemici. C'è anche dei soldati che [Pg 151] non sono mai stati in punizione, e così spero di me. E il tempo passa presto, perchè ci faranno viaggiare e ci sono le statue, i giardini e le chiese da vedere, e poi le manovre, poi anche i campi, e i generali si divertono insieme ai soldati e si fa la tombola. Poi fa piacere vedere la bandiera e sentire la musica; si trovano degli amici, e il colonnello vecchio si può dire che sia un nostro secondo padre e noi altri i suoi figliuoli. Intanto ti saluto e sta' bene, ec. Tuo affezionatissimo figlio.»

—Bravo!—

Il soldato rise e abbassò la testa come fanno i bambini quando si senton dire che son belli.

—Adesso, per farmi piacere, andrai giù a bere un mezzo bicchiere di vino alla salute di tutti i coscritti. To'.—

E gli porse un biglietto.

—Signor ufficiale!—disse il soldato vergognandosi e facendo l'atto di rifiutare.

—Eh!—gridò l'ufficiale in tuono di minaccia.

Il coscritto prese il biglietto, e avviandosi per uscire, balbettò qualche parola di ringraziamento:—Signor ufficiale.... io.... non so proprio.... sento che....

—Silenzio!—

Uscì frettolosamente, scese le scale a tre scalini alla volta; fece due o tre salti nel cortile fregandosi le mani, ridendo e borbottando tra sè; entrò nella cantina; la vivandiera gli mescè un bicchier di vino con un bel garbo e un bel sorriso che gli fecero dimenticare la scena di poco prima; bevette, uscì....

Appena uscito, incontrò quel tal caporale, che gli si avvicinò con un viso meno agro e un fare più cortese.

—Di' un po': è tuo parente quell'ufficiale che ha parlato con te un'ora fa?

[Pg 152]

—No.

—Ma lo conoscevi?

—Molto.

—È quell'ufficiale del tuo paese che tu cercavi?

—Quello stesso.

—Io non aveva mica capito, sai, quando me lo avevi domandato....

—Oh non fa nulla.

—Se avessi capito t'avrei risposto.

—Grazie.—

Il caporale s'allontanò; il coscritto, rimasto solo, disse tra sè:—In fin dei conti, non è mica un cattivo giovane, no, questo caporale!—

In quel mentre i soldati cominciavano a rientrare a gruppi a gruppi in caserma, discorrendo forte e cantando. Fra gli altri, veniva innanzi un drappello di coscritti, un po' brilli, che facevano un chiasso allegrissimo.

—Quando gli altri fanno il chiasso e tu cacciaviti subito in mezzo e fallo più di loro;—il coscritto si ricordò quelle parole—Bisogna far del chiasso,—pensò;—che cosa gridare?... Ah! Viva il soldato Perrier!—urlò con quanta voce avea in gola.

E gli altri, forse senza neanco aver capito, risposero ad alta voce:—Viva!—

Il nostro soldato si gettò in mezzo a loro, e cantando e gridando salirono confusamente nel dormentorio.

L'ufficiale, che lo avea guardato dalla finestra, disse fra sè:—Codesto giovinetto sarà un bravo soldato.—

E come s'era già fatto buio, e il cielo era tutto stellato, e si sentiva nel cortile quel gaio rumore, e nella strada sonava la fanfara della ritirata, tutto questo produsse in lui una commozione così subitanea, che [Pg 153] quasi senza ch'ei se n'avvedesse o ne sapesse il perchè, levò gli occhi in su ed esclamò soavemente:—Perrier!

E poi un'altra volta:—Oh buon Perrier!... Dove sei? Senti il tuo nome?—

A guardare un bel cielo, di notte, ci vengono spontaneamente sulle labbra i nomi più venerati e più cari.


[Pg 154]

UNA MARCIA NOTTURNA.


Che notte! Nè luna, nè stelle, un buio d'inferno; non s'era mai visto una tenebra più fitta. Comunque non corressero che i primi giorni di ottobre, pure tirava una brezzolina d'autunno avanzato, e la si sentiva batter nel viso sorda e sottile, e scorrer sotto i panni, e raggrinzare le carni. Si era intorno alle nove della sera; il reggimento aveva disfatto le tende e se ne stava schierato a traverso il campo, colle armi al piede, aspettando l'ordine di partire. I soldati, desti pur allora da un sonno scarso e disagiato, se ne stavan là tutti curvi, raggranchiti, freddolosi, con una cera agra e scontenta, colle mani in tasca e i fucili abbandonati sul braccio; e invece del consueto cicalìo, così vivace ed allegro, non s'udiva che un bisbigliar rado, sommesso e svogliato. Era sì fitto il buio che, a guardar quel campo di sulla strada, non vi si scorgeva che la lunga fila delle lanterne appese in cima ai fucili, ciascuna delle quali illuminava intorno a sè quattro o cinque faccie piene di sonno. Laggiù, in un angolo del campo, oltre l'ala estrema del reggimento, si vedevano muovere in un piccolo spazio molti lumicini, da cui era debolmente rischiarato un confuso affaccendarsi di persone d'abito vario attorno a certi carri e a certe casse: i bagagli del vivandiere. Qua e là pel campo luccicava ancora qualche fiammella; eran gli ultimi guizzi dei fuochi che [Pg 155] avevano accesi i soldati colla paglia delle tende per levarsi di dosso l'umidità contratta, dormendo, dal terreno. Tutto il resto, buio.

Ad un tratto echeggia un gran rumor di tamburi; poi silenzio. Le compagnie si volgon successivamente di fianco, le prime file si muovono, il reggimento parte. Passa, sopra un angusto ponticello, il fosso che separa dal campo la via, e là le file si accalcano, e si osserva un affollarsi di lumi che vanno ora avanti e ora indietro a seconda degli ondeggiamenti della folla, e partono due a due, e s'allungano per i due lati della via diritta in una doppia fila, e a poco a poco si confondono lontano in due strisce luminose ondulanti e serpeggianti come due gran redini di fuoco agitate dalla coda della colonna.

E si cammina; e per un po' di tempo si ode un chiacchierio sommesso che muor poi a poco a poco, a poco a poco in un silenzio profondo, interrotto da qualche rauca vociaccia degli uffiziali che brontolano:—In ordine—ogni volta che, gettando l'occhio sonnolento sui soldati vicini alla lanterna, vi scorgono un po' di allargamento o un po' di serra serra. Tutti gli altri tacciono. Non s'ode che lo strascicato rumore delle pedate e il monotono tintinnìo delle scatole di latta, che segnano la cadenza del passo.

Col diffondersi del silenzio si comincia a diffondere il sonno, il tormentoso e terribile compagno delle marce notturne. Pover a chi n'è colto! Non v'ha riposo anteriore, nè colloquio di amico, nè liquor vigoroso, nè sforzo di volontà che lo vinca; bisogna cedere e subirlo.

Guardate là quell'uffiziale in mezzo alla via. Egli lotta da più d'un'ora col sonno; ma ormai le palpebre gli si chiudono irresistibilmente, tremole, gravi; e le ginocchia gli si piegan sotto; e la testa sollevata a stento gli ricade pesantemente sul petto; e le braccia gli penzolano [Pg 156] inerti e senza forza. La mente a poco a poco gli si chiude, le immagini gli s'intorbidano, gli si confondono, gli si trasformano l'una nell'altra bizzarramente. Al suo sguardo velato di sonno traballano in confuso i soldati che camminano davanti ed ai fianchi; e gli alberi e le case dall'una e dall'altra parte della via, di cui appena si discernono i neri contorni, gli presentano certi aspetti deformi, mirabili, strani. Alle volte egli segue ancora coll'occhio le mura d'una casa quand'elle sono già d'un buon tratto passate, o gli par di veder nereggiare un casolare o un folto d'alberi dove non è. Tal'altra volta gli si para improvvisamente dinanzi, proprio nel mezzo della via, proprio lì sul suo passo, un grande ostacolo, una gran cosa nera, ch'ei non sa che sia; ma ei la vede, ma ella c'è, eccola, è lì, proprio lì, sta per darci contro col capo; si sofferma, stende il braccio, lo agita.... nulla, non c'era nulla; tira innanzi. Trenta, cinquanta, cento passi, poi daccapo a sonnecchiare. E questa volta sogna. E gli pare di camminar solo, diretto non sa dove, o d'essere in tutt'altro luogo che là, lontano di là, forse a casa, in mezzo a tutt'altra gente, di giorno.... Ad un tratto, gli colpisce l'orecchio il rumore delle pedate d'intorno; s'accorge, come d'improvviso, del tintinnar dei gamellini; si desta, gira lo sguardo, si ravvede, sbadiglia, ripiglia il passo, e,—poco dopo,—daccapo. Col mento inchiodato sul petto, una mano in tasca, l'altra sull'elsa della sciabola, va innanzi, abbandonato al suo peso, a passi ineguali, a sbalzi, tentennando, serpeggiando, tre passi di qua, quattro passi di là,—cinque—sei,—giù, una gran spallata nello zaino a un soldato. Si scuote, si sveglia, lo guarda un momento cogli occhi stralunati, si ravvede, si vergogna, scrolla la testa in atto di compatire se stesso, e poi ripiglia l'andare a passo franco e spedito. [Pg 157] Dopo cento passi, daccapo. Dà un grande urtone in una persona che gli cammina davanti, si sveglia, guarda:—Oh! scusi, capitano.—Niente, si figuri! Son cose che succedono a tutti.

Ti si accosta un compagno. Camminate per un po' di tempo, senza scorgervi, l'uno al fianco dell'altro. Poi:—Sei qui?—Risposta: un grugnito.—Hai sonno?—Un po'.—Dammi il braccio.—E vi date il braccio. Spalla contro spalla, fianco contro fianco, e avanti, alla meglio, a fiancate, a traballoni, a sconquassi. Otto, dieci, venti passi, e il sonno vi piglia, e le vostre teste pesanti si ripiegano tutte e due dalla stessa parte e si picchiano.—Ahi!—Vi sciogliete.

E intorno intorno tutti cheti; e sempre buio fitto; sempre le due lunghe file di lumi che ondeggiano lunghesso i lati della via; e sempre lo stesso monotono tintinnar dei gamellini.

Tutto ad un tratto suona in mezzo alle file una voce stizzosa:—Su quel lume!—E il soldato che porta la lanterna e che, preso dal sonno, aveva allentato il braccio e lasciava cadere il fucile sul capo di chi gli vien dietro, si desta, ripiega il braccio, e rialza il lume.

Altri pochi passi, e un sonoro e prolungato sbadiglio a raglio d'asino rompe il silenzio. Due o tre voci gli tengon dietro a contraffarlo; una risata, e zitti.

Altri pochi passi, e s'alza una voce stridula in tentativo di canto. Un diavolìo d'urli di protesta e di disapprovazione si solleva dalle file.—Lasciala lì.—A un'altra volta.—Dormi in pace.—E il mal ispirato cantore ricaccia in gola il resto della canzone e si tace.

Altri venti passi, e si ode un grido acuto e poi un digrignar rabbioso di bestemmie.—Che c'è?—Chi è?—È un soldato, colto dal sonno, che ha dato una violenta stincata contro un paracarri—E intorno intorno:—Bada [Pg 158] ove vai.—Sfido io, cammina a occhi chiusi.—L'hai? tientela.

Dopo un altro po', scroscia una gran risata alla coda della compagnia, e un: uh! prolungato in tono di corbellatura.—Cos'è stato? Che è accaduto? Chi è?—È un povero diavolo che camminava sull'orlo della via, e sonnecchiava e tentennava e finì col rotolar giù nel fosso.—È profondo?—Ma! chi ci vede?—Guardiamo.—Animo, animo, (un uffiziale) che fate lì? Andate oltre. S'alzerà da sè. E voi, volete tener alto quel lume?

E silenzio, e avanti, e sempre buio, e sempre quella brezzolina gelida, mordente, uguale, che batte molestamente nel viso e mette un brivido che par d'esser d'inverno.

—Oh che sonno! Che ora sarà? Le dieci, forse; fors'anco di più. Che notte! Non ci si vede nulla. Ohè, di', amico, quanto tempo è che si cammina?... Parla, oh; quanto tempo? Dorme, non sente; a momenti si rompe il collo... Ho sonno anch'io. Ah! non poter dormire! E gli è un po' di tempo che si va! Che noia non ci veder nulla! Se si potesse dormire in piedi.... Ho da provare? Che sonno, Dio mio, che sonno.... che sonno.... la notte è buia.... buia.... e il vento.... dormire....

Ancora un momento, e cadrà nel fosso. Uno squillo di tromba. Alto. L'ha scampata. Giù tutti, come corpi morti; si casca dove si casca, sulle pietre, tra le spine, nel fango, dove che sia: tutto è comodo, tutto pulito tutto soffice, tutto delizioso. Lì, sopra un mucchio di sassi, dall'un lato della via, s'è rovesciata, d'un sol colpo, tutta una squadra, l'un sull'altro, l'uno attraverso dell'altro; la canna del fucile sotto la schiena, la borraccia di un compagno sotto la testa, un piede del caporale di squadra contro la faccia, lo zaino d'un altro compagno contro un fianco; la mano, talvolta, fra l'erbe, dentro qualcosa [Pg 159] d'umido e di molle...; ma che monta? La voluttà del sonno è così cara, così dolce, così potente, che non si può badare ad altro che a goderla intera e ad abbandonarvisi anima e corpo. Oh la dolcezza d'un lungo e tormentoso bisogno finalmente appagato! In tutte le membra si insinua e si spande un senso di piacer languido, uno sfinimento soave.... Oh che delizia! dormiamo.

Se su quel punto della strada battesse per un momento il raggio della luna, oh che quadro bizzarro ci si offrirebbe allo sguardo! Gli è come un mucchio di cadaveri buttati là alla rinfusa: altri supino, altri bocconi, altri disteso, altri rannicchiato, e qua e là braccia e gambe e piedi e fucili che spuntano di mezzo alle gambe e alle braccia d'altrui; una mescolanza che, a distinguervi membro per membro cui appartenga, ci sarebbe un gran da fare. Sulle prime, in quel mucchio di corpi, succede un po' di movimento, un po' di rimescolìo; ciascuno cerca, dimenandosi lievemente, la più comoda positura, e ne nasce un po' di litigio.—Fatti in là, sangue di Bacco!—Via quel piede!—Tira in là cotesta gamba; o non vedi che me la dai sul muso?—Ma gli è l'affar d'un momento, e poi tutti zitti. Un sonno pieno e profondo s'insignorisce di tutti. Dapprima si sente un respirar grosso e frequente; poi come un sospirar fievole ed interrotto; poi un gemere sordo e arrantolato; infine un russar generale su tutti i tuoni, bassi, baritoni, soprani, consonanti e dissonanti, striduli e sonori, una musica d'inferno.

Uno squillo di tromba; è l' attenti .

Di quel mucchio nessuno l'intende, nessuno si muove; tutti quieti, immobili, come corpi morti. Un altro squillo; e niente; immobili come prima.—Vi farò alzar io, adesso!—tuona sui dormenti una voce minacciosa. A quella voce, ecco là una gamba si stira, qui si [Pg 160] stende un braccio, più in là si dondola una testa, più in qua si torce una vita, come segue in un gruppo di biscie che si svolgano lentamente al tepore del sole.—Ci alziamo adunque, sì o no?—ripete più irosamente la voce di prima. Uno dei dormenti s'alza a sedere, un altro si frega gli occhi col rovescio della mano, un altro tasta intorno in cerca del cheppì, un quarto è già in piedi, e un quinto e un sesto.... Tutti ritti: oh finalmente! Ma che pena, Dio mio, che tormento esser destati così bruscamente e doversi levar su proprio nel punto che si cominciava a gustare il sonno!—Dov'è il mio cheppì?—E il mio fucile?—Dammi il mio cheppì, di'.—Questo è il mio.—Ma no; il tuo è quest'altro.—Di chi è questo fucile?—A me, dammelo.—Va a trovar la nappina, adesso!—E lì cerca, e raspa, e fruga di qua di là, fra le pietre della via, giù nel fosso, fra l'erbe, nei cespugli, ansando, sbuffando, bestemmiando.... Squilla un'altra volta la tromba e il reggimento si rimette in cammino.

E sempre buio, e sempre la stessa brezzolina fredda, che agghiaccia il muso e increspa la pelle. Dio, che freddo a star fermi! si trema. Le lanterne son tutte spente: oscurità completa. Chi sa in che confusione camminan questi bricconi! Fortuna per loro che non ci si vede.

Dopo una mezz'ora di cammino silenzioso, qualcuno comincia a scorgere, lontano lontano, un lumicino tremolante, che a volta a volta si eclissa e riappare come una lucciola.—Che sarà?—Andiamo innanzi;—ancora;—ancora un po';—un altro pochino. Il lumicino non si eclissa più; appare più grande e splende più vivo.—Lo vedi?—È la lanterna alla testa del reggimento.—No no, è un paese.—Ma che paese!—Andiamo innanzi—innanzi,—innanzi... Eh?....—Hai [Pg 161] ragione, è un paese.—La voce si propaga; i sonnecchianti si scuotono; i dormenti si svegliano; nasce un po' di bisbiglio.—Oh! benedetto il cielo; ecco le case, ecco la via d'entrata, eccoci entrati.—

L'ora è tarda; le vie son quasi deserte; lo scalpiccìo del reggimento echeggia distintamente in quella solitudine, e il bisbiglio si spande a destra e sinistra per le vie torte ed oscure. Casupole di qua, casupole di là, e tutto chiuso, sbarrato, come se fosse un villaggio abbandonato. Ma a misura che si procede, a manca e a dritta della via, a pian terreno, si schiude a mezzo qualche porticina per cui si vedono luccicar dentro i focolari, e affacciarsi e sporger fuori timidamente la testa qualche donnicciuola già spogliata a mezzo, e accorrere fuori della soglia i fanciulli, e ai piani di sopra aprirsi qualche impannata, e tralucere l'interno lume, e apparir dietro i vetri una figura nera che guarda giù che cos'è l'insolito tramestìo.... Ah! quella figura nera sarà scesa allora allora dal letto, dove dormiva e tornerà tra breve a dormire saporitamente i suoi sonni queti e soavi! Oh quel letto! Par di vederlo, par d'avere sott'occhio la rimboccatura delle lenzuola fatta e distesa sul capezzale, e di passarci la mano su, e di sentir la fragrante freschezza della tela pur ora uscita di bucato. Oh fortunato chi dorme là entro! Oh quando riavrò il mio letto anch'io! Felici, beati tutti coloro che hanno un letto!

La via, prima torta ed angusta, si fa dritta a poco a poco e si allarga,—si allarga,—ecco, sbocca in una piazza. La bella piazza! Due file a destra, due file a sinistra: tutti guardano intorno. Qua e là gruppi di curiosi, qualche bottega aperta, lì una chiesa, là la casa del sindaco, una fontana, un porticato, e laggiù.... Oh, guarda, guarda: un caffè!

[Pg 162]

Strana, ma pur vera emozione! Traversate di notte, dopo una marcia lunga e penosa, un villaggio; passate, stanchi, spossati, assetati, sordidi di polvere e di fango, disavvezzi da molto tempo da ogni gentile costumanza e da ogni diletto della vita cittadina, passate dinanzi a un caffè; e vi batterà il cuore d'una certa tenerezza, d'un certo struggimento malinconico, quasi d'una mesta pietà di voi stessi, e lancierete in quel caffè uno sguardo avido, invidioso, bieco d'amore collerico, come fanno i bambini; e serberete per molto tempo in mente l'immagine del loco, degli oggetti e delle persone.

Quello là era un caffè ampio, illuminato, luccicante di specchi, pieno di uffiziali di stato maggiore e di aiutanti di campo, coperti d'oro, d'argento, di ciondoli, di pennacchi, di medaglie e di croci; altri dentro, altri sulla soglia, altri fuori sulla piazza, e facevano tutti un continuo dimenar di braccia e di gambe e un chiassoso strascicare di sciabole. Un denso nuvolo di fumo avvolgeva ogni cosa; si vedeva e si sentiva un gran stappare di bottiglie di birra, e un affaccendarsi e un correre di fattorini, rossi nel viso, trafelati, confusi dalla frequenza e dalla splendidezza insolita degli avventori; un girare e rigirare alla pazza dal di dentro al di fuori, dal di fuori al di dentro, chiamandosi, garrendosi gli uni cogli altri, che non sapevano più dove avessero la testa; e sul dinanzi della porta una folla di popolo con tanto d'occhi e di bocca aperta a contemplare i galloni più larghi e i petti più medagliati. E in fondo al caffè, proprio in fondo in fondo, in un angolo, dietro a un tavolino circondato dagli uffizialotti più giovani, sopra una sedia rialzata, in una specie di nicchia, di tempietto, un bel visino di fanciulla su cui combattevano amabilmente il pudore e la civetteria, in mezzo a [Pg 163] tanti inconsueti omaggi, a tante garbatezze di lega signorile, a tante sviscerate proteste, e a tante audaci preghiere e a tanto contorcersi e molleggiare di vite sottili e di gambe co' calzoni alla pelle.

Tutti gli occhi si figgono avidamente là, su quella figura gentile, su quel bel viso, e vi restano fitti fin ch'ella dispare allo sguardo. Non sono pensieri, non sono immagini e desiderii di voluttà ch'ella ci desta in quei momenti; oh no; bensì ci mette in cuore come un desiderio stanco di pace e di affetto, una malinconia vaga, e ci sentiamo improvvisamente soli, abbandonati e scoraggiti. La donna ci richiama vivamente alla memoria le dolcezze quete e soavi della vita domestica, le quali, paragonate alla nostra dura vita di soldato, appunto in quell'ora, in quei momenti in cui di tal vita non si provano che le amarezze e i disagi, non le consolazioni, nè i fieri contenti; ci fan quasi parere d'essere infelici. Quel viso di donna ci ravviva in mente l'immagine di nostra madre e di nostra sorella o di qualche creatura più ardentemente cara, e, quando esso ci fugge dallo sguardo, noi chiniamo la testa, e pensiamo, e diventiamo tristi, e quelle tenebre par che ci pesino sul petto e ci mozzino il respiro, e guardiamo e riguardiamo il cielo se comincia a schiarire, e in quel malinconico vaneggiare della fantasia, ci pare che ci addormenteremmo così volentieri per sempre, vedendo comparire ancora una volta nostra madre e il sole....

Il reggimento è fuor del villaggio. Sempre lo stesso buio e la stessa brezzolina. Di lumi non se ne parla più chè son tutti spenti da un pezzo. E dunque? Dovremo noi seguitare fino alla tappa il reggimento, con questo fresco e con questo buio, ed assistere al ripetersi di tutte le scene che abbiamo vedute fin qui? Quelli a cui garbi lo seguano; io lascio ch'ei faccia il suo cammino, [Pg 164] gli auguro che trovi un buon campo, e vi mangi un rancio saporito e vi dorma un sonno lungo e tranquillo, perchè, a dire il vero, questi poveri soldati n'hanno bisogno e se lo son meritato.


[Pg 165]

UN MAZZOLINO DI FIORI.


—Guarito, guarito; non ci ho neanco più il segno; guarda.—Così mi diceva l'anno scorso, sul cadere di febbraio, dopo una quindicina di giorni che non ci eravamo più visti, un ufficiale giovanissimo, che io incontrava in casa di una signora nostra amica, e così dicendomi mi porgeva la mano perch'io la guardassi. La guardai; non c'era proprio traccia di nulla.—E quell'altro? gli chiesi.—Sta meglio.—Chi? Chi sta meglio? Chi è che s'è ammalato?—interruppe la padrona di casa sopraggiungendo. Io e il mio amico ci scambiammo un sorriso.—L'ho da dire?—questi mi chiese. Io gli risposi che se fossi stato in lui l'avrei detta.

—Senta dunque—incominciò l'amico rivolgendosi alla signora.—Tre giorni prima che finisse il carnovale, una sera verso le cinque, io stava davanti a un caffè a vedere il corso delle carrozze, solo, imbroncito, pigiato dalla folla, tutto bianco di farina, maledicendo il momento che m'era venuta l'ispirazione di uscir di casa e di cacciarmi là in mezzo. Di tratto in tratto passava un soldato di cavalleria colla sciabola nuda e faceva cenno alla gente che si tirasse indietro per non ingombrare il corso, e al cenno aggiungeva qualche parola rispettosa e cortese. Davanti a me c'eran quattro o cinque monelli che, appena passato il soldato, si gettavano in mezzo alla strada fra carrozza e carrozza e si [Pg 166] contendevano a pugni i coriandoli e i fiori sparsi sul lastrico con gran rischio di restare schiacciati dai cavalli e con gran noia dei cocchieri che per andare innanzi dovevano spolmonarsi a gridare che si badassero e facessero largo. Uno dei soldati che percorrevano la strada, dopo averli ammoniti e sgridati cinque o sei volte, visto che facean sempre peggio, perdette la pazienza, spronò il cavallo verso di loro e alzò la sciabola come per dare un colpo di piatto, che in nessun caso, sicuramente, non avrebbe mai dato. Un signore che m'era vicino, vedendo quell'atto, esclamò:—Eh!—E quando il cavaliere si rimise la sciabola contro la spalla, soggiunse:—Avrei un po' voluto vedere.—E poi, volgendosi verso un suo vicino:—Frutti dell'educazione: prepotenza e brutalità.—Mi si rimescolò il sangue; alzai una mano, la ritenni, la cacciai in tasca, e con tutta la calma di cui fui capace e col più cortese accento che potei metter fuori mormorai nell'orecchio a quel signore:—Quale educazione?—Si voltò, fece un atto di sorpresa, impallidì; ma si rinfrancò tosto e rispose con insolente scioltezza:—L'educazione militare.—Io non vidi più nè lui, nè la folla, nè il corso, e non mi ricordo neanco più quel che gli dissi e quel che mi rispose; non so altro che l'indomani mattina tornai a casa con una mano ferita, e i miei amici mi dissero che quel signore aveva la guancia sinistra divisa in due. Ecco tutto. Or ora io stava dicendo che la mia mano non serba più segno della scalfittura, e che quell'altro signore sta meglio.—

La signora che fino allora era stata a sentire con gran serietà, alzando di tratto in tratto gli occhi al cielo ed esclamando:—Dio mio!,—si rallegrò con gentili parole dell'esito fortunato del duello, e poi usci fuori improvvisamente con una domanda.... da donna:—Ma lei perchè [Pg 167] lo ha provocato? Non era meglio finger di non sentire?—

Il mio amico mi guardò; io guardai lui, e ridemmo tutti e due.

—Perchè ridono?

—Senta, signora—quegli rispose.—Posto pure, cosa che non è, ch'io dovessi fingere di non sentire, come l'avrei potuto se l'ira mi accese il sangue e mi spense ogni lume di ragione? Sapevo io che cosa mi facessi in quel momento?

—Certo che....

—E poi la gente che era là attorno aveva sentito, e poi l'offesa colpiva tutto l'esercito, e poi quelle parole erano una menzogna, e poi, appunto in quell'occasione, quella menzogna era una calunnia, e poi il tuono di voce con cui quella calunnia era stata proferita sonava come una provocazione, e poi quel signore, come seppi in seguito e come non poteva essere altrimenti, perchè vi sono delle parole che rivelano tutta l'anima d'un uomo, quel signore era un....

—Zitto! zitto! non occorre ch'io lo sappia.

—E poi c'era un'altra ragione per cui quelle parole dovevano riuscirmi tanto amare e oltraggiose, e questa ragione gliela voglio dire. Ascolti. Quattordici anni fa....

—Niente meno!

—Senta; ero a Torino colla mia famiglia; avevo sette anni. Il penultimo giorno di carnovale mia madre mi mise un bel vestitino da maschera, tutto di seta a striscie bianche e celesti, con una sciarpa rossa, una parrucca di ricci biondi e un berrettino di velluto verde, e mi condusse al corso in carrozza. C'era con noi mio padre e un maggiore d'artiglieria suo amico. Avevamo molti mazzi di fiori e un gran canestro di confetti. Le strade erano stivate di gente; un'infinità di carrozze; [Pg 168] maschere a centinaia, eleganti, svariate; un gran moto, un gran chiasso, un corso stupendo. Mia madre, secondo il suo costume, non partecipava affatto all'allegria della festa e non parlava quasi mai. Di tratto in tratto, quando passava la carrozza di qualche amico, essa mi metteva un mazzo di fiori in mano e me lo faceva gettare, tenendomi per la sciarpa perchè nell'atto di lanciarlo io non cadessi a capo fitto. I bambini miei amici mi gettavano anch'essi dei fiori e dei mazzolini e mi salutavano gridando e ridendo del mio bizzarro vestito, ed io rideva del loro, e ci divertivamo del miglior cuore del mondo. Molto più di adesso, tra parentesi, perchè allora una bella mascherina mollemente sdraiata in una vettura, uno stivaletto piccoletto stretto e rotondetto che spenzolasse astutamente fuori d'uno sportello, una calza bianca ben tesa, e una camiciola da débardeur cascante da un lato, non tiravano nè i nostri pensieri, nè i nostri sguardi, nè i nostri desiderii.

—Questo non ci ha che fare.

—Ci divertivamo. A un certo punto però, stanco di gridare e di sbracciarmi, sedetti per ripigliare un po' di lena. Allo sbocco di via Po in piazza Castello v'era una fila di soldati di cavalleria e di carabinieri, immobili e serii come se assistessero a un funerale. Guardavano ora le carrozze, ora la gente, senza dirsi una parola, senza scambiarsi un sorriso, senza dare un segno di curiosità, nè di diletto, nè di rincrescimento, nè di noia; parevano automi. La folla li stringeva da ogni lato, ondeggiando e rimescolandosi e levando un gran frastuono; dalle finestre delle case vicine, ch'eran tutte piene di signore e di maschere, veniva giù una tempesta di coriandoli, e dalle carrozze una tempesta contro le finestre, e dalla strada contro le carrozze: una battaglia accanita, con grandi nuvoli di farina che velavano a mezzo [Pg 169] ogni cosa, e un po' più oltre la banda che suonava, quasi coperta da un fracasso di tamburelli e di trombette che lacerava le orecchie.

—Povera gente!—disse mia madre al maggiore accennandogli i soldati.—Essi non mancano mai; essi son sempre dappertutto. Non basta che ci difendano dai nemici, e spengano gl'incendi, e acquietino i tumulti, e proteggano le nostre vite e le nostre sostanze; essi proteggono ancora le nostre feste, assicurano le nostre gioie, essi che non hanno nè gioie, nè feste e patiscono tanto e fanno tanti sacrifizi, senza raccoglierne mai un frutto, senza ottenerne mai un compenso; ma che compenso! un conforto, una parola di riconoscenza, un grazie. La gente non li guarda nemmeno; noi siamo tutto per loro, e loro, per noi, nulla.—

Il maggiore, serio anch'esso che pareva un magistrato, senza neppur guardare i soldati rispose gravemente:—È vero.

—Se è vero!—soggiunse vivamente mia madre.—Guardi, maggiore; guardi un po' quel soldato là, il primo a cominciar da questa parte; guardi che aria melanconica! Che abbia qualche dispiacere? Che si senta male?

—Chi lo può sapere?—rispose il maggiore sorridendo leggermente.

—Chi sa che cos'abbia!—ripetè mia madre; e stette guardandolo pensierosa. Così fatta è quella santa donna, che anche in mezzo al frastuono e all'allegrezza di una festa, un nonnulla le svia la mente da quel che la circonda, e la trae, di pensiero in pensiero, sino alla malinconia. Veda, signora, se mette conto aver buon cuore!

—Via!

—Scherzo. La carrozza andò innanzi e mia madre continuò a parlare di quel soldato; poi si rimise a pensare, e quindi tutt'ad un tratto:—E se qualcuno [Pg 170] di casa sua stesse male? Potrebbe darsi anche questo. Non li lascian mica andare a casa quando qualcuno della loro famiglia si ammala, non è vero, maggiore?

—È difficile—questi rispose.

—Vedete!—esclamò mia madre.—Scommetterei che è tristo per questo.—Che razza di logica ha il cuore!...—Ed intanto è condannato a star là in mezzo alla gente che si diverte, che canta, che grida.... Non me lo posso levar dalla testa.—

Il maggiore sorrise.

—Che cosa vuole? ripigliò mia madre,—son fatta così.—

Compiuto il giro, la carrozza stava per ripassare dinanzi ai soldati. Mia madre, colto il momento che il maggiore e mio padre non guardavano, mi porse un mazzolino di fiori, mi indicò con un gesto rapido il suo soldato, e mi disse all'orecchio:—Gettaglielo.—Mi rizzai in piedi, e, trattenuto al solito per la sciarpa, mi atteggiai per gettare il mazzo.—Hai detto quello là, non è vero? domandai ancora una volta.—Sì, sì, e presto.—Ci mancavano sette od otto passi; la carrozza si soffermò, riprese la corsa, ci siamo... Animo!—disse mia madre.—Eccolo là—io gli risposi fieramente. Il mazzolino avea descritto una bella curva nell'aria, ed era caduto proprio sul petto del soldato, fra il fermaglio del cinturino e la mano che teneva le redini. Quegli si scosse come da un sogno, afferrò quasi involontariamente il mazzetto, alzò gli occhi in atto di viva sorpresa, mi vide, lo salutai con tutte e due le mani, egli sorrise, e mi guardò fisso fin che la carrozza sparì. Il mio piccolo cuore batteva forte forte; mia madre si era rasserenata; il maggiore e mio padre non avevano visto nulla. Prima di compiere un'altra volta il giro, uscimmo dal corso, e andammo a casa.

[Pg 171]

Rividi il soldato, dieci o dodici giorni dopo, nel giardino pubblico. Era con molti altri suoi compagni, e discorreva forte e rideva.—Guarda là il soldato del mazzetto!—dissi a mia madre tirandole il vestito.—Zitto!—ella mi rispose;—non ci badare.—Non capii il perchè di questo comando; lo guardai; egli mi guardò fisso, mi riconobbe, fece un atto di gran sorpresa e disse:—Oh!—Mia madre mi tirò pel braccio e andammo inanzi. Dopo quel giorno non lo vidi più per un anno. L'anno dopo, una delle ultime notti di carnevale, tornato colla famiglia dal teatro, mi avvicinai, pochi momenti prima d'andare a letto, alla finestra, e stetti un po' di tempo a guardare in strada a traverso ai vetri. La strada era buia, e nevicava. Di tempo in tempo, sbucavan maschere dalla casa dirimpetto, dove c'era un caffè e un'osteria, si sparpagliavano, s'inseguivano, sparivano, ne sopraggiungevano delle nuove, e le une colle altre incontrandosi e riconoscendosi si affollavano levando un diavolìo di grida in falsetto e ricambiandosi confusamente inviti e saluti. Comparve in quel punto una pattuglia di cavalleria. Le maschere si misero a ballarle intorno vociando e battendo le mani. I soldati, ravvolti nei loro grandi mantelli, passavano senza dar segno di vederle; ma uno di essi si voltò verso casa nostra, e parve guardare alla mia finestra.—Che sia lui!—pensai, ed apersi. Nello stesso punto il soldato levò una mano fuor del mantello, fece un saluto, e andò oltre. L'indomani seppi dalla portinaia che qualche giorno prima un soldato di cavalleria era entrato nel portico della nostra casa, aveva guardato un po' la scala come incerto se dovesse salire sì o no, e poi se n'era andato. Pochi mesi dopo intesi dire che un reggimento di cavalleria era partito da Torino, e non rividi più il mio soldato, e non ci pensai [Pg 172] più. Passarono molti anni; venne il cinquantanove; mi infatuai dell'esercito e manifestai a mio padre l'intenzione di abbracciar la carriera militare. Mio padre era incerto.—Finisci i tuoi studi—mi disse e—vedremo.—Nell'agosto del cinquantanove li terminai. D'allora in poi, ogni giorno gran discussione con mio padre sull'argomento della carriera. A misura però che s'andava innanzi, egli pareva sempre meno disposto a secondare i miei desiderii. Ma un caso impreveduto troncò il nodo della questione. Erano i primi di gennaio del sessanta. Una mattina io stavo in casa, a tavolino, scrivendo. Picchiano alla porta, e viene un servitore a dirmi che cercano di me.—Chi può essere?—mi domanda mia madre. Io m'alzo, essa mi segue, andiamo nella stanza d'ingresso. V'era sulla porta un uomo vestito da operaio, con un gran mantello, una berretta di pelliccia in capo, pallido, magro, con un'aria addolorata e abbattuta.—Non si leva nemmeno la berretta,—brontolò il servitore quando entrammo. Lo sconosciuto mi guardò sorridendo e mi domandò:—È lei?...—E disse il mio nome e il mio cognome.

—Son io—risposi.

—Sono un povero giovane rimasto senza lavoro; ho fatto il soldato; se potesse aiutarmi in qualche modo...

Io e mia madre ci consultammo collo sguardo.

—...Darmi qualche cosa—soggiunse l'uomo con voce supplichevole.

Presi e gli porsi di mala voglia un paio di lire dicendogli:—Pigliate.

—Me li metta in tasca.

—In tasca!—io esclamai tra stupito ed offeso. Ma il suo sguardo produceva uno strano effetto sopra di me; lo guardai qualche momento, e poi gli misi i denari in una tasca del mantello.

[Pg 173]

—Grazie! egli rispose con voce commossa.—E adesso....siccome io parto e ritorno al mio paese....vorrei pregarla.... di accettare una mia memoria.

Mia madre ed io tornammo a guardarci meravigliati.

—La vuole accettare, signore?—domandò egli timidamente, e con un accento affettuoso.

—....Vediamola,—risposi.

—Eccola,—egli disse, e allargando il mantello coi gomiti, scoperse e mi accennò collo sguardo un mazzetto di fiorì che portava nell'abbottonatura del panciotto.

—Ah! il soldato del corso!—gridò mia madre.

—Lui!—io esclamai con trasporto e mi slanciai per abbracciarlo;—gli cadde il mantello; mia madre mise un grido di terrore:—Dio mio!

—Che cosa c'è?—domandai voltandomi.

Nello stesso tempo vidi che a quel povero giovane mancavano tutt'e due le mani.

Le aveva perdute a San Martino.

Non so veramente come nè perchè; ma da quel giorno in poi il mio desiderio di fare il soldato si mutò in ferma risoluzione; vestire la divisa militare mi parve quasi un omaggio alla sventura di quel povero giovane. Ed eccomi soldato. Ed ecco perchè ogni volta che vedo un soldato di cavalleria al corso mi sento battere il cuore come per un vecchio amico e vorrei essere un bambino per gettargli un mazzo di fiori.

—E quel soldato?...—domandò vivamente la signora.

—È morto.

—Dove?

—In casa nostra, tra le mie braccia, presente mia madre, con un mazzolino di fiori sul capezzale.—


[Pg 174]

CARMELA.

I.

Il fatto che sto per raccontare accadde in un'isoletta distante una settantina di miglia dalla Sicilia. Nell'isola v'è un solo paese, che non conta più di duemila abitanti, e in cui, al tempo che seguì il mio avvenimento, si trovavano da trecento a quattrocento condannati a domicilio coatto. Vi era pure, per cagion loro, un distaccamento d'una quarantina di soldati, che si permutava di tre in tre mesi, comandato da un ufficiale subalterno. I soldati vi menavano una vita piacevolissima, specialmente per queste due ragioni, che, tranne la guardia alla caserma e alle prigioni, qualche perlustrazione nell'interno dell'isola e un po' d'esercizio di tanto in tanto, non avean nulla da fare, e il vino era a quattro soldi la bottiglia, e squisito. Non parlo dell'ufficiale, che si godeva una larghissima libertà, e aveva il gusto di poter dire:—Sono il comandante generale di tutte le forze militari del paese.—Aveva a sua disposizione due guardarmi in qualità d'impiegati all'ufficio del comando di piazza; aveva un bel quartiere gratuito nel centro del paese; passava la mattinata a caccia pei monti, il dopo pranzo in un piccolo gabinetto di lettura [Pg 175] coi principali personaggi del paese, e la sera in barca sul mare, fumando dei sigari eccellenti a due centesimi l'uno, vestito come gli pareva e piaceva, senza seccature, senza sopraccapi, quieto e contento come una pasqua. Un solo dispiacere egli aveva, ed era quello di pensare che una vita così beata non potea durar che tre mesi.

Il paese è posto sulla riva del mare, ed ha un piccolo porto, presso cui, allora, si fermava una volta ogni quindici giorni il vapore postale che viaggia fra Tunisi e Trapani. Raramente vi si fermavano altri legni. Tanto raramente, che l'apparire d'un legno diretto colà era annunziato al paese col suono d'una campana, e gran parte della popolazione accorreva alla spiaggia come sarebbe accorsa a uno spettacolo di festa.

L'aspetto del paesello è molto modesto, ma gaio, ridente; in ispecie per la larga piazza che v'è nel centro, la quale, come in tutti i villaggi, è per quella popolazione ciò che è il cortile per gli inquilini d'una stessa casa in città. Questa piazza è congiunta alla spiaggia per la strada principale, diritta, stretta e lunga poco più d'un trar di mano. Le botteghe e gli uffici pubblici son tutti nella piazza. Vi sono, o almeno v'erano allora, due caffè; uno frequentato dal sindaco e dalle altre autorità e dai signori; l'altro dai popolani. La casa dove stava il comandante del distaccamento era posta dal lato della piazza che guarda il mare; e come dalla spiaggia verso il centro del paese il terreno si va considerevolmente sollevando, così dalle finestre delle sue stanze, ne aveva due, si vedeva il porto, un lungo tratto di spiaggia, il mare e i monti lontani della Sicilia.

L'isola è tutta monti vulcanici, e grandi e folti boschi resinosi.

Tre anni fa, un bel mattino d'aprile, il vapore postale [Pg 176] diretto a Tunisi si fermava all'imboccatura del porto di quel piccolo paese. Fin dal suo primo apparire si era suonata la campana a distesa, e tutta la popolazione era accorsa, fra cui il comandante del distaccamento, i soldati, il sindaco, il giudice, il parroco, il delegato di pubblica sicurezza, il ricevitore, il comandante del porto, il maresciallo dei carabinieri, e un giovane medico militare, aggregato al distaccamento per il servizio sanitario dei «coatti.» Due barconi s'avvicinarono al legno e presero e trasportarono a terra trentadue soldati di fanteria e un ufficiale, un bel giovanotto bianco, biondo, e di gentile aspetto (dico così perchè c'è il verso bell'e fatto), il quale, data una stretta di mano al suo collega, e risposto cortesemente alle liete accoglienze delle autorità, in mezzo a due ali di curiosi entrò nel paese alla testa del suo pelottone. Acquartierato che l'ebbe, egli tornò subito in mezzo al crocchio dei personaggi che l'aspettavano in mezzo alla piazza, e il sindaco glieli presentò ad uno ad uno con un certo fare tra l'allegro ed il serio, pieno di cordiale famigliarità e temperato d'un po' di innocente sussiego. Terminata la cerimonia, il gruppo si sciolse, e l'ufficiale, rimasto solo col suo collega, si fece condurre alla casa che gli era destinata. Quivi l'ordinanza dell'ufficiale che partiva stava facendo i bauli, e quella del nuovo arrivato affrettava il momento d'aprirli dando una mano al suo camerata. Di lì a un'ora tutto era al posto.

Il distaccamento che doveva andarsene partì la sera stessa intorno alle otto, accompagnato al porto dal distaccamento che rimaneva, e il nostro ufficiale, appena detto addio al compagno, si ritirò in casa e si mise a letto, chè, stanco com'era del viaggio e dell'esser stato tutto il giorno in faccende, si sentiva un gran bisogno di dormire. E dormì proprio di gusto.

[Pg 177]

II.

La seguente mattina, appena sorto il sole, uscì di casa. Non aveva ancora fatto dieci passi sulla piazza, quando si sentì tirare leggermente la falda della tunica. Si fermò, si voltò, e vide a due passi da sè, ritta e immobile nell'atteggiamento del soldato che saluta, una fanciulla co' capelli rabbuffati e il vestito scomposto, alta, sottile e di bellissime forme. Teneva fissi in volto all'ufficiale due grandi e vivi occhi neri, e sorrideva.

—Che cosa volete?—questi le domandò guardandola in aria di sorpresa e di curiosità.

La fanciulla non rispose, ma seguitò a sorridere e a tener la mano tesa contro la fronte nell'atto del saluto militare.

L'ufficiale si strinse nelle spalle e tirò innanzi. Altri dieci passi, altra tiratina alla tunica. Si fermò e si voltò un'altra volta. E quella sempre ritta e impalata come un soldato in riga. Guardò intorno e vide qualcuno là presso che osservava quella scena e rideva.

—Che cosa volete?—le domandò un'altra volta.

La fanciulla stese la mano coll'indice teso verso di lui e disse sorridendo:

—Voglio te.—

—Ho capito,—egli pensò;—n'ha un ramo,—e, cavato di tasca qualche soldo, glielo porse, facendo atto di andarsene. Ma la fanciulla, piegando un braccio dinanzi al petto come per farsi schermo del gomito contro la mano che le porgeva il danaro, esclamò un'altra volta:

—Voglio te.—

E si mise a pestar forte co' piedi, arruffandosi i capelli [Pg 178] con tutt'e due le mani e mandando fuori un lamento sordo e monotono come fanno i bambini quando fingono di piangere. E la gente intorno rideva. L'ufficiale guardò la gente, poi la fanciulla, poi di nuovo la gente, e poi riprese l'andare. Attraversò liberamente quasi tutta la piazza; ma giunto all'imboccatura della strada che mena al porto, si senti alle spalle un passo rapido e leggero, come di chi corra in punta di piedi, e mentre stava per volgersi indietro, una voce sommessa gli mormorò con uno strano accento nell'orecchio:—Mio tesoro!—

Egli si sentì correre un brivido dalla testa alle piante; non si volse; tirò innanzi a passo spedito. E un'altra volta quella voce:—Mio tesoro!—

—Oh! insomma,—gridò allora indispettito volgendosi in tronco verso la ragazza, che si ritrasse timidamente indietro,—lasciatemi in pace. Andate pei fatti vostri. Avete capito?—

La fanciulla fece un viso tutto compunto, poi sorrise, mosse un passo innanzi, e allungando la mano come per fare una carezza all'ufficiale, che si scansò prontamente, mormorò:—Non t'arrabbiare, tenentino.—

—Va' via, ti dico.

—....Tu sei il mio tesoro.

—Va via, o chiamo i soldati e ti faccio mettere in prigione.—E indicò alcuni soldati ch'erano fermi sulla cantonata. Allora la ragazza si allontanò a lenti passi, di sbieco, sempre cogli occhi rivolti all'ufficiale, di tratto in tratto sporgendo il mento e ripetendo a fior di labbra:—Mio tesoro!—

—Peccato!—diceva tra sè il tenente infilando la via del porto;—è tanto carina.—

Era bella davvero. Era uno stupendo modello di quella fiera e ardita beltà delle donne siciliane, da [Pg 179] cui l'amore, più che ispirato, ti è imposto. E il più delle volte con un solo di quegli sguardi lunghi ed intenti, che par che ti scrutino il più profondo dell'anima, e tanto meno t'infondono ardimento quanto n'esprimono più. I capelli e gli occhi nerissimi; la fronte ampia e pensosa, e i moti dei sopraccigli e dei labbri subitanei, tronchi, pieni di espressione e di vita. La sua voce sentìa leggermente dello stanco e del roco, e il suo riso del convulso. Dopo che avea riso continuava a tenere per un po' di tempo la bocca aperta e gli occhi spalancati.

III.

—Perchè non la tengon chiusa?—domandava l'ufficiale quella sera stessa al dottore, entrando con lui nel caffè dei signori, dopo avergli detto quel che gli era accaduto la mattina.

—E dove vuol che la chiudano? Nell'ospedale c'è stata più d'un anno, e ce l'ha mantenuta il Municipio a proprie spese; ma poi, visto che gli era tempo perso e denaro sprecato, l'han fatta ricondurre a casa. C'era poco o punto da sperare; son stati i primi a dirlo i medici di là. Qui almeno è libera come l'aria, poveretta; e si può ben concederglielo, perchè, dai militari all'infuori, non dà noia a nessuno.

—E perchè ai militari?

—Mah! è una storia un po' incerta, vede. Ognuno la dice a modo suo, specialmente nel volgo, a cui la verità schietta e netta non basta, e ci vuol aggiungere del proprio. Però il fatto più probabile, confermato anche dai pochi signori del paese, sarebbe questo. Tre anni fa, un ufficiale ch'era qui comandante di distaccamento come lo è lei adesso, un bellissimo giovane, [Pg 180] che suonava la chitarra da maestro e cantava come un angelo, s'innamorò di questa ragazza, che era allora ed è ancora adesso la più bella del paese....

—Lo credo.

—E la ragazza, naturalmente, un po' per la sua bella voce, chè qui del canto e della musica vanno matti; un po' per effetto del suo prestigio di comandante supremo di tutte le forze militari dell'isola, e massimamente perchè era un bel giovanotto, s'innamorò di lui. Ma e come! Uno di quegli innamoramenti di qui, lei mi capisce; ardori che, in confronto, la lava dei vulcani non c'è per nulla; gelosie, spasimi, furori, cose da tragedia. Della famiglia le restava soltanto la madre, una povera donna che non vedeva che pe' suoi occhi e si lasciava comandare a bacchetta; dunque si figuri che libertà.... E in paese si mormorava; ma i fatti pare che abbiano provata la falsità dei sospetti, naturalissimi, a cui dava luogo la condotta della ragazza; tanto che adesso tutti credono e affermano che non ci sia stato nulla di male.... È strano, per verità; anzi poco credibile, perchè si dice che stessero assieme mezza la giornata. Ma sa, se ne danno di questi caratteri, specialmente in questi paesi; pochi, ma se ne danno; ragazze ardentissime e liberissime che son tutto il giorno tra i piedi all'innamorato, e che pare non abbiano mai saputo dove stia di casa la modestia, austere, invece, tenaci, inespugnabili come vestali. Basta; il fatto certo si è che l'ufficiale le avea promesso di sposarla, ed essa gli aveva creduto ed era andata a un pelo dal perdere la bussola dalla contentezza. Davvero, sa; si dice che vi furono dei giorni in cui si temeva sul serio che il suo cervello ne patisse. E io lo credo. Chi può sapere sino a che punto arrivi l'amore nelle donne di quella tempra? Un giorno, se non le levavan dalle mani una [Pg 181] ragazza di cui s'era ingelosita per non so che motivo, o la finiva o la conciava male. Proprio qui dirimpetto al caffè l'aveva agguantata, in presenza di tutti, e fu una scena seria. E non è stata la sola. Non c'era più modo che una donna, passando dinanzi alla casa del suo ufficiale, alzasse gli occhi alle finestre, o si volgesse indietro a guardarlo incontrandolo per via, senza ch'essa minacciasse di fare qualche sproposito. Insomma, giunse il giorno del cambio del distaccamento; l'ufficiale promise che sarebbe tornato dopo un par di mesi, la ragazza lo credette, ed egli se n'andò e non fu più visto. La poveretta ammalò. Forse, risanando e perdendo a poco a poco quel barlume di speranza che le restava, sarebbe riuscita a dimenticare; ma prima ancora che si riavesse dalla malattia, seppe, non so come, che il suo amante s'era ammogliato. Il colpo giunse inatteso e fu terribile. Impazzò. Ecco la storia.

—E poi?

—Poi, come le dissi, fu mandata all'ospedale in Sicilia; poi ritornò, ed ora gli è più d'un anno che è qui.—

In quel punto un soldato si affacciò alla porta del caffè e cercò del dottore.

—Le dirò il resto più tardi; a rivederla.—Ciò detto, disparve. L'ufficiale, alzandosi per salutarlo, urtò forte colla sciabola nel tavolino. In quel punto s'udì una voce dalla piazza che gridava:—L'ho sentito, l'ho sentito! È là dentro!—E nello stesso tempo apparve la pazza sul limitare della porta.

—Mandatela via!—gridò l'ufficiale levandosi vivamente in piedi, come se fosse stato spinto in su da una molla; la ragazza fu fatta andar via.

—Andrò ad aspettarlo a casa!—la si sentiva dire allontanandosi;—andrò ad aspettarlo a casa, il mio ufficialino!—

[Pg 182]

Tra i pochi avventori là presenti vi fu un tale che, notando quel suo atto così impetuoso e quella sua faccia così mutata, disse nell'orecchio al vicino:—Che abbia avuto paura il signor tenente?—

IV.

La madre di Carmela abitava una casuccia posta ad un'estremità del paese, assieme a due o tre famigliuole di contadini, e campava stentatamente a cucire di bianco. Sulle prime soleva ricevere di tratto in tratto qualche soccorso di danaro dalle famiglie più agiate del paese; da ultimo niente. I benefattori avevan veduto che i loro soccorsi tornavano affatto inutili perchè la fanciulla non voleva dormire nè mangiare in casa, nè c'era verso di ridurla a conservare intero un vestito nuovo almeno almeno per una settimana. Non è a dire se la madre ne patisse, e se con instancabile perseveranza non ritentasse ogni giorno di ottener qualcosa dalla figliuola; ma sempre invano. Talora, dopo molte preghiere, ella si lasciava mettere una veste nuova, e poi tutt'ad un tratto se la stracciava, la tagliuzzava e la riduceva in cenci. Altre volte, appena uscita dalle mani della madre pettinata e lisciata di tutto punto, si cacciava le mani nei capelli e in un momento se gli scioglieva e se li arruffava come una furia.

Gran parte del giorno soleva andar vagando pe' monti più dirupati e solitari, gesticolando, parlando e ridendo forte da sè. Molte volte i carabinieri, passando per que' luoghi, la vedevano da lontano tutta intenta a fabbricar torricelle di sassi, o seduta immobile sulla sommità d'un balzo colla faccia volta verso il mare, o distesa per terra e addormentata. S'essa li scorgeva, [Pg 183] li accompagnava collo sguardo fin che fossero spariti, senza rispondere nè colla voce nè cogli atti nè col sorriso a qualsiasi cenno le facessero. Tutt'al più, qualche volta, quand'eran già dimolto allontanati, essa faceva con tutt'e due le mani l'atto di sparare il fucile contro di loro; ma sempre col viso serio. Così coi soldati, con cui nessuno l'aveva vista mai nè trattenersi, nè parlare, nè ridere. Passava dinanzi a loro o in mezzo a loro senza rispondere parola ai motti che le lanciavano, senza volger la testa all'intorno, senza guardare in faccia nessuno. Nè v'era chi s'attentasse a toccarle pure un dito o tirarla per la veste o che so io, perchè si diceva che menasse certi ceffoni da lasciar l'impronta delle dita sul viso.

Dovunque si fosse, appena udiva un suon di tamburo, accorreva. I soldati uscivan dal paese per andare a far gli esercizi sulla riva del mare, ed essa li seguiva. Mentre i sergenti comandavano e l'ufficiale, a una qualche distanza, sorvegliava, essa ritiravasi in disparte e contraffaceva colla più gran serietà gli atteggiamenti dei soldati e imitava con un bastoncino i movimenti dei fucili, ripetendo a bassa voce i comandi. Poi, all'improvviso, buttava via il bastone e andava a ronzare intorno all'ufficiale, guardandolo e sorridendogli amorosamente e chiamandolo coi nomi più dolci e più soavi, a bassa voce però, e coprendosi la bocca con una mano, perchè non sentissero i soldati.

Quand'era in paese stava quasi sempre sulla piazza dinanzi alla casa dell'ufficiale in mezzo a un circolo di ragazzi che divertiva con ogni sorta di buffonate. Ora si foggiava un cappello cilindrico di carta con una gran tesa, se lo metteva in testa di sbieco, e appoggiandosi sopra un grosso bastone e brontolando con voce nasale scimiottava l'andatura del sindaco. Ora con certi [Pg 184] frastagli di carta nei capelli, cogli occhi bassi, colla bocca stretta, movendo una mano come per agitarsi il ventaglio sul petto e dondolando mollemente la persona, facea la caricatura delle poche signore del paese quando vanno alla chiesa i giorni di festa. Tal'altra volta, raccolto dinanzi alla porta della caserma un berretto logoro buttato via da qualche soldato, se lo metteva e se lo tirava giù fino agli orecchi, vi nascondeva dentro tutti i capelli, e poi colle braccia tese e strette alla persona facea due o tre volte il giro della piazza, a passo lento e cadenzato, imitando colla voce il suono del tamburo, seria, rigida, tutta d'un pezzo, come un coscritto de' più duri. Ma checchè ella facesse o dicesse, la gente oramai non le badava più. I ragazzi, e specialmente i monelli, erano i suoi soli spettatori. Però le madri badavano a tenerneli lontani perchè un giorno, contro ogni sua consuetudine e chi sa per qual ghiribizzo, essa ne aveva agguantato uno, un fanciulletto sugli otto anni, il più bello dei suoi spettatori, e gli avea dati tanti e così furiosi baci nel volto e nel collo ch'ei s'era spaventato e messo a piangere e a gridare dalla paura che volesse farlo morir soffocato.

Qualche rara volta entrava in chiesa e s'inginocchiava e giungeva le mani come tutti gli altri e borbottava non so che parole; ma dopo pochi momenti si metteva a ridere e pigliava delle attitudini e faceva dei gesti strani e irriverenti, così che il sacrestano finiva col venirla a pigliare pel braccio e condurla fuori.

Aveva una bella voce, e quand'era in sè cantava benino; ma dacchè gli aveva dato volta il cervello non facea più che un canterellare inarticolato e monotono, pel solito quando stava seduta sulla soglia di casa sua o a piè della scala della casa del tenente, mangiucchiando [Pg 185] fichi d'India, ch'erano, si può dire, l'unico suo alimento.

Aveva anch'essa le sue ore di malinconia in cui non parlava e non rideva con nessuno, nemmeno co' fanciulli; e soleva stare accovacciata come un cane dinanzi alla porta di casa colla testa ravvolta nel grembiale o il viso coperto col fazzoletto, non si scotendo, non si movendo dalla sua positura per qualunque rumore le si facesse intorno e per quante volte la si chiamasse a nome, anche da sua madre. Ma ciò accadeva assai di rado; era quasi sempre allegra.

Ai soldati, come dissi, non dava retta e non li guardava nemmeno; ma riserbava tutte le sue tenerezze per gli ufficiali. Non le largiva però a tutti nella stessa misura. Dopo ch'essa era tornata dall'ospedale, il distaccamento s'era mutato da sei a otto volte, e di ufficiali ce n'eran venuti d'ogni età, d'ogni aspetto e d'ogni umore. Si notò ch'ella mostrava un'assai più viva simpatia pei più giovani, anche a differenza di pochi anni; e che sapeva benissimo distinguere chi era più bello da chi lo era meno, comunque tutti fossero egualmente il suo «amore» e il suo «tesoro». A un certo luogotenente venuto de' primi, un uomo sulla quarantina, tutto naso e tutto pancia, con una vociacela stentorea e due occhi da basilisco, essa non avea mai fatto buon viso. Gli avea detto qualche dolce parola la prima volta che s'erano incontrati; ma quegli, infastidito, le avea risposto malamente, accompagnando le parole con un atto minaccioso della mano, in modo da farle intendere ch'era miglior consiglio desistere una volta per sempre. Ed essa avea desistito, non cessando però di tenergli dietro ogni volta che l'incontrasse per via e di passare molte ore della sera seduta appiè della scala di casa sua. Entrasse od uscisse, non gli diceva una parola; [Pg 186] ma non si movea di là. E si portò nello stesso modo con due o tre altri ufficiali che vennero dopo a quel primo, d'indole, di aspetto e di modi non molto diversi da lui. Ma ne vennero anche dei giovanissimi e di bella persona e gentili, e di questi si sarebbe potuto dire che n'andava pazza, se pazza già non fosse stata. Qualcuno di loro si era fitto in capo di volerla guarire fingendo di esserne invaghito e di amarla davvero; ma avendo presa la cosa alla leggera, se n'era annoiato dopo due o tre giorni di prova, e aveva smesso. Qualcun altro, meno filantropo e più materiale, s'era domandato:—O che è sempre necessario che una bella ragazza abbia la testa a segno?—e risposto di no, avea cercato di persuadere a Carmela che per fare all'amore il cervello è un soprappiù; ma, stranissimo a dirsi, aveva incontrato una resistenza inaspettatamente ostinata. Non diceva proprio un no tondo e risoluto, perchè forse non intendeva chiaramente che cosa si volesse da lei; ma, quasi per istinto, ad ogni atteggiamento e ad ogni atto, chi mi suggerisce un aggiunto?... ad ogni atto che potesse parer decisivo, svincolava, l'una dopo l'altra, le mani, ritraeva le braccia e se le incrocicchiava sul seno e si stringeva in tutta la persona, ridendo d'un certo strano riso, come i bambini quando credono che si voglia far loro una burla, ma non san bene qual sia, e, ridendo, voglion mostrare d'averla capita, appunto per farsela dire. Ma in que' momenti, animandosele il viso e lampeggiandole lo sguardo, ella non parea pazza, ed era bellissima, e quel ritegno, quella ritrosìa imprimendo ai movimenti e alle attitudini della sua persona una certa compostezza e un certo garbo, dava uno straordinario risalto alla stupenda leggiadria delle sue forme. Insomma que' pochi che la tentarono si persuasero ch'era un'impresa disperata. Mi fu detto che uno di questi, narrando [Pg 187] un giorno i suoi vani tentativi al dottore, esclamasse:—Donne colla virtù nel cervello, nella coscienza, nel cuore, in che diamine ella vuole, ne ho viste di molte; ma donne, come questa, che l'abbiano nel sangue, nel sangue! le confesso che non ne ho viste mai.—Alcuni dicevano che in ogni ufficiale che le piacesse ella credeva di vedere il suo, quello che l'aveva amata e abbandonata. Forse non era vero, perchè, qualche volta avrebbe detto qualcosa d'allusivo a ciò ch'era seguìto, e invece non diceva mai nulla. Frequentemente le veniva chiesto o dello qualcosa su questo proposito; ma non dava mai segno d'intendere o di ricordarsi di qualchecosa; ascoltava attenta attenta e poi rideva. Quando un distaccamento partiva lo andava ad accompagnare fino al porto, e quando il legno s'allontanava lo salutava agitando in alto il fazzoletto; ma non piangeva, nè faceva alcun'altra mostra di dolore. Andava subito a far le sue proteste d'amore al nuovo ufficiale. L'ultimo venuto pareva che le fosse piaciuto un po' più di tutti gli altri.

V.

Il dottore tornò poco dopo e raccontò all'ufficiale tutto ciò che abbiam finito or ora di dire. Questi, pigliando comiato, esclamò una seconda volta:—Peccato; è tanto carina!—Sicuro, e che fiera e nobile tempra di carattere doveva avere! soggiunse il dottore. L'ufficiale uscì. Era notte avanzata, e nella piazza non si vedeva anima viva. La sua casa era dal lato opposto a quello del caffè. Vi si diresse lentamente e quasi a malincuore.—Sarà là,—pensava sospirando, e aguzzava gli occhi, allungando il collo e piegando il capo a destra e a sinistra, per vedere se ci fosse nessuno dinnanzi alla [Pg 188] porta; ma inutilmente, ch'era buio perfetto. Avanti, avanti, sempre più a rilento, soffermandosi, serpeggiando, guatando...—Se sapessi che là c'è un malandrino che m'aspetta col coltello in mano, mi pare che andrei innanzi più franco e più spedito,—disse tra sè, e fece risolutamente dieci o dodici passi.—Ah! eccola là.—L'aveva scorta; era seduta sopra uno scalino al di fuori della porta; ma buio com'era, egli non potea vederla nel viso.—Che cosa fate qui?—le domandò avvicinandosele. Essa non rispose subito, s'alzò, se gli mise proprio petto a petto, e, posandogli tutt'e due le mani sulle spalle, con una vocina soave e un certo accento che parea parlasse del miglior senno del mondo, gli disse:—T'aspettavo.... dormivo.—E perchè m'aspettavi?—domandò ancora l'ufficiale levandosi di sulle spalle quelle due mani che scesero subito a stringergli le braccia.—Perchè voglio stare con te,—essa rispose.—Che accento! egli pensò; in verità che si direbbe che parla da senno.—E cavato subito di tasca un fiammifero, l'accese e l'avvicinò al viso di Carmela per vederla bene negli occhi. La stanchezza,—poichè ella era stata in giro tutta la giornata,—e più quel breve sonno da cui allora si destava, avendo tolto alla sua fisonomia un po' di quella vivezza smodata e convulsa che le era abituale, e diffusovi invece una tinta come di languore e di malinconia, in quel punto il suo viso era veramente incantevole, e parea tutt'altro che di pazza.

—Oh caro, caro!—proruppe Carmela appena vide la faccia rischiarata del tenente, e allungando il braccio tentò di stringergli il mento tra l'indice e il pollice. Egli l'afferrò per un braccio; essa alla sua volti afferrò coll'altro il braccio che l'avea afferrata, gli inchiodò la bocca sulla mano, glie la baciò e glie la morse. L'ufficiale si svincolò, si slanciò in casa e chiuse la porta.

[Pg 189]

—Tesoro!—gridò ancora una volta Carmela, e poi, senza dir altro, si rimise a sedere sullo scalino colle braccia incrociate sulle ginocchia e la testa inclinata da un lato. Indi a poco prese sonno.

Appena entrato in casa e acceso il lume, l'ufficiale si guardò il rovescio della mano destra e ci vide la leggera impronta di otto dentini, intorno a cui luccicava tuttavia il madore di quella bocca convulsa.—Che razza d'amore è codesto!—disse forte a se stesso, e, acceso un sigaro, si mise a passeggiare per la stanza ruminando l'orario per il suo piccolo distaccamento.—Ci penserò domani—disse poi tutt'ad un tratto, e pensò ad altro. Sedette, apri un libro, lesse qualche pagina, riprese a passeggiare; poi daccapo a leggere; finalmente si decise di andare a letto. S'era già quasi finito di spogliare quando fu colto da un'idea; stette pensando un istante, corse alla finestra, allungò la mano per aprirla....; la ritrasse, scrollò una spalla e andò a dormire.

L'indomani mattina per tempo la sua ordinanza, entrando in punta di piedi nella camera, si meravigliò di vederlo già sveglio, che non era suo costume di svegliarsi da sè. E gli disse sorridendo:—Qui sotto, alla porta, c'è quella pazza....—E che fa?—Nulla; dice che aspetta il signor tenente.—

L' ufficiale si sforzò di ridere, e guardando poi il soldato mentre gli spazzolava i panni, diceva tra sè:—Questa mattina lavora a vapore costui.—Quando fu vestito, gli disse:—Guarda se c'è ancora.—Il soldato aprì la finestra, guardò giù e disse di sì.—Cosa fa?—Si balocca coi sassi.—Guarda in su?—No.—È proprio dinanzi alla porta o da un lato?—Da un lato.—Le potrò sfuggire.—E discese. Mail suono della sciabola lo tradì.—Buon giorno! buon giorno!—gridò, andandogli incontro su per la scala, la fanciulla; e quando [Pg 190] gli fu accosto, gli si inginocchiò dinanzi, tirò fuori un fazzoletto e afferrandogli coll'altra mano una gamba sopra la noce del piede, si mise a spolverargli in gran fretta lo stivale mormorando:—Aspetta, aspetta, ancora un momento, un po' di pazienza, caro; ancora un momento, ecco, così, adesso va bene....

—Carmela!—gridò severamente l'ufficiale tentando invano di sprigionare la gamba dalla sua piccola mano;—Carmela!—

Come fu libero s'allontanò di corsa.—Ma che non ci sia proprio nessun mezzo di rimetterle la testa a segno?—domandava poco dopo al dottore.—Mah!—questi rispondeva;—forse! Col tempo, colla pazienza....

VI.

Dopo un mese il dottore e il tenente erano amicissimi. La conformità della loro natura e della loro età, e più quel trovarsi assieme dalla mattina alla sera in un paese dove si può dire che non ci fossero altri giovani della loro condizione, fece sì che in poco tempo si conoscessero l'un l'altro intimamente e si volessero bene come amici antichi. Ma durante quel mese l'un d'essi, l'ufficiale, aveva mutato abitudini in un modo singolare. I primi giorni s'era fatto mandar da Napoli certi libroni, e la sera, per un par di settimane, non avea fatto che leggere e pigliar degli appunti e intavolar delle discussioni lunghe ed astruse col dottore, terminando quasi sempre col dire:—Basta; io credo che in questo caso i medici ci abbian poco o punto che fare.—Vedremo a che cosa riescirai,—rispondeva il dottore, e si dividevano con queste parole, per ripigliare daccapo la discussione l'indomani.

[Pg 191]

Un giorno, dopo aver fatte certe domande al sindaco, l'ufficiale aveva mandato a chiamare l'unico sarto del paese, poi s'era recato alla bottega dell'unico cappellaio e poi a quella dell'unico merciaio, e quattro giorni dopo era uscito a passeggiare sulla riva del mare tutto vestito di tela di Russia, con un ampio cappello di paglia e una cravatta di colore azzurro. La stessa sera, incontrandolo, il dottore gli avea chiesto:—Ebbene?—Nulla.—Nemmeno un segno...?—Nulla, nulla.—Non importa; perseveranza.—Oh! non ne dubitare.

Il ricevitore del paese aveva fatto per molt'anni il cantante e sapeva sonare vari strumenti. Un giorno l'ufficiale era andato a lui e senz'altri preamboli:—Mi faccia il piacere,—gli aveva detto;—m'insegni a sonar la chitarra.—E il ricevitore, cominciando da quel giorno, dava lezione di chitarra, mattina e sera, al tenente, e questi imparava a meraviglia, e in poco tempo s'era messo al caso di fargli l'accompagnamento quando cantava.—Lei deve avere una bella voce,—gli disse un giorno il maestro. E di fatto aveva una voce gentile. Incominciò anch'esso a imparare a cantare, e in capo a un mese cantava sulla chitarra le canzoncine siciliane con un garbo e una soavità ch'era un varo diletto a sentirlo.—Abbiamo avuto un altro ufficiale che sonava veramente bene anche lui!—gli diceva a volte il ricevitore.—C'è un'arietta—soggiunse un giorno—ch'egli cantava sempre..... un'arietta.... aspetti; ah come la cantava divinamente! Cominciava.... Se l'era fatta lui, sa; cominciava:

Carmela, ai tuoi ginocchi
Placidamente assiso,
Guardandoti negli occhi
Baciandoti nel viso
[Pg 192] Trascorrerò i miei dì.

L'ultimo dì, nel seno
Il volto scolorito
Ti celerò, sereno
Come un fanciul sopito,
E morirò così.

—Me la dica ancora una volta.—Il ricevitore la ripeteva.—Me la canti.—E la cantava.

Un altro giorno, dopo aver parlato a lungo col tabaccaio che avea la bottega accanto a casa sua, andò dal maresciallo dei carabinieri e gli disse:—Maresciallo, mi hanno detto che lei è un eccellente schermitore.—Io? Oh Dio buono, son due anni che non ho più preso la sciabola in mano.—Vuol che si scambi un par di colpi di tanto in tanto?—E come volentieri.—Allora fissiamo il quando.—E fissarono il quando. E da quel giorno in poi, ogni mattina, tutti coloro che attraversavano la piazza sentivano un gran cozzare di sciabole e un gran pestar di piedi e sbuffi e vociaccie nella casa del tenente. Era lui e il maresciallo che giocavan di scherma.—Quest'esperimento potevi risparmiartelo,—disse un giorno il dottore all'ufficiale;—ha dato segno di nulla?—Di nulla; ma era bene provare. M'han detto ch'egli tirava ogni mattina col maresciallo, appunto a quell'ora, e ch'essa, non piacendole di stare a vedere, scendeva in piazza....—Oh sì, ci vuol'altro, mio caro, ci vuol'altro!

VII.

Era trascorso un mese e mezzo dal giorno dell'arrivo del nuovo distaccamento. Una notte l'ufficiale stava a tavolino in casa sua, di fronte al dottore, e colla punta della penna stuzzicando la fiammella della candela che [Pg 193] gli ardeva dinanzi, diceva:—Come vuoi che la vada a finire? Diventerò pazzo anch'io; ecco come finirà. Mi vergogno di me stesso, vedi; ci son dei momenti in cui mi pare che tutti m'abbiano a ridere alle spalle.

—Ridere di che?—domandava il dottore.

—Di che?—ripetè l'altro per pigliar tempo alla risposta.—Ridere di questo mio.... zelo, di questa mia pietà per quella povera disgraziata, di questi miei esperimenti, di questi tentativi.... inutili.

—Zelo! pietà! Queste non son cose che possano dare argomento a ridere.—E gli fissò gli occhi nel viso, e poi:—Dimmi la verità; tu sei innamorato di Carmela.

—Io?—esclamò vivamente l'ufficiale, e rimase immobile nell'atto di interrogare, facendosi rosso fino alla radice dei capelli.

—Tu,—rispose il dottore.—Dimmi la verità; sii sincero con me; non sono qui il tuo unico amico?

—Amico sì; ma appunto perchè voglio esser sincero non ti debbo dire ciò che non è,—rispose l'altro. Tacque un momento, e poi tirò innanzi a parlare in fretta, ora diventando pallido, ora color di fuoco, balbettando, imbrogliandosi e contraddicendosi, come un fanciullo colto in fallo e obbligato a raccontare la sua monelleria.

—Innamorato, io? E di Carmela? D'una pazza? Ma ti pare, amico mio? Ma come ti è venuta in mente una stranezza di questo genere? Il giorno che ciò fosse... ti do fin d'ora il diritto di riferire al mio colonnello che m'han dato volta le girelle e che bisogna chiudermi co' matti. Innamorato!... mi fai ridere. Ne sento pietà di quella povera creatura, questo sì; una vivissima e fortissima pietà; non so quel che darei per vederla guarita; farei volentieri per la sua salute qualunque sacrifizio; godrei della sua guarigione come se fosse una [Pg 194] persona della mia famiglia.... Tutto ciò è vero; ma da tutto ciò all'esserne innamorato ci corre! Le voglio bene, è vero anche questo, e le voglio molto bene, come credo che glie ne voglia anche tu, perchè la pietà va sempre insieme all'affetto.... E poi le voglio bene perchè si dice che sia stata sempre una ragazza onesta, affettuosa; che quel suo primo e solo amante l'abbia amato davvero, amato degnamente, coll'idea di diventare sua moglie, e senza volergli affidare il proprio onore prima di portare il suo nome... Questa è virtù, caro mio, e virtù di quella propriamente detta, e io l'ammiro, capisci, e quella poveretta mi fa tanto più compassione quanto più essa meritava d'incontrare una sorte felice invece di una disgrazia com'è quella che le è toccata. E come si potrebbe non averne compassione e non amarla? Il carattere della sua stessa pazzia non è forse l'espressione d'un'anima buona, amorosa, gentile? Dalla sua bocca io non ho mai sentito che parole dolci e modeste, e quel mettermi le mani addosso ch'ella fa, quelle sue carezze, quel suo baciarmi le mani, sono certamente atti da pazza, ma non han nulla che passi il limite della decenza. L'hai mai veduta a fare un atto disonesto? No di sicuro; ed è per questo, ti ripeto, che le ho posto affetto. Povera ragazza, abbandonata da tutti... ridotta a menar la vita d'un cane... Dimmi un po' se non le vuoi bene anche tu! Io te lo dico schietto, io le voglio un bene dell'anima. E quella sua stessa bellezza... perchè è bella poi.... bella come un angelo, questo non si può negare; guardale gli occhi, la bocca, tutta la persona.... le mani; glie l'hai mai guardate le mani? E i capelli? Così arruffati come li porta sembra una selvaggia; ma son capelli bellissimi... E poi vestita in un altro modo... Ebbene, quella sua stessa bellezza mi fa sentir più forte la pietà. Guardandola, non posso [Pg 195] a meno di dir tra me: Peccato! Peccato che quest'occhio di sole non si possa amare! Ma non sai che quella ragazza lì, se avesse la ragione come tutte l'altre, sarebbe un visetto da far girare la testa a chi sa chi? E anche adesso ci son dei momenti che, se non si sapesse che è pazza, si starebbe per fare uno sproposito; per esempio, quando ti guarda fiso negli occhi e poi sorride e ti dice:—caro,—e la sera, al buio, quando non la vedi nel viso, e la senti soltanto parlare e dirti soavemente che t'aspettava, che vuol stare con te fino al mattino, che sei il suo angelo... che so io? in quei momenti non ti par pazza. Io la guardo, l'ascolto come se fosse in sè e sentisse veramente quel che mi dice, e ti assicuro che, mentre l'illusione mi dura, il cuore mi batte;.... ma, ti dico, mi batte come se fossi innamorato. E provo a chiamarla per nome, non so perchè... con una certa idea... colla fissazione ch'essa mi debba rispondere qualcosa che me la riveli guarita tutto ad un tratto...—Carmela!—le dico. Ed essa:—Che vuoi?—Tu non sei pazza, non è vero?—le domando.—Io pazza?—essa mi risponde, e mi guarda con una cert'aria di sorpresa che mi farebbe giurare che non l'è—Carmela!—allora le grido esaltato improvvisamente da una dolce speranza.—Dimmelo un'altra volta che non sei pazza!...—Mi guarda attonita un po' di tempo e poi scoppia in una gran risata. Oh! amico, credilo, allora, lì su quel subito, darei la testa nel muro. Tu sai quant'ho fatto per veder di restituirle la ragione; ma non sai tutto. Quasi ogni sera io me la son fatta venire in casa, le ho parlato per ore intere, le ho sonato e cantato le canzoni che il suo amante le cantava, ho provato a dirle che ero innamorato di lei, a colmarla di carezze, a finger di piangere e di disperarmi, a lasciarla fare di me quel che voleva, baciarmi, abbracciarmi, [Pg 196] carezzarmi come fan le madri a' bambini... Ho provato a fare lo stesso io a lei, e con che cuore io lo facessi, te lo lascio immaginare, chè non ti saprei dire se provassi ribrezzo, o paura, o vergogna, o rimorso, o tutto questo insieme; fatto sta che, baciandola, tremavo e impallidivo come se baciassi un cadavere. E alle volte mi pareva di fare un sacrificio generoso e n'esultavo profondamente, e miste ai baci le lasciavo cadere sulle guancie le lacrime; e in cert'altri momenti mi pareva di commettere un delitto e sentivo orrore di me stesso.... Ho sofferto il soffribile, caro amico, e tutto invano. E quanto cresceva la disperazione tanto mi ardeva più viva e più ostinata nel cuore questa maledetta febbre.... E non posso dormire la notte perchè so ch'essa è già accovacciata dinanzi alla mia porta, e, martellato come sono continuamente da quest'idea, mi par di dover sentire da un momento all'altro picchiar nei vetri e veder apparire al di sopra del davanzale quel viso stravolto, e piantarsi nei miei quei due occhi immobili e senza sguardo! Altre volte mi par di sentirla udire su per le scale e balzo a sedere sul letto, o mi par di udire giù nella piazza un suo scroscio di risa, e quelle risa mi fan l'effetto d'una mano di ghiaccio sul cuore, e non ho coraggio di affacciarmi alla finestra a guardare. E mi metto a leggere, a scrivere, ma sempre colla mente a lei, sempre tristo, irrequieto, quasi pauroso, non so nemmen io di che. E allorchè mi domando quando finirà quest'angosciosa vita, e come finirà, e che traccia ne resterà nel mio cuore, io non ardisco rispondermi, ho paura della mia risposta, e mi caccio le mani nei capelli.... come un disperato.... Oh amico! dimmi che non diventerò pazzo anch'io perchè io sento che il mio cuore si spezza e che io non reggo a questa vita...; non reggo, non reggo.—

[Pg 197]

E stese una mano per pigliar quella del dottore; questi gli si fece più accosto colla seggiola, e, commosso com'era da non trovar più parola, gli pose ambe le mani sulle spalle, lo guardò un istante e l'abbracciò.

Tutto ad un tratto l'ufficiale sciolse la testa dall'abbraccio dell'amico, alzò la faccia lagrimosa e lo fissò con uno sguardo in cui brillava il principio d'un sorriso.—Ebbene?—domandò l'altro con lieta ansietà.

—E se rinsanisse?—esclamò l'ufficiale col viso improvvisamente rasserenato; se ritornasse com'era una volta, se riacquistasse la ragione e il cuore come l'aveva prima, e quegli occhi perdessero per sempre quella strana luce e quella guardatura immobile che fa paura, e quella bocca non ridesse mai più di quel riso orribile, e un giorno ella mi dicesse da senno:—Ti ringrazio, ti benedico, caro, che m'hai ridata la vita; ti voglio bene, ti amo....—e piangesse! Vederla piangere, sentirla ragionare, trovarla sempre linda, pettinata e composta come tutte l'altre fanciulle; e vederla tornare in chiesa a pregare, e arrossire come prima, e riprovare ad uno ad uno come per una seconda infanzia tutti gli affetti casti e soavi di cui ha smarrito il sentimento! La sera non trovarla più qui a piè della scala, doverla andare a cercare a casa, accanto a sua madre, occupata a lavorare, tranquilla, contenta.... Oh Dio mio, e se potessi dire che son io che l'ho mutata così, che l'ho fatta rivivere, che le ho ridato tutte le speranze e tutti gli affetti, che l'ho restituita alla famiglia, alla felicità.... Oh amico mio!—esclamava afferrandogli le mani e fissandolo cogli occhi pieni di pianto;—mi parrebbe di essere.... un dio, mi parrebbe d'aver creato qualcosa anch'io, di possedere due anime e di vivere due vite, la mia e la sua; mi parrebbe mia quella creatura, crederei che il cielo me l'avesse predestinata, e la [Pg 198] condurrei dinanzi a mia madre come se fosse un angelo.... Oh io non potrei capire tanta felicità, io impazzirei dalla gioia; oh se fosse vero! se fosse vero!—

E abbandonò la fronte sulle mani, piangendo.

—Oh mio amore!—s'intese gridare in quel punto giù nella piazza. L'ufficiale balzò in piedi e disse risolutamente al dottore:—Lasciami.—

Quegli gli strinse la mano, gli disse—Coraggio!—e partì.

Il tenente rimase qualche minuto immobile in mezzo alla camera, poi andò alla finestra, l'aperse, si ritrasse d'un passo, e stette contemplando un istante lo stupendo spettacolo che gli s'offeriva allo sguardo. Una notte limpida, chiara, senza vento, ch'era un incanto. Lì subito sotto gli occhi la parte bassa del paese; i tetti, le vie deserte, il porto, la spiaggia, su cui batteva così bianco il lume della luna che vi si sarebbe veduto passare una persona distintamente come di giorno, e poi il mare quieto e liscio come un olio, e lontano lontano i monti della Sicilia rilevati e distinti come se fossero là presso, e un silenzio profondo.—Potessi anch'io godere di questa pace soave!—pensò l'ufficiale spaziando collo sguardo nella immensità di quel mare; e s'affacciò, palpitando, alla finestra, e guardò giù. Carmela era seduta dinanzi alla porta.

—Carmela!

—Carino.

—Cosa fai costì?

—Cosa fai.... aspetto; lo sai pure. Aspetto che tu mi faccia salir sopra. Non mi vuoi questa sera?

—Scendo ad aprirti.—

Carmela, dalla contentezza, si mise a batter le mani e a saltellare.

La porta s'aperse, e apparve l'ufficiale col lume [Pg 199] in mano. Carmela entrò, gli tolse di mano il lume, gli passò dinanzi e cominciò a salir le scale in fretta in fretta mormorando:—Vieni, vieni, poverino...—e poi, volgendosi per porgergli la mano:—Da' la mano alla tua piccina, mio bel giovanotto,—e lo trasse per mano fino in casa.

Quivi l'ufficiale se la fece sedere dinanzi e con una pazienza da santo incominciò a ripetere tutte le prove, tutti i tentativi de' giorni andati, e ne immaginò dei nuovi, e li esperimentò più e più volte, sempre con più attenta sollecitudine e con ardore più vivo, simulando amore, odio, ira, dolore, disperazione; ma sempre invano. Essa lo guardava e l'ascoltava attentamente e poi che aveva finito gli domandava ridendo forte:—Che hai?—oppure gli diceva:—Poveretto, mi fai pena!—E gli prendeva e gli baciava le mani coll'apparenza della più intensa pietà.

—Carmela!—esclamò finalmente l'ufficiale per tentare ancora una prova.

—Che cosa vuoi?—

Egli le fe' cenno che s'accostasse. Essa si avvicinò lenta lenta guardandolo amorosamente negli occhi e poi d'un sol tratto gli si abbandonò sul petto e gli avviticchiò il collo colle braccia e vi premette sopra la bocca dicendo con voce soffocata:—Caro! caro! caro!... Il povero giovane, che oramai non sapeva più dove avesse la testa, le passò un braccio attorno alla vita e così sorreggendola si chinò a poco a poco, ed ella con lui, fin che la stese, senza che quasi se ne avvedesse, sul canapè accanto al tavolino.... Carmela si levò subitamente in piedi, fece il viso serio, parve che pensasse a qualche cosa e poi mormorò con una leggera espressione di disgusto:

—Che cosa fai?—

[Pg 200]

L'ufficiale intravvide un lampo di speranza e stette muto e ansioso a guardarla.

Carmela rimase pensosa, o lo parve, ancora un istante, e poi, sorridendo in un modo singolare come non aveva mai riso per l'addietro:—....Siamo già sposi, noi due?—

L'ufficiale die' un mezzo grido, e cogli occhi rivolti al cielo e la punta dell'indice fra le labbra, pallido, convulso, pensò un momento la risposta. In quel momento Carmela alzò gli occhi alla parete, vide un cappello cilindrico appeso a un chiodo, die' in un gran scoppio di risa, lo prese, se lo pose in capo e sghignazzando e vociando si mise a saltare per la camera.

—Carmela!—gridò dolorosamente l'ufficiale.

E quella peggio.

—Carmela!—gridò un'altra volta e si slanciò verso di lei. Essa, spaventata, si cacciò giù per le scale, e dopo un momento fu in mezzo alla piazza sempre saltando, strillando e smascellandosi dalle risa.

L'ufficiale si fece alla finestra.—Carmela!—gridò ancora una volta con voce spenta, e poi si coprì la faccia colle mani e si lasciò cadere sopra una seggiola.

VIII.

L'indomani mattina, appena levato, andò a casa del dottore. Questi, come prima lo vide con quegli occhi rossi e quella faccia stravolta, capì che veniva a cercar conforti e consigli, e, fattoselo sedere davanti, cominciò a filargli un sermone in tutte le forme. Ma l'ufficiale non l'ascoltava e pareva preoccupato da un altro pensiero. Ad un tratto si rasserenò e battendosi la fronte colla palma della mano—Ah!—esclamò—....ed [Pg 201] io non ci avea pensato prima!—A che?—domandò il dottore. L'altro non rispose; prese un foglio di carta e la penna, e si mise a scrivere in furia. Finito, lesse:

«Signor tenente.

»Senza preamboli, come si costuma fra noi militari, io comando da un mese e mezzo il distaccamento di *** che voi comandaste tre anni sono nei mesi di luglio, agosto e settembre. Ho conosciuto in questo paese una fanciulla di diciotto in vent'anni, che si chiama Carmela, pazza da due anni, e impazzata, si dice, per amor vostro. Che cosa sia accaduto di lei dopo la vostra partenza dall'isola voi lo dovete sapere, e dovete conoscer del pari i caratteri speciali della sua pazzia perchè mi si disse che ve ne fu scritto da qualcuno di qui. La condizione infelicissima di questa fanciulla mi ha destato, fin dalle prime volte ch'io la vidi, un profondo sentimento di pietà, e tentai di tutto per ritornarla alla ragione. Mi vestii come voi, imparai a suonare e a cantare come voi, mi uniformai a tutte quelle vostre abitudini che ho potuto sapere dalle persone che v'hanno conosciuto, mostrai di amarla, le parlai di voi, mi finsi voi stesso, sempre invano. Voi non potete comprendere quanto mi sia riuscito doloroso il veder cadere l'una dopo l'altra tutte le mie speranze. Ma c'è ancora un mezzo da tentare, e sta in vostra mano; non me lo negate; esaudite la mia preghiera; farete un'opera santa. Sentite. Si dice che uno dei mezzi più efficaci di risanare i pazzi sia quello di rappresentar loro colle particolarità più minute e colla più scrupolosa esattezza qualche grave avvenimento che abbia preceduto la loro malattia, essendone o non essendone la causa diretta. Ho pensato che il ripetere esattamente alla Carmela la scena [Pg 202] della vostra partenza potrebbe produr qualche effetto. Interrogai molte persone del paese e non riuscii a sapere altro fuor che voi partiste di notte, e prima di partire cenaste in casa vostra in compagnia del sindaco, del maresciallo dei carabinieri e di varie altre persone. I particolari di quella cena e della vostra partenza non si ricordano o si ricordano male. Li chieggo a voi col cuore di chi chiede un'opera di carità che costa poco o punto a cui l'ha da fare e può render la vita e la felicità a cui è da farsi. Scrivetemi tutto ciò che vi ricordate; ditemi delle persone, dei discorsi, degli atti, di tutto. E sopratutto procurate di dirmi l'ora e il minuto in cui seguirono presso a poco i più notevoli incidenti, e narratemi le cose con chiarezza e con ordine. Fatemi questo gran benefizio ch'io vi chieggo; fatemelo; ve ne supplico; ve ne sarò riconoscente per tutta la vita. Non aggiungo altro; confido nella generosità del vostro cuore; vi stringo la mano da buon camerata e vi dico addio.»

Che te ne pare?

—Divinamente pensato,—rispose il dottore che aveva ascoltato colla più grande attenzione.—Sai il suo nome? il reggimento? il luogo?—Il sindaco sa tutto.—E credi che ti risponderà?—Lo credo.—

Rispose;—e rispose una lettera di otto pagine in cui erano scritti tutti i particolari richiesti intorno alle persone, alle cose, ai discorsi, alle ore, a tutto. Ma non un commento, non un'allusione al suo amore passato, non una parola che si riferisse ad altra cosa che a quella cena e alla sua partenza; non una sillaba fuor delle domande che gli erano state fatte; nemmeno un accento di pietà per Carmela. Ma da quella lettera nuda e cruda si capiva che, scrivendo, egli aveva dovuto sentire molto viva la stretta del rimorso. Se ciò non fosse stato, almeno una finta espressione di rammarico e di pentimento [Pg 203] l'avrebbe trovata. Terminando, avesse almeno detto:—Spero.... ec.; ma niente. «A un'ora dopo mezzanotte il vapore partì. Vi saluto.» E poi la firma.

IX.

—Capisco!—esclamò il dottore appena il suo amico ebbe finito di leggergli la lettera—capisco adesso perchè nessuno dei tanti personaggi che furono a quella cena è stato in caso di raccontartene i particolari. Sfido io, alzando il gomito a quella maniera!—

Quel giorno stesso si misero tutti e due in faccende per preparare la gran prova. Furon tutt'e due dal sindaco, dal giudice, dal ricevitore, dal maresciallo, da tutti gli altri, che oramai erano nella più intima dimestichezza con tutti, e l'uno, il dottore, cogli argomenti della scienza, l'altro con quelli del cuore, a furia di ragionare, di spiegare e di dimostrare, riuscirono a far capire a tutti di che si trattasse, ad assicurarsi il loro aiuto, e ad inculcare a ciascuno la parte che dovea recitare.—Sia lodato il Cielo!—esclamò l'ufficiale uscendo dalla casa del ricevitore, che fu l'ultimo visitato; il più è fatto.—E mandarono per la madre di Carmela, cui per far intendere la faccenda ci volle assai meno fatica che col sindaco e cogli altri magnati; tutta buona gente, non v'è dubbio, gente da metterle il capo in grembo, ma d'intendimento un po' corto, specialmente in materie di quella natura.

Carmela da qualche giorno non si sentiva bene e stava quasi sempre a casa. L'ufficiale e il dottore l'andarono a cercare. Era seduta in terra fuor della porta, colla schiena appoggiata al muro. Come li vide, s'alzò e, un po' meno in fretta del solito, si diresse verso il [Pg 204] tenente e tentò, come sempre, d'abbracciarlo mormorando con voce fievole le solite parole.

—Carmela!—disse il tenente—ti abbiamo a dare una notizia.

—Una notizia, una notizia, una notizia,—ripetè soavemente Carmela facendo scorrere tre volte la palma della mano sulla guancia dell'ufficiale.

—Domani vado via.

—Domani vado via?

—Io, io vado via. Vado via di qui. Lascio questo paese. Parto con tutti i miei soldati. Salgo sul bastimento, e il bastimento mi porta lontano lontano.—

E alzò un braccio come per indicare una grande distanza.

—Lontano, lontano....—mormorò Carmela guardando dalla parte cui aveva accennato l'ufficiale. Parve che pensasse un istante, e poi disse, così in aria, coll'accento affatto differente:—Il bastimento a vapore.... che fuma.—

E tentò un'altra volta di abbracciar l'ufficiale chiamandolo coi soliti nomi.

—Nulla!—questi pensò scrollando il capo.

—Bisogna dirglielo molte volte—susurrò il dottore.—Aspettiamo a più tardi.—

E s'allontanarono dopo aver fatto una voce severa a Carmela perchè non li seguitasse.

La cena era stabilita per la sera del dimani. Quella stessa sera Carmela, com'era suo costume, s'andò a sedere dinanzi alla porta dell'ufficiale. Questi, appena tornato, la fece salire in casa, dove l'ordinanza, giusta gli ordini ricevuti, avea messo tutto sossopra come se la partenza dovesse seguire davvero. Il tavolino, le seggiole, il canapè erano ingombri di biancheria, di vestiti, di libri e di carte buttati là alla rinfusa, e in mezzo [Pg 205] alla camera due bauli aperti, in cui il soldato avea cominciato a riporre la roba.

Carmela, al primo vedere tutto quel disordine, fece un leggero atto di sorpresa e guardò in viso l'ufficiale sorridendo.

—Preparo la mia roba per partire.—

Carmela guardò un'altra volta intorno per la stanza aggrottando le sopracciglia; movimento che non soleva far mai. L'ufficiale la osservava attento.

—Me ne vado via, vado lontano di qui, parto col bastimento a vapore....

—Parti col bastimento a vapore?

—Già.... Parto domani sera.

—Domani sera,—ripetè macchinalmente Carmela, e vista la chitarra sur una seggiola, ne toccò le corde con un dito e le fece sonare.

—Non ti rincresce ch'io vada via? Non ti dispiace di non vedermi mai più?—

Carmela lo guardò fisso negli occhi, e poi abbassò la testa e lo sguardo proprio come se pensasse. L'ufficiale non aggiunse altro e si mise a parlar sotto voce col soldato, aiutandolo a piegare i vestiti.

La fanciulla sta va guardandoli senza far motto. Dopo un po' di tempo, l'ufficiale le andò vicino e le disse:

—Adesso vattene, Carmela; ci sei stata abbastanza qui; vattene a casa, via.—

E pigliatala pel braccio la sospinse dolcemente verso la porta. Essa si voltò e stese le braccia per cingergli il collo....

—Non voglio.—

Carmela battè due o tre volte il piede sul pavimento,, gemette, stese nuovamente le braccia, gli cinse il collo, gli strisciò la bocca a traverso la guancia senza baciargliela, come se pensasse a qualcos'altro, e poi se n'andò [Pg 206] tacita tacita, lentamente, senza ridere, senza volgersi indietro, con un viso che non esprimeva nulla, come il distratto che pensa nello stesso tempo a cento cose e a nessuna.

—Che è questo?—pensò l'ufficiale.—Che sia un buon segno?... Oh Dio lo volesse, speriamo!—

Il giorno dopo non uscì di casa e non volle neanco veder Carmela, comunque sapesse ch'ella stava seduta, come sempre, alla porta. Impiegò tutto il dopo pranzo a preparare la prova della sera. Il suo piccolo appartamento si componeva di due stanze e d'una cucina. Tra la camera da letto e la porta d'entrata v'era la stanza più grande, le cui finestre, come quelle dell'altra, guardavano sulla piazza. In questa stanza egli fece apparecchiare per la cena. L'oste suo vicino gli imprestò una gran tavola da mangiare, venne egli stesso a cucinargli in casa que' pochi piatti che occorrevano, apparecchiò con quel maggior lusso che potè, e portò poi in tavola egli stesso, come avea fatto tre anni prima per quell'altro ufficiale. Verso le nove della sera venne pel primo il dottore.—È qui sotto,—disse, entrando, all'amico;—s'è lamentata con me di non averti ancora veduto. Le ho domandato se si sentiva bene, ed essa, dopo avermi fissato negli occhi, mi rispose:—bastimento a vapore—e non rise. Mah! Chi saprebbe dire che cosa passi per quella testa? Dio solo. Oh, vediamo un po' questa splendida imbandigione.—

E dato tutti e due uno sguardo alla tavola, cominciarono a concertare fra loro il miglior modo di condurre la rappresentazione di quella commedia, o piuttosto di quel dramma, perchè gli era un dramma, e serio. Quando furon d'accordo:—Che tutti abbiano imparato bene la propria parte?—domandò il dottore; ufficiale rispose che sperava di sì.

[Pg 207]

Poco prima delle dieci sentirono giù alla porta uno scalpiccìo di molti piedi e un suono confuso di voci.—Son qui!—disse il dottore, e si affacciò alla finestra.—Son proprio loro.—

Il soldato scese ad aprire. Il dottore accese i quattro candelieri ch'erano ai quattro canti della tavola.

—Come mi batte il cuore!—disse l'ufficiale.

—Coraggio, coraggio!—

In quella si sentì Carmela esclamare:—Vado anch'io sul bastimento a vapore,—e poi batter le mani.

—Coraggio!—ripetè in fretta il dottore nell'orecchio all'amico;—hai sentito? Le si comincia a fissare nella mente quell'idea; buon segno; animo; ecco i convitati.—

La porta s'aperse ed entrarono sorridendo e inchinandosi il sindaco, il giudice, e tutti gli altri che s'eran riuniti al caffè. Mentre l'ufficiale salutava e ringraziava ora l'uno ora l'altro, il dottore disse una parola nell'orecchio all'ordinanza ch'era immobile in un canto, e questa scomparve. Dopo un minuto, senza che nessuno se n'accorgesse, ritornò con Carmela, e tutti e due, passando rasente il muro in punta di piedi, entrarono nell'altra stanza.

—Sediamo—disse l'ufficiale.

Tutti si assisero. Il rumore delle seggiole smosse e quell'oh! lungo e beato che mandan fuori gli epuloni impancandosi a mensa, non lasciaron sentire un lieve strepito che fece l'ordinanza per trattenere Carmela, la quale esclamando:—È un giorno che non lo vedo!—aveva aperto la porta e tentato di slanciarsi verso l'ufficiale. L'ordinanza la trattenne, pose una sedia vicino alla porta e ve la fece sedere; poi apri le imposte tanto da lasciarci in mezzo il vano d'un palmo, ed essa pose la faccia in quel vano e stette guardando. Nessuno dei [Pg 208] commensali si volse da quella parte, nessuno guardò nè in quel momento nè poi, e Carmela non fece altra mossa.

Cominciò e crebbe a poco a poco un frastuono confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri e di piatti percossi e di risa e di voci discordi che cercavano a vicenda di soverchiarsi. Tutti, tranne il dottore e l'ufficiale, mangiavano col miglior appetito del mondo, e trincavano allegramente. Cominciarono dal profondere altissime lodi alla disciplina, alla virtù, al valore e alla cortesia dei soldati, dei caporali e dei sergenti del distaccamento; poi magnificarono la squisitezza del vino e dei piatti; poi parlarono del tempo, che era bellissimo, una notte incantevole, e del viaggio che doveva riuscir delizioso; poi ragionarono di politica, poi di nuovo dei soldati, poi un'altra volta del viaggio, e via via, vociando sempre più alto, ridendo sempre più forte, votando i bicchieri sempre più in fretta, finchè tutte le faccio si fecer rubiconde e tutti gli occhi scintillarono e i moti delle labbra cominciarono a diventar difficili e le parole a succedersi senza aver molto a che fare l'una coll'altra. Senza quasi accorrersene, ciascuno avea preso la sua parte sul serio e la rappresentava a meraviglia. Ma quanto più gli altri scordavan lo scopo per cui eran venuti là e si infervoravano nell'allegria, tanto più l'ufficiale si sentiva crescere il batticuore e mostrava apertamente nel viso la tempesta dell'anima. Nessuno però se ne accorgeva, fuor che il dottore, il quale tratto tratto gli andava ripetendo a bassa voce che si facesse coraggio, e teneva d'occhio Carmela. Questa stava sempre immobile e intenta col viso stretto fra le imposte. L'ordinanza, colto il momento opportuno, se n'era andata.

A un certo punto entrarono nella stanza tre soldati, si recarono in spalla ciascuno un de' tre bauli ch'erano [Pg 209] in un canto, e se ne uscirono Carmela seguì coll'occhio tutti i loro movimenti fin che furono scomparsi, e ritornò a guardare alla tavola.

Il dottore mormorò una parola nell'orecchio al sindaco.

—Un brindisi!—questi esclamò subito, levandosi stentatamente in piedi col bicchiere in mano.—Un brindisi alla salute di questo valoroso signor luogotenente che comanda il bravo distaccamento del paese che parte e che resta per sempre e perpetuamente in questo nostro stesso paese una bella memoria imperitura immortale del bravo distaccamento che comanda questo valoroso....

Pensò un momento e poi risoluto:

—Viva il signor luogotenente che va via!

E tutti gli altri cozzando rumorosamente i bicchieri e spandendo il vino sulla tavola:—Viva!—

Il sindaco ricadde pesantemente sulla sua seggiola; c'era da sospettare che fosse brillo davvero.

Altri fece qualche altro brindisi dello stesso tenore, e poi si ricominciò daccapo a discorrere tutti in una volta di soldati, di politica, di vino e di viaggio.

—Signor ricevitore, una canzonetta!—gridò il dottore.

Tutti gli altri gli fecero eco. Il ricevitore fece una smorfia, si scusò, si fece pregare un pochino, poi sorrise, tossì, prese la chitarra e cantò due o tre versi. I commensali, ricominciando a schiamazzare, l'interruppero.—A me!—gridò allora l'ufficiale, e tutti tacquero. Prese la chitarra, l'accordò, si levò in piedi fingendo di barcollare, e cominciò.... Era pallido e gli tremavan le mani come per febbre; nulla meno cantò la sua canzoncina con una soavità e un affetto veramente incantevole.

[Pg 210]

Carmela, ai tuoi ginocchi
Placidamente assiso,
Guardandoti negli occhi
Baciandoti nel viso
Trascorrerò i miei dì....

Carmela ascoltava sempre più intenta, corrugando tratto tratto le sopracciglia come chi è assorto in un pensiero profondo.

—Bravo! Bene! Proprio benone!—dissero ad una voce tutti i commensali. E l'ufficiale ripigliò:

L'ultimo dì, sul seno
Il volto scolorito
Ti celerò, sereno
Come un fanciul sopito,
E morirò così.

Eran quelle parole, era quella musica, tutto intorno era come quella notte.—Bravo! bene!—ripeterono i commensali. L'ufficiale ricadde come spossato sulla seggiola; tutti ricominciarono a gridare; Carmela era immobile come una statua e teneva l'occhio dilatato e fisso in viso all'ufficiale; il dottore la guardava colla coda dell'occhio.

—Silenzio!—gridò il tenente. Tutti tacquero e, la finestra essendo aperta, s'intese giù nella piazza un'allegra musica di flauti e di violini e un ronzìo come di gente affollata. Erano i dieci o dodici musicanti del paese, circondati da gran parte della popolazione, la quale credeva che il distaccamento partisse davvero.

Carmela si scosse e si voltò verso la finestra. Il suo viso cominciò ad animarsi lievemente, e i suoi grand'occhi a muoversi senza posa dalla finestra al tenente, da questi ai commensali, dai commensali alla finestra, come s'ella volesse intender bene la musica e nello stesso [Pg 211] tempo non perdere il menomo moto che si facesse da tutta quella gente.

Cessata la musica, gran parte della gente affollata nella piazza si mise a batter le mani come avea fatto nella stessa occasione tre anni prima.

In quel punto sopraggiunse a passi concitati l'ordinanza:

—Signor tenente, il bastimento aspetta.—

Il tenente si levò in piedi dicendo forte:

—Bisogna partire.—

Carmela si levò in piedi adagio adagio tenendo l'occhio fisso sopra di lui e scostando lentamente la seggiola.

Tutti i commensali si levarono in piedi e si strinsero intorno al tenente. Nello stesso istante comparve la madre di Carmela, entrò non vista nell'altra stanza, abbracciò la figliuola e le disse affettuosamente:—Fatti coraggio; fra due mesi tornerà.—

Carmela piantò gli occhi in viso alla madre, svincolò lentamente l'uno e l'altro braccio dal suo amplesso, e senza far parola, girando la testa adagio adagio, rifissò gli occhi sull'ufficiale.

Tutti gli invitati strinsero la mano all'ufficiale levando un mormorìo confuso di ringraziamenti, di augurii e di saluti; egli cinse la sciabola, si mise il cheppì, si pose a tracolla la borsa da viaggio....

Mentre faceva tutto questo, Carmela, senza addarsene, aveva aperta la porta, avea fatto un passo avanti, e cogli occhi spiritati guardava rapidissimamente ora l'ufficiale, ora gl'invitati, ora l'ordinanza, ora la madre che gli era accanto, e con tutt'e due le mani si stropicciava forte la fronte e s'arruffava i capelli e sospirava affannosamente e tremava convulsa in tutta la persona.

Echeggiò un'altra volta la musica nella piazza, s'udì un altro scoppio d'applausi....

[Pg 212]

—Andiamo!—disse risolutamente l'ufficiale, e s'avviò per uscire....

Un grido altissimo, disperato, straziante proruppe dal seno di Carmela. Nello stesso punto ella si slanciò d'un salto sul tenente, se gli avviticchiò con sovrumana forza alla vita, e prese a baciarlo furiosamente nel viso, nel collo e pel petto, dove le veniva, singhiozzando, gridando, gemendo, palpandogli le spalle, le braccia, la testa, come farebbe una madre al figliuolo recatole in salvo fuor dell'onde, da cui poco prima travolto, ella l'avesse visto tendere le braccia e domandare soccorso. Dopo pochi momenti la povera fanciulla cadde senza sensi sul pavimento colla testa ai piedi dell'ufficiale.

Era salva.

L'ufficiale si gettò nelle braccia del dottore che già stavano aperte ad aspettarlo. La madre si chinò a baciare e bagnar di lagrime la figliuola. Tutti gli astanti alzarono il volto e le braccia in atto di ringraziare il Cielo. La musica continuava a sonare.

Quattro mesi dopo, in una bellissima notte di settembre, chiara che pareva di giorno, il bastimento che era partito la sera da Tunisi e s'era fermato, come sempre, dinanzi al porto del nostro piccolo paese, s'andava avvicinando rapidamente alla costa siciliana. Le acque erano così tranquille, che il bastimento pareva non si movesse. I passeggieri eran tutti saliti a poppa e stavano contemplando in silenzio il cielo purissimo e il mare illuminato dalla luna.

Appartati dagli altri e volti dalla parte opposta alla direzione del legno, v'erano un giovanotto e una signorina appoggiati al parapetto, stretti pel braccio, e colle teste ravvicinate in modo che quasi si toccavano. Lontano lontano si vedeva ancora confusamente l'isola [Pg 213] da cui erano partiti, ed essi guardavano quell'isola. Stettero lungo tempo senza moversi da quell'atteggiamento, finchè la donna, sollevando il viso, mormorò:

—Eppure mi sento stringere il cuore allontanandomi dal mio povero paese, dove ho sofferto tanto, dove ho veduto te per la prima volta, dove tu m'hai ridato la vita!...

E appoggiò la fronte sulla spalla del suo compagno.

—Ci ritorneremo un giorno!—le disse questi facendole volgere leggermente la testa per poterla guardare negli occhi.

—E ritorneremo nella tua casa?—ella domandò dolcemente.

—Sì.

—E la sera ci metteremo a discorrere a quella finestra da cui tu mi chiamavi una volta?

—Sì.

—E sonerai di nuovo la tua chitarra, e canterai di nuovo quella canzone?

—Sì, sì.

—Cantala adesso!—esclamò con trasporto Carmela;—cantala piano.

E l'ufficiale avvicinandosele colla bocca all'orecchio:

Carmela, ai tuoi ginocchi
Placidamente....

Carmela gettò le braccia al collo del suo sposo e ruppe in pianto.

—Povera e santa creatura....—gli disse questi stringendosela contro il petto;—qui, qui, sul mio cuore, sempre qui!—

La poveretta si scosse tutt'ad un tratto, guardò intorno, [Pg 214] guardò il mare, guardò l'isola, guardò il suo sposo, ed esclamò:

—Oh! è un sogno!—

E il giovane interrompendola:

—No, angelo, è lo svegliarsi!—

Il bastimento andava che parea portato dal vento.


[Pg 215]

QUEL GIORNO.


—A voi,—diceva una volta una signorina a un uffiziale reduce dalla guerra;—ditemelo voi che cosa proprio si sente, che cosa veramente si prova in quei momenti terribili. E siate schietto, ve ne prego. Voi altri militari, quando parlate della guerra, ne spacciate delle grosse, e trovate chi le beve; ma io non son di questo numero, ve ne avverto. Ditemi la verità, nulla più che la verità, e senza tanto rettoricume, chè di descrizioni di battaglie, sui libri, ne ho già lette anche troppe, e son tutte calcate sullo stesso disegno.

—Dire, dire, gli è presto detto; così senza prepararmici? Datemi almeno tempo a raccogliere e ordinare le mie rimembranze, se no vi farò un guazzabuglio senza capo nè coda.

—No, signorino; preparativi no. Io non voglio una dissertazione di filosofia, e tanto meno una pagina di storia militare. Ditemi su, alla buona, come vien viene, tutto quello che avete visto; animo, non vi fate pregare; parlate.

—Lo volete assolutamente?

—Parlate.

—Parlerò; ma badate: io non dirò una parola di più di quanto ho veduto; se il racconto vi divertirà poco, non sarà tutta colpa mia.

[Pg 216]

—Siate schietto, e non cercate più in là; cominciate.

—Comincio, e prima di tutto.... un'idea del terreno. Attenta. Poniamo che questa sia la catena delle Alpi: quel contrafforte che si stacca....

—Della topografia? Oh per carità!

—Non ne volete? Mi spiegherò in altro modo; sarà meglio. Poniamo di essere in mezzo alla campagna, all'aperto, di mattina, un bel giorno d'estate, limpido e tranquillo. Poniamo che a cominciar di qua, sotto i nostri piedi, il terreno si vada dolcemente sollevando e salga e salga e salga fino a formare una bella collina, larga, alta, a curve regolari, di cui la cresta si disegni là sull'orizzonte, a un quarto d'ora, a una mezz'ora di strada da noi; una bella collina verde, sparsa fino a mezzo il declive di siepi, d'alberi e di lunghi filari di viti; solcata da fossi, percorsa in tutti i sensi da sentieri e da muricciuoli di ciottoli ammonticchiati, come si usano per segnare i confini delle terre; qui un tratto di terreno tutto coperto di erbicelle e di piante; là smosso, rossastro, ingombro di sassi; qui un tratto facile, quasi piano; là un tratto subitamente ripido e nudo. L'avete presente? La vedete?

—La vedo.

—Bene. Supponete ancora un'altra cosa. Supponete che una buona parte della collina, dalla cresta in giù, sia affatto sgombra d'alberi e di case, rasa, netta, e vi batta il sole, così che vi si scorga distintamente ogni solco, ogni arboscello, ogni persona; se persone vi fossero. Una persona la si vegga, supponiamo, alta così, tanto da distinguere s'ella è un uomo o una donna. Ridete? Vi dico questo per darvi un'idea della distanza.

—Capisco.

—E dunque? Ora.... volgetevi indietro. Supponete, [Pg 217] qui, là, a destra, a sinistra, lontano, dietro gli alberi, dietro i cespugli, in mezzo alle viti, nei fossi, ritti, seduti, coricati, chi col capo scoperto, chi coi panni sbottonati, chi col fucile a terra, chi col fucile a traverso le ginocchia, taciti, seri, molti soldati;—trecento, supponiamo, o quattrocento;—più ancora;—un battaglione, via. Benchè divisi e sparpagliati serbano tuttavia una certa apparenza d'ordine di colonna. Gli ufficiali stanno in crocchio lì dinanzi, e parlano sommessamente fra loro, a brevi parole, a monosillabi, a cenni; di quando in quando volgon gli occhi lassù, e intorno, e indietro. Ma più lungamente lassù; pare che tutti attendano qualche cosa di là; tutti gli sguardi sono diretti a quella cima; a momenti deve comparire qualche cosa da quella parte. E difatti, guardate là a sinistra, sulla cresta, lassù dove c'è quel folto di cipressi; la vedete quella macchia nera, lunga, che si muove, che s'avanza adagio adagio, e somiglia uno di quegli sprazzi d'ombra che i nuvoletti isolati disegnano sul terreno passando dinanzi al sole? Guardate, guardate come si fa innanzi e come si allarga! Quella è una colonna di soldati: quanti, non è vero? A noi pare che procedano molto a rilento; ma gli è per effetto della lontananza; in realtà, essi vanno a passo spedito, e come spedito! Guardate dove son già. Vedete quel balenìo che corre rapidamente dall'un capo all'altro della colonna e par che ne accompagni l'ondeggiamento? È il balenìo delle baionette; hanno il fucile in spalla; si veggono già più distinti di prima. Guardate un po' la gente che abbiamo dietro, adesso. Tutti muti, tutti immobili, le bocche semiaperte, gli occhi fissi a quella schiera, a quelle baionette; ne seguono tutti i passi, ne notano tulle le oscillazioni; non si sente un alito, non si vede un cenno; son tutti di marmo. All'improvviso una voce [Pg 218] grida:—Là, là dall'altra parte.—Tutti si volgono dall'altra parte. E difatti, guardate lassù, a destra, sulla sommità, dove c'è quella casuccia; guardate che cosa viene. Un'altra schiera più larga, più profonda, più formidabile, irta anch'essa di baionette sfolgoranti, s'avanza in direzione opposta alla prima, serrata, rapida, risoluta. Volgetevi indietro: che mormorìo!

Quanti saranno?—Un reggimento.—No, due battaglioni.—O uno.—No, no, due.—Tre.—Sembrano bersaglieri.—Sono bersaglieri.—È linea.—Bersaglieri.—Ma no.—Ma sì; si vedono i pennacchi.—Si fermano.—Ti è parso.—Sì, son fermi, ti dico.—Ma no, non vedi che si muovono?—

Intanto il terreno, fra quelle due schiere, scemava. Noi lo misuravamo, trepidando, di momento in momento. Lo sguardo correva senza posa da questa schiera a quella, da quella a questa, rapido come il pensiero, avido, teso; tutta l'anima era negli occhi; tutta l'anima era lassù. E il terreno framezzo diminuiva, diminuiva; e le due schiere erano molto vicine, e camminavano rapide rapide e già un po' disordinate e confuse; e noi sempre cogli occhi dilatati, immobili, inchiodati là; il cuore batteva, batteva; il respiro era sospeso.

Tutt'ad un tratto, quasi ad un tempo, una vivida luce balenò sopra quelle due schiere, calò, si spense: avevano abbassato le baionette; subito dopo, di corsa. Un urlo, che dovette essere formidabile, giunse fioco fioco fino a noi.

Rispondemmo con un fremito.

Eccole, sono a pochi passi, stanno per urtarsi, si sono urtate: una di esse cede, si allarga, indietreggia, si rompe, si sparpaglia a destra, a sinistra...; è in fuga.

Un nuovo grido, un grido di gioia, ci giunse; e questa volta rispondemmo anche noi. Il nostro grido, [Pg 219] da tanto tempo preparato nelle viscere, ma compresso, soffocato, strozzato, venne su, si sprigionò, eruppe, dal più profondo dell'anima, selvaggiamente lungo ed acuto.

La schiera vincitrice sostò un istante, poi riprese l'andare, incalzò i fuggenti, si allontanò dietro a loro, si fe' piccina piccina, si fe' un punto nero, disparve.

In quel punto una voce alta e vibrata risuonò in mezzo a noi:—A voi altri adesso! Al posto!—

Era la voce del nostro maggiore.

Provate a lasciar cadere un pezzo di carta in fiamme sopra uno di quei formicai larghi e fitti, che lontani un passo vi sembrano immobili, e rendono l'immagine d'una macchiaccia nera, di cui non si sa a primo aspetto distinguere la natura. La piccola turba atterrita si sconvolge in tutti i punti vertiginosamente, si getta in furia ai varchi sotterranei. Avventurose le prime! Le altre si serrano, si urtano, si accavallano; quel varco è chiuso? presto ad un altro; anche questo? via, ad un terzo; chiuso anch'esso? di nuovo al primo. E poi che la più parte si sono cacciate alla rinfusa nel covo, molte, sfortunate! errano ancora disperate di qua, di là, alla cieca, in cerca d'uno scampo, da un buco ad un altro, già più morte che vive, finchè trovano anch'esse un po' di posto al sicuro, benchè un po' tardi e forse a prezzo di qualche scottatura.

A parte il terrore, così accadde al sonar di quella voce fra quei soldati.

In un lampo tutti su, tutti in armi; gli ordini si ricomposero precipitosamente; un gran fermento, un gran bisbiglio, un gran serra-serra; poi quiete. Qualcuno corse ancora qua e là in cerca del suo posto; chi lo trovò, vi si spinse; chi nol trovò, a forza di gomiti, sel fece: tutti al posto.

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Guardatela là quella moltitudine poc'anzi sparpagliata, giacente, cogli abiti aperti, colle cinture sciolte, colle armi a terra, guardatela là, in un lampo, ritta, schierata, immobile, muta, e nei sembianti ilare e calma. Guardateli nel viso, e mi direte che quella è gente che vedrà le spalle del nemico, o morrà. Guardate la bandiera; è immobile; il braccio che la regge non trema. Guardate bene quei soldati che le fanno attorno una siepe di baionette: sono spaventosi! Vi sono degli occhi che somigliano folgori.

—Avanti!—tuona la nota voce.

Un moto subitaneo in tutta la colonna, un fremito, un sussurro; poi quiete.—Avanti!—ripetono i capitani.

Avanti dunque, su, alla collina. La compagnia ch'è alla testa indugia un istante dinanzi ad una prima siepicella che le fa inciampo; le compagnie che seguono le si accalcano dietro; la colonna pesante si serra, oscilla, ondeggia dall'un capo all'altro sull'ineguale terreno; poi si rompe, si allarga, si restringe, si allunga, si ricompone, torna ad accalcarsi con vece continua, a subiti impeti, a subite fermate, a passi ineguali, a sbalzelloni. Chi è alla coda ora è balzato indietro dallo zaino di chi precede, che lo urta nel petto; ora su chi gli è avanti si precipita improvvisamente e lo spinge in su barcolloni; chi è alle ali, sbattuto di qua e di là a fiancate, a colpi di gomito, a urti di zaino, va su serpeggiando e vacillando, a capo basso e a gambe larghe. Qui una siepe: su le gambe, alti i fucili. Lì un fosso: svelti, è passato. Qua un rialzo di terra: animo, sopra, senza scomporsi. Là un intreccio di rami che scendono sul viso: via colla mano, giù le teste. Una vite fa intoppo: giù una sciabolata, è a terra, avanti. Erbe, arbusti, siepi, viti, solchi, sentieri, tutto si sforma, tutto cade, tutto sparisce sotto quell'onda, sotto quel peso, sotto [Pg 221] quella pesta precipitosa, sotto quella moltitudine scatenata. Qua il terreno si fa erto d'un tratto e sassoso: il piede scivola, molti cadono; su coi gomiti, su, forza, in piedi, avanti. I più si aiutano colle mani, col calcio del fucile, colle ginocchia; i tronchi, le zolle, le pietre, le radici, tutto serve di presa alla mano convulsa; la turba s'arrampica, striscia, s'abbarbica, qui densa, là rada, scompigliata, sparsa; ma tenace, ma risoluta, ma rabbiosa. E intanto le forze vengono meno, e il sole ci saetta, ci arrovella, e qui, dentro il petto, si brucia.... Non monta; coraggio; un'occhiata in su a veder quanto resta:—poco.—Un'occhiata indietro:—una lunga striscia di caduti tendono le braccia; molti tentano di rialzarsi; indarno; ricadono.—Ci siamo, quasi; ci avranno già scorti; a momenti.... Oh!—Un sibilo, lungo, acuto, stridente, rabbioso passò sulle teste della colonna. Un lieve grido, un profondo fremito, tutti a terra.—Su quelle teste!—tuona la nota voce; quando si sente il fischio è passata—Tutti in piedi; ci siamo; ci han veduti; serriamoci; giù le baionette, svelto il passo: sotto. [1] —Un altro sibilo più lungo, più sottile, più mordente, più vicino, più spaventoso: tutti a terra.—Su perdio! figliuoli!—sempre quella voce;—guardatela in faccia la morte. Niente paura.—Un altro fischio; un altro; tutti illesi; siamo al sicuro; eccoci sulla vetta; alto; aspettiamo.

NOTA

[1] Sotto , in linguaggio militare, significa «serrate» ossia fatevi innanzi così da stringer bene le file.

Tutti girano l'occhio intorno meravigliati: che pianura immensa, stupenda! Il cielo, com'era, purissimo ne concedeva allo sguardo le lontananze estreme. Da un lato, lontano lontano, monti e dietro monti ed altri ancora, alti, azzurri, chiari; dall'altro lato pianura, sempre pianura. Tutta quella superficie verde appariva [Pg 222] solcata qua e là da lunghe e sottili strisce bianche, che s'intersecavano in molti punti e si perdevano fra gli alberi lontani, sollevando in certi tratti grossi nuvoli di polvere che apparivano, percossi dal sole, candidissimi, e si allungavano lentamente nella direzione delle vie; quelle strisce bianche erano le vie che avevamo fatto il mattino; quei nuvoli rivelavano l'avanzarsi di alcune colonne italiane. Poche casuccie qua e là, mezzo nascoste fra gli alberi, com'avessero paura, e non volessero vedere che cosa accadeva lassù. Di sotto poi, proprio sotto, spettatrice avanzata e silenziosa, Villafranca. Dall'altra parte, verso i nemici, certe macchie scure in mezzo al verde dei campi ed uno sfolgorìo interrotto di baionette, che ora si avanzavano, ora sostavano, ora accennavano a destra, ora a sinistra, quasi fossero incerte sul dove dirigersi e procedessero circospette. Più presso a noi, sempre sul piano, cinque, parevano, o quattro cannoni austriaci che faceano un trarre continuato e lento. Dalla parte opposta, e proprio ai piedi del nostro colle, tiravano continuatamente come i primi, ma più a rilento, altrettanti cannoni dei nostri. Dietro a noi, alle falde d'una collina vicina, si vedeva un denso fumo bianco e crepitava un rapido fuoco di fila; era l'ala estrema d'un'altra divisione. Null'altro vedemmo, o, almeno, null'altro mi ricordo d'aver veduto. Stavamo là ad aspettare, contemplando quello spettacolo meraviglioso.

Nei momenti di profonda concitazione, quando ci freme dentro la mente, qualche affetto supremo, spesse volte, quasi inconsapevole di ciò che segue nel cuore, si distrae a poco a poco da se stessa, e vaga e si abbandona dietro le immagini e i pensieri più fanciulleschi e più strani, come se quella che scorre fosse un'ora della vita consueta, un'ora oziosa e tranquilla. [Pg 223] Così, scorgendo un campanile lontano, io pensai:—È domenica. Quella gente là stamane si è vestita a festa, è uscita gaiamente per le vie, e poi è andata in chiesa, e poi ha sbrigate le sue faccende come tutte le altre volte, queta, contenta.... È un giorno come un altro per loro. Chi sa se sapranno che cosa accade qui! Eppure là in mezzo v'hanno delle madri che hanno il figlio soldato....—E internandomi in questa immaginazione, io vedeva tutte quelle donne, in chiesa, ginocchioni, raccolte, preganti, e ne spiava i volti.—Quella là; sì, quella là è la madre di un soldato.—E ad ogni colpo di cannone la vedevo impallidire e tremare....

Tutto ad un tratto, un sergente che mi stava seduto accanto, si levò in piedi, mutò alcuni passi colla testa alta, il volto sorridente e gli occhi diretti lontano, verso i monti; poi tese il braccio, puntò l'indice verso là, sostò un istante, guardò attorno ai compagni, e:—Figliuoli! gridò con voce alta e chiara, venite qua.—Molti si levarono in piedi e gli corsero attorno.—Guardate, egli soggiunse, tenendo sempre il braccio teso e l'indice appuntato. Le vedete quelle torri laggiù lontano, e quelle case?—Dove? dove?—domandarono molti altri sopraggiungendo a passi concitati.—Là, là, guardate dove segno io.—Vedo, disse l'uno.—Anch'io.—Anch'io.—Vediamo tutti.—Ebbene?

—Ebbene!—egli rispose con voce sonora e tremante:—quella là è Verona!

—Verona! Verona!—gridarono tutti, battendo palma a palma; la voce si propagò; tutto il battaglione, in un minuto, fu lì. Tutti colla faccia volta da quella parte e colle braccia tese verso quelle torri, colla bocca aperta a quel grido, guardavan là come si guarda.... Siete mai stata molto tempo senza veder vostra madre? Se foste ad aspettarla all'arrivo, avrete teso lo sguardo avidamente [Pg 224] lungo la via per cui doveva arrivare, e quando in fondo a quella via, lontano lontano, avrete scorto un punto nero e un nuvoletto bianco di fumo e vi avrà percosso l'orecchio uno squillo di corno, signora, che cosa avete sentito nel cuore? Ciò che sentivamo noi là, beando gli occhi su quelle torri sospirate... gridando quel caro nome....

La signorina ebbe un fremito.

—Erano lassù tutti e quattro i battaglioni del reggimento—continuò l'ufficiale. All'improvviso, si sente un alto grido, tutti i soldati balzano in piedi, gli ufficiali comandano:—Al posto!,—le compagnie si riformano, e tutti zitti. Un altro grido, e tutti gli ufficiali ripetono:—Baionette in canna.—E tutti e quattro i battaglioni inastano le baionette, e poi di nuovo silenzio.—Cosa c'è? Cos'è stato?—tutti si domandano. Sopraggiunge l'aiutante del colonnello a cavallo, s'avvicina al nostro maggiore e gli dice qualcosa nell'orecchio.—Avanti!—il maggiore grida. Il battaglione si muove, oltrepassa la sommità del monte, scende la china dalla parte del nemico. Tutti que' di dentro, io fra i quali, allungano il collo e protendono il capo a destra e a sinistra per veder dove si va; ma non si riesce a veder nulla; la prima compagnia ingombra la vista. Mi volto indietro, e vedo gli altri battaglioni che ci seguono da lontano a lento passo. Tutto ad un tratto, trovandosi l'ultima compagnia sopra un rialzo di terreno, intravvedo in lontananza, tramezzo agli alberi, un movimento, un luccichìo.... Nel punto istesso sento un terribile scoppio, e acutissimi fischi a destra, a sinistra, ai piedi, sul capo, e grida strazianti a pochi passi da me, e lontano una gran nuvola di fumo bianco, e poi un grido poderoso:—Attacco alla baionetta!—Il battaglione disordinato e confuso si slancia avanti a passo [Pg 225] di carica. Un altro grido:—Savoia!—Il battaglione prorompe in un urlo altissimo e si slancia di corsa; non si vede altro che fumo; un altro scoppio; altri fischi; avanti, avanti.... Alto! la tromba ha suonato l'alto. Dove siamo? Dov'è il nemico? Che cosa si fa? Oh che fumo! Il battaglione è tutto sparpagliato. Ecco una casa. Par che partano delle fucilate da quella casa.—Attacco alla baionetta!—s'ode gridare confusamente in mezzo alle schioppettate; il battaglione si slancia avanti; dove si va? per dove si passa? Non si vede nulla. Ah! ecco una porta; dentro in furia a baionetta calata; un cortile, i nemici, una bandiera; animo, addosso. Intorno alla bandiera c'è un baluardo di petti, irto di baionette immobili. I primi, sopraffatti, s'accasciano; sugli altri, saldi come colonne, la furia assalitrice si arresta, e qui comincia un tempestare precipitoso di colpi che si sentono e non si vedono; le baionette s'incrociano e si urtano risonando acuto; scricchiolano i fucili spezzati; urli orrendi soffocati nella strozza, e gemiti tronchi che assecondano i conati dei colpi; le armi si drizzano, la mischia si chiude, i combattenti vengono a corto; si forma un gruppo confuso degli uni e degli altri, stretti, pigiati, faccia contro faccia; impugnano le baionette, si afferrano alla gola, incrocicchiano le braccia e le gambe, si avvinghiano e si divincolano, cadono, risorgono, pallidi, ansanti, co' denti serrati, le teste scoperte e sanguinose; l'uno sente dell'altro il frequente e infuocato anelito sul viso; ad ogni tratto una faccia illividisce e un capo si arrovescia all'indietro colle pupille stravolte; il terreno è coperto di caduti; il gruppo attorno alla bandiera è rimpicciolito; l'alfiere ha toccato una baionettata nel petto.—A te!—grida con voce morente; un altro ha afferrato la bandiera. Intanto si combatte da tutte le parti della casa. Si sentono grida lamentevoli [Pg 226] dall'interno delle stanze; si sentono tremare i solai sotto il peso dei passi precipitosi, e porte scrosciare e spezzarsi sotto i colpi de' fucili. Gli assaliti errano disperatamente di qua e di là, si rimpiattano nei cammini, dietro ai mobili, dietro le porte; gli assalitori sopraggiungono ululando, si sparpagliano, frugano, fiutano, li scoprono, li snidano, li trascinano, rigando di sangue i pavimenti e le scale; i vinti non si arrendono, i prigioni si rivoltano, si svincolano, si gettano alle finestre e si precipitano nel cortile, o son baionettati nella schiena e restano cadaveri sui davanzali; altri cerca scampo pei tetti, altri ferito e grondante di sangue si trascina carponi fuor della mischia. I difensori della bandiera sono agli estremi.—Arrendetevi!—gridano i nostri.—No! no!—essi rispondono con voce soffocata;—morte! morte!—Ad un tratto si sente un altissimo grido che fa rintronare la casa, e nello stesso punto balza fuori della mischia un soldato colla bandiera nemica nel pugno, la fronte alta e splendida, lacero e sanguinoso.—Viva!—ripetono cento grida da tutte le parti della casa. S'ode uno squillo di tromba.—Cosa? Che è stato? Ritirata? Come? Perchè? È impossibile! Zitti!—Un altro squillo di tromba e un grido tonante del maggiore:—Ritirata!—Ritirata? noi? adesso? ma proprio? Ah! è impossibile! è impossibile!—Siamo fuori della casa, il maggiore indica la direzione della strada, gli altri battaglioni sono già in moto.—Dio eterno! ci ritiriamo! Capitano! capitano, in nome del Cielo, perchè ci ritiriamo?—Il capitano senza dir nulla, si volta dalla parte del nemico e stende il braccio verso la pianura come per accennare qualche cosa. Guardo.... Era una colonna nemica che s'avanzava alle nostre spalle, lunga, sterminata, perdentesi nella lontananza della campagna: rimasi di sasso.

[Pg 227]

—Ma capitano! capitano! e gli altri corpi? le altre divisioni? dove sono? che cosa fanno? perchè non vengono?

—Mah!—egli rispose stringendosi nelle spalle.

—Ma dunque noi abbiamo perduto!—io gridai con accento disperato.

—Pare.—

Io guardai intorno i miei soldati, guardai di nuovo la colonna austriaca, guardai Villafranca, guardai quella stupenda pianura lombarda, quel bel cielo, quei bei monti.—Oh povero mio paese!—esclamai, giungendo le mani.... e piansi come un bambino.

La signorina chinò la fronte sulla palma della mano e pensò.


[Pg 228]

LA SENTINELLA.


Era una delle ultime notti di gennaio; nevicava; le vie della città, le piazze, i davanzali e i terrazzini delle case, gli alberi dei giardini, tutto era bianco, sepolta, sopraccarico di neve; i fiocchi venivan giù lenti, grossi, fitti, e sullo strato nevoso lungo i muri non appena s'imprimeva un'orma, che ne spariva ogni traccia. I lampioni agli angoli delle strade mandavano intorno un chiarore velato e tristo; sui crocicchi, per quanto si guardasse avanti e indietro, a destra e a sinistra, non si vedeva nessuno; in ogni parte un silenzio cupo; si sarebbe sentito, per mo' di dire, cader la neve.

Era una di quelle notti, in cui chi si trovi, per mala ventura, fuor di casa, s'affretta a ritornarvi; rasenta le case a passetti rapidi, muti, come un fantasima furtivo; l'occhio a terra per iscansare le pozzanghere, la tesa del cappello calata sulle orecchie e sul naso, il collo rientrato nelle spalle, il bavero del vestito rialzato sulla nuca, l'una mano ficcata nella manica dell'altra, tutto inarcato, tutto rimpicciolito; si getta a capo basso nel portone di casa, ascende le scale pestando forte i piedi fradici e scotendo i panni nevosi, caccia in furia la chiave nella toppa, entra, via il vestito, giù il cappello, in che stato! spinge la prima seggiola davanti al camino, vi si lascia cader su, un piede di qua e un piede di là, e abbassa il volto sul fuoco, e se ne sta li, [Pg 229] e se lo cova, se lo stuzzica, se lo gode, succhiando lentamente un sigaro e geroglificando le ceneri colle molle e brontolando di tratto in tratto:—Che tempo!—Una di quelle notti in cui anche il marito disamorato e tediato avvicina un po' più del solito la seggiola a quella di sua moglie; e lo scapolo fantastica le gioie intime e tranquille d'una famigliuola, e, rinunciando alle baraonde consuete, si ficca per tempo sotto le coltri, si contorce un pochino per iscavarsi la fossetta calda, mette fuori tanto di mano quanto n'occorre per tenere il romanzo e, scorse due o tre pagine, s'addormenta placidamente aguzzandosi il gusto del caldo e del riposo coll'immagine dei poveri assiderati che non hanno letto nè casa. Una di quelle notti in cui la vita d'una città si ristringe tutta intorno ai focolari domestici, dove i consueti colloqui tra le famiglie e gli amici più stretti si producono oltre l'ora consueta, finchè i fanciulli presi dal sonno tiran di soppiatto la gonnella alla mamma per farle rammentare il letticciuolo che aspetta, e vanno poi a dormire pregodendo nel pensiero la gran battaglia a palle di neve che combatteranno il domani. Una di quelle notti in cui i desiderii più vivi son tre, come dicono gli scapati; un caro viso, un bel libro e un buon bicchiere.

Tutti, anche i più poveri, trovano, in codeste notti, la carità d'un po' di tetto, d'un po' di fuoco e d'un po' di strame; tutti trovano uno schermo dalla neve, almeno fino al primo rischiararsi del cielo, almeno per l'ore in cui la vien giù così fitta che par che voglia seppellire le case; tutti riposano, tutti dormono, tutti,—tranne la sentinella,—per cui non v'ha nè tetto, nè fuoco, nè riposo; ma solamente un solitario casotto di legno, un pesante mantello di pannaccio, e la consegna del caporale.

Guardate laggiù, in fondo a quella piazza tutta [Pg 230] bianca di neve, e rischiarata intorno intorno da quattro lunghe file di lampioni, laggiù accanto alla gran porta di quel palazzo principesco, alto, bruno, dalle forme colossali ed antiche, da tutte quell'ampie finestre illuminate; guardate là in quel casotto, quell'uomo imbacuccato, ritto, immobile come un simulacro di marmo; guardatelo. Egli da più ore è là, senza moto, senza parola, colla destra intirizzita sulla fredda canna del fucile, e i piedi nella neve, e l'occhio chinato e fisso, che par che noveri i larghi fiocchi che gli piovono intorno. Di tratto in tratto gli occhi gli si socchiudono, la testa gli s'inclina insensibilmente sull'omero; ma tosto un'interna voce lo ammonisce, ed egli risolleva vigorosamente la fronte ed apre e dilata gli occhi e li gira intorno più rapidi e più vigilanti, come per compensare la sua coscienza di quel momento di languore e d'inerzia. Guardatelo; tutti, anche i più poverelli, hanno un po' di casa, un po' di fuoco, un po' di letto, tutti; egli non l'ha.

Questi pensieri io volgeva in mente una notte, sul cader di gennaio, essendo di guardia, con una quarantina di soldati, appunto in quella piazza e a quel palazzo. E me ne stava, così pensando, poco lunge dalla porta, misurando a passi lenti un breve tratto della piazza sgombro di neve, e volgendo a quando a quando gli occhi in su, alle finestre illuminate, per cui mi giungeva fioca all'orecchio un'armonia confusa di flauti e di violini, e un rumor sordo e pesante di passi mutati in cadenza sopra un vasto solaio. Poi guardava nell'ampio vestibolo gli smaglianti lampadari di cristallo, e i tappeti e i vasi di fiori sparsi sul pavimento marmoreo, e le pareti coperte d'arazzi e di allori; e sul dinanzi, fra me e la porta, un viavai di carrozze di gala, un vociar di cocchieri, e uno scendere e salire continuo d'uomini e di signore, e un accorrere in fretta agli sportelli, un [Pg 231] aprir reverente, un porger rispettoso di mani, uno strascicar lungo di vesti, uno scoprirsi di teste azzimate, un incurvarsi di schiene, un giungere e uno scappar incrociato di servitori dalle assise sfoggiate e bizzarre. Ecco, s'avanza una carrozza stemmata; si ferma; i cocchieri precipitano a terra; tutti si fanno intorno; dieci mani si gettano a gara sulla maniglia dello sportello; una mano fortunata lo afferra; lo sportello si schiude; la folla degli accorsi si apre in due ali, a destra e a sinistra; i colli si allungano, gli sguardi si tendono; spunta una testa, un piedino, una manina vestita d'un guanto candido; un'altra mano si stende di mezzo alla folla e la stringe timidamente per la punta delle dita;—giù il piedino,—adagio,—con riguardo,—ancora un po',—un pochino ancora, il piedino è a terra. Oh bellino! Guai se toccava un fiocco di neve! Ma è rimasta dentro la coda della veste. Oh sventura! Si sarà attaccata ad un chiodo, chi sa! Presto, accorrete, in due, in tre, in quattro:—dove s'è attaccata?—qui—no—là—piano—con garbo—delicatamente—cerca, cerca—ah! ecco. La coda è libera, lo strascico è giù, ella è in piedi. La stupenda figura! Largo, indietro, miratela. Un cappuccio indiscreto non consente all'occhio che pochi tratti di quel caro viso; è un viso d'angelo! Una zimarra gelosa ruba agli avidi sguardi i bei fianchi e le candide spalle; ma ne lascia indovinare, sotto le pieghe, le forme: elle son divine! La bella figura incede mollemente,—svolta,—mette il piè sulla scala,—ancora un lembo di veste,—è sparita. Peccato! Ma l'occhio della mente la segue in mezzo alla folla inebriata di quelle sale rumorose; fra tutte le altre belle teste ornate di gemme e di camelie l'occhio della mente distingue le sue trecce e i suoi fiori, e le tien dietro nei rapidi voli della danza, e in mezzo a [Pg 232] quella cara battaglia di sguardi accesi che si provocano, si cercano, si sfuggono amabilmente astuti, s'incontrano amabilmente audaci, e tra 'l fascino dei molli abbandoni e la voluttà delle strette segrete, languiscono, lampeggiano, pregano, ricusano, promettono, puniscono, concedono e rapiscono in cielo.

—Ed egli è là, io pensava, povero soldato! Egli è là, esposto al freddo, alla neve, solo, muto, negletto, senza conforti, senza speranze; lassù si suona, si danza, si ride, si folleggia, si gode la vita nelle sue ebbrezze più ardenti e più care, ed egli, da quella solitudine, da quella oscurità, da quel silenzio, è costretto a subire il tripudio che gli ferve sul capo, e a paragonarlo col suo tristo abbandono, alla malinconia stanca del suo povero cuore. Bisogna ch'ei subisca l'immagine di quelle danze, di quei cari volti, di quelle belle persone, di quegli sguardi, di quei sorrisi, egli che è solo, lontano dai suoi, che non ha un viso di donna che gli sorrida, che non ha una manina amica da stringere; ma che forse, a maggior dolore, avrà sempre fitta nella memoria una treccia nera e due occhi modesti che una volta gli facevano tremar l'anima di dolcezza! Ah in mezzo a quelle teste ingemmate e infiorate egli la sogna, egli la vede quella cara treccia senza gemme e senza camelie!—Caporale.

—Presente.

—Chi è il soldato in sentinella?

—Il tale.

—Andate—Il cuore me lo diceva: è un coscritto. Povero coscritto! Son pochi giorni ch'è al reggimento, è ancora stordito da questa nuova vita; la sua testa e il suo cuore sono ancora a casa colla madre e fra le quiete abitudini della vita di prima; il pensiero del ritorno non gli passa nemmeno pel capo, o, se gli passa, [Pg 233] gli è un pensiero d'una felicità tanto lontana! Nel reggimento non ha ancora amici, non ha ancora conforti; subisce ancora i motteggi dei vecchi soldati, e le prime durezze, che son le più dolorose, della disciplina; non una voce amica, non una parola affettuosa, non un sorriso, nulla; sempre vociacce burbere, minacce, brutti visi. Dopo un'altr'ora ch'ei starà là, verrà qui, stanco, fradicio, pien di freddo, pien di sonno, e non avrà che un nudo tavolaccio su cui riposare, e dormirà un sonno interrotto e penoso, e sarà destato da una squassata alle gambe o da una manata di neve nel viso; non un po' di quiete, non un po' di fuoco per asciugarsi i panni, non una goccia di vino; nemmeno un po' di tabacco, forse...; nulla, nulla. Egli soffre, in questo momento, lo giurerei. Quella musica e quella festa gli fanno male. Voglio accertarmene. Voglio andarlo a vedere.... Ma no.... Oh che no! Sì, invece, sì; lo voglio andare a vedere; e ci vado; sicuro che ci vado; perchè non ci dovrei andare? Oh stiamo a vedere! Voglio andarci.—

E mi mossi. Passai dinanzi al casotto; guardai dentro, era scuro; non potei vederlo nel viso. Tornai indietro, sostai un momento, e pensai:—Quando si è agitati da un affetto vivo, gioia o dolore ch'ei sia, il suono della prima parola che si profferisce dopo un lungo silenzio è impossibile che, lì su quel subito, non si risenta di quell'affetto e non lo riveli. Proviamo.—Mi avvicinai al casotto e mi ci fermai dinanzi. La sentinella mi avvertì, si scosse e s'avanzò fin sul limitare. Io non la vedeva nel viso; ella non vedeva me. Le domandai con un accento affettatamente sbadato:—Hai freddo?—

Esitò un momento e poi:—Nossignore.—

Bastò: in quella voce io aveva avvertito un lievissimo tremito; in quella voce v'era un suono di pianto; [Pg 234] non v'era dubbio; io non m'era apposto male; avevo indovinato il suo cuore.

—Non hai proprio freddo, punto punto?

—Eh no—un poco—si sa.... non mica tanto però.... così....

Poveretto, e gelava! Temeva di fare un atto d'indisciplina quel buon ragazzo a dirmi che gelava! Come se la neve l'avesse fatta venir giù lui o glie l'avessi fatta venir giù io, proprio sui piedi, che li doveva aver conci Dio sa come! Mi piacque tanto quella sua risposta,—povero giovane. E non mi si venga a chiacchierar di separazione tra uffiziale e soldato, in quei momenti lì; il cuore non è mica gallonato come il berretto: Dio buono! Come si fa a resistere? Come si fa a star duri? A meno d'esser di sasso, sfido io. Però non volendo aver l'aria di esser andato là a far il consolatore pietoso, e neanco lasciarlo prima d'avergli rifatto un po' l'animo con quattro parole da amico, girai largo e gli chiesi:

—Quanto tempo ti tocca ancora di restar qui?

—Non so mica, signor tenente.... l'orologio qui vicino non si sente.... per causa della musica.

—Già;—ecco (ruppi il ghiaccio), sicuro che—a star qui—fermi—a quest'ora, con questo tempo, non è mica un piacere; si sa. Ma—Dio buono—il nostro mestiere.... è tutto così: bisogna pigliarlo com'è. Eh, caro mio, questo è niente. Se si farà la guerra, allora sì che ne vedrai delle brutte. È un altro par di maniche, sai; te ne convincerai per prova. Quando s'è agli avamposti, per esempio, in un bosco buio buio, sotto una di quelle pioggierelle fine fine che passano panni e pelle e mettono dei malanni addosso, e si è soli, isolati, e non si vede un palmo più in là del naso, eppur bisogna star là, fermi, dritti come fusi, con l'occhio vigile, [Pg 235] colle orecchie all'erta, che c'è il nemico davanti e da un momento all'altro può capitarci addosso; e dopo tutta una notte che s'è stati là, si ritorna al campo del reggimento, e non ci si trova da levarsi la lame, e non c'è posto per dormire, o bisogna sdraiarsi sul fango o sui sassi o sull'erba bagnata; eh allora sì che la è una dura vita! Adesso è niente. Eppure anche quella vita tutta fatiche, tutta stenti, tutta pericoli, i bravi soldati la fanno di buon animo, e non si lamentano mai, e quando possono dormire, bene; quando non possono, pazienza; quando c'è il pane, viva il pane; quando non ce n'è, si digiuna, e alla buon'ora, e non ci si fa del cattivo sangue per questo. E sai perchè? Perchè si vive fra amici, fra bravi camerata, e si sa di fare il proprio dovere, si sa di fare i soldati per difendere il paese dove s'è nati e cresciuti, dove s'ha la famiglia, la casa, gli amici e.... l'amorosa, tutto ciò che abbiamo di più caro e di più sacro a questo mondo; capisci? E la coscienza di fare il proprio dovere basta, vedi, ai bravi soldati; oh se basta! Guarda un po' quanti soldati han tratto fuor dal fiume,—laggiù dalla parte dove si fanno i bagni d'estate,—dei poveri disgraziati che stavan per annegare! Ebbene, quei soldati che si son messi al rischio di morire per salvar la vita a gente che non conoscevano nemmeno, che cosa hanno avuto in premio? Nulla; cioè molto: la gratitudine dei salvati, e la coscienza della loro bella azione, e questo è tutto per un galantuomo. E i soldati che dan la caccia ai briganti? Ogni giorno ce ne muor uno; chi lo sa ch'ei sia morto? chi lo ricorda il suo nome, fuor della gente di casa sua? Eppure i soldati ci stan volentieri su quelle montagne, in quei boschi, in quei burroni, a menar la maledetta vita che menano; e perchè? Perchè sanno di fare il loro dovere. E i carabinieri, poveri soldati anch'essi, che [Pg 236] giran due a due per la campagna, di notte, in mezzo ai malandrini appostati nei fossi, che tirano le schioppettate a tradimento, non fanno anch'essi una gran dura vita i carabinieri? Eppure, vedi come fanno di cuore il loro dovere! Così le sentinelle; la stessa cosa. Di notte, in queste notti qua, chi le vede le sentinelle avviluppate ne' loro mantelli, rannicchiate in fondo ai loro casotti, immobili, silenziose; chi le vede, chi le sente, chi sa ch'elle vi siano, chi pensa a loro, chi se ne cura? Eppure la sentinella deve star là ferma al suo posto, di buon grado, senza malinconie, senza triste fantasticaggini pel capo, e pensare:—Tutti dormono, io solo veglio; ma veglio sul sonno di tutti; se non vi fossero sentinelle, nessuno dormirebbe dalla paura. Il mio piccolo casotto protegge i più vasti palagi; dappertutto ove si canta e si suona e si fa del baccano, lo si fa senza pensieri e senza sospetti perchè io taccio e vigilo e tendo l'orecchio per tutti; il mio rozzo mantello protegge le vesti di seta e di velluto delle signore che vanno ai balli; quest'ombra protegge quella luce; il mio silenzio, quei suoni. Dal sentimento di queste grandi verità, a cui non si suole pensare, a cui molti non hanno mai pensato, ma che pur si dovrebbero tener sempre vive nella mente e nel cuore, dal sentimento di queste verità deve trar conforto il soldato, e capire che in questo sentimento risiede il più bel premio dei suoi sacrifici e delle sue virtù. Sei persuaso?

—Oh sì, tenente.—

La sua voce aveva tremato; era venuta dal cuore, e aveva trovato un intoppo a mezza gola; me ne accorsi; proseguii:

—E dopo che per cinque anni, per cinque lunghi anni, s'è fatto, tutti i giorni, tutte le ore, tutti i minuti, sacrificio della propria volontà, dei propri desiderii, [Pg 237] degli affetti, delle abitudini, dei pensieri, di tutto, insomma, sagrificio di tutto al proprio dovere, alla propria bandiera, a quei tre bei colori che noi dobbiamo aver cari più di noi stessi, più della vita, più di ogni cosa al mondo; quando dopo cinque anni passati così, il paese ti dice: Ora basta, hai fatto il dover tuo, restituiscimi quel fucile con cui m'hai difeso l'onore e la vita, e vattene a casa, chè tua madre t'aspetta, e le tue sorelle ti vogliono, e v'ha un'altra donna che la sera, affacciata alla finestra, guarda lungamente all'estremità lontana della via per cui dovrai ritornare; oh allora, credilo buon ragazzo, il poter ritornare fra le braccia della vecchia mamma colla coscienza di essere stato un bravo soldato, il poter tornare là sotto quel povero tetto colla fronte alta e col callo del fucile alle mani, credilo, è una felicità che non n'ha uguali sulla terra. Lo credi?

—....Signor tenente!

—E tornati a casa, la sera, quando splende una bella luna, si ricomincia a ballar sull'aia, come una volta, chè quelli sono i balli che ci piacciono di più, non è vero?

Non rispondeva,

—Dico bene sì o no?

—Oh sì! sì!—proruppe quel povero soldato con una voce di cui mi sarebbe impossibile esprimere l'accento, ma che mi suona ancora nell'anima, come l'avessi udita pur ora;—oh sì che dice bene, signor tenente! Sicuro.... sicu....

Sapete perchè s'interruppe? Perchè, intenerito, agitato com'era, mosso unicamente dall'affetto, che so io? dalla gratitudine per le mie fraterne parole, il buon giovane dimenticò per un istante che io era un ufficiale, che egli era un povero coscritto, e aveva steso un braccio verso di me; ma, ravvedutosi, l'aveva subito ritirato, [Pg 238] non sì a tempo però che colla mano distesa non mi lambisse leggermente la manica del cappotto.

—Eh!.... io esclamai.

Si vergognò, si confuse, e, mormorando timidamente non so quali parole di scusa, si rintanò in fondo al casotto. Mi parve di sentir ch'ei respirasse con molto affanno. Forse piangeva.

Mi allontanai di là che il cuore mi tremava di tenerezza. Io mi sentiva tanto contento di me! Guardai in su alle finestre illuminate; tornai a sentire la musica a cui da un pezzo non avea più badato; mi internai colla mente in quella sala.... Poh, erano tutte immagini sbiadite.

Povera gioia codesta, io pensai, in confronto della mia.


[Pg 239]

IL CAMPO.


Un bel prato, piano, vasto, rettangolare, limitato ai quattro lati da un fosso e da una siepe, e folto d'erba e tempestato di margheritine. Al di là del fosso, dall'un dei lati, un fitto bosco di gelsi, di quercioli, di marruche, e più oltre, sporgente al di sopra di quella macchia, una collinetta a lento declive, bassa, verde e sparsa d'alberi e di casicciuole bianche. A mezzo della china, un gruppo di case più alte e d'aspetto più cittadino, e un campanile alto e leggero. Intorno intorno certi palazzotti azzurri e rossastri, e poggetti fioriti, e lunghi filari di pini, e gruppi di salici, e viali sabbiosi, serpeggianti, intersecati; e qua e là statuette candide e zampilli d'acqua mezzo nascosi fra gli alberi e i cespugli. Dinanzi a quel prato, lungo il lato opposto al bosco, corre una strada larga e rilevata, e gira intorno al folto degli alberi, e ascende, su per la collina, al villaggio. In quel prato ha posto le tende un reggimento.

Poniamoci su quella strada e guardiamo quel campo. Cominciando a venti passi dal fosso, fino all'opposto limite del prato, otto lunghi ordini di tende, gli uni agli altri paralleli, e divisi da uno spazio di una diecina di passi. Per ogni ordine un cento di tende; tre soldati per tenda, trecento soldati per serie, due mila [Pg 240] quattro cento, o poco meno, fra tutti; un reggimento. Le tele nette, tese; le cordicelle fisse nel suolo sur una linea retta; gli intervalli uguali; tutto in ordine, tutto appuntino; un campo fatto a pennello. Di rimpetto all'apertura delle tende, e sul di dietro, e sui lati, capannucci e tettarelli di frasche,—le hanno rubate agli alberi di quella povera campagna circostante, e il colonnello è andato in collera!—e legate ai rami, come ad archi di trionfo, ghirlande penzolanti di rosolacci e di pannocchiette intrecciate. Qua e là, in cima a una canna confitta nel suolo, sventola qualche cencio di bandiera, fatta d'una cravatta rossa, d'un lembo di camicia e d'un fazzoletto turchino, che si dà l'aria di verde. Dentro le tende, una confusione di paglia, di panni, di zaini, di cencerelli, di giberne, di canne di fucile e di baionette. Tra tenda e tenda funicelle tese, su cui sono sciorinate quelle certe mezze mutande, che dovrebbero giungere fino alla noce del piede sulle gambe supposte dal governo; ma giungono solamente fino al ginocchio sulle gambe dei soldati come li ha fatti la mamma.

A destra di tutte codeste tende, in senso parallelo al lato più corto del campo, una serie d'altre tende, ma di forma conica, e più alte, più capaci, più tese, fatte più ammodo, le tende degli uffiziali; da quella del colonnello, che è la più vicina alla via, giù giù fino a quella degli uffiziali della compagnia estrema. Più a destra, in senso parallelo a codeste tende, lungo il fosso divisorio, una lunga fila di carri sopraccarichi di casse, cassette e bauli e involti e cento oggetti svariati; dietro l'ultimo carro, nell'ultimo angolo del prato, una schiera di cavalli e di muli legati ai tronchi degli alberi. Lungo il lato opposto,—il lato sinistro,—una sterminata sequela di marmitte nere, disposte in gruppi ad [Pg 241] intervalli uguali, e tra gruppo e gruppo fornelletti di sassi e di mattoni accatastati, e mucchi di cenere, e rimasugli di tizzoni spenti, di stipe e di fuscelli sparpagliati. Al di là del fosso, alberetti distesi a terra, schiantati e scapezzati; siepi sforacchiate; solchi calpestati e disfatti; tutti i segni d'un vasto saccheggio. Uh il colonnello! com'è andato in collera!

Un ponticello di legno, fatto lì per lì, con due tronchi d'albero e poche assicelle, unisce il campo alla via. Accanto al ponte, dentro il campo, lungo la sponda del fosso, dieci o dodici tende isolate; in esse i prigionieri coi ferri. Sul ponte una sentinella; un'altra dinanzi a quelle tende; una serie d'altre intorno al campo nei punti d'uscita.

Tal'è il campo.

Cadeva il sole; era una bellissima sera di luglio; il cielo mirabilmente limpido, la campagna ancor umida e fresca d'una pioggia recente, e quel boschetto oscuro, quella bella collina verde, quelle ville, quel paesello ancora dorato da uno sprazzo di sole....; stupendo il luogo, stupenda l'ora.

Pel reggimento era un'ora di riposo, di svago e di festa. Tutti erano in moto. La più parte, in maniche di camicia e in calzoni di tela, girandolavano per tutte le parti del campo, scompagnati, a coppie, a brigatelle; alcuni giacevan seduti o sdraiati in gruppi, o correvano in giro inseguendosi l'un l'altro come gli scolaretti nel cortile del collegio; altri giocavano alle murielle co' sassi; altri tiravano di scherma co' bastoni in mezzo ad un cerchio di spettatori; altri, teso uno spago fra due tende, saltavano a scommessa fra due ali di ammiratori affollati; altri, seduti sulla sponda del fosso, attorno a un cencio di tovagliolo steso sull'erba, divoravano quattro foglie di lattuga fra amici, sbocconcellando un po' di pan bianco [Pg 242] (di quello che mangiano gli ufficiali, capite); altri stavan seduti a cavalcioni delle sbarre dei carri a fumarsela in santa pace; altri, vestiti di certe giubbe di tela cadenti a brani, a cui non restava di bianco altro che il passato, si affaccendavano attorno ai fornelli e alle marmitte spezzando col ginocchio e ammonticchiando rami, stoppie e fuscelli per la cucina; e in ogni parte si levava un gridìo, un frastuono misto d'urli e di canti e, un mormorìo continuo e diffuso.

Quanti bei quadri, chi li sapesse ritrarre con pennello fedele!

Là in fondo al campo, nel mezzo del lato opposto alla via, il vivandiere ha disposto i suoi tre carri a foggia di tre lati d'un trapezio, l'apertura volta verso il campo; ha disteso una tenda rappezzata e lacera fra i due carri laterali, ha rizzato in piè due o tre tavole, e due o tre pancaccie nere e squilibrate; ha posata un'imposta d'armadio sopra le due botti più alte, e n'ha fatto un banco; gli ha messo dietro la botte più larga e v'ha allogata sopra la moglie; ha teso fra due raggi di ruota una cordicella unta e bisunta e ci ha appesi certi così lunghi, neri, crostosi, che vorrebbero dare ad intendere d'essere salami masticabili e ingoiabili senza pericolo di morte; ha messo in vista, per eccitare la ghiottoneria dei soldati, un paio di cestelle degli erbaggi migliori, un gran piatto di polli spennacchiati e macilenti, un gran pezzo di carnaccia cruda, e una filatessa di fiaschi, di bottiglie e bicchieri, e sigari pregni d'olio e fogli di carta da lettera odorati di chi sa che, e poi:—Avanti, ragazzi! Qui si mangia da crepare—Può darsi.

Le panche son tutte ingombre; le tavole coperte di bottiglie e di bicchieri; si gioca alla mora, si canta, si grida, si zufola, si strepita; i bicchieri di tratto in tratto danno un gran tentennio e cozzano l'un contro l'altro, [Pg 243] e il vivandiere si volge:—Che facciamo laggiù?—Comparisce un uffiziale, silenzio profondo; sparisce, daccapo il baccano. Intanto, nel passaggio aperto fra le tavole si forma una calca di due processioni opposte, di chi viene col gamellino a tor del vino, e di chi se ne va col gamellino ricolmo gridando:—Largo!—e bestemmiando e imprecando il malanno a chi non cede il passo e glie ne fa traboccare una stilla. Attorno alla vivandiera s'è già formato un cerchiolino di caporalotti; quello della terza compagnia, fra gli altri, che è così bellino e così sfacciatello; e il marito lo sa, e non tralascia di lanciargli certe occhiate di sotto in su che paiono sassate; e la vivandiera non manca di far gli occhiolini soavi ai suoi prediletti; e il marito vorrebbe protestare; ma gli affari della bottega vanno bene, e -questo si deve anche un po' alle moine di quella briccona.—Chiudiamo un occhio, egli pensa, finchè vengono i quattrini.—Un soldato s'avvicina al banco.—Che cosa vuoi?—Un bicchierino di rum.—Eccolo, paga.—To', e porge un biglietto.—Non cambio io; non ho quattrini.—E io come faccio?—Oh bella, ingegnati.—E il povero soldato se ne riman lì, grullo, confuso, a stropicciare il biglietto colle dita, a sogguardare il bicchierino con un visaccio imbronciato. Poi s'allontana lentamente:—Noi ci pagano colla carta, noi; e dire che la moneta c'è! Ma se la intascano tutta quelli che vanno a cavallo.—

Cinquanta passi più in qua, un altro quadro. È un capitano che radunò una cinquantina di soldati della sua compagnia, quanti gli venne fatto di trovarne là attorno, li ha disposti in circolo, e, dopo detto che il dì vegnente s'avrà da camminar di molto e che il primo che rimarrà a mezza via ei lo farà mettere ai ferri corti, fece recare in mezzo una botticella di vino, e, adocchiato [Pg 244] un de' soldati più lesti:—A te, gli disse, via lo zipolo e mesci.—Tutti gli si fanno addosso tendendo gamellini, borraccie e bicchieri.—Un momento, per Dio; levatevi di lì, fatevi indietro, aspettate.—Tutti si ritraggono indietro. E mentre il soldato s'adopra a sturare la botticella ingegnandosi coll'ugne e colla punta della baionetta, e il capitano sta là curvo colle mani appoggiate sulle ginocchia a sorvegliare l'operazione, tutti gli altri, ritrattisi indietro, smozzicano fra' denti delle risate di gusto, e si stropicciano le mani piegando e stringendo le ginocchia e inarcando la schiena, e si fan l'un l'altro certi segni taciti, certi visi, certe smorfie buffonesche, e si toccano l'un l'altro col gomito accennandosi col capo e con un chiuder di occhi furbesco quell'insolito apparato, e si passano il rovescio della mano sulla bocca come per prepararla a gustare intera la voluttà di quel nettare senz'altro umore profano sul labbro, e si scambiano dei pizzicotti furtivi, e si fregano l'un l'altro spalla contro spalla, e ad un tratto—il capitano s'è vôlto—tutti dritti, fermi, duri, seri, tanto per non parere che van pazzi per due goccie di vino. Il capitano fa cenno che si accostino; essi s'accalcano; lo zipolo è tolto; una grossa vena porporina, gorgogliando, prorompe; dieci gamellini stan sotto a raccoglierla; dopo questi dieci altri, e poi altri dieci, e via così. E giù, in corpo, a ondate.—Tocchiamo? domanda una voce. Tocchiamo! rispondono venti altre. I gamellini si levano al di sopra delle teste, si movono, girano e rigirano, si urtano, il vino trabocca e si sparge sulle teste, sulle faccie, sulle mani e colora giubbe e farsetti, e sgocciola dappertutto; ma che monta? Viva l'allegria, viva il sor capitano! esclama a mezza voce uno dei più arditi già mezzo convinto di aver fatto una corbelleria.—Viva! rispondono gli altri in coro.—Tacete, per Dio! grida [Pg 245] impetuosamente il capitano, non riuscendo però a celare sotto quella collera affettata tutto l'intimo compiacimento;—avete perduta la testa? Scioglietevi!—La brigata si sparpaglia di corsa in tutte le direzioni. Ma altri soldati, che hanno avuto sentore di quel po' di festicciola accorrono. Tardi però; la botticella è vuota, e la borsa del capitano è chiusa. E i nuovi accorsi gironzano là attorno, sogguardano alla sfuggita, fanno, come suol dirsi, gli indiani, e voltano gli occhi in su a contemplare le nuvole, e dan della punta del piede ne' sassolini, e sbadigliano sforzatamente; invano; il capitano non li vede, si allontana; ogni speranza è morta. Dunque, tanto vale far gli allegri; i nuovi venuti tornano là donde partirono, canterellando con quella voce agra e stentata, che pare ci voglia morire a mezza gola, quando abbiamo in cuore la stizza, e la vogliamo e non la possiamo dissimulare.

Ora guardiamo in un altro punto, laggiù, nell'angolo estremo. Lunghesso quel tratto del campo corre un canaletto largo un tre o quattro metri o giù di lì, e in esso un'acquarella fonda un par di palmi, tra due sponde molli e sdrucciolevoli. Sur una di quelle sponde parte giacciono e parte vagano a diporto i soldati della compagnia attendata là presso. All'improvviso da un crocchio d'uffiziali ritti sulla sponda opposta s'alza una voce:—Una lira da guadagnare! Chi salta questo fosso, eccola qua.—E di mezzo al crocchio si leva un braccia con una moneta in mano. Tutti si volgono, e corrono da quella parte. Io—Io—Io—Anch'io—Anche noi—Anche noi altri. Un ufficiale:—Vediamo. Schieratevi là.—E fa cenno colla mano. La folla gli volge le spalle, accorre confusamente a venti passi dalla sponda, si arresta, si volge indietro, si schiera, si dispone in semicerchio, i più animosi al centro, i più poltroni alle ali; tre o quattro del mezzo si disputano coi gomiti la precedenza [Pg 246] del posto, uno finalmente la vince, pianta il piè sinistro innanzi, inclina la persona addietro, misura coll'occhio il terreno, si alza in punta de' piedi a guardare il fosso, pensa, esita, si volge al vicino:—Salta prima tu.—Un uh! di vergogna si alza da tutte le parti.—Il vicino esita anch'esso, due o tre altri si ricusano.—Largo, largo, che salterò io, sclama un nuovo arrivato aprendosi un varco a furia di spintoni e di pugni. Gli si fa largo, viene avanti, si mette in pronto, si dondola avanti e indietro, avanti e indietro, adocchia il fosso, adocchia il terreno.... è partito. Divora lo spazio interposto, e sull'orlo—forza—bravo, è al di là, piantato sul piede destro, col sinistro in aria e le braccia alzate. La lira è sua; via subito a tracannarne un sorso. La gara è accesa; un altro saltatore s'è slanciato; un'altra lira è vinta. Un terzo parte: oh com'è fiacco! Giunge sull'orlo, spicca il salto, ahi! giù, dentro, lungo e disteso; acqua in faccia a tutti. Un urlo prolungato, sgangherato, erompe da tutte le bocche e finisce in una risata dai precordi, accompagnata da un fragoroso batter di mani. Il poveretto è salito a stento sulla sponda, tutto fradicio, tutto stillante, coi capelli sparsi e attaccati a ciocche sulle orecchie e sul viso, coi calzoni raggrinzati sulle gambe, colle braccia penzoloni... Ma gli uffiziali si muovono a pietà.—Un bicchier di vino a questo povero diavolo!—esclama l'un d'essi. E la faccia del povero diavolo si rasserena.

E i crocchi de' cantatori? Oh quanti! Uno qui, uno là, un altro più in giù. Attorno alle tende, sotto gli alberi, a cinque, a dieci, a venti assieme. Questi gorgheggiano una romanza patetica con tanto di muso duro; quegli altri brilli a mezzo, con cert'occhi lustri e certe cere imbambolate, schiamazzano una canzonaccia da baccanale, sollevando con tutt'e due le mani un gamellino ad ogni ripresa di strofa, e cacciandovi la testa dentro [Pg 247] e tracannandone il vinaccio a lunghi sorsi; e poi un agitar di berretti a dimostrazione di gioia, e un battersi reciproco delle palme sul dorso, e un gridare acuto e ringhioso: Evviva la biondaaa! con certi ghigni, con un cerio scimiesco raggrinzar di naso, con certi atteggiamenti di satiri. Intorno ai cori dalle voci più armoniose e concordi, un piccolo circolo di spettatori, e in mezzo a que' cori un direttore che segna la cadenza col dito, e fa vergogna a chi stona, e piglia la sua parte sul serio e fa un viso tutto modesto girando l'occhio intorno all'uditorio che si va ingrossando.

Ma vi son pure i solitari, i malinconici, che vanno lungi da quel baccano, da quella festa, e a cui la musica e le grida, anche udite fiocamente da lontano, fanno tristezza e dispetto. Essi vagano nelle parti deserte del campo, o stan seduti sull'orlo dei fossi, coi piedi a fior d'acqua, turbando con una verghetta di salice le sabbie e i sassolini del fondo; o se ne stanno sdraiati traversalmente dinanzi all'apertura della tenda, colla pipa spenta fra le dita, un gomito appoggiato a terra, la faccia nella palma della mano e lo sguardo estatico su quei bei nuvolotti colorati di fiamma viva dal sole caduto. Corrono cogli occhi la cresta di que' monti e pensano a che ci abbia ad essere al di dietro: pianura; e poi? altri monti; e dietro a questi? un'altra volta piano; e avanti, avanti, per monti, per valli e per piani sconosciuti, immaginando, immaginando, finchè avvertono d'improvviso le note e care vette del proprio paese, e contemplano con un misto di tenerezza e di accoramento quel tramonto di sole che non han più veduto da tanto tempo. Poi, ad un tratto si scuotono, girano gli occhi all'intorno, par che s'accorgano in quel punto per la prima volta dove sono e in mezzo a chi sono, mandano un sospirone, danno una [Pg 248] crollatina di capo come per cacciare quel po' di malinconia che comincia a farsi posto nel cuore, si rizzano in piedi, e via, di corsa, a imbrancarsi cogli altri, a fare il chiasso, che tanto struggersi il cuore per cose che non han rimedio non mette conto.

Ma non tutti quei solitari mutano pensiero; molti dei soldati più giovani, taluni dei più vecchi restan là tutta la sera, a pensare, a pensare, strappando ad uno ad uno i fili d'erba d'intorno. Alcuni, seduti colle gambe incrocicchiate a mo' di turchi, vanno strofinando con un cencio la baionetta, o rammendano i panni, o attendono a qualche altra faccenduola, accompagnando il lavoro con un canterellar lento, monotono, mesto il più delle volte ne' pensieri e nelle note. Altri dan di piglio allo zaino, vi spiegan sopra un foglio di carta con suvvi dipinto un soldatino in atto di partire per la guerra, o un gran core passato d'una gran freccia; si stendono a terra bocconi, e tirano fuori un mozzicone di penna rugginosa, e pigiano e rimestano la spugnetta filosa d'un calamaro risecchito, e, dopo aver guardato più volte la punta di ricontro alla luce e averla premuta più volte sull'ugna e aver passato e ripassato sul foglio la palma della mano e soffiatovi su ritraendo e allungando il collo a più riprese, scarabocchiano di gran paroloni storti e tiran giù di grandi aste serpeggianti, volgendo a volta a volta la faccia in su come per domandar al cielo l'ispirazione di quella tal parola, di quella tal frase che non ricordano più, ma che hanno letta di sicuro, lo giurerebbero, l'hanno letta in un libro stampato, non san più quale. Come i soldati così v'hanno gli uffiziali dall'umor triste e dall'animo repugnante alle gioie chiassose, i quali, o stanno seduti a cavalcioni delle loro cassette, dinanzi alla tenda, con un libro in mano, od errano negli angoli romiti del campo, in mezzo a quei [Pg 249] soldati.—A chi scrivi? domanda un uffiziale, soffermandosi dietro a un soldato che scrive. A casa scrivi?—Sissignore, risponde questi puntando in terra il ginocchio per rizzarsi in piedi.—No, no, sta pure; tira innanzi. È tanto tempo che impari?—Quattro mesi.—Fa' vedere. Non c'è male. Bravo.—E va oltre. Si sofferma dietro a un altro:—E tu a chi scrivi, a tuo padre?—Il soldato accenna di no, sorridendo.—A chi dunque, alla mamma?—Neppure.—A chi?...—Il soldato segue a ridere, piega la testa contro la spalla e con una mano aperta finge di giocherellare attorno al foglio per celarne la prima parola.—...Ho capito, briccone.—E quei due soldati sono contenti; una parola bastò a metterli di buon umore; forse, più tardi, s'imbrancheranno a ballare anch'essi; e costa così poco una parola!

Guardate un po' sulla via, guardate chi giunge. Be', mi direte, un furiere che reca una borsa a tracolla, e con ciò? Aspettate. Aspettate che quell'uomo abbia posto piede nel campo, che qualcuno l'abbia scorto, che sia passata la voce della sua venuta, e vedrete, nel campo, che rimescolamento, che scompiglio, che clamori. Eccolo, egli entra, e si dirige a passi celeri e furtivi, guardando attorno sospettosamente, verso la tenda; cerca di passare inosservato per cacciarsi un momento là sotto a porre un po' di sesto in quel guazzabuglio di carte, chè se no sarà un vero rompitesta a distribuirle. Ma invano. Un soldato lo scorge, si volge ai compagni e dà un grido di gioia: Lettere!—Lettere? si domanda all'intorno accorrendo e cercando cogli occhi qua e là. Dov'è? Dov'è?—È andato per di qua—No, per di lì—Ah, eccolo là.—Tutti si slanciano là. Intanto la novella è volata fino ai limiti estremi dei campo; da tutti i crocchi dei soldati se ne staccano ad un punto due, tre, quattro, e via di corsa, e corri, e corri, su, [Pg 250] su, a chi giunge il primo, a chi carpisce il primo la lettera sperata..... Ma sì! il povero porta-lettere è già circondato, avvolto, pigiato, soffocato da una folla irrequieta e impaziente che agita in alto le braccia e tende le mani, e lo assorda con un ronzìo di voci supplichevoli, insistenti, e fluttuando fluttuando lo trasporta qua e là alla ventura; finchè da quella densa folla di braccia levate colle palme aperte si vanno staccando volta per volta due, tre, quattro mani stringenti convulsamente una lettera sgualcita, e via, sotto la tenda, a leggere in santa pace. E a poco a poco il serra-serra si dirada, la folla si riduce ad un gruppo, qualche testardo deluso resta ancora a insistere con voce lamentosa:—Ma per me, non c'è proprio niente per me? È impossibile; oh Dio mio, guardi meglio; mi faccia questo piacere.—Ma se dico che non c'è niente! Oh in nome del cielo, lasciatemi respirare una volta.—I pochi rimasti si sparpagliano lentamente col mento sul petto e le braccia spenzolate, e il porta-lettere, poveretto, respira, mette un gran soffio, e asciugandosi la fronte colla mano:—Sia lodato il cielo, è finita.

Lungo la sponda dello stradale, dalla parte del campo, una lunga schiera di curiosi, la più parte villani; uomini, donne, fanciulli, accorsi dal villaggio a contemplare quello spettacolo così novo e bizzarro. I fanciulli accosciati giù per la sponda del fosso; i padri e le madri ritti sull'orlo della via; le ragazze già grandicelle un passo più indietro. E gli uni e gli altri ad accennarsi col dito gli svariati episodi di quel gran quadro, e a sghignazzare del gridìo dei cantatori, e a commiserare i prigionieri, e a prorompere in accenti di meraviglia nel veder di que' tali salti, e a compiangere con dei:—Poveretto! si sarà fatto male—i caduti, e a far di gran commenti sulla struttura delle tende e gli scompartimenti [Pg 251] del campo, e a spiegarsi l'un coll'altro la disparità dei gradi argomentando dai galloni dei berretti e dandosi l'un l'altro sulla voce e pigliando la stizza..... Osservate: a tutti i punti della strada dove ci sono due o tre o un gruppo di contadinelle giovani e belloccie, corrisponde, nel campo, proprio sulla sponda opposta del fosso, un insolito spesseggiar di soldati, i quali, come in tutti gli uomini è costume quando sanno d'essere guardati da una donna, si danno e nei gesti, e nel portamento, e nelle parole, e fin nei minimi moti, fin ne' più sfuggevoli cenni, uno studio, una ricercata scioltezza, un non so che di brioso e di spavaldo, un qualche cosa d'insolito, insomma; e quelle contadinotte a ridere e a ridere, e a coprirsi il volto col braccio, o a celarlo l'una dietro le spalle dell'altra, e a sparpagliarsi ridendo, e ridendo raggrupparsi, e a bisbigliarsi misteriose parole nell'orecchio, e qualche volta a farsi delle carezze fra loro pel maledetto gusto, vedete le astute, le civettuole, di fare che altri, in mirarle, si strugga di quelle carezze e se ne roda le dita. In un punto della strada è apparsa una brigatella di signorine, venute dalla villa là accanto, con certe vesticciuole scarse, mi capite, sottili, bianche, rosee, azzurrine, leggerissime, ondeggianti al più tenue alito di auretta, e tanto da costringere di tratto in tratto una manina dispettosa a posarvisi su, e a star là ferma un po' di tempo per tenerle a dovere. Quelle signorine hanno il capo scoperto, e quel po' d'aura che spira agita e scompone i lucidi ricciolini, e costringe a volta a volta un bracciotto bianco a levarsi e un ditino paziente a rimetter l'ordine ne' bei capelli riottosi. E là presso, nel campo, v'è un crocchio di uffiziali che tirano certe saette d'occhiate rasente il suolo!—Oh venisse un soffio di vento.—Eccolo, comincia, cresce, passa, investe una gonnellina bianca, [Pg 252] la solita mano non giunge in tempo a frenarla..... Oh il bel piedino! E quegli uffiziali sanno d'esser guardati, e ne profittano e come! E infatti, vedete, quello là, per dirne uno, il primo, il più vicino al fosso, non terrebbe la sciarpa con quella sprezzata eleganza e non n'avrebbe fatto scorrere l'anello per modo che l'un fiocco gli riuscisse sul fianco e l'altro gli scendesse al ginocchio; quell'altro là non caccierebbe in aria i nuvoli di fumo levando così fieramente in alto la testa e non terrebbe le gambe e le braccia così napoleonicamente atteggiate, e codest'altro non porterebbe così di frequente le mani sulla nuca per accertarsi che quel po' di divisa che il colonnello concede non s'è ancora disfatta.

Intanto s'avanza giù per la strada e s'arresta dinanzi all'entrata del campo una famigliola del villaggio: un papà vecchiotto, arzillo, tarchiatello, grassoccio, una di quelle faccie di una volta, con due vele da bastimento fuor della cravatta e due ciuffoni di capelli bigi sulle tempia e un par di zampe elefantine dentro due scarpe di tela greggia e un randello nodoso sotto un'ascella; un quissimile di segretario comunale che vive in buona pace con tutti, e arcicontento di sè e dello spiccato genio aritmetico che cominciano a spiegare i bimbi alla scuola;—una buona cera di mamma sotto un cappello a forma d'elmo romano;—e tre ragazzi vestiti dei panni migliori, pettinati, unti, lisciati e lustrati, e ancor pieni il capo d'una lezioncella di galateo recitata in fretta dalla mamma nell'atto d'uscir dalla porta di casa. Sono vecchi amici del colonnello. Vedete che fortunato accidente ch'ei sia venuto a piantare il campo là, proprio là, accanto a casa loro! Il papà con un faccione tutto piacevole e con un tentativo di voce soave:—Signor soldato, domanda a una sentinella toccandosi la grande ala del grande cappello,—si potrebbe riverire il signor [Pg 253] cavaliere—colonnello—comandante il reggimento?—La sentinella gli fa segno che passi e gli accenna colla mano la tenda del colonnello. Un barbone di zappatore corre ad annunziargli la visita. La famigliuola si fa innanzi a passo lento, rispettosa, circospetta; il colonnello esce, guarda, si ferma, aggrotta le ciglia come per distinguer meglio, guarda un momento al cielo come per riannodare le sparse reminiscenze di que' volti, li ricorda, li riguarda, li riconosce, e spianando d'un tratto la fronte, e mandando fuori un oh! prolungato di sorpresa e di contentezza, s'avanza colle braccia tese e le palme aperte.... E lì, figuratevi, accoglienze ed inchini e domande e risposte affollate, e passar di palme sotto il mento ai bimbi, che son venuti su a occhiate, proprio, e si son fatti così bellini, e poi:—Eh, signora, esclama il colonnello per avviare un discorso qualunque, l'effettivo delle compagnie è forte, sa! Cento cinquant'uomini l'una, nientemeno; è un piacere. E che bel campo, eh? Lo vogliono vedere? Vogliono fare un giretto?—La famigliuola acconsente e ringrazia; il colonnello, dopo un po' di riflessione, si pone al lato sinistro della signora, il marito al lato destro, i ragazzi avanti; la brigatella si muove. Tutti le fanno largo. Gli uffiziali la salutano. Un bisbiglio sommesso la precede; un bisbiglio sommesso la segue. E il colonnello, da quel rozzo e buon soldatone ch'egli è, costretto all'ingrato ufficio di cavaliere servente, dice alla signora:—Ecco, le vede là? Quelle son le marmitte della terza compagnia; quell'altre della quarta; codest'altre della quinta. Ella mi dirà che sono in cattivo stato, ed è vero; ma che vuole perchè....—E le spiega il perchè. E la signora, in mezzo a quelle due ali di soldati, non sa dissimulare un po' d'imbarazzo, un po' di vergognetta; ma il papà, che sa di aver a fianco un colonnello, si sente maggior [Pg 254] di se stesso, pover'uomo, e gira intorno sui soldati uno sguardo lungo, benigno, ridente, e ripete tratto tratto in accento di compiacenza e di ammirazione: Oh che bella gioventù!—Uno dei ragazzi si accosta alla mamma, e appuntando il ditino verso il colonnello le chiede:—Ma chi è quel soldato là?—Taci, ella risponde sommessamente, è quello che comanda a tutti i soldati che son qui.—E se volesse, ripete il bimbo, potrebbe far tagliare la testa a tutti?

La musica! la musica! si grida all'improvviso in ogni parte del campo. Di fatti i musicanti sono usciti ad uno ad uno fuor delle tende, si son radunati, si son mossi verso il mezzo del campo, si sono schierati in circolo e stanno aspettando un cenno del capo-banda tenendo fra le dita gli strumenti in atto di recarli alla bocca. In meno che non si dice, s'è affollata attorno a loro una moltitudine immensa, mezzo il reggimento; s'è levato uno strepito assordante, alte grida di gioia, e scoppi di battimani e canti e fischi; i ballerini più furiosi fendono la calca a pugni e a spintoni, si cercano, si chiamano ad alte grida, si slanciano l'un contro l'altro e, puntando le palme nei petti, dando dei fianchi nelle pancie, e dei piedi sulle punte dei piedi, riescono ad aprire un circolo; le coppie si preparano, i ballerini afferrano colla destra una manata di camicia nella schiena alle danzatrici (magari che le fossero), incrocicchiano le dita della mano manca colle dita della loro destra, mettono innanzi il piè sinistro, piegan le ginocchia, volgono la faccia al capo-musica:—Sicchè, soniamo sì o no?—Le coppie s'impazientano, pestano i piedi, stringono i pugni, si scontorcono, sbuffano, strillano; il capo-musica fa un cenno col dito, gli strumenti si attaccano alle bocche, le lingue si protendono e danno una leccatina alle labbra, di sotto e di sopra;—un altro cenno—e, si suona.

[Pg 255]

Le coppie sono in moto, girano, rigirano, si rasentano, s'incontrano, si urtano, si sbalzano a destra, a sinistra, avanti, indietro, le schiene contro le schiene, i fianchi contro i fianchi, le calcagna sui calli, via, alla cieca, alla pazza, ove si va si va, ove si cade si cade, ci ha da esser posto per tutti, se non c'è si fa, a urtoni, a pedate, e spingi, e pigia, e barcolla, e strilla, e sghignazza; in un minuto l'erba del suolo è sparita sotto i passi pesanti, il terreno si è smosso, le coppie si sono scambiate, confuse, o rotte, o aggruppate; altre caddero bocconi a terra, e i danzatori vi passarono su, o v'inciamparono e precipitarono anch'essi; altre furono sbalzate in mezzo alla folla circostante; ma, in mezzo a quel guazzabuglio, il lombardo continua a danzare imperturbato con quel suo molleggiamento di fianchi, con quei suoi contorcimenti di capo e di spalle e quelli incrociamenti di gambe e quel piegar improvviso di ginocchia come fosse in punto di cadere e improvviso rizzarsi come per iscatto di molla; e il piemontese tira innanzi impassibile, rigido, grave, e piglia la cosa sul serio, e ci si scalda, e ci si mette d'impegno, e fa pompa anch'esso delle sue grazie robuste; e i calabresi, due a due, l'uno di faccia all'altro, col collo torto, le braccia aperte, e la faccia atteggiata a certe smorfie grottesche, ringalluzziti, ricurvi, seguitano a raspar la terra rapidamente, rapidamente.....

Che è? Che avvenne?

Nel campo s'è fatto un silenzio improvviso, profondo; tutte le faccie si son volte da una parte; chi giaceva a terra s'è alzato; chi era ai limiti estremi del campo è accorso verso il mezzo; sotto la baracca del vivandiere, gli avventori si son rizzati in piedi sulle tavole e sui banchi; altri sono saliti sui carri; tutti sono usciti dalla tenda.—Che è? Che avvenne?

[Pg 256]

Guardate sulla via. Avvolto in un nuvolo di polvere s'avanza, al galoppo, un cavaliere. È presso all'entrata; entra; si dirige verso la tenda del colonnello; s'arresta. Il colonnello esce; il cavaliere saluta, porge un foglio, volge la groppa e via di carriera.

Tutti stanno cogli occhi rivolti là, attoniti, muti; si direbbe che i respiri sono sospesi; il campo rende l'immagine d'una di quelle piazze gremite di popolo intorno a un foco d'artificio quando un bagliore improvviso di bengala illumina una superficie immensa di facce cogli occhi spalancati e le bocche aperte.

Il colonnello chiude il foglio, si volge al trombettiere, fa un cenno....

Prima ancora che eccheggi lo squillo, un prolungato, universale, altissimo grido, come uno scoppio fragoroso di tuono, si eleva al cielo da ogni parte del campo; tutta quella moltitudine sparsa si rimescola in tutti i sensi con una rapidità vertiginosa; le panche e le tavole del vivandiere, in un attimo, son deserte; il pover uomo si caccia le mani nei capelli; presto, giù la tenda, fuori le casse, dentro a furia piatti, cavoli salami, bottiglie, panni, polli, sigari, alla rinfusa, non monta; ma presto, il tempo incalza, un altro squillo di tromba è imminente; gli uffiziali girano pel campo di corsa chiamando ad alta voce le ordinanze che giungono affannate e trafelanti. Svelti, mano alle cassette; giù dentro la roba; gli stivali sulle camicie, i pettini nella tunica, non importa, pur di far presto. La cassetta non si può chiudere; giù il ginocchio sul coperchio,—forza—forza—ancora, auf! è chiusa. Presto ad arrotolare il pastrano; qua la tunica, la sciabola, la borsa; presto; siamo in ordine, meno male.—E i soldati attorno alle tende, a scioglier coll'ugne i nodi delle cordicelle, ad arrotolar le coperte e le tele, a riempir gli zaini a furia, ad [Pg 257] abbottonar le ghette con quelle maledette dita convulse che non trovano gli occhielli, a tastar bocconi la paglia in cerca della catenella, della nappina, della baionetta, col viso rosso, colla fronte stillante di sudore, col respiro affannoso, colla febbre addosso dalla paura del secondo squillo di tromba, colla voce del sergente alle spalle che minaccia la prigione a chi tarda, con dinanzi lo spauracchio del capitano che pesta i piedi, che strilla, che strepita: presto, presto, presto! Un altro squillo di tromba. In rango! urlano cento voci concitate da tutte le parti. Tutti accorrono così come si trovano, col cheppì sul cocuzzolo, col cappotto sbottonato, col cinturino in mano, collo zaino penzoloni sur una spalla; a posto, presto, in ordine, allineati a destra; le compagnie si schierano tumultuariamente, si rompono e si allargano ad ogni nuovo sopraggiunger di soldati, poi si ristringono, fanno pancia avanti e indietro, serpeggiano dall'un capo all'altro, si scompigliano, si riordinano con rapida vicenda... Un altro squillo di tromba. Il reggimento parte. La prima compagnia è fuor del campo,—la seconda—la terza.... il campo è vuoto.

Ecco la vita del campo; dura talvolta e disagiosa; ma sempre bella, sempre cara. Chi v'ha che l'abbia fatta e non l'ami, e non la ricordi con diletto, e non la desideri con entusiasmo?


[Pg 258]

IL MUTILATO.


Di sera, a una cert'ora, l'aspetto della campagna mette nell'anima una malinconia vaga, che somiglia un po' a quello stringimento di cuore da cui son presi i fanciulli, quando, scappati da casa a girovagar pei campi, di sentiero in sentiero, di podere in podere, vanno avanti, avanti, avanti, fin che s'accorgono tutt'ad un tratto di essere soli; guardano intorno, è un luogo oscuro e sinistro; guardano indietro, hanno perduta la traccia del cammino; alzano gli occhi al cielo, il sole è scomparso; la mamma, povera donna, aspetta: oh Dio, che cosa ho fatto! esclamano, e restan lì come trasognati, con un groppo di pianto nella gola e il cuore tutto in sussulto. Di questa natura è la malinconia che ci entra a poco a poco nell'anima, in campagna, quando il sole è già caduto da un po' di tempo, e le cose si vanno facendo tutte d'un colore, e lungo le creste dei monti non appar più che una sottile striscia di cielo color d'oro pallido, al di sopra della quale cominciano a spesseggiare le stelle. È un'ora trista. E più la fan trista quel monotono gracidar dei ranocchi e quel lontano abbaiar di cani che rompe tratto tratto il silenzio alto e solenne della campagna. Chi, in quell'ora, cammini per una viuzza solitaria alla volta della città, e ne sia lontano ancora, e non iscorga intorno a sè anima viva, e non oda altro rumore [Pg 259] che quel dei suoi passi, quell'abbaiar di cani gli comincia a dar noia, gli comincia a riuscire increscioso; non è già ch'ei n'abbia paura; ma, che so io? ne farebbe di meno, via. Passando dinanzi alle porte degli orti e dei giardini egli va in punta di piedi per non destare il cagnaccio accovacciato là dietro, tien sospeso il respiro, l'orecchio teso; è già quasi oltre la porta, è già quasi al sicuro, quando gli scoppia alle spalle un maledetto latrato che lo rimescola tutto; ed ei tira via senza volgersi indietro; ma gli par di vederlo il rabbioso bestione col muso allo spiraglio delle imposte e gli occhi arrovellati: ih! poterlo sventrare! E va oltre; ma nel mezzo della strada, chè non gli cale del polverio, pur di non passare troppo accosto alle siepi; non ci si vede dentro; potrebb'esservi qualcuno appiattato; non sarebbe la prima volta. S'ei si sente alle spalle un rumor di passi o la voce di due viandanti che discorrono tra loro, non si volta mica indietro a guardar chi sono come se n'avesse sospetto o paura, chè sarebbe parere un dappoco; ma tira innanzi cogli orecchi all'erta e, fingendo di guardar nei campi da un lato della via, te li esplora colla coda dell'occhio. E se spingendo lo sguardo dinanzi a sè vede apparir lontano e venir lentamente verso di lui due uomini a cavallo, avviluppati in un ampio mantello nero e coperti il capo d'un cappello a due punte, il cuore gli si riconforta, affretta il passo, e giunto di fronte a quei due inattesi amici, cede loro tutta la via ritraendosi sur una delle prode, e guardandoli con un'espressione di ossequio amorevole e accogliendo con un cotal sentimento di compiacenza il lungo e severo sguardo indagatore che ne riceve. Quando finalmente arriva a quelle benedette porte della città e scorge i primi lampioni della prima via:—Sia lodato il cielo!—esclama spolverandosi le scarpe col fazzoletto;—ci siamo.

[Pg 260]

In quell'ora, chi passa dinanzi alla porta d'un cimitero non vi si arresta, comunque non gli attraversino la mente le fantastiche paure del volgo e dei fanciulli; tira diritto, non getta nemmeno uno sguardo al cancello, volta la faccia dalla parte opposta. Passando dinanzi alle cappelle solitarie della campagna, i fanciulli son quasi impauriti dal rumore del proprio passo che, entrando per le aperte finestre, echeggia sotto la volta oscura. In quell'ora, e fin che in occidente si vede un barlume di luce, le famiglie dei villeggianti stanno sulle terrazze, appoggiate al parapetto, a contemplare tacitamente quel mesto spettacolo che è il calar della notte sulla campagna; i ragazzi si accennano l'un l'altro col dito i lumicini che spuntano man mano nei casolari campestri, o chieggono al babbo i nomi delle stelle, e se ci sia dentro della gente come noi; le fanciulle, sedute in disparte, con un braccio sulla spalliera della seggiola e la testa reclinata sul braccio, figgono l'occhio senza sguardo sui monti lontani, e pensano. Ma non pensano a quei monti; in quei momenti il loro pensiero si ritrae infastidito da quella solitudine e da quel silenzio severo; in quei momenti, sebbene elle siano in mezzo alla famiglia, si senton sole, abbandonate; sentono che un qualche gran bene lor manca, sentono che nel loro cuore v'ha un grande vuoto, che la vita esse non la vivono intera; e la loro fantasia corre irresistibilmente alla città, s'interna nel tumulto amabile dei balli, cerca e ritrova dei cari aspetti già da lungo tempo dimenticati, gode nel ravvivarne la immagine, nel farsela presente là, al proprio fianco, a partecipare con loro di quella melanconia soave; e contano il tempo che dovranno ancor passare alla villa, e precorrono colla mente quel tempo, e pregustano la gioia del ritorno e del primo rivedere quei vaghi [Pg 261] aspetti, e si destano poi da quelle gentili e meste fantasie come da un sogno.

Oh! quell'ora della sera, in campagna, è un'ora mesta. Anche se vi trovaste al fianco della donna che amate, nel colmo della vostra felicità, non vi passerebbero per la mente che delle meste immagini, non vi sonerebbero sul labbro che delle meste parole.

Appunto in quell'ora, la sera di uno dei primi giorni di maggio del milleottocento sessantasei, in una viuzza deserta che correva a traverso la china d'un colle, accanto a uno di que' tabernacoli campestri dov'è dipinta l'immagine della madonna sullo sfondo d'una nicchia, stavano parlando sommessamente fra loro una giovinetta e un soldato; quella seduta sur una grossa pietra addossata a uno spigolo del tabernacolo, coi gomiti appuntellati sulle ginocchia e il mento sulle palme; questi ritto accanto a lei, appoggiato con una spalla al muro e le braccia incrocicchiate sul petto. Aveva in capo il berretto, come usano chiamarlo i militari, da fatica; aveva indosso il cappotto, e ai piedi lo zaino, e su questo un involto. La giovinetta aveva nell'atteggiamento un non so che di abbandonato e di stanco, e tenea gli occhi immobili a terra; un lumicino che ardeva dinanzi all'immagine di Maria le gettava un chiarore velato sul volto mezzo nascoso fra le mani, e lasciava scorgere intorno ai suoi occhi l'impronta d'un lungo pianto. Il soldato, senza cinturino e senz'armi, aveva l'aspetto di un soldato in congedo, ed era tale difatti, e apparteneva ad una delle classi che erano state richiamate alle armi il giorno ventottesimo di aprile, e il settimo giorno dopo la pubblicazione dell'ordine regio si dovevano presentare ai comandanti militari dei circondari. Quel soldato si doveva trovare l'indomani nella vicina città, la quale distava una diecina di miglia, o giù di lì, da quel luogo.

[Pg 262]

A giudicare dall'atteggiamento suo e della giovinetta, e dai lunghi silenzi che frapponevano alle poche e sommesse parole, pareva ch'essi da lungo tempo fossero là. Sulla via, nè presso a loro nè lontano, non c'era anima viva, e vi regnava un silenzio profondo. Solamente, di minuto in minuto, s'udiva un suono confuso di voci lontane, che veniva da una casa posta ai piè della china, dove appariva e spariva a vicenda qualche lumicino; erano contadini di ritorno dai campi, che, riponendo gli arnesi e spingendo i buoi nelle stalle, parlavano forte fra loro da una parte all'altra dell'aia. Ad un tratto il soldato si staccò dal muro, e, presa per ambe le mani la giovinetta che si levò subito in piedi, le disse con quell'accento di timida pietà che si suol dare alle parole annunziando a una persona cara alcun che di doloroso:—È tardi, sai, Gigia. È ora ch'io vada. Domattina bisogna ch'io mi trovi in città per tempo, e la via è lunga.

Ciò detto, si tacque e guardò nel volto la poveretta. Ella, senza far motto, gli si fece vicina, gli posò tutt'e due le mani sopra una spalla, e vi lasciò cader sopra la fronte, e singhiozzò.—Coraggio, Gigia. Fatti coraggio. Due schioppettate e si torna.

—Si torna!—diss'ella sollevando lentamente la testa e lasciandola tosto ricadere.—Chi lo sa!—soggiunse poi con voce di pianto soffocata fra le mani.

Seguì un minuto di silenzio, dopo di che il soldato ripigliò:—Dunque.... a rivederci, Gigia.—Le posò le mani sulle tempie, le sollevò la testa, la baciò sulla fronte, si chinò, prese lo zaino, se lo mise sulla schiena passando un braccio al di sopra del capo, affibbiò le cigne, si chinò un'altra volta per prendere l'involto e, porgendo la mano alla fanciulla, fece atto di partire. Essa che in quel frattempo s'era coperto il viso colla cocca del grembiale [Pg 263] e stava immobile in quell'atto come stordita dal dolore, si scosse improvvisamente e afferrando con tutt'e due le mani quella del soldato:—Scriverai!—gli disse con voce ferma e risoluta, volendo così indugiare di qualche momento la sua partenza.—Scriverai tutti i giorni!

—Proprio tutti i giorni, no, mia cara,—rispose con accento soave il soldato.

—E perchè no?—essa domandò sollecitamente in suono di rimprovero.

—E quando si marcia tutto il giorno?

—Già!....—rispose la fanciulla a mezza voce chinando la testa. Ma almeno,—ripigliò poi rianimandosi all'improvviso,—almeno tutti i giorni che farete una battaglia mi scriverai che stai bene?....

Egli che, altre volte, avrebbe sorriso della cara ingenuità di quella domanda, in quel momento se ne sentì venire al cuore una compassione, una tenerezza, uno struggimento così forte e repentino, che ne fu come sopraffatto, e capì ch'era necessario d'andarsene, senz'altre parole, senz'altri indugi, al momento. L'abbracciò, la baciò, e via di corsa.—Oh! senti,—gridò con voce disperatamente supplichevole la poveretta correndogli dietro per alcuni passi colle braccia tese:—ancora una parola!—Egli non si volse; essa si fermò, si coperse la faccia colle mani, stette un momento immobile in mezzo alla via, poi tornò indietro e si lasciò cader ginocchioni davanti al tabernacolo lagrimando dirotto e singhiozzando lamentosamente come i bambini.

Il soldato seguitava a camminar frettoloso senza rivolgersi indietro. Giunto ad un punto dove la via si partiva in due, si arrestò; dopo un istante di trepida esitazione si volse, guardò al tabernacolo, la vide; essa in quel punto sollevò la testa, guardò verso di lui, le [Pg 264] parve di scorgerlo, si alzò in piedi: egli disparve. Aveva imboccato quel ramo della strada che, scendendo rapidamente nella valle, menava alla città.

Raggiunse il suo reggimento sul cominciare di maggio, e d'allora in poi scrisse quasi ogni giorno una lettera a casa, e ne ricevette una quasi ogni giorno, o di sua madre, o di suo padre, o della sua sposa promessa; tutte scritte però dalla mano di quest'ultima, chè nessuno della sua famiglia era in caso di scrivere da farsi capire; solamente il babbo sapeva un po' d'abbaco pel suo consumo.

Fu alla battaglia del ventiquattro giugno. Dopo quel giorno trascorsero due settimane senza che i suoi ricevessero nemmeno un rigo da lui. Figuratevi le ansietà, i batticuori, il non sapersi dar pace di quella povera gente. Ma un bel giorno, come Dio volle, una lettera venne. Fu una festa. L'apersero colle mani tremanti.... Ah! non era scritta di suo pugno: impallidirono. Ma lettala, si rifecero un po' dal primo spavento, poichè egli scriveva d'una lieve ferita toccata in una mano il giorno della battaglia, una ferita lievissima, di cui tra pochi giorni sarebbe sparita ogni traccia; e che si sarebbe già levato da letto se non era la febbre venutagli addosso a cagione di quel po' di sangue perduto; stessero di buon animo che la era cosa da non darsene pensiero; solamente lo scusassero del non iscriver egli le lettere di suo pugno, la mano ferita essendo la destra, e dolendogliene le dita tuttavia; poco però, pochissimo, quasi niente. La famiglia a poco a poco si tranquillò. Dopo una settimana da quel giorno ricevettero una prima lettera coi suoi caratteri, seppero ch'egli era ritornato al suo reggimento, e di quella piccola sventura non fecero più parola se non per dire che a quel poveretto gliene potrebbe ancora incogliere di assai peggiori, e che [Pg 265] si doveva ringraziare il cielo che la fosse andata a quel modo.

Povera gente! Se la fosse andata a quel modo, avrebbero proprio dovuto ringraziarne il cielo; ma non sapevano la verità. Il povero soldato era stato colpito da una palla di fucile nella gamba, presso il ginocchio, a un cento di passi dal nemico; la palla gli aveva spezzato le due ossa, la tibia e la fibola; trasportato all'ospedale, gli era stata recisa la coscia a quattro dita dal ginocchio.

Dopo una quarantina di giorni, gli diedero una gamba di legno, un par di stampelle, un foglio di via, e, apertegli le porte dello spedale:—Va, gli dissero, torna a casa, povero giovane, che la tua parte l'hai fatta.

Prima di partire alla volta di casa sua, scrisse alla madre per avvertirla della partenza, e del giorno e dell'ora in cui sarebbe arrivato a casa; scritte le quali cose, si risolvè, si sforzò, ma non gli bastò l'animo a svelarle la sua sventura; dieci e dieci volte gettò sulla carta la prima parola e vi die' di frego subitamente, quasi atterrito ch'essa gli fosse caduta dalla penna. Ma non era per anco partita la lettera, che gli si affacciarono per la prima volta alla mente tutte le conseguenze possibili, certe anzi, inevitabili e tremendamente dolorose di quel suo inganno troppo pietoso; si dolse amaramente d'aver sempre taciuto quella sua sventura; si meravigliò di non aver pensato mai per l'addietro a quanto dal suo tacere sarebbe seguìto di più tristo e di più desolante nella sua famiglia che non dal dire coraggiosamente tutta la verità; e internandosi, come non l'aveva mai fatto, nell'immaginazione di ciò che sarebbe accaduto in casa sua al suo primo apparire in quello stato, e presentendo il cuore e raffigurandosi la disperazione dei genitori a quella vista così inaspettata e terribile, e pensando [Pg 266] alla fidanzata e agli amici, si cacciò le mani nei capelli in atto di desolazione disperata, e pianse.

Ma era tardi.

Giunse nella città vicina a casa sua la sera prima del giorno in cui, giusta la lettera, sarebbe arrivato tra i suoi. Dormì in un'osteria. L'indomani per tempo, aiutato dall'oste, salì sul baroccio di un mugnaio che aveva da passare per quella tal via della collina; posò le gruccie da un lato, si adagiò sopra due sacca di farina, il mugnaio die' una voce al cavallo, il carro partì.

Correndo la via per parecchie miglia in fondo alla valle, il carro non cominciò a salire su per la collina che alcune ore dopo ch'era partito. In quell'ore, il nostro poveretto che non aveva potuto chiuder occhio la notte, oppresso com'era stato da una rapida e torbida seguenza di pensieri, d'immaginazioni e di presentimenti dolorosi, in quell'ore era caduto in una specie d'assopimento, conciliato dalla monotonia della strada e dalla lentezza dell'andare, e non interrotto che a quando a quando dai sobbalzi del carro sulle ineguaglianze del terreno. Ma quando, sentendosi tutt'ad un tratto ferir gli occhi da una luce più viva e alitare nel volto un'aria più acuta, s'accorse che il carro era uscito di mezzo agli alberi e cominciava a salire, allora si destò di soprassalto, intravide quella collina, quella via, quelle case, richiuse gli occhi all'istante, torse la testa all'indietro come preso da un subito spavento e si gettò bocconi sulle sacca colla faccia tra le mani. Il cuore gli faceva un gran battere; il sangue gli si rimescolava violentissimamente; il cervello gli si era ad un tratto stordito come per un gran colpo sul capo. E restò lungamente in quella positura.

Se ne tolse poi a poco a poco, alzando prima la testa, appuntellando le mani sulle sacca per rizzarsi a sedere, [Pg 267] rizzandosi poi, sempre colle spalle volte alla collina, e storcendo finalmente il capo verso quella parte, senza sollevare lo sguardo. Di lì a un poco cominciò a guardare il cavallo, poi a spinger gli occhi un po' più oltre, sulla via, a destra, a sinistra, innanzi: ah! eccole quelle benedette case. E il cuore gli die' un balzo improvviso come s'ei fosse capitato là per accidente e quelle case gli fossero apparse davanti all'impensata. Esse erano ancora molto lontane, non apparivano ancora distintamente, rendevano appena l'immagine d'una macchia biancastra mezzo nascosta fra gli alberi; eppure gli pareva che fossero vicine, molto vicine; gli pareva che indi a pochi minuti ei vi sarebbe arrivato, e i genitori e i congiunti e gli amici sarebbero accorsi attorno al carro, ed egli avrebbe dovuto discendere, e come! come discendere, Dio mio! E se le immaginava, e gli sembrava di vederle tutte quelle care persone che a quell'ora dovevano certamente essere radunate in crocchio sulla via, dinanzi alla porta di casa, o sparse per l'aia, ad aspettarlo! Gli sembrava di sentirsene venir all'orecchio fioche fioche le voci festose, e fra quelle voci di distinguerne una più caramente soave, e il cuore gli si stringeva, e avrebbe voluto che quelle case fossero ancora lontane, tanto lontane da non iscorgerle ancora; e invece erano lì, proprio lì, e pareva s'avvicinassero a lui molto più rapidamente ch'ei non si avvicinasse ad esse, e chinava la testa e chiudeva gli occhi per non vedere. Ma gli era un tormento peggiore perchè schiudendo, per un istante, le ciglia e risollevando lo sguardo, gli parea d'aver fatto, in quel frattempo, un grande cammino, un cammino a cento doppi maggiore di quel che aveva fatto in realtà. Allora pensò di volger le spalle al cavallo, e, girando adagio adagio la gamba monca, si volse. Ma non gli venne fatto di star lungo tempo così, chè ad ogni minuto [Pg 268] si sentiva irresistibilmente sforzato a torcer la testa all'indietro, con grave incomodo di tutta la persona. Riprese la posizione di prima. E, gettando gli occhi a destra e a sinistra della via, scorse, poco lontano, una gran quercia col tronco spaccato nel mezzo, e i rami folti e frondosi, sotto la quale v'era un'assicella sorretta da due pietre a uso di sedile; fissò lo sguardo su quel sedile, si toccò con una mano la fronte come per accennare a se stesso il sorgere improvviso d'un ricordo; gli occhi gli sfavillarono, le gote gli si colorarono di fiamma, giunse violentemente le mani incrocicchiando le dita, e, sempre tenendo lo sguardo immobile là, andava abbassando e sollevando continuamente la testa, come per dire di sì a tutte le ricordanze che gli si andavano risvegliando, l'una chiamata dall'altra: di sì, di sì, che gli era proprio quello il sito dov'egli era venuto una sera, con lei, malgrado l'ammonimento della madre: Non v'allontanate di troppo! Ed ella non ci voleva venire, chè gli era un dilungarsi sconvenientemente da casa, e poi a quell'ora, a sera avanzata, sola con lui! Ma, Dio buono, ei l'aveva tanto pregata, e il cielo era così limpido, e l'aria così tepida, e tutta la campagna così odorosa, che le era stato forza cedere e venire, ed era venuta. E s'eran seduti là, su quell'assicella, e s'erano scambiate poche parole; ma rapide, accese, tremanti; ed egli aveva cercato la mano di lei, che, impaurita dal pensiero del trovarsi sola con quegli che amava, aveva stretto il pugno e lo ritraeva con gentile violenza, ed egli aveva dovuto vincerne le dita uno per uno, e mentre riusciva a stendere il secondo, si ripiegava il primo, finchè la manina indolenzita si schiuse, e fu sua... Rapito nella ricordanza di quella sera beata, il povero mutilato, per un'allucinazione in cui ci fa cadere frequentemente [Pg 269] la fantasia alla vista d'un luogo a cui siamo legati per un caro ricordo, il povero mutilato rivisse in quella sera, dimenticò il tempo che era trascorso fra quella sera e quel giorno, dimenticò tutto ciò che era accaduto in quel tempo, la guerra, la ferita, la gamba recisa; il pensiero che di lì a poco avrebbe riveduto quella fanciulla gli si affacciò alla mente solo, staccato da quei tanti altri pensieri dolorosi che solea trarsi dietro; il sentimento d'una felicità sovrumana gl'invase l'anima, gliela inebriò, gliela oppresse; mosso da un impulso irresistibile del cuore, fece uno sforzo per rizzarsi in piedi senza l'aiuto delle braccia, e lo fe' sì violento, che i nervi estremi della gamba monca, premuti forte contro il legno, ne furono offesi e gli trasmisero alle reni un senso di dolore tremendo, che gli strappò un grido dal labbro e, rigettandolo duramente dalla cara illusione nel sentimento della triste realtà, lo fece cadere bocconi sulle sacca del carro, colle mani nei capelli, mormorando in accento singhiozzoso e desolato:—Oh! in questo stato non mi vorrà più! non mi vorrà più!—

Il mugnaio, che andava a piedi dinanzi al carro, si volse e gli chiese:—Vi sentite male?—Il soldato rispose seccamente di no; egli non aggiunse parola. Il poveretto stette immobile a quel modo per un lungo tratto della via, e fu meglio per lui, poichè se avesse girato lo sguardo sulla campagna, ad ogni passo gli si sarebbe svegliata una rimembranza nuova, e con essa un nuovo dolore.

Intanto, a casa sua, egli era atteso dai parenti, dai congiunti, dagli amici, i quali, avvertiti il giorno innanzi di quel caro ed insperato arrivo, erano convenuti gaiamente alla sua casa paterna per fargli un po' di festa e un po' di onore.

[Pg 270]

Al primo rischiararsi del cielo, i due vecchi genitori s'eran levati e vestiti con quella lieta pressa dei fanciulli che si apprestano a una bella passeggiata in campagna; e s'eran messi a girar per la casa a passi frettolosi, spalancando porte e finestre, battendo forte le mani al capezzale dei dormienti, e vociando: animo, giù dal letto, ragazzi. I dormienti, destati così all'improvviso, spalancavano gli occhi e la bocca e giravano intorno uno sguardo pieno di sonno e facevano quella cera imbroncita e stizzosa di chi è sturbato nella pigrizia; ma, non appena riavutisi dal sonno, ed afferrata col pensiero la ragione di quell'improvviso gridìo, s'animavano tosto di una grande letizia, mescolavano allegramente le loro voci a quelle dei parenti, balzavano anch'essi dal letto, si vestivano in furia, e via per la casa, e per l'aia, per la via, e per gli orti, a sbrigare con inconsueta sollecitudine le usate faccende, sorridendosi l'un l'altro ad ogni incontro e facendosi dei cenni faceti da lontano e incitandosi a vicenda colla voce a far presto. Poco dopo giungeva ansando la giovinetta, la sposa promessa, la quale stava di casa là presso; giungeva di corsa, accompagnata da due amiche, vestita a festa, con un mazzolino di fiori nei capelli, tutta rossa nel viso; incontrò subito la madre, sorrise, arrossì, le si gettò nelle braccia, e poi scioltasene di repente e fattosi due e tre volte schermo col gomito da chi volea guardarla nel viso per dirle una cortesia, si pose in giro anch'essa per quella casa, che era come sua; e tutte assieme cominciarono ad assestare e spolverare arredi e masserizie, a lavorar di granata in ogni angolo più riposto, a rimuovere letti dalle pareti, a smuovere sacconi, a bilicar cavalletti, a scuotere fuor delle finestre lenzuola e coperte, a trar dagli armadi certi candelieri d'ottone tenuti in serbo per le grandi [Pg 271] occasioni, e sulle rastrelliere, e nelle inferriate delle finestre, e attorno ai quadretti, e al di sopra delle porte, a disporre e a legar frasche e mazzetti di fiori campestri. Così che al primo apparir del sole, quella casa era netta, nitida e odorosa come un giardino; l'aia liscia e pulita come una lastra di marmo; non una foglia o un fuscello, chi lo avesse cercato un'ora.—E non si poteva far di meno, via, per ricevere come si deve un soldato che torna dalla guerra, e torna ferito!—Così, poichè ebbero finito di lavorare, diceva la buona vecchia all'altre donne, passando di stanza in stanza, ed indicando loro con compiacenza il bell'ordine e la nettezza di tutte le cose.—Sicuro!—risposero l'altre.

E uscirono sull'aia. La madre restò; chiamò per nome la fanciulla, che accorse tosto salterellando; la prese per una mano, la condusse nella sua stanza, e quivi, sospingendola dolcemente dinanzi a uno specchietto:—guardati,—le disse,—ti si è sciupata la divisa.—Dio mio!—esclamò la giovinetta facendo un viso tutto crucciato,—o come mai?—Spenzolano frasche da tutte le parti,—rispose la vecchia,—e tu corri di qua e di là come una pazzerella senza badare a chinar la testa.... Siediti.—E la giovinetta sedette, e la mamma le si fece dietro, e le sciolse le trecce, e le ravviò i capelli, e poi stringendoglieli tutti con una mano per tenerli ben tesi e potervi segnare coll'altra la dirizzatura, le faceva scherzosamente chinar la testa all'indietro abbassando il pugno a grado a grado, e le serrava fra il pollice e l'indice il mento o stuzzicavale con un dito la fontanella della gola, per cui ella si scontorcea sulla seggiola con quel riso convulso dei ragazzi solleticati. Le rifece le trecce, vi riappuntò le forcine, le fe' scorrere due o tre volte sui capelli le mani aperte e tese perchè riuscissero ben lisci e lucidi, e poi, [Pg 272] posatele le mani sulle spalle e guardatala in volto, le die' un bacio e si allontanò dicendole:—Andiamo.—La fanciulla si alzò e la seguì tenendo la faccia rivolta verso lo specchio fin ch'entrò nella stanza vicina. Quivi, lasciata uscir la madre, sollevò leggermente un piede da terra, e, fatto perno del calcagno dell'altro, die' un doppio giro intorno a se stessa, e si accoccolò d'un tratto volgendo indietro la testa a rimirar con vezzosa curiosità le gonnelle gonfiate dal vento che parevano una veste co' cerchi. Subito dopo accorse anch'essa sull'aia.

Tutti gli altri, parte sparpagliati sull'aia, parte sur un tratto della via dinanzi alla casa, erano in continuo moto da quella a questa, da questa a quella, come se scottassero i piedi a restar fermi un momento. E in quel continuo girare, non si dava mai il caso di due persone, le quali, incontrandosi e guardandosi, non si scambiassero una lieta parola o un sorriso, però che lo sguardo dell'una rammentava all'altra la gioia comune, e glie ne rinfrescava, per così dire, il sentimento. Il fratello della fidanzata, passandole accanto, o le dava un gagliardo pizzicotto nel braccio pel maledetto gusto di strapparle un guaìto, o, sorpresala alle spalle, le afferrava ambo i gomiti e li forzava l'un verso l'altro in atto di voler ch'e' si toccassero, e quel: va via sgarbato! che gli toccava poi in castigo, accompagnato dalla minaccia d'un ceffoncino che non veniva mai, gli dava un gusto matto. Le amiche la traevano a volta a volta in disparte, e si aggruppavano intorno a lei per susurrarle nell'orecchio non so che parole, a cui soleva seguire uno scoppio di risa e un rompersi repentino del crocchio e uno sparpagliarsi di corsa. Di quando in quando il vecchio babbo, fermandosele dinanzi e facendo un visaccio serio serio, le diceva:—Non viene.—Come? perchè? chi ve l'ha detto? essa domandava concitatamente, [Pg 273] tramutandosi in volto.—Mah!... me l'immagino—rispondeva sorridendo il vecchio.—Ah! esclamava essa mandando un sospiro e rasserenandosi ad un tratto—avete scherzato. Voleva ben dire, io! Oh stiamo a vedere perchè non avrebbe dovuto venire!

E poi volgendosi alla madre che era fuor del portone dell'aia e tendeva lo sguardo lungo la via:—Mamma,—le chiese,—vedi nessuno?

—Non vedo che un carro lontano lontano.—La fanciulla riprese a celiare col vecchio, senza darsi alcun pensiero.

Intanto il carro era giunto a poco più che trecento passi da quella casa, e nel cuore del soldato era seguìto uno strano mutamento. Pareva ch'ei non avesse più un vivo e vero sentimento del suo stato, che non sapesse più dov'era diretto e gli fosse sfuggita la memoria dei luoghi ove passava, tanto ei teneva lo sguardo stupidamente immobile sulla sua casa di cui cominciavano ad apparire distintamente le finestre e i terrazzini di legno, o lo girava lento e senza vita sui campi, sulle case e sugli orti vicini alla via. S'avvicinava a casa sua come ad un luogo sconosciuto. La sensitività del suo cuore si era, in certo modo, esaurita. Siffatta è la nostra natura, che subiamo con fredda impassibilità e con una specie di morto abbandono l'eccesso di quei dolori, che ci eran parsi insopportabili da principio. E però quel povero infelice, come se avesse smarrito affatto il presentimento della desolazione che andava a gettare nella sua famiglia, ora stava tutto intento, colla bocca aperta e gli occhi immoti, al rumore monotono del carro; ora, dato un colpo colla mano aperta sur un sacco, stava attonito a rimirar il bianco spolvero che se ne levava; ora sfibbiava e raffibbiava sbadatamente le cinghie tese fra quelle due stecche commesse al vasotto di legno in cui [Pg 274] S'introduce la gamba monca (due stecche che stringon fra loro e tengon ferma la coscia sul suo sostegno); ora, impugnata una gruccia presso al puntale, ne andava battendo leggermente il manico sulla punta del piede.... Ma già da un po' di tempo risentiva un lieve dolore all'estremità di quella povera coscia, comunque l'avesse accuratamente ravvolta in certe pezzuole di cui gli avean riempite le tasche all'uscir dallo spedale; e però, quasi senza addarsene, sfibbiò un'ultima volta le cinghie, allungò il braccio, tolse quello sciagurato arnese, lo sollevò, e se lo pose allato. Rimasta libera la coscia, il dolore si attutì.

E il carro andava, andava, ed egli, senza darsi altro pensiero, passava e ripassava la mano sulla coscia come per addormentare quel po' di dolore che ancor vi rimaneva, quando, levati gli occhi, si tramutò improvvisamente nel volto, giunse le mani, die' un grido e stette immobile, come una statua, in quell'atto. Aveva veduto il tabernacolo di quella sera; era ritornato in sè stesso; tutte le memorie, già da qualche tempo sopite, gli si erano, in quel punto, ridestate tumultuosamente, e il suo cuore, assalito all'improvviso da una folla di affetti violenti, gli avea dato una terribile scossa. Guardò lungamente il tabernacolo colla faccia pallida e gli occhi dilatati e le labbra tremanti; poi tese le braccia in atto supplichevole e gridò:—Oh Gigia! Oh mia Gigia!—e ricadde bocconi sul carro.

In quel punto un grido acuto gli ferì l'orecchio e gli rimescolò il sangue da capo a piedi. Levò la testa, guardò, intravide, afferrò la gamba di legno, vi cacciò dentro la coscia, adunghiò colle dita convulse le cinghie, tentò, tentò, non riusciva ad affibbiarle, Dio mio! non riusciva; e intanto tutta quella gente si avvicinava, colle braccia aperte, colla bocca preparata ad un grido di gioia che non potea mandar fuori; e oramai il poveretto [Pg 275] non faceva più che stropicciarsi con ambe le mani la coscia come un insensato.... Ah! eccoli, eccoli presso; fu la madre la prima; gli tese le braccia con un sorriso divino sul volto, chinò gli occhi, intravide, gettò un grido, dal più profondo dell'anima, tremendamente disperato, gli si avviticchiò al collo gemendo, e stette. Tutti gli altri si copersero colle mani la faccia.

Dopo un minuto egli era a terra; le cinghie gli erano state affibbiate senza ch'ei se ne accorgesse.—Lasciarlo andare da sè, pensarono tutti ad un tempo, vederlo camminare a quel modo? Oh no! bisogna portarlo. Portarlo? No! no! si portano i moribondi, e non.... no portarlo, no!—Questo pensiero passò, come un lampo, per la mente di tutti. In quel lampo il povero mutilato s'era messo le gruccie sotto le ascelle, e per abbreviare ai suoi cari quello spettacolo doloroso, s'era diretto, a lunghi salti, verso casa. Lo guardarono! Tutti, tranne la madre e la fanciulla; esse aveano celata la faccia l'una nel seno dell'altra.

Entrò in casa pel primo; subito dopo gli furon tutti intorno, gli tolsero di mano le gruccie, lo fecero sedere presso alla tavola; egli vi incrociò sopra le braccia e abbandonò sulle braccia la testa. Ma tosto una mano tremante gli si posò sulla fronte; egli alzò il capo, si vide innanzi un seno ansante con grande violenza, conobbe di chi era senza levar gli occhi, e nascose il volto in quel seno. Intorno intorno era un profondo silenzio; non si poteva piangere ancora.

Tutto ad un tratto scoppiò un singhiozzo. Il mutilato si svincolò rapidamente dalle braccia della madre, lanciò uno sguardo all'intorno:—Sei tu!—gridò, cogli occhi lucenti di pianto, ed aperse le braccia. La giovinetta vi si gettò con uno slancio che avea del delirio. La madre, colpita da una subita idea, si volse agli astanti, [Pg 276] fe' loro un rapido cenno e tutti sparirono in un istante, ed essa li seguì.

La fanciulla girò l'occhio nella stanza, e, non vistovi alcuno, avvicinò in fretta una seggiola a quella del suo povero soldato, sedette, gli afferrò una mano colla manca, gli posò la destra sur una spalla, e col volto tutto sparso di lagrime e col petto ansante cominciò un dire sommesso, precipitato, rotto, affannoso, gettando all'uscio un'occhiata ad ogni ripresa di fiato, per veder se alcuno giungesse.

—Senti, Carlo, e credimi; credimi, che io ti parlo proprio col cuore; io ti voglio più bene di prima, io ti sposo più volentieri così.... come sei adesso, che se tu fossi ancora com'eri una volta; vorrei morire, guarda, morire in questo momento se non ti dicessi schietto schietto quello che sento; e se fossi tu,—sentimi, Carlo e non piangere a quel modo,—se fossi tu che non mi volessi più me, ebbene, e verrei io a pregarti colle mani giunte per essere tua, a dirti che senza di te io non posso vivere, ecco; e se tu mi rispondessi di no, io cadrei subito malata.—Ma via, non disperarti così.—E se tu non fossi ritornato dalla guerra, se io (e premette le labbra).... se il Signore m'avesse mandata questa disgrazia di doverti perdere, o che tu credi ch'io n'avrei preso un altro in vece tua? Nemmeno se fosse venuto il re, guarda. E adesso, sai, se prima ti voleva già un bene dell'anima, adesso (e in ciò dire si coperse il volto col grembiale e die' in un forte scoppio di pianto).... adesso ti starei davanti in ginocchio.

E scivolò giù dalla seggiola e cadde ginocchioni davanti a lui che, affatto fuor di sè dalla gioia, con certi gemiti tronchi, con certe voci inarticolate, e più coll'atto animato del volto che improntava divinamente il pensiero, e con un agitar convulso delle mani, le voleva [Pg 277] dire una parola, una sola parola; ma non gli bastava il fiato a mandarla fuori intera, e si andava sforzando, sforzando, finch'ella eruppe tre volte, sonora, sviscerata, entusiastica:—Oh grazie! Grazie! Grazie!—

E la prese per le braccia e fe' atto di sollevarla.

—No! no!—ella rispose con un accento risoluto in cui si sentiva tutta la veemenza del suo vergine affetto;—lasciami stare così, voglio stare così.—E si rasciugò gli occhi e proseguì concitata:

—Staremo sempre assieme. Io non andrò più a lavorare in campagna, ti starò tutto il giorno vicina, non ti lascerò mai solo un momento, lavorerò in casa, seduta accanto a te, così come adesso.... Ma che cos'hai, Carlo, che piangi in quel modo? Dimmelo a me, che ti voglio tanto bene....; che cos'hai?

—Ma....—le rispose il poveretto con voce timida e tremante,—ed io...?

E non potè seguitare.

—E tu?... Ebbene, che vuoi dire con ciò? Dimmi tutto, Carlo.

—Ed io! io! come faccio a lavorare io?—e chinò la testa fra le mani scotendola in atto disperatamente sconsolato.

—Ma Carlo, ma perchè mi parli in quel modo? Ma non ci son io per te? Non ci siamo tutti? Io a cucire in bianco son buona; capirai non lo dico mica per lodarmi; con te, figurati!.... E la signora, quella tale, sai, quella della villa qui accanto, m'ha già offerto del lavoro altre volte, ed io ho sempre detto di no; ma adesso...., e tanto più quando essa saprà che sei tornato così....; ed io mi porterò il lavoro in casa, sta bene? E lavorerò accanto a te, e tu mi racconterai tutto quello che hai visto, e i paesi e le campagne dove siete passati, e se ti ricordavi sempre di me, e cosa facevi tutto [Pg 278] il giorno, e se avevi dei compagni qui del paese, e di che cosa discorrevate fra voialtri....

E tirava innanzi su questo tenore, e si andava man mano infervorando, sempre ginocchioni davanti a lui, tenendogli una mano sopra una spalla e rigirandogli per diritto, coll'indice e il pollice dell'altra, i bottoni del cappotto ch'eran rimasti col numero alla rovescia. Le gote le si erano suffuse d'un vivo color di rosa, gli occhi le s'erano animati d'un lume soave, e la parola le scorreva dal labbro così spontanea, così calda e viva e improntata di tanta dolcezza, e v'era nei suoi gesti, nei suoi sguardi, ne' suoi sorrisi, in tutta la sua persona, e persino in quel suo umile atteggiamento tanta ingenuità, tanta grazia, che il buon soldato la guardava e la stava a sentire come un estatico, e quand'ella ebbe cessato di parlare e gli fissò gli occhi negli occhi come per domandargli d'una parola di consolazione, ei gliene diede una che la giovinetta non poteva desiderar più cara.—Oh Gigia—le disse—tu mi fai dimenticare la mia disgrazia!

—E non te la lascierò mai più ricordare!—gridò con trasporto quel buon angelo. E si abbracciarono e piansero.

La mamma aveva avuto una buona idea.

In quella, sentirono venir dall'aia un rumor concitato di molti passi e un bisbiglio confuso di molte voci. La giovinetta balzò in piedi e si scostò d'alcuni passi dal suo soldato; entrambi volsero gli occhi alla porta da cui veniva il rumore.—Dov'è? Dov'è?—gridò una voce dal di fuori. E quasi nel tempo stesso apparve un giovanotto, pallido, trafelato, senza voce; guardò intorno, e non sì tosto vide il soldato che gli fu d'un salto fra le braccia. Erano stretti amici da molti anni. Il nuovo arrivato era però assai minore d'età, e apparteneva [Pg 279] alla seconda categoria della classe del milleottocento quarantacinque, stata chiamata, appunto in quei giorni, alle armi. E proprio quella sera, il buon giovanotto, pigliato congedo, non senza pianto, dai suoi, moveva alla volta della città, allorchè, passando dinanzi alla casa dell'amico di cui ignorava il ritorno, era stato chiamato dalla famiglia, fatto consapevole dalla sventura toccata al suo Carlo, e sospinto nelle sue braccia. Tutta la famiglia gli aveva tenuto dietro, e la madre, appena posto piede nella stanza e lanciato uno sguardo indagatore sul volto dei due fidanzati, tuttora lagrimoso, ma illuminato d'una gioia profonda, aveva tutto compreso, si era sentito al cuore un grande sollievo, e mentre suo figlio tenea il capo fra le braccia dell'amico, aveva trasfuso quel sollievo, più co' cenni che colle parole, negli altri.

Finalmente il mutilato si sciolse da quel lungo abbracciamento, fe' cenno all'amico che gli sedesse accanto, e, passato due o tre volte il rovescio della mano sugli occhi, fece capire che avea da dir qualche cosa. Tutti gli si strinsero attorno; più accosto a lui, la madre e la fanciulla.

—Sta di buon animo,—egli cominciò rivolgendosi all'amico che pareva scoraggito e triste;—sta di buon animo, camerata. Non ti lasciar pigliare da certe malinconie. Lo so anch'io che, a veder me in questo stato, ora che stai per partire, e hai lasciato la famiglia un momento fa, e devi andare a fare il soldato, e vai adesso che c'è la guerra, ti fa pena vedermi in questo stato; pensa un po' se io non lo capisco, povero giovane. Bel guadagno, tu dirai, a far quel mestiere! Ma, Dio buono, a che serve disperarsi? Bisogna farlo il soldato, volere o non volere? Sì, e dunque! tanto vale torsela in santa pace e partire si buona volontà; lo capirai [Pg 280] anche tu. E poi, e poi.... io, già, ti dico schietto che, se era proprio destino che mi toccasse una disgrazia come questa, tra l'averla toccata qui ruzzolando giù da un carro o giù da una scala, e l'averla toccata là, preferisco là. È naturale. Non ti voglio mica dire con questo che io mi trovi contento del mio stato d'adesso; ma in fin dei conti, vedi, in questo mondo ci si ha da star poco, e quando c'è della gente che ci vuol bene, questo è quel che preme, il resto che importa? Io son tornato così come vedi; ebbene, e che per questo? Forse che mia madre, e mio padre, e qualcun altro mi vogliono meno bene di prima?—

E alzò gli occhi su di loro. I vecchi genitori, giungendo le mani, esclamarono:—Oh Carlo!—Qualcun altro non fece che lanciargli un lungo sguardo d'inesprimibile tenerezza.

—Più di prima,—egli prosegui coll'accento e col volto improvvisamente animati,—più di prima. E tutti, dopo che mi colse questa disgrazia, mi vollero più bene di prima, tutti. Se tu ti fossi trovato all'ospedale con me, avresti visto delle cose da non credersi, caro mio. Dopo una ventina di giorni ch'io era là, passò per quella città il mio reggimento; tutti gli uffiziali della compagnia son venuti a vedermi, e anche degli altri, capisci? E son venuti intorno al mio letto, e ci stettero una buona mezz'ora, e c'era il capitano che mi guardava e piangeva, e un altro uffiziale, un giovinetto senza barba, anche lui. E gli ho visto io co' miei occhi calar le lacrime giù per la faccia. E un altro uffiziale (io aveva un po' di febbre) mi posò la mano sulla fronte, e un suo vicino gli disse:—Levala, gli dài fastidio.—E mi raccomandarono al dottore e agli infermieri e mi dissero che facessi scrivere alla mia famiglia; ma senza dire che cos'era accaduto, chè n'avrebbero sofferto troppo. E [Pg 281] tutti, dal primo all'ultimo, prima di andarsene via, mi strinsero la mano, e il più giovane, quello che comandava la seconda squadra dov'ero io, colse un momento che gli altri non guardavano e mi baciò sulla fronte, e quando fu sulla porta si voltò ancora indietro a farmi un saluto colla mano. Hai capito? E un giorno venne un generale vecchio vecchio, col petto tutto coperto di medaglie, e tanti uffiziali dietro, e si avvicinò al mio letto col berretto in mano, e anche tutti gli altri avevano il capo scoperto, ed egli, il generale, mi domandò com'io stava e dov'era stato ferito e in che modo, e quando gli ebbi raccontato tutto, mi pare ancor di vederlo, alzò gli occhi al cielo, strinse le labbra con un sospiro, e mi disse:—Fatti coraggio, figliuolo.—E poi mi strinse la mano, capisci, lui che era generale. Aveva una mano scarna scarna; era tanto vecchio! E io glie l'avrei baciata quella mano se non avessi avuto paura di mancar di rispetto; mi pareva un altro mio padre. Ah! bisogna esservisi trovati in quei momenti per poter sapere che cosa si prova! Si scorda tutte le disgrazie, si scorda. E poi, anche prima... vedrai, camerata; altro è parlarne da lontano, altro è trovarsi là, proprio là in mezzo a tutte quelle baionette, i superiori dinanzi a cavallo colla sciabola in aria, e le bandiere, e la musica, e tutte quelle grida; il cuore ti si accende, e la testa ti gira e ti gira, e la palla t'ha già colto che tu gridi ancora: Avanti....

In quel punto s'udì nella strada un'armonia festosa di canti e di suoni di piffero e di zampogna.

—Sono i miei compagni che partono,—gridò il coscritto balzando in piedi con subita allegrezza.

Il mutilato si accese repentinamente nel volto, si rizzò anch'egli in piedi sorretto dalla madre e dalla fidanzata, si fece condurre sul limitare della porta, vide [Pg 282] i coscritti che partivano, e die' loro un grido:—buon viaggio, ragazzi, buon viaggio!—Essi si voltarono verso di lui, intravidero la gamba tronca, capirono, e gli risposero tutti ad una voce:—Viva i bravi soldati!

E il nostro poveretto li ringraziava agitando le mani e scuotendo la testa, chè oramai la foga della tanta dolcezza gli chiudeva il varco alla voce.

—Viva i bravi soldati! queglino ripeterono allontanandosi.

Il mutilato fece un ultimo atto colle mani e col capo, e poi, passato un braccio attorno al collo della giovinetta che lo sorreggeva a sinistra, si volse alla madre che gli stava dall'altro lato, e, con voce interrotta dai singhiozzi, esclamò:

—Oh mamma? lo vuoi credere?... io sono contento!—

E le lasciò cader la testa sul seno.

Gli occhi di tutti i circostanti si empierono di lagrime. La musica moriva a poco a poco allontanandosi lentamente giù per la via.


[Pg 283]

L'ESERCITO ITALIANO
DURANTE IL COLÈRA DEL 1867


Ogniqualvolta io ripenso a quanto l'esercito ha fatto e patito per il paese durante il colèra del mille ottocento sessanta sette, e riprovo quel vivo senso d'ammirazione e di gratitudine che mi si destava in quei giorni alla notizia d'ogni nuovo suo atto di carità e di coraggio civile, mi prende il dubbio che la maggior parte di quegli atti siano già dai più dimenticati, che molti non siansi saputi mai, che tutti poi, o quasi tutti, sien noti troppo vagamente per essere, come e quanto si conviene, estimati e lodati. Forse i ricordi di tutti que' begli atti individuali il popolo li ha già confusi in un solo concetto,—l'esercito ha fatto del bene,—come dopo una battaglia vinta esprime ed esalta nel nome d'un generale le gesta e le glorie di centomila soldati. E maggiormente mi confermo in codesto timore quando considero che il paese, il quale delle guerre non è che spettatore e può e suole notar molte cose, essendo stato invece, in questa occorrenza del colèra, attore e vittima ad un tempo del terribile dramma, è naturale che poco badasse a quei tanti e sfuggevoli fatti parziali di cui, benchè altamente generoso lo scopo, eran pur sempre lievi e quasi insensibili gli effetti rispetto alla grandezza dei mali onde egli stesso era in gran parte travagliato. [Pg 284] Ora non è chi non comprenda come il sentimento di ammirazione e di gratitudine che deriva dalla notizia vaga dell'opera che prestò l'esercito a vantaggio del paese in quell'occasione, debba essere assai meno profondo e durevole, e l'esempio assai meno efficace, che non sarebbe ove si conoscesse il modo con cui quell'opera fu individualmente prestata, e i sacrifizi che costò, e i pericoli che l'accompagnarono, così da averne scolpita l'immagine nella mente, e poter rivolgere l'ammirazione a fatti determinati e legare la gratitudine a dei nomi. Alcuni di questi fatti e di questi nomi ho appunto in animo di ravvivare nella memoria di chi gli abbia scordati o non intesi mai; e m'induce a quest'opera non tanto il pensiero della dolce ed altera compiacenza ch'io proverò, come cittadino e come soldato, scrivendo una pagina tanto gloriosa per l'esercito italiano, quanto il sentimento, che è in me vivissimo, di compiere un dovere di giustizia col mettere in luce molte virtù, molti sacrifizi dimenticati od oscuri, e, oltre a ciò, il convincimento che non sia cosa inutile il porgere uno splendido esempio del come s'abbia a condurre l'uomo e il cittadino di fronte alle sventure nazionali.

Sullo scorcio del mille ottocento sessantasei, si sperava in Italia che il colèra, da cui molte provincie erano state invase in quell'anno, non sarebbe ritornato nell'anno successivo. Ritornò invece, come tutti sanno, e più fiero e più ostinato di prima, e fra tutte le provincie italiane quella che ne patì più gravi danni fu la Sicilia, della quale scriverò quasi esclusivamente, per riuscire più ordinato e più breve.

Nei mesi di gennaio e febbraio del sessantasette il colèra mietè qualche vittima nelle vicinanze di Girgenti, e specialmente in Porto Empedocle; d'onde, nel mese [Pg 285] di marzo, si sparse per tutta la provincia, e da questa, nell'aprile, in quella di Caltanissetta, e crebbe poi fierissimamente in entrambe durante il mese di maggio, favorito dai calori estivi che si fecero sentire un mese prima a cagione della lunga siccità. Nè scemò punto nel giugno, se se ne tolga la sola città di Caltanissetta, in cui decrebbe rapidamente; chè anzi, nei primi giorni di quell'istesso mese, invase la provincia di Trapani, quella di Catania, quella di Siracusa, e sul cominciar di luglio Palermo, e sul cominciar d'agosto Messina. Intanto si era propagato per quasi tutte l'altre provincie d'Italia, e particolarmente in quelle del mezzogiorno, e più che in ogni altra in quella di Reggio, dove menò la sua ultima e più spaventevole strage sul cadere dell'anno.

Fin dai primi indizi che si manifestarono nelle provincie di Girgenti e di Caltanissetta, il generale Medici, comandante la divisione di Palermo, quasi antivedendo il terribile corso dell'epidemia, rimise in vigore tutte le cautele igieniche prescritte dal Ministero della guerra nel sessantacinque; divise i corpi in un numero maggiore di distaccamenti perchè nessuna città e nessun villaggio ne rimanessero privi; ordinò che dappertutto si aprissero ospedali militari pei colerosi, infermerie pei sospetti e case di convalescenza nei punti più appartati e salubri; istituì in ogni presidio una commissione di sorveglianza sanitaria; prescrisse nettezza rigorosa e accurate e frequenti disinfezioni in tutte le caserme; sospese ogni movimento di truppa dai luoghi infetti agli immuni; impose ad ogni corpo, ad ogni distaccamento di prestarsi prontamente e largamente a qualunque richiesta delle autorità civili per il servizio dei cordoni sanitari e per sussidiare le guardie nazionali nella tutela della pubblica sicurezza; ingiunse che si cercassero e si preparassero nelle vicinanze delle città principali i luoghi più adatti [Pg 286] ad accamparvi le truppe nel caso che se ne fosse presentata la necessità; migliorò il vitto dei soldati con distribuzioni quotidiane di vino e di caffè; infine esortò gli ufficiali a preparare gli animi dei soldati a quella vita di sacrifizi, di pericoli e di stenti che ciascuno in cuor suo già presentiva ed aspettava coll'animo rassegnato e fortificato dall'esperienza dell'anno antecedente. Altrettali provvedimenti prendevano nello stesso tempo la più parte dei comandanti divisionali dell'altre provincie italiane, e dappertutto si allestivano ospedali, si disinfettavano caserme, ed era un affaccendarsi continuo di medici e d'ufficiali, un continuo dare e ricever ordini, un insolito rimescolìo d'uomini e di cose come all'aprirsi d'una guerra; in una parola, quella viva agitazione degli animi che suol precedere i grandi avvenimenti, e che ognuno esprime così bene a se stesso colle parole:—Ci siamo!

Ma per quanto fossero disposti a fare pel bene del paese l'esercito e i cittadini animosi ed onesti, tre grandi forze nemiche dovevano rendere per molta parte e per lungo tempo inefficace l'opera loro: la superstizione, la paura, la miseria, assidue compagne della morìa presso tutti i popoli e in tutti i tempi.

Nel maggior numero dei paesi, e particolarmente nei più piccoli, i sindaci e molti altri pubblici officiali abbandonavano il proprio posto al primo apparir del colèra, e da qualche paese disertavano tutti ad un tempo colle famiglie e gli averi. I ricchi, gli agiati, tutti coloro che avrebbero potuto soccorrere più efficacemente le plebi, fuggivano dalla città e si rifugiavano nelle ville. In pochi giorni tutte le case della campagna erano ingombre di cittadini fuggiaschi, e non solo di ricchi, ma di chiunque possedesse tanto da poter vivere qualche giorno senza lavorare, e prendere a pigione, anche a [Pg 287] costo di gravissimi sacrifici, un abituro, una capanna, un qualunque bugigattolo, pur che fosse lontano dalla città e appartato, quanto era possibile, da ogni abitazione.

Abbandonata a se stessa e impaurita dall'altrui paura e dalla solitudine in cui veniva lasciata, la povera gente fuggiva anch'essa ed errava a frotte per la campagna, traendo miseramente la vita fra i languori della fame. Il generale terrore veniva accresciuto dal ricordo delle grandi sventure patite negli anni andati; se ne predicevano, come sempre accade, delle peggiori; si reputavano già tali fin dal loro cominciamento; in ciascuna provincia si esageravano favolosamente le stragi delle altre; in campagna si narravano orrori della morìa delle città; in città, altrettanto della campagna.

Come si trovasse ridotta la popolazione che rimaneva ne' paesi è facile immaginarlo. Tranne poche città, essendo dappertutto abbandonate o disordinate le amministrazioni comunali, si trascuravano i provvedimenti igienici di più imperiosa necessità. Talora le popolazioni, reputando fermamente che quei provvedimenti fossero inutili, ricusavano di prestarvi l'opera propria, senza la quale essi riuscivano inefficaci, per quanto fosse il buon volere delle Autorità e lo zelo dei pochi cittadini che pensavano ed operavano dirittamente. S'aggiunga che molti paesi erano rimasti senza medici, senza farmacisti, e tutti poi, anche i più grandi, erano desolati dalla miseria che la carestia dell'anno precedente aveva prodotto, e lo scarso ricolto di quell'anno, e l'enorme mortalità avvenuta negli armenti, accresciuto. Falliti gran parte dei negozianti; sospesa la costruzione delle strade ferrate; interrotte molte opere pubbliche provinciali e comunali; molte fabbriche chiuse; gli operai senza lavoro; serrate dapprima le botteghe di oggetti di [Pg 288] lusso, da ultimo moltissime delle più necessarie; le officine abbandonate; centinaia di famiglie ridotte a non vivere d'altro che d'erbe e di fichi d'India; in ogni parte la fame, lo scoraggiamento e lo squallore.

Per colmo di sventura si propagava ogni di più e metteva radici profonde nel popolo l'antica superstizione che il colèra fosse effetto di veleni sparsi per ordine del governo, che il volgo di gran parte dei paesi del mezzogiorno, per uso contratto sotto l'oppressione del governo cessato, tiene in conto d'un nemico continuamente e nascostamente inteso a fargli danno per necessità di sua conservazione. In Sicilia, codesta superstizione era avvalorata dal convincimento che il governo si volesse vendicare della ribellione del settembre, e però una gran parte delle misure sanitarie prese dalle Autorità governative incontravano nella plebe un'opposizione accanita, ogni provvedimento aveva il colore d'un attentato, in ogni ordine si sospettava una mira scellerata, da ogni menomo indizio si traeva argomento a conferma del veneficio, in ogni nonnulla se ne vedeva una prova. Gli ospedali, le disinfezioni, le visite dei pubblici officiali, tutto era oggetto di diffidenza, di paura, di abborrimento. I poveri non si risolvevano a lasciarsi trasportare negli spedali che nei momenti estremi, quando ogni cura riusciva inefficace. Morivano la più parte, e per ciò appunto si credeva più fermamente dal volgo che le medicine fossero veleni, e i medici assassini. Preferivano morire abbandonati, senza soccorsi, senza conforti. Non credevano al contagio, e però abitavano insieme alla rinfusa sani ed infermi, famiglie numerose in angusti e immondi abituri, terribili focolari di pestilenza. Occultavano i cadaveri per non esser posti in isolamento, o perchè ripugnavano dal vederli seppelliti nei campisanti, non nelle chiese com'è la costumanza di molti paesi; o per la stolta [Pg 289] opinione che sovente gli attaccati dal colèra paiano, ma non siano morti davvero, e rinvengano dopo qualche tempo. Si poneva ogni cura a deludere le ricerche delle Autorità. Spesso si resisteva colla forza agli agenti pubblici che venivano per trarre dalle case i cadaveri corrotti; si gettavano questi cadaveri nei pozzi, si sotterravano segretamente nell'interno delle case. In alcuni paesi, per trascuranza delle Autorità o per difetto di gente che si volesse prestare al pietoso ufficio, i cadaveri, comunque non contesi dai parenti, si lasciavano più giorni abbandonati nelle case, o venivano gettati e lasciati scoperti nei cimiteri, o si ricoprivano di poche palate di terra, così che intorno intorno ne riusciva ammorbata l'atmosfera, e non si trovava più chi volesse avvicinarsi a que' luoghi, e bisognava scegliere altri terreni alle sepolture. I pregiudizi volgari venivano segretamente fomentati dai borbonici e dai clericali. Eran sospetti di veneficio tutti gli agenti della forza pubblica, i carabinieri, i soldati, i percettori delle dogane, gli officiali governativi. In alcuni paesi della Sicilia era sospetto di avvelenamento qualunque italiano del continente; in qualche luogo tutti indistintamente gli stranieri erano sospetti. Si spargevano e si affiggevano per le vie proclami sediziosi, eccitanti alla vendetta ed al sangue. Tratto tratto le popolazioni armate di falci, di picche, di fucili, si assembravano, percorrevano tumultuosamente le vie del paese cercando a morte gli avvelenatori; minacciavano o assalivano le caserme dei carabinieri e dei soldati; irrompevano nelle case dei medici, e le mettevano a sacco; si gettavano nelle farmacie e vi distruggevano e disperdevano ogni cosa; invadevano l'ufficio del comune, laceravano la bandiera nazionale, abbruciavano i registri e le carte; costringevano le guardie nazionali a batter con loro la campagna in traccia degli avvelenatori; andavano a cercarli nelle case; credevano [Pg 290] d'averli rinvenuti, li costringevano coi pugnali alla gola a immaginare e confessare dei complici, li trucidavano, ne straziavano i cadaveri e li abbruciavano nelle vie e nelle piazze del paese. Intere famiglie, accusate di veneficio, venivano improvvisamente aggredite di notte da turbe di popolani, e vecchi, donne, bambini cadevano sgozzati gli uni ai piedi degli altri senza aver tempo di scolparsi o di supplicare; si ardevano le case e se ne disperdevano le rovine. A Via Grande, a Bel passo, a Gangi, a Menfi, a Monreale, a Rossano, a Morano, a Frassineto, a Porcile, nel Potentino, nell'Avellinese, in cento altri luoghi, continui assembramenti e ribellioni e delitti orrendi di sangue.

Ogni giorno il popolo trovava una pietra, un cencio, un oggetto qualsiasi, che credeva intriso di veleno. Si recava in folla dal sindaco portando l'oggetto avvelenato, faceva venir medici e farmacisti a sperimentarlo, e voleva che i resultati dell'esperimento fossero com'ei riteneva che dovessero essere, o dava in minaccio e in violenze. In alcuni paesi la forsennatezza del volgo era giunta a tal segno, che gran parte dei cittadini, dal continuo pericolo di venir accusati come avvelenatori ed uccisi, s'eran trovati costretti a barricarsi in casa con qualche provvisione di cibo, vivendo così nascosti e rinchiusi come prigionieri. Ciò destava più forti i sospetti, si assalivan le case, ne seguiva una lotta. Nei luoghi e ne' giorni in cui per la mitezza del morbo il volgo era meno brutalmente feroce, gli accusati di veneficio eran soltanto vituperati e percossi, e poi trascinati, lordi di sangue, al cospetto del sindaco. Alle volte i funzionari municipali, impauriti dall'esasperazione della folla, non ardivano tentar di distorla dai suoi propositi di sangue ed esortarla a risparmiare quegli infelici, e rispondevano, come fecero nel villaggio di San Nicola, [Pg 291] che «se ciò che ne facesse pareva più opportuno.» E la risposta non era ancor detta intera, che quegli sventurati giacevano a terra immersi nel sangue, e non serbavano più traccia di sembianza umana. I municipi, dove se ne eccettuino quei delle città principali, minacciati com'erano e violentati ogni giorno, avevan perduto ogni autorità, e riuscivano impotenti a mettere in atto le misure più rigorosamente necessarie alla pubblica sanità; chè anzi erano costretti a prevenire e compiere ogni desiderio o volere della plebe, a fine di evitare più deplorabili danni. Dapprima il popolo imponeva che non si lasciasse entrare in paese anima viva, e il municipio stabiliva un rigoroso cordone attorno al paese, e ogni commercio cessava; ma appena si cominciavano a risentire i danni di questa cessazione di commercio, il popolo voleva che il cordone fosse tolto; rincrudiva il morbo, e un'altra volta si doveva porre il cordone. E lo stesso accadeva per tutti gli altri provvedimenti, ora voluti, ora disvoluti, secondo che la morìa cresceva o descresceva, secondo che la stravolta fantasia del volgo, per il vario manifestarsi di qualche indizio supposto, li reputava salutari o venefici.

Insomma ogni cosa era sossopra; in ogni luogo un desolante spettacolo di miseria e di spavento; le campagne corse da turbe d'accattoni e sparse d'infermi abbandonati e di cadaveri; i villaggi mezzo spopolati; nelle città cessata ogni frequenza di popolo, deserto ogni luogo di pubblico ritrovo, spento in ogni parte lo strepito allegro della vita operaia, le strade quasi deserte, le porte e le finestre in lunghissimi tratti sbarrate, l'aria impregnata del puzzo nauseabondo delle materie disinfettanti di cui le strade erano sparse; da per tutto un silenzio cupo, o un interrotto rammarichìo di poveri e d'infermi, o guai di moribondi o grida di popolo sedizioso. [Pg 292] A tale si trovaron ridotte le popolazioni di molte provincie della Sicilia e del basso Napoletano, e fors'anco il quadro ch'io n'ho fatto non ritrae che assai pallidamente i terribili colori della verità.

Ma il sentimento doloroso che ci si desta in cuore alla memoria di quei giorni funesti, più che dalla notizia degl'immensi danni che il colèra produsse, vien forse dal pensare come la parte maggiore di cedesti danni sia derivata dall'ignoranza quasi selvaggia dei volghi, e in generale dalla pochezza d'animo dei cittadini di tutte le classi. L'effetto più sconsolante, quantunque non inutile, di codesta sventura del colèra, è forse stato quello di averci mostrato che nella via della civiltà siamo assai più addietro che non si soglia pensare, e che il cammino che resta a farsi è assai più lungo che non paresse dapprima, e che bisogna procedere più solleciti e più risoluti. Sarebbe, in vero, assai difficile il dimostrare che in occasioni consimili di tempi assai meno civili dei nostri la forsennatezza volgare sia andata più oltre e abbia dato di sè più deplorabili prove, e che, nella generalità del popolo, oggi più che allora, dinanzi alle sventure e ai pericoli comuni la ragione l'abbia avuta vinta sull'istinto, la carità sull'egoismo, il dovere sulla paura.

Ma che faceva l'esercito?

Il disordine delle amministrazioni e lo sconvolgimento e la paura generale avevano spirato audacia ai malandrini e ai briganti, e dato occasione che ne sorgessero dei nuovi, e gli uni e gli altri percorrevano le città e le campagne commettendo ogni maniera di furti e di violenze. La truppa, che non poteva cessare di dar la caccia a costoro, per quanto l'opera sua fosse indispensabile altrove, si trovava stretta così da mille obblighi diversi, gli uni più degli altri pericolosi e faticosi. La forza numerica dei corpi, che già era scarsa di fronte [Pg 293] ai bisogni dei tempi ordinari, riusciva affatto insufficiente per provvedere nello stesso tempo al servizio degli ospedali, ai cordoni sanitari e alla pubblica sicurezza. Tutti questi servigi eran però fatti dovunque, scompartendo la forza quanto più fosse possibile minutamente; onde quasi dappertutto seguiva che i soldati non dormissero mai due notti di seguito in caserma, e mangiassero, non più ad ore prestabilite, ma così alla sfuggita quando e dove ne avessero il tempo ed il modo. Continuo moto, continua fatica, appunto in quei giorni che sarebbe stato necessario il riposo, la tranquillità e ogni specie di riguardi. Non è a dirsi quanto la salute dei soldati ne scapitasse, e come da quella maniera di vita fosse resa presso che inutile la maggior cura che si poneva nella pulizia delle caserme, nella scelta dei viveri, e in molte altre cautele imposte dai superiori, e diligentemente, sotto la loro sorveglianza, osservate.—

Ma questi servigi erano tuttavia i meno gravosi perchè, se non sempre, ordinariamente però erano prestati da ciascun soldato ad intervalli di tempo costanti, benchè brevissimi, e regolarmente stabiliti; per cui alle fatiche e ai pericoli s'andava incontro coll'animo preparato. I servigi più duri erano quelli imposti tratto tratto da inattesi tumulti popolari, nel cuore della notte, qualche volta simultaneamente in vari punti dello stesso paese; e un pugno di soldati doveva uscire contro una moltitudine armata che li superava di numero cento volte, e batteva furiosamente alle porte della caserma e lanciava sassi alle finestre e minacciava di appiccare il fuoco alla casa, gridando «morte agli avvelenatori, morte agli assassini del popolo!» e ogni altra maniera di vituperi. Le grida furenti risuonavano improvvisamente nei silenziosi dormitori, i soldati balzavano dal letto [Pg 294] esterrefatti, si vestivano in furia, accorrevan gli ufficiali, si poneva mano alle armi, si scendevano precipitosamente le scale, si faceva impeto sopra la folla. La folla si apriva, si sparpagliava, tornava ad accalcarsi, urlando, fischiando, gittando sassi, e i soldati un'altra volta facevano impeto, e un'altra volta la folla si sperdeva, e avanti così per delle ore, per tutta la notte, molte volte per tutta la mattina seguente. Quando gli assembramenti eran di poca gente uscivan disarmati, tentavano di quetarli colle buone parole, colla persuasione, coll'amorevolezza; ci riuscivano tal volta; tal altra erano aggrediti, percossi, e allora ritornavano di corsa alla caserma, s'armavano, uscivano di bel nuovo; i sediziosi si rinchiudevano nelle case, traevano le fucilate dalle finestre; bisognava gettar giù le porte, penetrar nelle case, venire alle mani. Il giorno continue fatiche; la notte sonni brevi ed interrotti; ansietà e pericolo sempre.

Oltre tutto ciò, nella maggior parte dei paesi, bisognava che i soldati andassero a levar via i cadaveri dalle case, a trasportarli ai cimiteri sui carri del reggimento, a scavar le fosse e seppellirli. Talora il popolo vi si opponeva fieramente; bisognava penetrare nei suoi luridi abituri colle baionette alla mano, impadronirsi dei cadaveri a viva forza. Questi cadaveri bisognava qualche volta andarli a cercare per la campagna, e quando le braccia dei soldati non bastavano all'uopo, era mestieri obbligare i contadini a prestar l'opera loro, minacciandoli, trascinandoli. Bisognava impedire alla gente di fuggir dai paesi, inseguirla, ricondurla alle proprie case, tradurvela proprio a forza, pigliando pel braccio uno ad uno intere famiglie di pezzenti, torme di fanciulli e di donne che rompevano in pianti e grida disperate.

In tutti i corpi, in tutti i distaccamenti si facevano [Pg 295] collette di danaro per le famiglie più indigenti; in alcuni paesi si distribuiva ogni giorno una quantità di pane; altrove di carne e minestra; dove non si poteva dar altro, si davan gli avanzi del rancio, si dava della paglia, dei panni vecchi, qualche cosa. In molti corpi si costituirono comitati di soccorso permanenti; gli ufficiali andavano ogni giorno in volta per le case dei poveri, a recar soccorsi, a dar consigli, a invigilare; i soldati somministravano agli ospedali i pagliericci dei loro letti, si offrivano spontanei di andare ad assistere gl'infermi nei lazzeretti e nelle case private, e v'andavano e vi facevano coraggiosamente e lietamente il loro dovere sino all'estremo. Nei paesi rimasti privi di farmacisti andavan essi a distribuire le medicine nelle botteghe, sorvegliati dai medici militari, e le portavano alle case dove occorrevano. In altri luoghi, dov'eran chiuse persino le botteghe degli alimenti più necessari alla vita, fattele aprire a forza, provvedevano essi stessi o soprintendevano alla vendita. Spesso eran costretti a tener aperti i mercati, parte sorvegliando lo spaccio dei generi, parte tutelando l'ordine e la pace continuamente minacciata. Frequentissimamente, sia nei villaggi che nelle città, dovevano impastare e infornare il pane, lavoro che non si volea far da alcuno per la idea che sudando si contraesse il colèra; e non di rado si riducevano a spazzare le strade e le case dei poveri insieme ai carabinieri e alle guardie di sicurezza pubblica perchè non c'era chi si volesse sobbarcare a una fatica, dicevano, così gravemente pericolosa. Incarichi meno umili, ma assai più inusati e difficili, toccavano spesse volte agli ufficiali, che dovean farla da sindaci nei villaggi disertati dalle autorità, e talora da medici, e sempre da limosinieri e da missionari di civiltà in mezzo a popolazioni stupidite ed esasperate dalla paura e dai patimenti, e accese [Pg 296] di passioni feroci. Lo stesso era dei medici militari, a cui oltre la cura de' soldati incombeva quasi da per tutto quella del popolo, del quale bisognava che prima essi distruggessero i pregiudizi e vincessero le repugnanze e gli odi ragionando e pregando. Lo stesso dei comandanti dei corpi, incalzati da mille bisogni, stretti da mille difficoltà, affollati da mille cure, sempre in apprensione per la loro truppa divisa e sparsa di qua e di là, continuamente in giro e in pericolo. Per tutti poi un immenso dolore: quello di dovere ogni giorno dire addio per sempre a tanti bravi soldati, a tanti buoni compagni, a tanti amici da lungo tempo diletti.

Ma tutti questi servigi, questi sacrifizi, queste opere di carità, che pure accennate di volo, come io le accennai, bastano a destare in petto d'ogni buon cittadino un palpito di entusiasmo riconoscente, non possono tuttavia, come già dissi, estimarsi e lodarsi quanto si conviene ove intimamente non si conosca con che cuore venissero fatte e in che modo. Questo è ciò che ho in animo di dire e che importa si conosca particolarmente da coloro i quali negli atti generosi dei soldati non sogliono vedere ed apprezzare che gli effetti immediati e necessari della disciplina che comanda e castiga; non mai gli effetti naturali e spontanei del cuore, che quella stessa disciplina educa, ingentilisce e feconda. È vero, in fatti, che nelle congiunture dei tempi ordinari, quando il soldato non capisce o non vede o vede troppo alla lontana il frutto dell'obolo che gli si richiede a sollievo di qualche pubblica sventura, o quando non comprende di qualche altro sacrifizio la necessità imperiosa e può credere che vi sia chi lo possa o lo debba fare in sua vece, è vero che, in tali congiunture, i desiderii o gl'inviti dei superiori assumono in più delle volte, se non la forma, [Pg 297] l'intenzione però e l'efficacia di comandi diretti e assoluti, onde agli atti che ne seguono non si può attribuire il merito della spontaneità; ma questo, per cause diverse, non poteva accadere nell'occasione del colèra. Perchè allora, nella massima parte dei casi, i soldati capivano, vedevano chiaramente che la salute dei paesi in cui si trovavano era riposta nelle loro mani; che in certi momenti estremi non c'era altri che loro da cui potessero scongiurarsi certe estreme sventure; d'ogni loro atto, d'ogni loro sacrifizio erano immediati ed evidenti gli effetti; per ogni moneta, per ogni tozzo di pane ch'essi porgessero era là pronta la mano scarna d'un affamato ad afferrarlo; la pietà era tenuta viva dallo spettacolo continuo della sventura, e non c'era luogo ad alcun dubbio o ad alcuna diffidenza che il sentimento di quella pietà intepidisse o facesse esitare. Nè si può ragionevolmente supporre che l'influenza dei superiori avesse parte nelle opere caritatevoli che non erano fatte per obbligo di servizio o per altra necessità assoluta, poichè quelle necessarie e obbligatorie erano sì frequenti e sì gravose per sè, che nessun superiore avrebbe potuto pretenderne dell'altre senza che proprio gliene rimordesse la coscienza. Di più, essendo i corpi scompartiti in un gran numero di piccolissimi distaccamenti, e quegli stessi distaccamenti operando il più delle volte suddivisi, l'azione che potevano esercitare i superiori sui loro subordinati per ottenerne qualcosa più in là del dovere, era tenuissima; sarebbe anco stata insufficiente a far sì che ciò ch'era di dovere si facesse, se di quell'azione ci fosse stata la necessità. Per altra parte le stesse prescrizioni dei superiori non giungevano mai sin là dove l'opera dei soldati giungeva, poichè certi sacrifizi son di tale natura, da non potersi imporre per nessun fine e in nessuna maniera; e i lettori vedranno quali [Pg 298] essi siano, e quanto e come gli ufficiali e i soldati d'ogni corpo gli abbiano compiuti. Ma se tutte queste ragioni non bastassero a convincere gl'increduli, o paressero poi troppo vivi e fantastici i colori del quadro che porrò sotto gli occhi ai lettori, ci sarebbe pur sempre, a conferma di ciò che ho asserito, la testimonianza unanime delle popolazioni, e quella, non per tutti valevole, ma per me sicurissima e sacra, dei tanti miei compagni d'arme ed amici che videro e narrarono quel che han fatto i loro soldati e come l'han fatto, coll'anima compresa di tenerezza, di gratitudine e d'orgoglio. Dal lume dei loro occhi e dal suono della loro voce io attinsi il profondo convincimento che mi move il cuore e la penna.

Entriamo dunque nelle caserme; andiamo in mezzo ai soldati.

Per solito le compagnie non si trovavano riunite che la sera, nel dormitorio, all'ora della ritirata. Aspettando il segnale del tamburo per la visita, i soldati si raccontavano l'un l'altro quello che avevan visto e fatto nella giornata, parte seduti sui letti, parte appoggiati alle finestre, parte in crocchio nel mezzo dei cameroni. Non più quel moto, quei canti, quelle risa, quel frastuono assordante di grida festose, per cui, nei tempi ordinari, è così bella a vedersi la sera delle caserme. La più parte dei soldati stavano immobili, e non si sentiva che un bisbiglio sommesso, interrotto qua e là da qualche esclamazione di meraviglia o d'ira o di pietà, e tratto tratto lunghi intervalli di silenzio, in cui si sarebbe detto che tutti dormivano. I soldati che arrivavano a mano a mano, andavano cheti al loro letto e, posato il cinturino e il cheppì, entravano nei crocchi, ciascuno a riferire [Pg 299] l'ultima voce raccolta nel paese, ch'era quasi sempre voce di sventura. Chi noi sapesse altrimenti, avrebbe potuto capire che cosa in que' crocchi si diceva e si pensava, guardando in ogni camera le poche faccie rischiarate dal lumicino posto sopra la porta.

—Lo sapete? A Grammichele hanno ucciso un carabiniere; i soldati l'hanno trovato morto in un fosso; dicono che aveva la faccia tutta pesta e sformata che non si riconosceva più, e le braccia e le gambe mezzo rosicchiate dai cani.—Qualcuno domandava perchè l'avessero ucciso.—Perchè avvelenava la gente.—Un sorriso amaro sfiorava la bocca degli ascoltatori.—Avete intesa la notizia? A Belpasso hanno assassinato il delegato di pubblica sicurezza.—A Monreale hanno preso a fucilate i bersaglieri.—In Ardore hanno ammazzato e sbranato il capitano della guardia nazionale e il sottotenente Gazzone.—Nel tal altro paese hanno affisso ai muri un proclama in cui è detto che i soldati bisogna scannarli e bruciarli quanti sono e distruggere dalle fondamenta tutte le caserme....—Ma tutto questo perchè?—Perchè avveleniamo la gente, avete capito?—

S'udiva un rullo di tamburo; la compagnia si schierava, si faceva l'appello; metà dei soldati mancavano. Il furiere leggeva i nomi, e ad ognuno che mancasse, il caporale di settimana, ritto accanto a lui col taccuino in mano, gli veniva suggerendo a bassa voce:—È infermiere al lazzeretto—, è di pattuglia in campagna—, è di ronda in paese—, è di servizio al camposanto,—è morto,—e a quest'ultime parole seguiva nelle file un movimento di sorpresa e un mormorio di compassione.—Silenzio!—gridava il furiere;—attenti al servizio di domani.—E leggeva i nomi di quelli ch'eran destinati ai vari servizi per il giorno dopo, e il più delle volte eran quasi tutti i presenti. Nessuno fiatava. Qualcheduno, [Pg 300] all'udire il suo nome fra i destinati al servizio d'infermiere negli ospedali, non poteva dissimulare un senso di ripugnanza e di rincrescimento e alzava gli occhi scrollando la testa.—Che cosa c'è?—interrogava subito bruscamente quello fra i sergenti che l'avesse veduto.—Oh.... nulla—Dunque fermo.—E il poveretto non si moveva più, ed era quella la più grave protesta che facessero tratto tratto i più indocili e i più arditi.

Le sere dei giorni in cui il colèra aveva mietuto nel paese e fra la truppa una più larga mèsse di vite, si vedevano tutti quei soldati intenti all'appello con una immobilità che parevano statue, e le loro faccie erano atteggiate a un'espressione che aveva più dell'attonito che del triste, essendo quell'anime, più che addolorate, sbalordite dall'eccesso delle sventure.—Il tale?—domandava il furiere.—È stato colto dal colèra un minuto fa; l'han già portato al lazzeretto,—rispondeva il caporale.—Il tal altro?—Il chiamato rispondeva di mezzo alle file:—Presente—ma con una voce forzata e manchevole, in cui si sentiva l'effetto della notizia dolorosa. E seguiva un silenzio più profondo del consueto.

Quelle sere l'ufficiale soleva dire qualche parola d'incoraggiamento e di conforto. Si metteva dinanzi al centro della compagnia, scorreva con una lunga occhiata le faccie della prima riga, e diceva poi quello che aveva a dire, terminando quasi sempre con un—fatevi coraggio—seguìto da un leggero movimento delle file che voleva dir—grazie. Un cenno al furiere, una parola al sergente di settimana, e poi—buona notte—aggiungeva quasi senza accorgersene, come cedendo a un moto imperioso del cuore, e se n'andava. E i soldati l'accompagnavano con uno sguardo che valeva assai più [Pg 301] d'un addio. Quante volte, uscendo da quel camerone, l'ufficiale si sarà detto mestamente:—Forse domattina non ci saranno più tutti i miei poveri soldati!—E quante volle i soldati, vedendo uscir l'ufficiale pallido e stravolto, e dietro a lui l'ordinanza coll'espressione sul volto d'un doloroso sospetto, avranno detto fra loro:—Forse il nostro ufficiale non lo rivedremo mai più!—

Andato via l'ufficiale, il furiere distribuiva le lettere. Oh una lettera di casa, in quei giorni, in quei luoghi! I fortunati che sentivan dire il proprio nome, non potevan frenare l'impeto della gioia; s'impazientivano, stropicciavano i piedi, tendevan le mani.—A me.—Mi dia la mia.—A me non me l'ha ancora data.—E a me non me la dà più?—Silenzio, e fermi al vostro posto!—gridava il furiere. E subito tutti zitti e fermi come di marmo, con che sforzo, pensatelo voi, a dover domare quella febbre. Il furiere stava lì un momento a guardarli con un brutto cipiglio, poi dava le lettere, la compagnia si scioglieva in silenzio, e ognuno andava a letto.

A notte avanzata, coloro che non potevano dormire udivano pei cameroni silenziosi un rumore di passi lenti e di voci sommesse, e levando la testa vedevano l'ufficiale di picchetto e il sergente di settimana trascorrere lungo le file dei letti, fermarsi dinanzi a quei ch'eran vuoti, l'uno domandarne e l'altro renderne conto, rimanendo poi tutti e due, al momento di uscire, un po' di tempo immobili sul limitare della porta, e come assorti in un pensiero comune. Era ben facile l'indovinare quel pensiero!—Se accade qualcosa—diceva sottovoce l'ufficiale,—mi venga subito a avvisare. Speriamo che non ci sarà nulla.—Speriamo.—E questa parola era sempre accompagnata da un sospiro, che rivelava un sentimento assai diverso, e il più delle volte, pur troppo, assai più fondato. Forse, un'ora dopo quell'espressione [Pg 302] di speranza, i soldati eran desti improvvisamente da uno scoppio di grida acute o di languidi lamenti, e vedevano i loro compagni balzare in piedi, affollarsi attorno a un letto, sopraggiungere a passi concitati l'ufficial di picchetto, il dottore, i soldati di guardia, e indi a poco tutti far largo, e quattro di quei soldati allontanarsi portando un pagliericcio con suvvi disteso un morente, e poi un po' di bisbiglio, e finalmente tutti un'altra volta a letto, e silenzio come prima. La mattina, appena desti—Caporal di settimana—domandavano ansiosamente i soldati....—ebbene?—Morto.—Morto!—E si guardavano l'un l'altro nel viso.

In molti corpi, e in qualcuno più d'una volta, si dette il caso che fossero nello stesso tempo presi dal colèra un ufficiale e la sua ordinanza. E in tutti quei corpi, io l'udii raccontare cento volte, seguì questa scena. La sera, dopo fatta la visita, il furiere annunziava alla compagnia la disgrazia ch'era accaduta.—Chi vuoi assistere l'ufficiale?

—Io.—Io.—Anch'io.—Ma se l'ho già detto io, è inutile che lo dica anche tu.—Oh guarda! son padrone di dirlo anch'io.—Ma se son stato io il primo.—Ma se ti dico....

—La volete o non la volete finire?—gridava il furiere?—Tutti tacevano.—Lo assisterete voi—e indicava il soldato che s'era offerto pel primo. E questi faceva un sorriso di trionfo, e quegli altri si rassegnavano a stento. L'indomani mattina, prima dell'alba, il generoso infermiere era accanto al letto dell'ufficiale malato, e là passava i lunghissimi giorni, solo, muto, intento, e vegliava le notti al lume d'una lanterna, seduto sur una seggiola in un canto della stanza. Oh chi fosse stato là presente quando l'infermo, cominciando a [Pg 303] riaversi e guardandosi intorno e non riconoscendolo sua ordinanza, domandava:—Chi sei?—e poi, inteso il nome:—Chi t'ha mandato?—E il buon soldato rispondeva:—Son io che ho voluto venire...—E perchè?—Oh non si può esprimere quel che rispondevano allora gli occhi di quel soldato, e quel che passava nel suo cuore stringendo la scarna mano che si protendeva a cercare la sua! Qualche altra volta, invece, egli ritornava dopo pochi giorni alla caserma, e appena entrato andava a sedere sul letto e si metteva a frugare colla spilla del fucile dentro il luminello, che è una faccenda per cui occorre tener bassa la testa e si possono così nascondere gli occhi.

Gli ufficiali andavano assiduamente a visitar gl'infermi negli ospedali, e ci andavano per lo più molti assieme per aver agio di fermarsi al letto di tutti, e così nessuno avesse motivo di rattristarsi e disanimarsi, vedendo visitati i suoi compagni e non sè. Quelle visite eran diventate un bisogno pei poveri malati. A quell'ora solita essi sentivano giù per le scale il rumore di quelle sciabole, il suono di quelle voci, correvano subito coll'occhio ad aspettarli alla porta, e quand'essi apparivano e si sparpagliavano per le camere dell'ospedale, tutte le faccie si rasserenavano, ed anco negli occhi immobili dei più aggravati errava un qualche lieve lume di speranza e di consolazione. Poveri giovani! C'era dei giorni che il rumor delle sciabole si faceva sentire un'ora più tardi, ed essi in quell'ora stavan tutt'occhi e tutt'orecchi al più lieve strepito, al più piccolo moto; ogni momento credevano di sentir quei passi e quelle voci, e andavan fantasticando quali impedimenti potevano esser sorti, quali disgrazie accadute, e in quello stato d'ansietà il senso del male si faceva più vivo.—E non vengono, e non verranno più, e io sto [Pg 304] così male, e non potrò più durarla fino a domani, e morirò solo.... oh! eccoli!—Questo momento era d'una dolcezza da non potersi significar con parole.

Gl'infermieri degli ospedali militari eran tutti soldati, si sa; ma in molti paesi lo eran pure gl'infermieri degli altri ospedali, e lo furono per tutto il tempo che non si trovò nel popolo chi volesse prestarsi a quel servizio, neanco colla promessa di larghissime paghe, chè la paura della morte vinceva ogni cupidità di danaro come ogni sentimento di pietà. A quell'ufficio i soldati si offrivano spontaneamente. L'ufficiale di settimana domandava:—Chi vuol andare?—Mezza compagnia faceva un passo innanzi o alzava una mano. Quando la domanda era fatta a un intero battaglione, in piazza d'armi, in presenza di molto popolo, la risposta era uno spettacolo solenne.—Un giorno alle falde del monte Pellegrino, presso Palermo, sei o sette compagnie del 53º reggimento di fanteria stavano ferme e schierate in battaglia dopo aver terminato gli esercizi, quando il colonnello e un maggiore, tutti e due a cavallo, si vennero a porre dinanzi alla compagnia del mezzo, e il primo fe' atto di voler parlare. Gli ufficiali ordinarono il silenzio. Il colonnello disse ad alta voce dello stato infelicissimo in cui versava la città,—erano i giorni in cui il colèra infieriva più terribilmente,—degli ospedali che difettavano d'infermieri, del debito che incombe ad ogni buon cittadino di prestar l'opera sua a sollievo delle pubbliche sventure, e terminò dicendo più forte:—Non v'impongo un dovere; vi esorto ad un sacrifizio; liberi tutti di rispondere sì o no, secondo che detta il cuore. Ma prima di acconsentire misuri ciascuno le forze dell'animo suo e pensi che l'ufficio d'infermiere è nobilissimo, ma grave, e non senza pericoli, e che bisogna prestarlo con gran coraggio [Pg 305] e con grande affetto, o rifiutarlo. Coloro che si profferiscono si mettano a «ginocc-terr».

Quasi in un sol punto tutta la linea di battaglia si chinò come a un grido di comando, e al di sopra delle teste apparirono ritti e distinti i quattrocento fucili.

Il colonnello si voltò indietro e disse vivamente:—Maggiore!

Questi gli rispose con uno sguardo.

Ma dove più mirabilmente si esercitava la carità dei soldati era nel soccorrere i poveri.

«Quando io andava in caserma,—mi raccontò un ufficiale del 54º, ch'era stato un pezzo comandante di distaccamento a S. Cataldo,—ero ogni giorno accompagnato da uno sciame di poveri; le donne indietro coi bambini in collo, dinanzi ed ai lati i ragazzi colle mani tese, lamentando e piangendo. Un altro branco d'accattoni m'aspettava alla porta, e tutti insieme poi mi circondavano, mi si stringevano addosso, mi afferravano per le falde, m'intronavano di gemiti e di grida supplichevoli. Avevo un gran da fare a liberarmene, e il più delle volte non ci riuscivo se i soldati di guardia non venivano ad aiutarmi, rompendo la folla a furia di spintoni e di minacce. E molte volte le minacce a voce non bastavano; bisognava por mano alle baionette e far l'atto di ferire, e solamente allora cominciavano a levarmisi d'attorno; ma per poco, chè s'io non ero lesto a infilar la porta del quartiere, tornavano daccapo. Molti di quegli infelici stavan tutto il giorno seduti in terra dinanzi alla porta; alcuni vi dormivan la notte; nessuno poi vi mancava all'ora del rancio, quando i soldati portavan fuori le marmitte cogli avanzi della minestra. E allora era un rimescolamento, un urlìo da non potersi quetare nemmeno colla forza. Affamati com'erano da non reggersi in piedi, ognuno [Pg 306] voleva essere il primo ad avere la sua cucchiaiata di brodo, si gettavan tutti assieme sulle marmitte, vi cacciavan dentro le scodelle a dieci a dieci, respingendosi e percotendosi l'un l'altro e urlando come forsennati, donne, vecchi, fanciulli, alla rinfusa; tutte faccie scarne, con una certa espressione tra bieca e insensata, che destava in un punto paura e pietà; sordidi, cenciosi, seminudi, in uno stato che mettevan ribrezzo. In que' momenti i soldati li lasciavano fare, nè io poteva pretendere che li tenessero a dovere, a meno che si fosse risoluti a far del male a qualcuno; ma, appena cessata la confusione, essi chiamavano in disparte, ad uno ad uno, i fanciulli e le donne che pel solito eran rimasti a bocca asciutta, e davan loro da mangiare, tenendo indietro tutti gli altri che in un momento si riaffollavano e ricominciavano a chiedere. E questo era un affar di tutti i giorni. Non parlo dei soldati ogni momento fermati per le vie da famiglie intere di mendicanti, attorniati, perseguitati, tanto che s'eran ridotti a non uscir più di caserma e a contentarsi di passeggiar nel cortile. Eppure amavano meglio di stare in quel paese dove i poveri non li lasciavano in pace, anzichè in quegli altri dove li fuggivano per paura del veleno; chè anzi in quello stesso esser tanto implorati e importunati, in quel vedersi, in certo modo, fatti schiavi della povera gente, essi trovavano una specie di compiacimento, ed era quell'intima dolcezza che nasce dalla pietà quando la si può esprimere ed esercitare colla beneficenza. E la pietà la sentivano quei buoni soldati, e la beneficenza la esercitavano col miglior cuore del mondo. Non solamente facevan delle limosine ciascuno per conto proprio quando lo potevano e se ne offeriva l'occasione; ma ogni volta che io, essendoci costretto da qualche supremo bisogno del paese, ricorsi alle loro povere borse dopo aver dato fondo alla mia, li trovai [Pg 307] sempre tutti, non un solo eccettuato, tutti generosamente disposti a dar tutto, fin l'ultimo sigaro, fin quel po' di vino che bevevano la domenica coi pochi soldi risparmiati nella settimana. Non dimenticherò mai come fu fatta l'ultima colletta per una famiglia del paese a cui erano morti di colèra il padre e la madre; una famiglia tutta di femmine, delle quali la maggiore aveva dodici anni.—Veda se può raccogliere qualcosa,—dissi al sergente.—Egli mi rispose:—Vedrò; ma c'è da aspettarsi poco o nulla; oramai n'han quasi più bisogno loro che la gente del paese.—Capisco—gli soggiunsi;—provi ad ogni modo; per quanto riesca a far poco, qualcosa sarà sempre meglio che niente.—Andò su nel dormitorio; i soldati stavan tutti seduti sul pavimento, in circolo, come attorno a una gran tavola, e mangiavano e chiacchieravano, con quella poca allegria che era possibile in quei giorni e in quei luoghi. Il sergente s'avvicinò.—Attenti un momento!—Tutti tacquero.—Ieri mattina, qui in paese, sei bambine sono rimaste senza padre e senza madre. Chi vuol dar qualcosa tanto per non lasciarle morire di fame?

I soldati si guardarono in viso come per dirsi:—Che cosa possiamo dare oramai? La coperta del libretto di deconto per farla bollire?

—Animo—riprese il sergente—una risposta qualunque.

Un soldato si alzò e mostrandogli un soldo nella palma della mano:—Lo vuole?—dimandò, e fece una cera come se quasi si vergognasse d'aver offerto così poco.

—Anche questo è qualcosa,—rispose il sergente pigliando il soldo.—C'è altro?

—Se non si tratta che d'un soldo, ce l'ho anch'io—gli rispose un altro, e gli gettò il soldo.

[Pg 308]

—Basta un soldo?—domandò un terzo.—Basta, sì.—Ne ho uno anch'io.—Io pure.—E così tutti i soldati porsero l'uno dopo l'altro il loro soldo, e il sergente, a misura che li pigliava,—bravo!—diceva a questi, e a quegli—bene,—e a quell'altro—benone.—O che bravi ragazzi!—esclamò poi quand'ebbe tutti i soldi nelle mani;—ma.... ancora una cosa.

—Che cosa?—dimandarono i soldati.

—Pane.

—Pane? Oh se non è che questo,—risposero alcuni,—ce n'è d'avanzo. E prima gli uni e poi gli altri tagliarono ciascuno una fetta del loro pan nero.

—Dove lo mettiamo?—domandò uno.

Un caporale prese una bacchetta di fucile e infilò tutte le fette di pane che gli vennero date. I soldati ridevano.

—E adesso chi porta i denari e il pane alle bambine?—domandò il sergente.

—Il più bello—rispose una voce. Tutti risero e approvarono.

—Eh sì, il più bello, vattel a pesca! Chi sarà questa bellezza?

—Io!—esclamò un soldato napoletano che aveva nome di essere il più brutto della compagnia, e fra le risa dei compagni si fece innanzi, si mise in tasca i denari, pigliò la bacchetta col pane e s'avviò col sergente per uscire. Tutti gli altri batteron le mani.—Oh insomma!—gridò il napoletano volgendosi in tronco verso i suoi compagni;—la volete finire? Vergogna, ridere alle spalle di chi fa le opere di carità!—Ed uscì mentre nel camerone scoppiava un'altissima risata. Il sergente m'incontrò su per le scale e, credendo che io andassi su pur allora,—ah! signor tenente,—mi disse piano colla voce commossa,—se lei avesse visto!

[Pg 309]

Questo racconto, con poche parole di più o di meno, udii da un ufficiale del 54º. E quel che fecero i soldati in quel paese l'han fatto gli altri del 54º nella città di Caltanissetta, per cui questo reggimento è stato una vera provvidenza; l'ha fatto il 18º di fanteria a Terrasini in favore delle due famiglie che assistettero il povero sottotenente Viale e il sergente Imberti; l'han fatto a Messina il 6º battaglione di bersaglieri e il 10º reggimento di fanteria; l'ha fatto il 58º a Petralia Sottana; il 38º battaglione bersaglieri a Monreale; il 67º di fanteria e il 15º battaglione di bersaglieri a Longobucco; il 68º di fanteria a Reggio di Calabria; i lancieri di Foggia a Misilmeri; il 25º battaglione di bersaglieri a Rocca d'Anfo; il 7º di fanteria a Mantova e il presidio del forte di Bard, e i cacciatori franchi d'Aosta, e chi sa quanti altri corpi avran fatto altrettanto, senza che ce ne sia pervenuta notizia, solo perchè nessuno dei benefattori n'avrà voluto scrivere o parlare con chicchessia, da cui il fatto potesse venir riferito ai giornali. Eppure anche allora c'era chi domandava severamente al governo a che si mantenesse in arme un così «colossale» esercito, e se si credeva di «incivilire il paese colle baionette», e se di tante «oziose» caserme non sarebbe stato meglio fare altrettanti ospedali, e se il danaro che si spendeva nell'alte paghe non si sarebbe potuto impiegare a sollievo della miseria, e via così. E queste cose si dicevano mentre il soldato divideva il suo pane col povero, combatteva, soffriva e moriva per la salute del paese.

Qualche volta i municipi a cui i soldati avean reso più grandi servigi, offrivano loro in compenso quei pochi danari di che potean disporre, e questi municipi non furon pochi. Ma quei denari eran sempre rifiutati, e si possono citare dei fatti e dei nomi. Il municipio di [Pg 310] Licata, verso la metà di agosto, offriva cento lire alla 9 a compagnia del 57º reggimento. La sera del 14, il capitano Pompeo Praga si recava in caserma all'ora della ritirata per annunziare ai suoi soldati l'offerta del municipio. Erano tutti schierati nel dormitorio, e il furiere faceva l'appello. Il capitano l'interruppe e diede la notizia che avea da dare, e soggiunse:

—Furiere, domani mattina prima del rancio sia ripartita la somma fra tutti.

—Sissignore.

Segui un momento di silenzio.

—Signor.... mormorò una timida voce in mezzo alle file.

—Chi ha parlato?—domandò il capitano. Nessuno rispondeva—Chi ha parlato?—ripetè.

—Io—rispose un soldato.

—Che cosa volevate dire?

—Volevo dire che.... quanto a me.... (e volgeva peritosamente lo sguardo a cercare sul volto dei compagni un'espressione di assentimento) mi pare che soldo più soldo meno.... sia la stessa cosa per.... (e guardava un'altra volta i compagni) per noi..., e sarebbe meglio.... mi pare....

—Avanti.

—Qui in paese c'è dei poveri....

I compagni compresero il suo pensiero e bisbigliarono:—Sicuro.—Ben pensato.—Sarebbe meglio far così.—Ai poveri.—Sicuro.—

Il capitano lasciò quetare il bisbiglio e poi:—Sentite. Io voglio che mi diciate tutti il vostro pensiero sinceramente. Io non vorrei che qualcuno di voi rifiutasse l'offerta del municipio per compiacermi, chè mi farebbe invece un vero dispiacere. E non voglio nemmeno che i più impongano il loro desiderio ai meno. Questi [Pg 311] denari ve li siete meritati, avete faticato, avete sofferto, avete fatto del bene, è troppo giusto che vi si dia questo po' di compenso. Consigliarvi a privarvene sarebbe un'indiscretezza, ed io me ne guardo. Anzi vi dico schiettamente che se l'accettate fate bene. Animo, siate franchi; se c'è qualcuno fra voi che abbia bisogno della sua parte di denaro me lo dica senza timore e senza vergogna come lo direbbe a un amico; io non istimerò meno chi accetta di chi rifiuta; voglio che chi ha bisogno di denaro lo dica. Animo, c'è nessuno?—

La compagnia commossa dallo schietto e affettuoso linguaggio del capitano rispose ad una sola voce:

—Nessuno!

—Nemmen'uno?—e tenne d'occhio tutti i volti.

—Nessuno!—ripeterono tutti, e l'accento del grido e l'espressione degli occhi affermavano la spontaneità di quell'atto.

—Bravi!—esclamò vivamente il capitano.—Domattina andrò al municipio e dirò a quei signori che la 9 a compagnia del 57º reggimento offre cento lire di elemosina ai poveri di Licata.

Uscì, e quando fu nella via sentì i canti e le grida allegre dei soldati che, terminato l'appello, avevan rotte le righe, e si disponevano ad andare a dormire. Alzò gli occhi in su alle finestre illuminate della Caserma e gli venne detto forte, proprio come se parlasse a qualcuno:—Che buoni figliuoli!—

E quel che han fatto a Licata han fatto in Aosta, a Scansano, a Genova, e in molti altri luoghi, che non giova citare per non riempir le pagine di nomi. Ma non posso tacere di te, o bravo Zamela, zappatore del genio, che avendo saputo le sventure ond'era afflitta la tua povera Messina, mandasti trenta lire al sindaco scrivendogli: «Me le han date perchè ho assistito colerosi del [Pg 312] mio reggimento; non ho altro; ma questo poco lo do ben di cuore pei poveri del mio paese.»

Le opere di beneficenza sono sempre stimabili e lodabili, anche se il primo degli impulsi che ci movono a farle, sia il desiderio della gratitudine e dell'affetto dei beneficati. Ma quando da quest'opere non si raccoglie neanco il frutto della gratitudine, chè anzi, chi ci dovrebbe amare e benedire, ricambia coll'odio la nostra carità, e nell'offerta sospetta l'insidia, e nel benefizio il delitto; e ciò malgrado si persiste coraggiosamente a far del bene, amando, perdonando, senz'altro movente che la pietà, senz'altro conforto che la coscienza, allora s'ha diritto ben più che alla stima e alla lode che alle virtù comuni si suol dare. Voglio dire delle opere generose dei soldati in que' paesi dove si credeva ch'essi spargessero il veleno per mandato del governo, e il popolo li odiava e li malediva. E questi paesi furono i più.

Da ultimo, poi che s'era visto che anche i soldati morivano, che non tutti coloro ch'essi portavano agli ospedali ne rimanevano avvelenati, che anzi i superstiti non finivan mai di lodare la sollecitudine e l'affetto con cui erano stati assistiti e curati, l'insensata superstizione era sparita. Ma che i soldati avvelenassero il popolo, in sulle prime, era una credenza universale, un convincimento profondo, un fatto su cui non sarebbe stato lecito ad alcuno di muovere un dubbio. Non v'era chi, occorrendo, non n'avrebbe fatto giuramento con sincerissima fede. Ognuno teneva tenacemente per fermo, pur non avendo visto mai nulla, che ci fossero mille indizi, mille prove irrefragabili di quella orrenda congiura. E una di queste prove, una delle più efficaci, il volgo la vedeva in quella stessa sollecitudine dei soldati, in quel loro volersi ficcar dappertutto, e di [Pg 313] tutto immischiarsi, non chiamati, non costretti, sotto colore di esercitare una carità, che non si poteva credere sentita da gente, com'eran essi, pagata dal governo, sostenitrice del governo, e però necessariamente nemica del popolo. Quella carità non poteva essere che una maschera; quelle opere di beneficenza non potevano essere che un pretesto, un mezzo di un secondo fine; non si poteva spiegare perchè il soldato, istrumento d'un governo nemico, stendesse una mano pietosa al povero e all'infermo, se non con questo ch'ei gli preparasse la morte coll'altra. In conseguenza di questa convinzione e di questa paura è facile immaginare come il volgo si portasse coi soldati.

Una delle città in cui più generalmente si dette fede al veneficio, fu Catania, ov'era di presidio il 9º reggimento di fanteria. Varrà il suo esempio per tutti gli altri paesi.

I soldati, nell'ore libere, non andavano mai soli per la città; sempre a tre a tre, a quattro a quattro, o a brigatelle anche maggiori, per esser sicuri dalle violenze, e imporre ritegno a chi avesse in animo di insultarli o di far loro del male a tradimento. Andavano quasi sempre per le vie principali, e non molto lontano dalla caserma; qualche volta, e solamente in caso di necessità, per le vie rimote; fuori di città mai, chè certo vi sarebbero stati provocati o aggrediti. Ma dovunque essi andassero, o in pochi o in molti che fossero, eran guardati bieco da tutti. Se nella via c'era un crocchio, quelli che davan loro le spalle si voltavano prontamente indietro, tutti si ritraevano d'un passo, e si susurravano qualcosa nell'orecchio.—Eccoli qui—diceva forte qualcuno. E qualcun altro:—Badatevi.—I soldati passavano, e il crocchio si ricomponeva. Molti, vedendoli da lontano venir verso di loro giù per la via, scantonavano. [Pg 314] Altri, incontrandoli, giravan largo e si fermavan poi a guardarli quand'eran passati, con una curiosità mista di orrore e di paura. Nei quartieri della povera gente, al loro apparire alcuni chiudevan gli usci e s'affacciavano alle finestre; altri socchiudevan le imposte e guardavano per lo spiraglio; le donne chiamavano ad alta voce i bambini che giocavano in mezzo alla strada, o li andavano a prendere in braccio e li portavano in casa di corsa; i fanciulli scappavano di qua e di là volgendosi indietro a far i visacci; e a misura che i soldati andavano oltre, le porte e le finestre si riaprivano, e la gente faceva capolino con gran sospetto, interrogandosi e rassicurandosi a vicenda co' cenni. Non di rado i soldati udivano sonar nell'interno delle case urli e parole che non potevan capire, ma che dall'accento iroso o beffardo apparivano indubbiamente dirette a loro; e alzando gli occhi alle finestre vedevano spuntare adagio adagio una faccia, che, appena vedutili, si ritraeva; o non vedeano che una mano sporta fuori del davanzale e agitata in atto di minaccia, o ferma colle dita estreme distese e l'altre chiuse in atto di far le corna. Altre volte, passando, si sentivan mormorare alle spalle un aperto insulto, o una maledizione, o una parola incompresa che sonava l'una o l'altra cosa, si volgevano e vedeano una faccia volta in su a guardar le nuvole in aria distratta; domandar conto dell'insulto gli era un radunar gente e provocare un tumulto; tacevano e tiravano innanzi. Talora, invece che una parola, fischiava alle loro orecchie una pietra; tornavano addietro, cercavano chi fosse, interrogavano i presenti; nessuno sapeva nulla, nessuno aveva visto, nessuno aveva sentito.

Andando a pigliare i viveri, i carri del reggimento bisognava farli passare per certe vie, per cert'altre no; si diceva che dentro v'eran le materie velenose che [Pg 315] ammorbavano l'aria; non si voleva lasciarli passare; si sbarrava loro la strada. Per portare il rancio ai loro compagni di guardia bisognava che i soldati facessero un lungo giro attorno a certi quartieri; guai a passarvi in mezzo; la vista delle marmitte metteva in sospetto la gente; in men d'un istante, si radunava la folla, si arrestavano i soldati, si voleva vedere che cosa portavano, si obbligavano i portatori ad assaggiare in presenza di tutti quel brodo, a lasciarne una parte per provarlo e analizzarlo poi. Un indizio, per quanto lieve, un'asserzione, per quanto assurda, una parola, un gesto qualunque d'uno della folla bastava a mutare il sospetto in certezza, la certezza in furore. Non c'era tempo e modo di consumar un delitto poichè i furori della plebe, sempre preveduti, erano sventati sempre da un soccorso preparato e sollecito; ma la violenza non s'era sempre in tempo a impedirla, nè tanto potevano andar cauti i soldati da riuscire ad evitarla ogni volta, o a non provocarla mai.—Un giorno, in una via disusata, alcune donne del volgo videro un soldato con un involto sotto il braccio entrare a passi frettolosi in una casa, dove, poco prima, una fanciulla era stata colpita dal colèra. Cominciarono a fantasticare fra loro sul perchè quel soldato fosse entrato in quella porta.—Avete notato che cosa aveva sotto il braccio?—Avete osservato come aveva la faccia torva, e come si guardava attorno con sospetto?—Tutte gli avevano veduto qualcosa di strano e di malaugurato. Andarono verso quella casa e si fermarono davanti alla porta. Era chiusa; i sospetti s'accrebbero. Picchiarono; nessuno venne ad aprire. Chiamarono ad alta voce quei di dentro; nessuno rispose. Non c'era più dubbio; in quella casa si stava consumando un delitto. Levarono alte grida, percossero furiosamente la porta, lanciaron sassi nelle finestre; in [Pg 316] meno d'un minuto la strada fu piena di gente armata di bastoni, di scuri e di coltelli; la porta fu rovesciata, la folla si precipitò nella casa. Quand'ecco si schiude rapidamente una delle finestre del primo piano; un uomo in maniche di camicia balza in piedi sul davanzale, manda un altissimo grido, salta giù nella strada, cade, si rialza,—c'è un soldato che avvelena!—urla atterrito alla gente che gli si affolla intorno, fende la calca, divora la strada, scompare. Era il soldato istesso entrato poco prima nella casa per dare a una lavandaia un involto di biancheria del suo furiere.

Pochi giorni dopo accadde qualcosa di simile a un'ordinanza, mentre dalla trattoria portava il pranzo al suo ufficiale ch'era malato in casa. Da una mano teneva una boccetta dello speziale, e dall'altra i quattro capi d'un tovagliolo con dei piatti. Attraversava una viuzza abitata da poveri. Tutti l'osservavano attentamente; qualcuno, a una certa distanza, lo seguiva; quattro o cinque donne lo fermarono e gli chiesero fieramente che cosa ci fosse in quei piatti. Ebbe la mala ispirazione di rispondere un'impertinenza. In men che non è detto, i piatti, la boccetta, il tovagliolo furono sotto i piedi d'una folla di gente sbucata come per incanto da tutti i bugigattoli delle case d'intorno. Il povero soldato appena ebbe il tempo di aprirsi la via colla baionetta alla mano, e dovette ringraziare il cielo d'esserne uscito con una graffiatura nel viso e un colpo di pietra nella schiena.

Un'altra volta, passando tre soldati dinanzi a un gruppo di case fuori della città, uno di essi si fermò a guardare un fanciullo che scavava colle mani una fossetta, gli disse:—Bel bimbo,—si chinò e gli fece una carezza. Una donna poco lontana di là vide quell'atto, si slanciò alla porta d'una di quelle case e gridò con quanta [Pg 317] voce avea in gola:—Presto, presto! I soldati t'ammazzano il bambino!—Un grido acuto s'intese dal di dentro, apparve nello stesso punto sull'uscio un'altra donna, vide i soldati, si avventò, gettando un grido spaventevole, sopra il bambino, lo strinse fra le braccia, tornò come un fulmine in casa, chiuse la porta, si slanciò alla finestra, ansante, convulsa, cogli occhi fuor dell'orbita e la faccia smorta e stravolta; fissò lo sguardo sui soldati, e poi, accompagnando le parole con un gesto vigoroso come se scagliasse una pietra, gridò con voce soffocata:—Maledetti!—e si ritrasse. I soldati stavan là fermi, a bocca aperta, come trasognati. Ma la donna che avea dato il primo grido era corsa a chiamar gente; onde i tre poveri giovani pensarono tosto a mettersi in salvo, che non c'era tempo da perdere. Non avevano fatto ancora cinquanta passi quando apparvero davanti alla casa della madre i forieri armati della turba.

Una sera, lunge dall'abitato, un branco di contadini che andava in traccia d'avvelenatori, s'imbattè in un soldato. Appena lo vide, gli mosse incontro di corsa. Il soldato, malaccorto, volse le spalle e si diè a fuggire. Fu raggiunto, afferrato da dieci mani, tradotto dietro una casa romita, messo colle spalle al muro, minacciato di morte.—Dove tieni il veleno?—gli domandarono dieci voci in una.—Io non ho veleno...—rispose balbettando il soldato, bianco come un cadavere.—Dove tieni il veleno?—insistettero gli altri minacciosamente. E uno gli tolse il cheppì, lo esaminò e la buttò in terra; un altro gli strappò dal collo la cravatta.—Fuori questo veleno!—e uno che lo avea afferrato pel collo gli fece batter la testa nel muro.—Non ho nulla....—rispondeva con voce spenta e supplichevole il soldato.—Ah, non hai nulla, eh? Ora lo vedremo se non hai nulla! digrignavano quei feroci, e sbottonatogli [Pg 318] il cappotto e apertagli la camicia, lo andavano frugando per tutto.—Levategli il cinturino,—disse uno.—Gli afferrarono subito il cinturino e glielo tirarono di qua e di là per levarglielo d'addosso; non ci riuscivano, strillavano, bestemmiavano.—Oh!... lasciatemelo stare..., implorava il povero soldato, lasciatemelo stare il cinturino!...—Glielo sciolsero e glielo buttaron via, lo costrinsero a svestire il cappotto, malmenandolo, percuotendolo, facendogli correre a fior di pelle le punte dei coltelli, urlandogli nell'orecchio ogni maniera di vituperi e di maledizioni. L'infelice, a cui restava appena tanta forza da reggersi in piedi, si lasciava fare ogni cosa senza resistenza, quasi fuori dei sensi, colla testa e le braccia penzoloni come una persona morta, mormorando di tratto in tratto con un filo di voce:—La mia baionetta.... io non avveleno nessuno.... lasciatemi stare.... datemi la mia roba.... la mia baionetta!...—L'avrebbero certamente ucciso; ma volle la fortuna che passasse per di là una pattuglia, la quale, accorrendo velocissimamente, disperse la turba proprio nel punto che stava per ispargere il sangue di quello sventurato.

E questo ch'io narrai è quanto accadde di meno doloroso in quell'ordine di fatti, però che a Catania almeno sangue di soldati non se ne sparse, e non si può dire lo stesso di tutti gli altri paesi. Che cosa doveva provare in quei giorni il cuore dei soldati! Quali saranno stati i loro pensieri, i loro discorsi, a vedersi così ferocemente esecrati da coloro stessi a cui sacrificavano il riposo, la salute, la vita!

Ma per essi il correr rischio continuo della vita e averla a difendere così di frequente dalle violenze d'un volgo insensato era forse un pensiero meno doloroso e una cura men grave che il dovere a ogni tratto proteggere la vita degli altri cittadini dalle stesse violenze e [Pg 319] per le stesse cause minacciata. Ogni giorno dovevano accorrere a disarmare e ad ammansire una folla cieca di furore e assetata di sangue, e a strappare dalle sue mani le vittime, quasi sempre già malconcie dalle percosse e sanguinose, spesso semivive, qualche volta già trucidate. Bisognava, quando non si poteva più far altro, lottare per impadronirsi dei cadaveri, perchè non fossero mutilati e trascinati per le vie, o dati in preda alle bestie o alle fiamme. Bisognava che si cacciassero uno ad uno in mezzo a una folla di gente armata, che stringendosi e ondeggiando li portava di qua e di là, separandoli, pigliandoli in modo che al bisogno non avrebbero neanco potuto far uso delle armi, e l'uno potea essere passato da una coltellata senza che gli altri nemmeno se n'accorgessero. Eppure di quella turba forsennata bisognava fidarsene, e persuaderla, pregarla, supplicarla, chè ogni minaccia sarebbe riuscita vana, quando pure, inasprendo le ire, non avesse provocato una mischia e fatto versar nuovo sangue; il che, pur troppo, non di rado accadeva. Ciò nulla meno, molte vite furono salve, molto sangue fu risparmiato, e s'impedirono molti atti di ferocia brutale, specialmente nei paesi in cui non eran sospetti di veneficio i soldati, o nei giorni in cui non l'erano più.

Varrà un esempio per tutti.

A Bocca di Falco, piccolo villaggio vicino a Palermo, c'era il colèra. Correvano per le bocche di tutti i nomi di coloro sui quali il terribile sospetto era caduto, e s'aspettava una qualunque occasione per immolarli. Fra questi era un povero merciaiuolo che ogni due o tre giorni attraversava il paese per recarsi a Palermo. Aveva i capelli lunghi, un vestire strano, un cipiglio fiero, modi aspri e poche parole; ce n'era d'avanzo per crederlo uno spargitore di veleno. Un [Pg 320] giorno che il colèra aveva incrudelito oltre il consueta in quel paese, alcune frotte di pezzenti armati di zappe e di bastoni andavano in volta pel paese, levando alte grida di minaccia, fieramente risolute a farla finita cogli avvelenatori. Una di queste frotte incontrò il merciaiuolo, lo pigliò in mezzo senza ch'egli se n'avvedesse, gli si strinse ai panni e lo interrogò.—Quanti ne hai spacciati quest'oggi?—Lo sventurato comprese e credette di salvarsi con uno scherzo—Dieci!—rispose, e non rise.—Bastò. Uno della folla gli diede un gran calcio nella cassettina delle spille e delle cravatte che portava appesa al collo, e gli mandò in aria ogni cosa, dicendogli:—Questo, per ora. Adesso mostraci con che cosa assassini la gente.—Io?—quegli rispose per sua sventura, non riuscendo a frenare un impeto d'indignazione.—Siete voi che mi assassinate!—Ah siamo noi!—proruppe la folla furente. E nello stesso punto un pugno vigoroso nel mento gli empiva di sangue la bocca, una mano lo serrava alla strozza, un'altra gli si avvolgeva nei capelli, su tutta la persona gli cadeva una tempesta di pugni e di calci, ed era sbattuto così violentemente contro il muro che la nuca vi lasciava sopra una impronta di sangue.—Confessa i complici, assassino!—gli gridavano i primi conficcandogli profondamente le unghie nelle guancie e nel collo e premendogli le ginocchia e i bastoni contro il ventre—confessa!—E quei ch'eran dietro tendevan le braccia per afferrarlo, si buttavano di qua e di là per aprirsi un varco nella folla e giungere fino a lui e aprirgli anch'essi una ferita. L'infelice grondava sangue dalla bocca e dalle orecchie, gli occhi pareva gli volessero schizzar dalla fronte, un rantolo mortale gli erompeva dal petto; metteva orrore.—Confessa! Confessa!—Tutto ad un tratto dall'altro lato della strada scoppiò un altissimo [Pg 321] grido; era un altro avvelenatore che un'altra frotta di forsennati aveva assalito e percosso; tutti si voltarono da quella parte; il merciaiuolo, rimasto libero un istante, ributtò con uno spintone due che gli stavano al fianco, si gettò in una porta, la chiuse. La folla, intravvisto quell'atto, s'avventò contro la porta e cominciò a percuoterla rabbiosamente co' sassi e colle zappe. Il merciaiuolo s'era ricoverato in una stanzuccia a terreno; v'era dentro una donna che aveva visto dalla finestra tutta la scena di poco prima; all'apparir dell'avvelenatore si tenne per morta; il coraggio e la rabbia della disperazione l'invasero; gli si slanciò contro come una furia, gli si avviticchiò al collo, e cominciò una lotta feroce di morsi e di graffi. Stramazzati tutti e due, si avvoltolavano per terra come due belve, tenacemente abbracciati, l'un sopra l'altro a vicenda, mescendo l'alito e il sangue; la folla sporgeva le braccia dentro la stanza a traverso l'inferriata della finestra, e tendeva le mani convulse per afferrare la sua vittima, ululando orrende parole, e la porta cominciava a scricchiolare ed a cedere.... I soldati! I soldati!—gridarono in quel punto molte voci. Dopo un istante il povero merciaiuolo udì avvicinarsi nella via un rumor concitato di passi, vide luccicare di là dalle finestre le baionette, senti sonare una voce poderosa al di sopra del tumulto che diceva:—Pane per tutti!—e subito dopo i colpi alla porta rallentarsi e cessare, le braccia dei suoi assalitori ritrarsi dalla inferriata, e alle grida irate della folla succedere un sordo mormorio. La donna era rimasta in terra stremata di forze; egli era salvo.—Il comandante del distaccamento era stato avvisato per tempo di ciò che stava accadendo in paese, aveva radunato in un attimo tutti i suoi soldati, aveva fatto prender da ciascuno il suo pane, ed era così accorso a sedare [Pg 322] il tumulto colla doppia arme della minaccia e della carità. Dei soldati, in quel paese, non si sospettava, non solo, ma v'eran ben veduti, e fors'anco amati per le elemosine e i soccorsi d'ogni maniera di che erano stati sempre larghi con tutti; e però, al loro apparire, la folla ristette dalle violenze, e a poco a poco si tranquillò. Una parte dei soldati entrò nella casa e vi si pose a guardia; gli altri stettero guardando quei poveri affamati che divoravano il loro tozzo di pane in silenzio.—Oh quanti ne seguirono di cotesti fatti, e quante volte si ripeterono negli stessi paesi!

Ma la fatica più dura e l'ufficio che naturalmente più repugnava ai soldati era quello di seppellire i morti; per cui bisognava che s'armassero più che mai di coraggio e di fortezza. Spesse volte, nel cuor della notte, capitava alla caserma un messo del municipio a dire che in un tal punto, in una tal casa del paese s'erano scoperti dei cadaveri che nessuno voleva seppellire e che bisognava provvedervi prontamente, prima che la putrefazione rendesse impossibile la sepoltura. Un rullo fragoroso di tamburo destava in un istante tutto il corpo, si radunava un drappello di soldati, si accendevano le lanterne, si tiravano fuori i carri, si pigliavan le zappe e i badili, l'ufficiale di picchetto si metteva alla testa del convoglio, e via. Si giungeva silenziosamente al luogo indicato; le vie erano solitarie, le case abbandonate e chiuse. Dopo lunga fatica le porte scassinate rovinavano, e un alito d'insopportabile fetore ributtava indietro i soldati. Coraggio; uno innanzi colla lanterna; gli altri dietro a passo lento colla mano sulla bocca girando peritosamente lo sguardo per la squallida stanza. Distesi in terra su giacigli di paglia o di cenci, seminudi o mal ravvolti in un immondo stracciume, giacevano [Pg 323] i cadaveri l'uno accanto all'altro, o l'un sull'altro sconciamente mescolati; le faccie tumide, chiazzate di nero, lorde attorno alla bocca di una bava sanguinolenta; i ventri rigonfi, sparsi di larghe macchie vinose e reticolati di verdi strisce dagli intestini e dalle vene; le membra, dalla parte appoggiata al suolo, schiacciate; ogni sembianza umana stravolta o perduta, e qua e là per le membra più corrotte il primo manifestarsi d'una vita schifosa. E bisognava avvicinarsi a quegli orridi giacigli e afferrare e sciogliere le une d'in fra l'altre quelle membra; sollevare ad uno ad uno quei corpi e portarli sui carri, vedendoli ad ogni scossa e ad ogni passo più bruttamente scomporsi e trasfigurarsi, e lasciar cadere qua e là ora un fetido cencio, ora qualche altra più sozza traccia di sè. Oh la era ben altra cosa che vedere i morti sul campo stesi in un lago di sangue, lacerati dalla mitraglia, o rotti e mutilati dalle palle di cannone! Allora ci suona intorno il grido di mille compagni, si vedono ondeggiare qua e là pei colli e pei campi i battaglioni luccicanti di baionette, si vede sventolar lì accanto la bandiera del reggimento, si sente il lontano rumore delle batterie accorrenti, e il sangue ribolle, l'anima s'esalta, e i cadaveri che s'incontran sul cammino non si contano, ma che! non si guardano, non si vedono, non si pensa nemmeno che ce ne debbano essere, o se l'occhio vi si fissa, il cuore esclama:—Addio, fratello!—e null'altro, e si va oltre, e si scorda. Ma là, in quegli abituri, di notte, in mezzo a quel silenzio, e in quella quiete e al chiarore di quelle lanterne, come doveva essere orrenda l'immagine della morte! Quanti di quei soldati, anche de' più forti, avranno poi avuto presente, e per più giorni, l'immagine di quei cadaveri deformi, e avran risentito il contatto di quelle membra gelide e floscie, [Pg 324] il rumore di quelle teste cadenti pesantemente sul carro!—E spesso qualcuno retrocedeva inorridito alla vista dei morti, o nell'atto di afferrarli gli tremavan le braccia e gli si velavano gli occhi.—Oh amico!...—avrà detto al vicino,—io non posso!—Ma suonava sempre pronta la voce dell'ufficiale:—Coraggio, figliuoli, tutto sta nel pigliare il primo; bisogna farci l'abitudine.—E allora il soldato stendeva timidamente la mano sopra il cadavere, torcendo il capo e trattenendo il respiro.—Il convoglio s'incamminava alla volta del cimitero. Quivi giunti, i soldati posavano le lanterne in terra, e parte cominciavano a scavar le fosse, parte, fermi accanto ai carri, aspettavano un cenno per porre giù i morti. L'ufficiale stava immobile sull'orlo d'un fosso a sorvegliare l'opera de' soldati. Tutti tacevano. Non si sentiva che il picchio delle zappe confitte nel terreno e il ricader della terra gettata in aria da' badili. E tratto tratto una voce:—Animo, ragazzi!—E poi si traevan giù dai carri i cadaveri; un soldato facea lume perchè ognuno potesse vedere dove metteva le mani, un altro ritto sul carro aiutava quei di sotto a prender corpo per corpo dal mucchio, e diceva:—Pigliate questo.—Quest'altro.—Attenti a questo qui che è mezzo disfatto....—Dieci passi più in là non si sarebbe sentito che un lieve bisbiglio, e a quando a quando una voce più forte:—Coraggio.—Oppure:—Badate alle mani.—E tutt'intorno tenebre e silenzio.

—Ma perchè,—domandò una volta un soldato mentre rientrava in quartiere—perchè li dobbiamo sotterrar noi?—Oh bella—gli rispose un caporale con accento di profonda convinzione,—perchè non li sotterrano gli altri.—A una ragione siffatta non c'era più che obiettare, e tutti stettero zitti.

[Pg 325]

Ma ciò che s'è detto finora non è che lieve cosa in confronto di quel che rimane a dirsi. Quanti casi ben più funesti e più lagrimevoli sono seguiti, e come sarei lontano ancora dalla fine della mia narrazione se volessi dire solo una metà di quelli ch'io conosco, e ne conosco una sì piccola parte!

A Sutèra, piccolo paese della provincia di Caltanissetta, v'era un pelottone del 54º reggimento di fanteria comandato dal sottotenente Edoardo Cangiano. La mattina del 22 giugno capita alla caserma un contadino tutto affannato e si presenta all'ufficiale.—Oh signor ufficiale!—esclama con voce supplichevole,—venga lei per carità, ci soccorra lei... Qui presso, a Campofranco, è scoppiato il colèra; metà della gente è fuggita; le vie son piene di morti; non ci son medici, non ci son becchini, non c'è nemmeno da mangiare....; è una desolazione....; quei che non morranno di colèra morranno di fame.... Oh, venga lei, venga subito lei!—Immantinente il pelottone in armi, un avviso al sindaco, un dispaccio al comando militare di Caltanissetta, un avvertimento al sergente che resta in paese con qualche soldato, e poi via a gran passi alla volta di Campofranco. C'era da fare un miglio di strada o poco più per un viottolo serpeggiante a traverso i campi. Splendeva un sole ardentissimo. I soldati, grondanti sudore sin dal primo uscir dal paese, procedevano un dietro l'altro, in lunga fila, con un andare fra il passo e la corsa e l'orecchio intento al contadino, il quale con interrotte parole dipingeva al Cangiano il triste spettacolo che gli avrebbe offerto il paese.—Animo, animo,—questi gli rispondeva tratto tratto,—co' lamenti non si fa nulla, ora è tempo di fatti.—E sempre più affrettava il passo, e con esso i soldati, tanto che finirono col correre addirittura. A un certo punto si cominciarono a veder da [Pg 326] lontano uomini, donne e fanciulli errare incertamente pei campi, accennarsi l'un l'altro i soldati, soffermarsi, fuggire, correre avanti e indietro, chiamarsi ad alta voce, radunarsi e disperdersi, come gente inseguita e fuor di senno dalla paura. A misura che il drappello s'avvicinava al villaggio, i fuggiaschi spesseggiavano, l'agitazione, il gridìo crescevano; intere famiglie s'aggiravano per la campagna portando o traendosi dietro le masserizie; alcuni che avean posto la roba in terra per riposarsi, alla vista de' soldati la ripigliavano in fretta e s'allontanavano volgendosi indietro paurosamente; altri cadevano spossati, altri si rialzavano; molti de' più lontani, rivolti verso i soldati, mandavano alte grida e agitavano le braccia in atto di maledire.—Ah! signor ufficiale!—esclama il contadino,—questo non è anche nulla!—Non importa—rispondeva il Cangiano;—siamo preparati a tutto.—Apparvero le prime case del paese e l'imboccatura della prima strada. La gente che veniva fuggendo alla volta dei soldati, scortili appena, parte volgea le spalle e tornava in paese correndo e gridando come se annunciasse un assalto di nemici; parte si gettava a destra e a sinistra pei campi. Sul primo entrare nella strada, due cadaveri stesi in terra davanti alla porta d'una casa disabitata. Appena entrati, un rapido sparir di gente nelle case, un chiudersi impetuoso di porte e di finestre, strida acute di donne, pianti di bambini, e in fondo alla strada un rapido affollarsi e un rimescolarsi rumoroso di popolo, poi una fuga generale.—Presto,—gridò il Cangiano,—dieci soldati girino attorno al paese e vadano a fermar quella gente.—Dieci soldati si spiccarono dal pelottone e infilarono di corsa una via laterale. Gli altri tirarono innanzi. La gente impaurita continuava a rinchiudersi in furia nelle case.

—Non vogliamo far del male a nessuno!—gridava [Pg 327] ad alta voce il Cangiano;—siamo venuti ad aiutarvi, siamo vostri amici; uscite, buona gente, uscite pure di casa!—

Qualche porta e qualche finestra cominciava ad aprirsi; qualche persona, alle spalle dei soldati, cominciava ad uscire; nell'interno delle case s'udivan voci fioche di lamento; nella strada, dinanzi alle porte, giacevano prostesi molti infelici estenuati dalla fame e languenti, o presi dal morbo, immobili e intorpiditi che parevano morti; qua e là masserizie abbandonate sugli usci o in mezzo alla via e ad ogni passo paglia sparsa e ciarpame. In ogni viuzza laterale che mettea nei campi uno o due o più cadaveri, quali coperti di paglia, quali di terra, quali di pochi cenci fra cui apparivano le membra gonfie e nerastre; altri buttati a traverso le porte, metà dentro e metà fuor delle case.—Guardi, signor ufficiale, guardi!—esclamava lamentevolmente il contadino,—Provvederemo a tutto,—rispondeva il Cangiano—coraggio!—

In quel punto, la folla dei fuggitivi ch'era stata respinta addietro da quei dieci soldati, veniva tumultuosamente verso l'ufficiale.—Schieratevi,—gridò questi volgendosi ai soldati, ed essi si fermarono e si schierarono a traverso la strada. Il Cangiano aspettò la turba di piè fermo. Questa gli si arrestò dinanzi a una diecina di passi, cessò di gridare, e stette guardando con fiero cipiglio i soldati. Era tutta povera gente stracciata, faccie pallide e ossute, occhi stralunati, fisonomie a cui i lunghi patimenti aveano dato un'espressione come di stanchezza mortale e insieme di selvaggia fierezza.—Vogliamo uscire!—gridò una voce di mezzo alla folla. E tutti ripeterono il grido, e la folla ondeggiò.—Perchè volete uscire?—domandò il Cangiano con voce risoluta, ma temperata d'una tal quale dolcezza.—Bisogna [Pg 328] restare; bisogna aiutarsi l'un l'altro; alle disgrazie comuni bisogna rimediare in comune; è un farle peggiori il pensare ciascuno solamente per sè e nulla per tutti.... Noi siamo venuti a soccorrervi.—Vogliamo uscire!—gridò minacciosamente la folla, e que' di dietro incalzando, i primi furon balzati innanzi due o tre passi.—Fatevi indietro,—disse con gran calma il Cangiano, e poi ad alta voce:—Ascoltate il mio consiglio; le donne e i fanciulli rientrino in casa; gli uomini restino per aiutare i soldati a seppellire i morti.—Noi non vogliamo morire!—rispose imperiosamente la moltitudine, e levando un rumor confuso di grida, si rimescolò e ondeggiò un'altra volta come per pigliare lo slancio e gettarsi contro i soldati.—Lo volete?—tuonò allora l'ufficiale,—e sia!—E voltosi indietro gridò:—Pronti!—Il pelottone levò e spianò i fucili in atto di sparare, e la folla, gittando un grido di spavento, disparve in un attimo per le vie laterali. Gli altri dieci soldati si ricongiunsero ai primi.

—Qui ci vuol fermezza e coraggio,—esclamò il Cangiano;—bisogna sotterrar subito i morti; metà di voi vada in campagna e mi conduca qui, a forza, quanti più uomini potrà, e gli altri vengano con me.—Metà del pelottone si diresse a rapidi passi fuor del paese. Gli altri cominciarono a correre di qua e di là, a entrar nelle case, a frugar dappertutto in cerca di zappe, di pale, di carrette, di panche, di assi su cui potere in qualche modo adagiare i morti per trasportarli fuor del paese. In pochi minuti trovaron tutti qualcosa di servibile a quell'uopo, e parte cominciarono a raccogliere i cadaveri, parte, recatisi al cimitero vicino, si misero a scavare le fosse in gran fretta, gli altri presero a sgombrar le strade degli inciampi più incomodi e delle più fetide sozzure.

[Pg 329]

Intanto il Cangiano, seguìto da un soldato, andava in cerca d'una casa adatta all'uso di ospedale, fermando quanta gente del paese incontrava per via, consigliandoli, esortandoli, pregandoli, e nel passare sollecitava i soldati, dava ordini e suggerimenti, porgeva conforti di affettuose parole. Trovò la casa, la fece sgombrare, vi fece portar dentro i letti dalle case abbandonate, andò egli stesso con quattro soldati a battere alla porta di tutti gli abituri, a domandare che gli lasciassero portar via gli infermi, ch'egli li avrebbe fatti assistere, curare, e le loro famiglie sarebbero state soccorse. Rispondevano di no; egli offriva del denaro, pregava, minacciava; tutto era inutile. Allora i soldati entravano a forza nelle case; due di essi s'impossessavano dell'infermo, gli altri due tenevano indietro colle armi i parenti e i vicini. Spesso bisognava levar di peso di sulle soglie delle case le donne che ne chiudevan l'accesso co' propri corpi; bisognava lottare con esse, ributtarle malamente, trascinarle.

Dopo lunga fatica, un buon numero d'infermi eran già allogati nel nuovo ospedale e due o tre soldati provvedevano ai loro bisogni aspettando l'arrivo dei soccorsi da Caltanissetta, quando tornò in paese l'altra metà del pelottone traendo seco di viva forza una frotta di contadini che aveva arrestati per la campagna. Corse loro incontro il Cangiano, li scompartì in vari gruppi, e li fece accompagnare ai vari lavori. I soldati novamente giunti presero a lavorare anch'essi; in poco tempo i cadaveri ch'eran per le strade furono sepolti; le strade sgombre e ripulite; si continuò ad andare in volta a prendere gl'infermi, e a poco a poco, ora colla persuasione, ora colla forza, si riuscì a radunarne nell'ospedale la massima parte; da ogni lato era un continuo andirivieni, un chiamarsi, un affaccendarsi continuo di soldati. Il popolo, [Pg 330] che cominciava a riadunarsi, li stava a guardar da lontano tra sospettoso e meravigliato; la gente sparsa per la campagna si veniva a poco a poco avvicinando al paese per vedere che cosa vi accadesse. I primi arrivati, non vedendo più i cadaveri per le strade, pigliavano animo e s'addentravano nel paese; molti cominciarono spontaneamente a pulir le strade di quanto vi rimaneva d'immondo; altri a rientrar nelle case; alcuni ad affollarsi intorno al Cangiano, guardandolo attoniti, senza far parola, trattenuti ancora da un po' di diffidenza; ma coll'animo preparato a render grazie e a pregare. E il Cangiano, pur non ristando dal correre di qua e di là per incoraggiare i soldati, si volgeva tratto tratto alla gente che lo seguiva.—Su via, andate ad aiutare que' poveri giovani che è tanto tempo che faticano per voi; andate a chiamare la gente ch'è fuggita in campagna; facciamo tutti qualche cosa; rimettiamo un po' d'ordine nel paese; il sindaco tornerà; torneranno anche i signori e vi soccorreranno; torneranno i fornai, verranno dei medici; presto arriveranno soccorsi da Caltanissetta; coraggio, via, lavoriamo tutti; a tutte le sventure c'è rimedio, rimedieremo anche a questa. Siamo venuti qui pel vostro bene, persuadetevene, buona gente; che cosa avete a temere dai soldati? Non siamo forse tutti dello stesso paese, non siamo noi i vostri fratelli, i vostri difensori?—A queste parole segui un mormorìo di approvazione nella folla; qualcuno se ne staccò e corse in aiuto dei soldati; altri andarono verso la campagna; molti si sparsero per le strade; i restanti si fecero attorno all'ufficiale con lamenti e supplicazioni:—Siamo senza pane.... abbiamo fame....—Lo so, buona gente, lo so; ancora un po' di pazienza, e il pane arriverà; farò tutto quel che posso per voi; manderò i miei soldati a pigliarvi da mangiare a Sutèra; vi daremo tutto [Pg 331] quello che abbiamo. Ma intanto bisogna lavorare, bisogna portar via i morti, curare i malati, aiutarsi fra tutti.—Allora la gente ringraziava, poi ricominciava a pregare, a lamentarsi, a chieder pane.

Ad un tratto, arrivò correndo un soldato e parlò nell'orecchio al Cangiano. Un'assai dura prova di carità e di fortezza restava a farsi! Il Cangiano avvisò saggiamente che si dovesse far ogni cosa di nascosto alla popolazione, ordinò ai presenti d'andar ad aspettare i soccorsi sulla strada che mena a Caltanissetta, chiamò quindici soldati co' fucili, fece venire innanzi venti contadini colle zappe, e s'avviò con essi verso un'estremità del villaggio. Ivi era una piccola chiesa abbandonata. Si fermarono dinanzi alla porta, la tentarono; era chiusa. L'atterrarono e fecero tutti insieme un passo addietro levando un grido di ribrezzo. In mezzo a quella chiesa, poco più ampia d'una sala ordinaria, c'era un mucchio di venti cadaveri imputriditi.—Avanti!—gridò l'ufficiale. I soldati si gettaron dentro alla chiesa; i contadini dettero indietro.—Avanti!—gridò un'altra volta il Cangiano. Non si mossero. Ei fece un passo avanti, essi si diedero alla fuga, i soldati si slanciarono loro alle spalle, e li ebbero in un momento raggiunti e afferrati.—Trascinatemi qui codesti poltroni!—gridava di sulla porta della chiesa il Cangiano. I soldati li ricondussero a gran stento traendoli per le braccia, cacciandoli innanzi a spintoni, minacciandoli colle armi. Ma al momento di entrare, quelli presero a resistere con maggior forza, puntando i piedi come cavalli restii, dibattendosi e urlando disperatamente, quasi li volessero trarre al supplizio.—Fuori le baionette!—gridò sdegnosamente l'ufficiale afferrandone uno per la vita e buttandolo in mezzo alla chiesa; i soldati snudaron le baionette e le alzarono in atto di ferire.—Avanti, poltroni, [Pg 332] o ve le cacceremo nelle reni!—Voi volete farci morire! i contadini gridavano.—Moriremo tutti!—rispondevano fieramente i soldati; ma bisogna entrare!—E con un estremo sforzo li spinsero dentro tutti e venti. Qui cominciò un orribile lavoro. I cadaveri si trovavano in uno stato di completo sfacimento, eran tutti un flosciume senza forma da non potersi nemmeno sollevare da terra. Bisognò rompere le panche della chiesa, ficcare due assicelle sotto ogni morto, e afferrandole per le estremità, alzare così il fetido peso, colle braccia tese e la faccia rivolta da un lato, chè l'aspetto di que' corpi era tale da non potervi fermare lo sguardo. Ad ogni crollo ch'e' ricevessero, colava dalle orecchie e dalle bocche e si spandeva per quei visi un verde marciume, e le nere carni delle braccia e delle gambe spenzolanti pareva si volessero staccare dall'ossa e dissolversi. Il Cangiano mandò quattro soldati a raccoglier legname nelle poche case abbandonate ch'eran là presso. Questi, non trovandovi altro, presero tavole, seggiole, imposte, tutto quanto si potesse bruciare, e ammonticchiarono ogni cosa nel mezzo d'un campo poco lungi dalla chiesa. I cadaveri furono uno ad uno portati fuori e rovesciati su quel mucchio. Vi si appiccò il fuoco ed ogni cosa bruciò. In Campofranco non restava più un cadavere. Tra sepolti e bruciati se n'eran levati di mezzo più di sessanta.—

Viste guizzare le prime fiamme, il Cangiano tornò nel centro del paese, ove riprese e proseguì infaticabilmente la santa opera di prima, finchè giunse da Caltanissetta un capitano della piazza con buona provvigione di alimenti, di medicine e di danaro, e con questi ripercorse, casa per casa, tutto Campofranco, beneficando i poveri, soccorrendo gl'infermi, rassicurando i paurosi, rimettendo in tutti gli animi un po' di speranza e di pace. In breve tempo rientrarono tutti i fuggiaschi, [Pg 333] il municipio si riordinò, ognuno riprese gli uffici e gli usi consueti, il paese mutò aspetto, e il Cangiano e i suoi soldati ritornarono a Sutèra accompagnati dalla benedizione di tutti. Anche a Sutèra infuriava il morbo, e anche là il Cangiano fece veri miracoli di carità e di coraggio. L'undici d'agosto la Giunta municipale della città lo acclamò unanimemente benemerito del paese, e gli espresse la gratitudine della cittadinanza con una lettera piena di entusiasmo e di affetto. Possano queste povere pagine far sì che nel cuor di molti, come nel mio, suoni caro e riverito il suo nome.

Ricordiamo qualche altro fatto e qualche altro nome.

Il sottotenente Livio Vivaldi comandava un distaccamento del 54º reggimento a Palazzo Adriano. Vi si sparse il colèra. Fuggì il sindaco, fuggirono i medici, i farmacisti, i preti; non restarono che i poveri. Il Vivaldi tenne luogo di tutti e provvide a tutto. Di giorno visitava gl'infermi, sollecitava le sepolture, faceva ripulire e disinfettare il paese; di notte dava la caccia ai malandrini che scorazzavano per le campagne. Fra l'altre volte, la sera del dieci luglio, mentre stava distribuendo del pane in una casa di poveri, gli si annunziò che a poca distanza dal paese s'era radunata una banda di malfattori. Corse alla caserma, prese con sè dieci soldati, uscì alla campagna, sorprese la banda, l'attaccò, fu ferito, continuò a combattere, la volse in fuga, n'uccise il capo, arrestò gli altri, tornò in paese e la mattina dopo ricominciò il suo ufficio di medico e di limosiniere.

A Gangi, nella provincia di Termini, scoppiò il colèra verso la metà di giugno. Mezza la popolazione fuggì. Quei che rimasero occultarono i morti e si chiusero nelle case per paura d'esser avvelenati. Nella notte dal ventisei al ventisette i più arditi si armarono e si diedero [Pg 334] a percorrere il paese tirando fucilate alla cieca nelle finestre, nelle porte, e contro quanti incontravano. Accorsero i bersaglieri da Petralia Sottana, diedero la caccia per tutta la notte ai tumultuanti che si disperdevano e si riannodavano incessantemente, finchè, quetato il tumulto, entrarono a forza nelle case, vi trovarono tredici cadaveri insepolti, e li seppellirono di propria mano, minacciati e insidiati nella vita dalla moltitudine irata.

Era scoppiato il colèra a Menfi. Il popolo difettava di medici, di medicine, di danaro, di pane. Ventiquattro cadaveri giacevano insepolti da quarantott'ore. Era imminente una ribellione. Ne fu avvertito per dispaccio telegrafico il generale Medici. Il distaccamento di Sciacca ricevette immantinente l'ordine di recarsi a Menfi. Ventiquattr'ore dopo il generale riceveva questo dispaccio:—Giunto il distaccamento. Sepolti i morti. Ordine ristabilito. Medicine e viveri distribuiti. Provvisto all'amministrazione comunale.—

A Grammichele, essendo seguìte due morti di colèra, il popolo sospettò di avvelenamenti, s'armò, assalì i carabinieri, uno ne uccise, uno ne ferì mortalmente, gli altri costrinse a rinchiudersi nella caserma, e ve li tenne assediati tutta una notte tentando ad ogni momento di rovesciare le porte e di precipitarsi ad ucciderli. Accorsero da Caltagirone quaranta soldati del 9º reggimento di fanteria, comandati dal sottotenente Goi. Al loro primo apparire le bande armate si dispersero; ma, accortesi del picciol numero dei soldati, si riadunarono, mossero loro contro, gl'insultarono, gli minacciarono, gridando che volevano frugare negli zaini e impossessarsi dei veleni che v'eran dentro. La turba era in numero dieci volte maggiore dei soldati; stava per seguire una strage; fu chiesto nuovo soccorso a Caltagirone; [Pg 335] giunsero in gran fretta nuovi soldati e tutti insieme, dopo lunga fatica, riuscirono a raccogliere quindici guardie nazionali con cui s'aggirarono tutta la notte pel paese e per la campagna, ogni momento minacciati o assaliti. Finalmente riuscirono a ristabilire la quiete.—I sediziosi avevano attaccato a una casa del paese un proclama che cominciava così: «Coraggio! Su via, coraggio, compagni! Non desistete dai vostri proponimenti, non siate vigliacchi; ma vindici dell'onor patriotta; temete forse un pugno di soldati? Sbaragliateli e fugateli; a terra le vili e obbrobriose trame governative; spezzate i micidiali vasi del veleno che i vostri superiori, esecutori infami di necronomici decreti reali, gentilmente apprestano al vostro labbro.» Testuali parole.

A Longobucco, provincia di Rossano, morì di colèra verso la fine di luglio un tal Giuseppe Citini. La plebe lo credette morto di veleno; irruppe armata mano nella casa del sindaco; invase la casa del Citini eia saccheggiò; mise a ruba la casa del farmacista Felicetti e distrusse la farmacia; suonò le campane a stormo; corse furentemente le strade per l'intera notte gridando che volea mettere a morte tutti i proprietari e tutti gli officiali pubblici. La mattina tentò di penetrare nella caserma dei bersaglieri, e cercò di nuovo del sindaco per ucciderlo. E l'avrebbe ucciso se non accorrevano in tempo il maresciallo dei carabinieri, il furiere Allisio e il sergente Cenderini dei bersaglieri, i quali si cacciarono coraggiosamente in mezzo alla folla e riuscirono a distorta dall'iniquo proposito, e ad impedire l'incendio di varie case e l'uccisione di molti cittadini. E mantennero un po' di calma nel paese sino alla mattina del giorno dopo, quando arrivò una compagnia del 45º battaglione di bersaglieri, comandata dal capitano Ippolito [Pg 336] Viola, e disperse la folla che ricominciava a tumultuare. Ma i più furibondi si rinchiusero precipitosamente nelle case e fucilarono dalle finestre i bersaglieri, due de' quali caddero feriti e per poco non fu morto il maresciallo. Allora i bersaglieri, inaspriti da quella resistenza ostinata, abbatterono le porte delle case, vi si gettaron dentro, sorpresero i ribelli colle armi alla mano.... e risparmiaron loro la vita. E così finì la sedizione di Longobucco, nella quale è da notarsi che le maggiori scelleratezze furon commesse dalle donne.

In Ardore, comune di Geraci, v'erano sei carabinieri e ventiquattro soldati del 68º reggimento di fanteria, comandati dal sottotenente Gazzone. La mattina del 4 settembre il popolo si armò e si affollò fuor del paese al grido di «morte agli avvelenatori!». Quando si parve in numero bastante, irruppe nel paese. Il Gazzone, fidando nella simpatia che il popolo gli avea dimostrato in più d'un'occasione, mosse benignamente incontro alla moltitudine e tentò di quetarla con buone parole; gli fu risposto con due palle nel petto che lo stesero a terra cadavere. Non dirò quel che del suo cadavere si fece per non aggiungere orrori ad orrori. I soldati assaliti alla spicciolata, impotenti a resistere, ebbero appena il tempo di riparare nella caserma dei carabinieri, nella quale fin dalla mattina s'eran rifugiate tre famiglie di nome Lo Schiavo, a cui la popolazione, tenendole ree di veneficio, aveva incendiate le case. Una immensa folla si accalcò dinanzi alla caserma e chiese con grida spaventevoli che le fossero dati nelle mani gli avvelenatori. Il capo di quelle famiglie, il vecchio Lo Schiavo, ebbe il coraggio di affacciarsi a una finestra e di là, colle mani giunte, lacrimando e singhiozzando da straziare il cuore, supplicò la turba di risparmiare almeno il sangue delle donne e dei fanciulli. Gli fu risposto che [Pg 337] sarebbero stati tutti sbranati. Il povero padre, preso da un impeto di disperazione, trasse un colpo di pistola nella strada. Fu il segnale dell'assalto. La moltitudine, mettendo un lungo urlo di selvaggio furore, si precipitò colle scuri sulle porte e cominciò a lanciare una grandine di palle e di sassi contro le finestre. I soldati, dal di dentro, si difesero a fucilate. La lotta durò più d'un'ora. Finalmente, visti riuscir vani i suoi sforzi, il popolo appiccò il fuoco alla caserma. Orribile scena! Già le fiamme avviluppavano tutta la casa e, screpolati i muri, guizzavano qua e là nell'interno delle stanze, e l'aria s'infocava e le travi del tetto crepitavano; di fuori sibili e grida feroci di gioia; di dentro strida disperate di donne e di fanciulli; sette soldati e Lo Schiavo stesi a terra nel sangue.... In quegli estremi, il caporale Albani decise di tentar quell'unica via di salvezza che rimaneva; riunì in uno stretto gruppo le tre famiglie; ordinò ai suoi pochi soldati di pigliare in spalla i feriti, e primo lui e gli altri subito dietro, aperta in furia una porta e abbassate le baionette, si precipitarono a capo basso nella folla. Questa, sopraffatta da quell'incredibile audacia, cedette il passo; ma appena furon passati, esplose i fucili e colpì a morte parecchi della famiglia sventurata; gli altri si salvarono, parte nelle case, parte nella campagna; i soldati non furono raggiunti. Due giorni dopo arrivavano in Ardore tre compagnie di fanteria da Gerace, da Monteleone e da Reggio, e vi ristabilivano la quiete. Il capitano Onesti, del corpo di stato maggiore, che resse per qualche tempo l'amministrazione comunale, il maggiore Gastaldini che comandava le forze militari di Ardore e delle vicinanze, e il Broglia, medico di battaglione, si condussero in tal modo che per verità io non so con che parole e' si potrebbero degnamente lodare. Non parlo dei soldati, che là come [Pg 338] da per tutto si adoperarono in pro del paese con uno zelo infaticabile e una pietà religiosa.

Bastino questi fatti, che non mi son prefisso di scrivere una storia.

Non importa ch'io dica come siansi condotti i comandanti dei corpi e delle divisioni per tutto il tempo che il colèra durò, però che le popolazioni, i municipi e la stampa ne han fatto in molte occasioni la più larga testimonianza e la più splendida lode. Ma fra que' tanti nomi cari all'esercito e al paese ve n'ha uno che non può essere taciuto, per quanto agevolmente ogni lettore lo sottintenda, e forse già fin d'ora con un moto spontaneo del cuore abbia indovinato tutto quello che voglio dire di lui: è il general Medici.

Quello che egli fece da principio per impedire la diffusione del colèra e per preservarne almeno le truppe, si è detto. È facile l'immaginare che cosa egli abbia fatto dappoi. Giorno e notte in faccende o in pensiero; ogni momento un annunzio di nuove sventure, una notizia di nuovi tumulti, e lì subito consulte, ordini, provvedimenti, e partenze improvvise, e un mandare e un ricevere continuo di dispacci e di lettere da tutte le parti. Si recava ora in un paese ed ora in un altro ad assicurarsi che le autorità militari adempissero i loro uffici e visitava le caserme, le prigioni, gli ospedali, le case di convalescenza. Notevole, fra l'altre, la visita a Messina, dove perdette un chiarissimo ufficiale del suo seguito, il bravo e buon capitano Tito Tabacchi; e quell'altra, nei giorni che più imperversava il colèra, a Terrasini, dove entrò nelle case dei poveri a porger soccorsi e conforti, e fece improvvisare ospedali, e radunò infermieri, e tanta fiducia ispirò negli animi coll'opera e colla parola e colla ferma serenità dell'aspetto, che lasciò [Pg 339] il paese mutato. Operoso, provvido e caritatevole sempre; ma negli ospedali, al capezzale degl'infermi, d'un cuore divino. Nei due ospedali militari di Palermo, Sesta Casa e Sant'Agata, ei vi si recava ogni settimana e li visitava diligentemente in ogni parte, interrogando tutti, esaminando tutto, consigliando e incoraggiando medici, infermieri e malati colla sollecitudine d'un padre. Memorabile la visita del quindici agosto nel più forte infuriar del colèra. Andò all'ospedale con parecchi ufficiali del suo stato maggiore. Vi era aspettato dai medici radunati sulla soglia del primo camerone. Al suo apparire, gl'infermieri si disposero in ordine lungo le due file dei letti; alcuni de' malati, la maggior parte gravissimi, volsero la testa verso la porta. Il generale s'avvicinò al primo letto; tutti gli altri in semicircolo dietro a lui; al suo fianco il medico direttore. Il malato era grave; aveva il viso cadaverico, gli occhi infossati e iniettati di sangue, le labbra nere, e il respiro affannoso e interrotto da profondi singulti. Non era bene in sè. All'avvicinarsi di tutta quella gente alzò gli occhi in volto al generale e ve li tenne fissi e immobili senza espressione. Il dottore gli si avvicinò e gli domandò, indicandogli il Medici:—Conosci questo signore?

Il soldato guardò il dottore senza fare alcun segno.

—Lo conosci?—questi ripetè.

Allora parve capir la domanda. Il dottore disse forte:

—È il generale Medici.

—Medici.... Medici...,—mormorò confusamente il malato; lo guardò, mosse le labbra come per sorridere o per dire una parola, chinò un po' la testa come per accennare di sì, poi l'assalse un violento singhiozzo, i suoi occhi ritornarono immobili e insensati, [Pg 340] e non diede più altro segno d'intendimento. Il generale guardò ansiosamente il dottore.—Non ancora—questi rispose. E andarono oltre.

In uno dei letti vicini c'era un caporale che morì il giorno dopo.

Era in sè; ma profondamente scoraggiato. Avea la pelle del viso tutta raggrinzita, sparsa di macchie livide e luccicante d'un sudore viscoso. Visto il generale, si mise a guardarlo ora socchiudendo ora dilatando gli occhi e mettendo un lamento affannoso.

—Come ti senti?—il generale gli disse. Quegli scosse lievemente la testa e voltò gli occhi in su in atto sconsolato.

—Coraggio, figliuolo; non bisogna perdersi d'animo; bisogna pensare a guarire.—

Il malato, facendo molto sforzo, mormorò:—A me non mi rincresce... di morire.

—Morire! che dici mai! Tu non devi disperare, caro mio; tu guarirai; il medico mi ha detto che guarirai; non è vero, dottore, che guarirà?—

Il soldato diede uno sguardo sfuggevole al dottore, e fece un atto del capo come per dire di no, poi guardò fiso il Medici e disse con voce spenta:—Grazie, generale.—

Questi chinò la testa, stette pensando un istante e poi passò a un altro letto.

V'era un soldato in via di guarigione, che non voleva pigliare una certa medicina.

—Perchè non la vuoi pigliare?—gli domandò il generale.

—.... Fa male,—questi rispose timidamente.

—No che non fa male, mio caro; vuoi vedere che la piglio io?—E presa un'ampolla che gli diede il dottore, ne bevve un sorso, e la porse al soldato che stava guardandolo in aria di maraviglia.—Animo, bevi.—

[Pg 341]

Il soldato bevve, fece un brutto viso, e poi rise.

A un altro che dovea passare all'ospedale dei convalescenti, il generale domandò:—Cosa ti senti adesso?—

—Cosa mi sento?—il soldato rispose;—ah! signor generale, una gran fame.—

Man mano che andava innanzi pei cameroni, i malati che lo potevano si alzavano a sedere, o si sollevavano un poco sul gomito, tendendo l'orecchio e allungando il collo per sentire quel ch'ei diceva e per vederlo in viso.

L'ultimo visitato era agli estremi. Aveva la faccia stravolta da non si riconoscere più, con quell'impronta di vecchiaia, con quell'espressione d'un grande spavento, che è tutta propria de' colerosi, e che vista una volta si ricorda per sempre. Delirava borbottando parole confuse; moveva incessantemente le braccia e stropicciava le dita come se cercasse alcun che sulle coltri, o alzava le mani come per afferrare qualcosa che gli svolazzasse dinanzi agli occhi. Era un giovane sergente che in que' tristi giorni del colèra avea fatto ogni più bella prova di coraggio, di costanza, di carità.—Non gli restano che poche ore di vita—disse sottovoce il dottore. Il generale lo guardò lungamente col viso addolorato e pensoso. Certo egli pensava che quel bravo giovane moriva lontano dai suoi, senza conforti e senza pianto; pensava alla sua famiglia, ai tanti altri morti come lui, alle tante altre famiglie, come la sua, rimaste prive di uno de' capi più cari.... Tutt'ad un tratto, si riscosse, diede un sospiro e si allontanò dicendo:—Egli ha spesa nobilmente la vita.—Tutti gli altri lo seguirono silenziosi.

L'ultima provincia in cui si sviluppò largamente il colèra sullo scorcio del sessantasette fu quella di Reggio [Pg 342] di Calabria. In Sicilia era già cessato. Nei primi giorni del settembre, le piogge lunghe e frequenti avendo prodotto un notevole abbassamento di temperatura, il colèra avea cominciato a decrescere sensibilmente nelle provincie di Palermo e di Messina, e rapidamente in quelle di Trapani, di Girgenti, di Siracusa, di Catania e di Caltanissetta. Rincrudì un'altra volta in queste due città verso la metà di settembre; ma per pochissimi giorni. Dopo i quali la salute pubblica andò continuamente migliorando in tutte le parti dell'isola; così nel mese d'ottobre l'esercito non ebbe più a deplorare che una ventina di morti, e nel novembre sette, e nel dicembre nessuno, o uno o due tutto al più. Fin dal primo decrescere dell'epidemia, le città, villaggi e le campagne mutarono aspetto. Quetato quel primo terrore che nell'animo di molta parte dei cittadini aveva spento ogni senso di amor di patria e di carità, i fuggitivi, di cui il maggior numero eran gente ricca od agiata, cominciarono a ritornare nei loro paesi e a spargere tra le popolazioni indigenti quei soccorsi di danaro, d'opera e di consiglio, che avean negati dapprima. E le popolazioni ripresero animo subitamente, e, come destandosi da un letargo profondo e travagliato, ritornarono a poco a poco agli uffici consueti della vita, già smessi affatto o esercitati a intervalli, con una grave fiacchezza e una specie di stordimento pauroso sotto quella continua imminenza e davanti a quel continuo spettacolo della morte. Tornò la frequenza nelle vie e nelle piazze, le botteghe e le officine si riapersero, e ricominciò a fervere il commercio e si ridestò il lieto rumor del lavoro dove prima era la solitudine e il silenzio o sonava il lamento dei morenti o degli accattoni. Le amministrazioni pubbliche si rifecero a poco a poco degli officiali morti, o fuggiti, od espulsi; si ricomposero, si riordinarono, [Pg 343] e sovvenute da que' cittadini che le aveano abbandonate dapprima, cominciarono a dedicare ai bisogni del paese un'operosità regolare, illuminata e tranquilla. I malandrini, che resi audaci dalla confusione e dallo spavento generale e dalla scarsità della truppa intesa in gran parte a più gravi doveri, avean fatto d'ogni erba fascio nelle città e nelle campagne, prevedendo ora che col cessare del colèra le forze militari si sarebbero volte tutte e con più risoluto vigore contro di loro, si frenarono di spontaneo proposito, e le condizioni della sicurezza pubblica risentirono un miglioramento improvviso. E i soldati riebbero finalmente un po' di respiro, e la notte poterono dormire un po' di sonno continuo e tranquillo, e il giorno mangiare con un po' di pace il loro pan nero, bagnato di sì lunghi e santi sudori.

Come il convalescente, quando ritorna agli usi della vita consueta, si diletta d'ogni cosa, si rallegra d'ogni persona, e intende con una sollecitudine e una gaiezza infantile a quelle stesse faccende che per l'addietro aveva in uggia o trasandava, così i soldati, all'uscire da quella vita di travaglio e di lutto, ripresero le occupazioni del servizio ordinario, anche quelle che parean prima più tediose, come una novità gradita, come un divertimento; risentiron tutti quasi una freschezza nuova di affetti e di speranze, un'allegrezza viva, un prepotente bisogno di aprirsi il cuore l'un altro, di espandersi, d'amarsi. Nelle caserme echeggiarono di nuovo i canti, le grida, quello strepito pieno di vita che da tanto tempo vi era cessato; tutto mutò, tutto rivisse.

Ma per formarsi una giusta idea del come doveva esser l'animo dei soldati in quei giorni, bisognava entrare negli ospedali dei convalescenti, dove il riposo e il silenzio lasciavan libero corso ai pensieri e alle memorie.

[Pg 344]

Entriamoci un istante, e là daremo l'ultimo saluto ai nostri buoni e bravi soldati.

Verso la fine del settembre di quell'anno, un soldato del 9º reggimento di fanteria mi scrisse una lettera da Catania, pregandomi di dire in un giornale militare quel che avean fatto per lui e pe' suoi compagni gli ufficiali del suo reggimento. Era stato malato di colèra, n'era quasi affatto guarito, e mi scriveva da un convento dove il suo colonnello aveva impiantato un ospedale pei convalescenti, ed egli vi si trovava da più d'un mese, «...E ci troviamo qui—dice la lettera—dopo tanti rischi e tante disgrazie, ancora vivi per miracolo.»—Poi una lunga descrizione del convento, posto sopra una piccola collina e tutto cinto di bei giardini dove i convalescenti potevano andare a diporto; con un cortile spazioso e sparso di grandi alberi fronzuti, all'ombra dei quali essi solevano passare una gran parte della giornata discorrendo, o leggendo, o giocando a dama coi sassi. Mi diceva poi che ognuno di loro aveva per sè una celletta a terreno colla finestra sul giardino, e che nella sua l'ellera s'era arrampicata attorno all'inferriata e tra sbarra e sbarra v'entravan dentro i rami d'un albero. «Abbiamo il nostro bel letto—scriveva—il nostro tavolino, le nostre due seggiole, e abbiamo posto affetto a queste stanzuccie come se fossero casa nostra, e nella mia tengo tutto in ordine, tutto pulito, con gran scrupolo, proprio come una donna che non abbia il capo ad altro che alla famiglia e alla casa.» Poi mi parlava del mangiare che era squisito, e si spandeva in elogi e in ringraziamenti ai direttori dell'ospedale. «Bisogna dirlo, si mangia bene. Si figuri: carne mattina e sera, e un buon brodo e un buon vinetto. Siamo contentoni. In caso che lei voglia stampare qualche cosa di quel che le ho scritto mi [Pg 345] faccia un piacere, stampi anche i nomi di quelli a cui dobbiamo tutte queste cure. Sono il luogotenente colonnello Croce e il capitano Mirto, i due direttori dell'ospedale. E anche il dottor Longhi, che per i soldati ha fatto tutto quello che un uomo poteva fare, e noi gli vogliamo un bene dell'anima.» Poi descriveva i crocchi dei convalescenti seduti all'ombra degli alberi nel cortile, pallidi, smunti, cogli occhi infossati, che discorrevano dei casi avvenuti, dei pericoli corsi, dei mali patiti, e si confortavano nel pensiero delle famiglie lontane, a cui presto o tardi sarebbero pur ritornati «e con che cuore—soggiungeva—se lo immagini lei, dopo tanto tempo, dopo tante vicende, dopo una malattia di questa sorta!» In quella lettera, scritta così semplicemente e con tanta ingenuità, io sentii in certo modo trasfusa quella pace, quella calma stanca e soave che doveva regnare in quel silenzioso recinto; la prima volta ch'io la lessi mi parve di vedere quei poveri volti scarni e di sentire quelle voci fievoli e lente.—A una cert'ora venivano al convento gli ufficiali a visitare i soldati delle loro compagnie. Era una festa. Si vedevano quei buoni giovani levarsi in piedi stentatamente, portare la cerea mano al berretto, e rispondendo all'interrogare premuroso dei loro ufficiali, significare l'interna gratitudine con un sorriso in cui l'affetto e il rispetto si temperavano e si avvaloravano a vicenda nel più caro e più gentile dei modi...—La lettera del mio soldato terminava a questo punto, ed io termino con lui, termino con l'immagine viva dinanzi agli occhi di quel sorriso di gratitudine, che m'intenerisce e m'esalta.

Il colèra del sessantasette fu per l'esercito, non meno che pel paese, una grande sventura; ma non senza frutto.

[Pg 346]

L'esercito si avvantaggiò nella disciplina, ed è facile comprenderne il come. Anche per quei soldati cui la disciplina riusciva più dura, o perchè di natura indocile e caparbia, o perchè digiuni affatto d'ogni idea di patria e di nazionalità e inetti a rendersi ragione, nonchè della necessità del rigor militare, neanco di quella dell'esercito, anche per questi soldati, in mezzo alle sventure del colèra, la disciplina si spogliò di quel che avea prima di odioso e d'insopportabile, e assunse un nuovo aspetto. Naturalmente, poichè anche le menti più rozze, comprendendo quanto vi fosse di nobile e di generoso in quel tanto fare e patire per la pubblica salute, intendevano pure che, se invece d'esser soldati uniti e soggetti a una disciplina, fossero stati contadini o operai liberi e divisi, avrebbero probabilmente, o tutti o quasi tutti, sfuggito ogni fatica e ogni pericolo, e provveduto ciascuno da per sè alla propria salvezza. Sentivano però che una parte del merito delle loro nobilissime opere non spettava a loro, e la riferivano tacitamente a quella disciplina, della cui mancanza erano al caso di vedere ed esperimentare tutto giorno le deplorabili conseguenze nelle altre classi della popolazione. A misura che si rendevan ragione dello scopo di tutte quelle leggi e di tutte quelle consuetudini che soleano prima tenere in conto di rigori irragionevoli o d'inutili aggravi, a misura che ne vedevano, in certo modo, uscir dalle proprie mani gli effetti, e non potevano a meno d'ammirarli e di andarne orgogliosi, si venivano formando un giusto concetto della disciplina, e vi si rassegnavano come a una necessità salutare. Di più, quella dimestichezza, quell'affratellamento che suol nascere e crescere così rapidamente tra ufficiali e soldati nelle occasioni di grandi pericoli e di grandi sventure comuni, aveva fatto capire ai più ottusi e ai più [Pg 347] malevoli che se nelle congiunture della vita ordinaria v'è fra gli uni e gli altri una divisione rigorosa e inalterata, ciò non proviene dal proposito spontaneo di ogni ufficiale, ma da una convenzione, da una norma generale dettata dalla necessità della disciplina e da tutti riconosciuta necessaria per intuizione o per esperienza. Ciò compreso, dovevano naturalmente sparire tutti quegli astii e quei rancori che soglion sorgere nell'animo dei soldati riottosi contro gli ufficiali austeri e inesorabili; rancori che, per lo più, un falso amor proprio produce, e la diffidenza e il timore alimentano; e sparirono in fatti. Dinanzi a quel continuo spettacolo della sventura, in mezzo a quella unanimità solenne di affetti e di voleri, ognuno capì chiaramente quanto gli odi e i risentimenti personali fossero ingenerosi e meschini, e se li sentì svanire dal cuore senza bisogno di combatterli o di far forza a se stesso. Di più, per lungo tratto di tempo gli uffici e le operazioni della truppa erano stati di tale natura, che gli ordini dei superiori venivano a coincidere, non solamente nella sostanza, ma anco nella forma, coi più semplici precetti della religione, insegnati dalle madri ai fanciulli nella più tenera età. Certi discorsi tenuti dagli ufficiali ai soldati si sarebbero potuti ripetere parola per parola da un oratore sacro sul pergamo, e certi ordini del giorno dei colonnelli erano squarci netti e pretti di vangelo. Non era però possibile che neanco i soldati più tristi e più in colti si ribellassero agli ordini dei superiori, o ne ponessero in dubbio la rettitudine, o ne discutessero l'opportunità, o disconoscessero il dovere dell'obbedienza. Quindi a poco a poco al sentimento della disciplina s'era, per così dire, sostituito quello della religione, e ciò che si sarebbe fatto a malincuore per obbligo, si facea di buon animo per impulso di carità. Per altra [Pg 348] parte, quella sollecitudine affettuosa che in ogni occasione gli ufficiali avevano mostrata pei loro soldati, visitandoli negli ospedali, soccorrendoli dei propri denari, confortandoli, consigliandoli, proteggendoli, aveva fatto sì che nel cuore di questi i due sentimenti della gratitudine e della disciplina si compenetrassero e s'immedesimassero in modo, da togliere persino l'idea ch'e' si potessero in alcun caso disgiungere e contrariare. Intesa la disciplina per quello che è, e per quel che dev'essere, intesi cioè i principii da cui move e su cui si basa, e i fini a cui tende e gli effetti che ottiene, anche l'intelletto del più umile soldato abbraccia tutto intero questo magnifico edifizio dell'esercito, comprende il congegno mirabile e l'armonia delle forze ond'egli è retto, sente che ne sono le fondamenta i primi affetti della famiglia e le prime leggi della religione, e a misura che ne contempla la sommità, la vede illuminarsi e levarsi in alto fin dove non giungono le declamazioni dei filosofi e le querele dei volghi. Questo effetto si ebbe nei soldati; in questo modo si rafforzò la disciplina.

E il paese?

La più splendida prova dell'effetto prodotto sul paese dalla stupenda condotta dell'esercito l'ha data il popolo siciliano sulla fine del sessantasette e l'ha ripetuta testè, la prova più cara ch'ei potesse dare all'esercito e all'Italia,—il mirabile resultato della leva.—Oh quel popolo pieno di fierezza, di ardimento e di fuoco non può dare che dei bravi soldati!

E che premio ebbe il soldato?

Grande. La sera dopo la visita della ritirata, il furiere gli lesse l'ordine del giorno del colonnello in cui gli si diceva:—Hai fatto il tuo dovere.—


[Pg 349]

UNA MEDAGLIA.


—Sempre quella faccia rannuvolata e quello sguardo torvo!—Così, un giorno, diceva tra sè e sè un capitano, dopo aver passato in rivista la sua compagnia.—Ma perchè, poi? Cosa gli ho fatto io in fin de' conti?

Pensava a un soldato abruzzese che durante la rivista lo aveva guardato in cagnesco.

V'hanno delle indoli chiuse, altiere, selvatiche, in cui l'amor proprio è siffattamente vivo ed ombroso, che in ogni sorriso sospettano uno scherno, in ogni parola un'insidia, in ogni persona un nemico. Indoli buone, in fondo in fondo, e affettuose; paiono invece e son giudicate superbe e cattive. Sono anime ritrose per naturale diffidenza degli uomini; non hanno affetti spontanei; non aman mai per le prime; ma, appena s'accorgono del tuo affetto, ti corrispondono con quella maggior forza ed effusione di cuore che mostrano di meno, in generale, cogli altri. Quando però s'incaponiscono nell'avversione e nell'astio, sono incredibilmente ostinate e tenaci. Ma non odiano davvero; lo credono. Tu sarai sempre in tempo, con una stretta di mano o un sorriso gentile, a dissipare in loro un'antipatia che credevano invincibile e un rancore che giuravano eterno.

Tal'era il soldato abruzzese che guardava torvo il suo capitano.

[Pg 350]

Il primo giorno ch'egli era venuto al reggimento insieme a tutti gli altri coscritti vestiti ancora de' loro panni da contadini e da operai, appena entrato nella compagnia, il capitano lo aveva squadrato con una certa espressione di curiosità e aveva detto nell'orecchio al suo luogotenente:—Guardi che faccia proibita.—E avea sorriso. E il soldato avea notato quel sorriso. Condotto nel magazzino del vestiario, s'era infilato il primo cappotto che gli avean messo tra le mani, e il capitano, vedutolo, passando, così insaccato e infagottato, con certe maniche che gli spenzolavano un palmo oltre le mani, e certi faldoni che gli coprivan le ginocchia, s'era messo a ridere, esclamando:—Tu mi sembri un sacco di cenci.—Ed egli s'era tutto rannuvolato e avea lanciato al capitano un'occhiata di sotto in su che pareva una sassata. Un'altra volta, in piazza d'armi, quando s'insegnava il passo di scuola ai coscritti e si facevano uscir dalle righe uno per uno e camminare soli per un lungo tratto, a suon di tamburo, movendo le gambe lente e stecchite alla guisa delle marionette, egli, venuta la sua volta, s'era vergognato e confuso a tal segno, che non riusciva a mutare due passi senza vacillare o inciampare o far certe movenze stentate e grottesche, che facevan ridere i compagni. Era sopraggiunto il capitano e lo avea sgridato; ed egli peggio di prima. Allora il capitano, visto che gli era fiato sprecato, se n'era ito dicendogli:—Siete il più brutto soldato della compagnia.—Là presso c'eran delle ragazze con dei bimbi che stavano a vedere, e s'eran messe a ridere forte. Egli, diventato rosso fino alla radice dei capelli, era ritornato in riga arrotando i denti come un cane arrabbiato.

Così si andò man mano raffermando nell'animo suo il convincimento che il capitano l'avesse in uggia, e lo rampognasse per malignità, e lo mettesse in ridicolo col [Pg 351] malvagio proposito di farlo uscire fuori dei gangheri, e di perderlo. E non era vero. Il capitano era un galantuomo; astio non aveva contro di lui più di quanto ne avesse contro gli altri; amava i suoi soldati; era incapace di un sentimento d'avversione cieca ed ingiusta, e abborriva profondamente dalle prepotenze e dalle persecuzioni meditate. Solamente non aveva ben compresa l'indole di questo suo soldato. A vederlo sempre così fosco e bieco, lo aveva giudicato di natura caparbia, indocile, rivoltosa, cattiva, e lo voleva domare; ed egli era domabile; ma coi mezzi della persuasione e dell'amorevolezza; colle vociaccie e colla prigione, no; era peggio.

Un giorno il nostro soldato stava parlando con una ragazza sull'angolo d'una via; passò il capitano; egli non lo vide. Quegli credette che avesse finto di non vederlo per non salutarlo, e gli fece una lavata di capo in presenza della ragazza e di molt'altra gente che era là attorno. Il poveretto n'ebbe tanta vergogna che, appena andato via il capitano, disparve anch'esso di là e non vi si fece vedere mai più. Ma il rancore contro il capitano gli s'accrebbe a cento doppi; divenne odio, quasi; lo rodeva di continuo; non gli lasciava un istante di pace; gli avvelenava la vita. Nè per quanto ei si sforzasse, poteva riuscir mai a dissimularlo. Il capitano rimbrottava un soldato, ed egli tossiva e stropicciava i piedi sul terreno; il capitano si volgeva sdegnoso, ed egli, pronto, alzava la faccia in su a guardare le nuvole. In marcia, se un soldato stava attento quando il capitano cercasse da bere e gli porgeva la borraccia, egli sogghignava e, tratto in disparte quel soldato, gli mormorava nell'orecchio: Imbecille! Quando il capitano lo rimproverava, egli faceva mostra di non intendere, stralunando gli occhi come un insensato e tentennando la testa, o mandava dagli occhi socchiusi un lampo di riso maligno, torcendo [Pg 352] la bocca e sporgendo il labbro di sotto. E poi sempre lo sguardo torvo e la faccia scura.

Una sera, in piazza d'armi, mentre si facevano gli esercizi, un maggiore rimproverò ad alta voce il capitano; questi girò un rapido sguardo sulle faccie dei suoi soldati; quella tal faccia rideva.—Canaglia! urlò egli allora, cieco di rabbia, e fattosi dinanzi al soldato, gli pose i pugni sul viso: il soldato impallidì. Pochi minuti dopo si volse freddamente al suo vicino e gli disse:—Un giorno o l'altro (e aggiunse qualche parola sotto voce).... o io non sono abbruzzese.—Appena rientrato in quartiere e giunto ai suo letto, sbattè il gamellino e lo zaino contro il muro. Il capitano sopraggiunse inaspettato e vide.—Sergente, me lo cacci in prigione!—gridò, e disparve. Il soldato addentò, ruggendo, le lenzuola e si percosse la testa coi pugni. Tre o quattro compagni gli si slanciarono addosso, l'afferrarono, lo trattennero:—Che hai? Che fai? Diventi matto?—

V'è un tratto della valle del Tronto, il tratto più angusto, in cui le giogaie s'elevano dalle due parti ad una grande altezza e dirompendosi in valloncelli, in dirupi e in burroni scuri e profondi, protendono le falde sassose fin quasi sulla sponda del fiume. La valle, in quel tratto, offre un aspetto cupo e malinconico. Tra l'acque e le falde estreme, il terreno è tutto ghiaia e ciottoloni e macigni enormi, precipitati giù dalle sommità de' gioghi; e dalle falde in su è un laberinto di tane e di precipizi e di boschi folti e di greppi senza sentiero. Qualche viottolo s'inerpica su per l'erta a gomiti e a giravolte, e si perde in mezzo ai massi e alle macchie; qualche abituro appare qua e là mezzo nascosto fra le sporgenze dei balzi; qualche tratto di terra è piano e [Pg 353] verdeggiante; in ogni altra parte è verginità di natura aspra e selvaggia.

Era una sera d'autunno e piovigginava. Una pattuglia di pochi soldati, l'un dietro l'altro, passava per cotesto tratto della valle, salendo, scendendo, serpeggiando, a seconda dei rialzi del suolo e dei macigni ond'era ingombro quel po' di sentiero che il piè dei viandanti, in un lungo volgere d'anni, vi aveva segnato.

Un soldato precedeva la pattuglia d'una quarantina di passi; un altro, alla stessa distanza, la seguitava. Camminavano a capo basso, col fucile stretto sotto le ascelle, lenti e silenziosi.

Tutt'ad un tratto, il soldato che stava innanzi udì un rumore concitato di passi, vide spuntare al di sopra d'un masso tre teste e luccicare tre canne e tre lampi, e si senti staccar dalla fronte il cheppì e sibilare due palle a destra e a sinistra del capo. Subito dopo si slanciarono verso di lui tre briganti. Egli sparò il fucile, e l'un d'essi die' un grido e stramazzò. S'avventò sull'altro, e con un colpo poderoso del fucile gli respinse la carabina da un lato, e gli cacciò nel ventre e ne estrasse in un sol punto la baionetta. Ma il terzo, ch'era addietro, gli è sopra prima ch'egli possa rivolgersi contro di lui; gli afferra colla manca il fucile, leva in alto coll'altra un pugnale; il soldato abbandona l'arma, abbranca colla sinistra la mano armata del brigante, gli ricinge il collo col braccio destro, gli si stringe addosso come una serpe e gli addenta rabbiosamente e gli dilania l'orecchio. Un urlo orrendo di spasimo erompe dal petto dell'assassino, e qui s'impegna una lotta che fa spavento. Fanno a rovesciarsi per terra; un piede in fallo è la morte; in men d'un istante un largo tratto di terreno è impresso qua e là di orme profonde; le pietre percosse dalle violenti pedate sbalzano all'infuori dell'orribile [Pg 354] arena; i due nemici si abbracciano e si svincolano e si ricongiungono con una rapidità a cui vien meno lo sguardo; si pestano coi pugni, si lacerano coi morsi, si dan dei gomiti e delle ginocchia nel petto e nel ventre;—sbuffi—aneliti—grida di rabbia strozzate; gli occhi orribilmente dilatati ed accesi; le bocche schiumose e sanguigne discoprono, contraendosi convulsamente, i denti digrignanti; oramai quei due visi non han più umana sembianza. Ma il soldato tien tuttavia stretto nella ferrea mano il pugno nemico armato di coltello.... Ad un tratto il brigante stramazza, percuotendo aspramente il terreno; il soldato gli è sopra, lo stringe con ambe le mani alla strozza, si fa schermo a mancina col ginocchio piegato, e mentre il prostrato gli incide il braccio sinistro d'una profonda ferita, ei gli solleva da terra, con supremo sforzo, la testa, e acconsentendo con tutta la persona alla spinta, gliela fa battere violentemente contro un sasso; profitta dello stordimento prodotto dal colpo, stringe con tutte e due le mani e con tutta la lena che gli resta il polso del braccio armato; la mano indolenzita s'allarga, e non sì tosto il coltello dell'assassino è passato nel suo pugno che già ei glie l'ha cacciato nella gola. Il ferro tagliente, ghiacciato, gli penetra nell'ugola e gli rompe l'ossa del palato; un'onda di sangue gli prorompe gorgogliando dalle fauci aperte, mista a un rantolo confuso, che fu l'ultima sua voce.

Bravo! bravo!—urlarono, sopraggiungendo affannosi, gli altri soldati della pattuglia; e gli si fecero attorno e l'affollarono di domande, mentre egli immobile, ansante, col viso bianco e l'occhio stupido e stralunato, stava guardando ora il brigante prostrato, ora il coltello sanguinoso che teneva tuttavia stretto nel pugno.

La pattuglia era stata assalita nello stesso tempo da un branco di briganti i quali, appena sparate le carabine, [Pg 355] s'eran dati alla fuga. I soldati li avevano inseguiti per un buon tratto di via.

Il soldato ferito in capo a pochi giorni guarì. La prima volta che il capitano lo vide, passandogli dinanzi alla rivista, lo guardò fissamente negli occhi e gli disse:—Bravo!—Subito dopo un suo vicino gli susurrò nell'orecchio:—E tu dici che ti ha in tasca? T'ha detto bravo!—Per forza!—egli rispose scrollando la testa, e sogghignò.

Tre mesi dopo quel giorno il reggimento fu trasferito in Ascoli. Era trascorsa una settimana dall'arrivo alla nuova stanza, quando il colonnello ordinò che l'indomani tutto il reggimento vestisse l'uniforme di parata per assistere a una solennità militare sulla piazza principale della città. Si doveva decorare un soldato della medaglia al valor militare.

—Così presto? pensò il nostro capitano, quando gli fu detto l'ordine del colonnello. E corse subito alla camera del furiere e gli domandò ansiosamente:—Ha sentito l'ordine? Ha fatto tutto?—Tutto, fin da tre giorni.—Oh respiro! Vediamo dunque; carta, penna e calamaio; voglio esser sicuro del fatto mio.

Sedettero a tavolino e il furiere prese a tracciare sopra un brano di carta certe strade e certe case, parlando a bassa voce, e ripigliando di tratto in tratto il discorso.

Dopo un po' di tempo s'alzarono tutt'e due, e il capitano, accomiatandosi, soggiunse:—Terza casa a destra, seconda porta?—Terza casa, seconda porta.—Di sicuro?—Il furiere fece un atto come per dire:—Diavolo, ne può dubitare?

Un'ora dopo il capitano era a cavallo sulla via che da Ascoli corre ad Acquasanta, piccolo paese posto sulla riva del Tronto, a mezza distanza, credo, o presso a poco, fra Ascoli e Arquata.

[Pg 356]

Giunse ad Acquasanta sul cadere del sole. Prima di entrare si sbottonò la tunica per nascondere il numero dei bottoni e ripiegò all'insù la tesa del berretto. Entrò. All'udire lo scalpitìo del cavallo qualcuno delle prime case si fece sull'uscio; altri s'affacciarono alle finestre; i ragazzi accorsero nella via. Il capitano guardò incerto a destra e a sinistra, e poi si diresse verso una porta dov'era un crocchietto di donne, le quali, al suo apparire, si schierarono timidamente contro il muro e lo guardarono attonite.

—Chi mi dà un bicchier d'acqua, buone donne?—disse il capitano fermando il cavallo e affettando un'aria sbadata.

—Io—rispose vivamente una delle donne, e disparve.—È lei! pensò il capitano, non può esser altra che lei.—

La donna tornò di lì a un minuto con un bicchier d'acqua, e lo porse al capitano. Questi la guardò attentamente e si pose a bere a lenti sorsi; quella, intanto, lo squadrava da capo a piedi, piegava la testa a destra e a sinistra e si alzava sulla punta dei piedi per vedere di scoprire il numero del reggimento, e si stropicciava le mani, e dondolava la persona, e non istava ferma un momento, e dallo sguardo intento e vivo e dai rapidi moti della bocca lasciava trasparire una contentezza timida e ansiosa, un desiderio intenso e irrequieto, che non sapeva risolversi a palesare. Il capitano la osservava.

—C'è nessuna di queste donne che abbia dei figliuoli soldati?—domandò poi restituendo il bicchiere e simulando, come prima, una indifferenza distratta.

—Io!—rispose risoluta la donna che gli aveva porto il bicchiere.—Ne ho uno!—e fece cenno col pollice e restò in atto d'aspettare, immobile come una statua.

[Pg 357]

—In che reggimento?

La donna disse il reggimento e soggiunse in fretta:—Dov'è, signor colonnello? Lo conosce? L'ha veduto?

—Io no.... Ma come mai non sapete dove sia?

—Mah!—esclamò la donna facendo un viso serio serio e incrocicchiando e lasciando cadere abbandonatamente le mani;—sono due anni che non lo vedo; un mese fa non era mica molto lontano di qui; era a far la guerra ai briganti, povero figliuolo, e mi ha scritto; ma d'allora in poi non ne ho più saputo nulla, non m'ha più mandato nessuna lettera. O me n'avrà fors'anco mandata qualcuna, e non mi sarà arrivata. Quei signori che devono spedire le lettere chi sa cosa n'avranno fatto! (E andava man mano infervorandosi e imprimendo alle parole una crescente espressione di dolore e di dispetto). Le lettere della povera gente quei signori le conoscono dalla soprascritta e le buttano in un canto. Lo so, io, come vanno le cose. Quei poveri figliuoli scrivono, e le famiglie non ricevono niente. Ma gli uffiziali che comandano dovrebbero badarci a queste cose; mi perdoni, sa, signor colonnello, io non dico mica di lei; ma è una cosa che non mi par giusta, perchè noialtre, povere donne, passano dei mesi senza che si sappia niente dei nostri figliuoli, e si sta sempre in pensiero, e qui le mie amiche lo possono dire, che mi vedono tutto il giorno e sanno che vita io faccio da un tempo a questa parte, i batticuori, le paure, le pene che soffro per quel povero ragazzo; e ci son dei momenti che proprio.... non posso più reggere. Oh no! no! me lo lasci dire, signor colonnello, non è una cosa giusta!—E si coperse la faccia col grembiale e si mise a piangere.

Tutte l'altre donne acconsentirono collo sguardo e coi cenni; il capitano taceva.

—Guardate, buona donna!—disse poi improvvisamente.—La [Pg 358] donna scoprì il volto lagrimoso e lo guardò.

Guardate!—ripetè il capitano e si levò il berretto e glielo porse. Essa lo prese facendo un viso di sorpresa e di stupore, lo guardò di sotto e di sopra, girò gli occhi sulle amiche in atto d'interrogare, poi li fissò in volto al capitano....

Il capitano rideva.

—Non c'è nulla che vi riguardi in codesto berretto?

La donna tornò a guardare e mise un grido:—Ah! il suo reggimento! e afferrò con ambe le mani il berretto e lo baciò e lo ribaciò con trasporto, e in un istante affollò il capitano di tante domande, di tante preghiere, di tante dimostrazioni di gratitudine, di gioia, d'affetto, ch'egli ne fu sopraffatto e non potè prima risponderle una parola che la foga della dolcezza non le avesse spossate le forze e interrotta la voce.

—Domani vedrete vostro figlio,—le disse poi.—Egli è in Ascoli, e vi aspetta.—

La buona madre si slanciò per baciargli la mano; ei la ritrasse.... Mezz'ora dopo si rimise in cammino alla volta della città. Aveva lungamente parlato con quella povera donna; ma della medaglia al valor militare non le aveva detto parola.

Appena arrivato in Ascoli, appena entrato in casa, chiamò l'ordinanza.—Eccomi.—Senti bene.—E spiccando le sillabe con gran significazione e segnando gli accenti colla mano, filò un lungo discorso, che l'ordinanza ascoltò cogli occhi spalancati e la bocca aperta.—Hai capito?—Sì signore.—Farai tutto appuntino?—Non dubiti.—Mi fido.—Ed uscì. L'ordinanza lo segui coll'occhio sin sul limitare della porta, stette un minuto sopra pensiero e poi, infilato con una mano uno stivale [Pg 359] e afferrata coll'altra una spazzola, si mise a lustrare di tutta forza mormorando:—Sei un vero galantuomo; meriti un premio; domattina i tuoi stivali saranno i più lucidi stivali del reggimento.

L'indomani mattina, intorno alle otto, l'ordinanza, appostata all'angolo di una via che sbocca nella piazza principale della città, vide venire innanzi lentamente una vecchia contadina, vestita in gala, con due grandi buccole alle orecchie, un bel vezzo di corallo intorno al collo e la gonnella screziata di tutti i colori dell'iride; veniva innanzi guardando intorno con una cera tra l'allegro, l'attonito e il curioso. La osservò attentamente e le si avvicinò.

—Buona donna!

—Oh! siete voi quel soldato?

—Io.

—Oh grazie, grazie di cuore. E il mio figliuolo? Non è qui? Dov'è? Perchè non è venuto ad aspettarmi? Non glie l'hanno detto che venivo? Ditemi subito dov'è, mio buon giovane; conducetemi subito da lui.

—Eh, un momento; ci vuole un po' di pazienza, subito subito non lo potrete vedere. Bisogna aspettare una mezz'oretta. Bisogna star qui a vedere una certa parata che deve fare il reggimento. Si tratta di dare la medaglia del valor militare a un mio compagno; è un affare di pochi minuti; ci vuole un po' di pazienza.

—Ancora mezz'ora! Oh Dio mio! E come faccio io ad aspettare una mezz'ora?

—Lo capisco, buona donna, lo capisco; per voi una mezz'ora è un mezzo secolo; ma non si può fare altrimenti; bisogna aspettare. Faremo due chiacchiere; il tempo passerà presto.

—O Dio buono! mezz'ora! Ma.... ditemi, ditemi; devono venir qui, qui in questa piazza, i soldati?

—Sicuro.

[Pg 360]

—Ma dunque lo vedrò subito, gli potrò subito parlare....

—Ma non si può, cara mia.

—Ma sono due anni che non lo vedo....

—Lo capisco; ma al soldato, quando è in riga, nessuno gli può parlare, lo dovete sapere anche voi; il regolamento parla chiaro; qui comanda il colonnello, mia buona donna; la mamma non c'entra; e s'anco venisse la mamma del colonnello, anch'essa dovrebbe aver pazienza e tirarsi in disparte e aspettare. Capite bene che il regolamento non l'han mica fatto le donne.

—Capisco; ma....

In quel punto, s'intese un lontano rullo di tamburi e tutta la gente ch'era nella piazza si rivolse da quella parte.—Ecco il reggimento—disse il soldato.—La vecchia si sentì un forte tremito al cuore, stette un istante perplessa, e poi improvvisamente fece atto di slanciarsi verso il reggimento.—Aspettate!—le gridò il soldato trattenendola pel braccio, e facendo cenno colla mano che stesse quieta,—aspettate; fatemi questo piacere; s'egli vi vede, siamo a guai. Volete farlo mettere in prigione? Basta poco, veh! Basta voltar la testa a sinistra quando si deve tenerla voltata a destra.

—È vero!

E si contenne.

—Non si tratta che d'aspettare un quarto d'ora; è ben poca cosa; avete aspettato due anni!—

La donna alzò gli occhi al cielo, sospirò e poi fissò lo sguardo immobile allo sbocco della via per cui doveva comparire il reggimento.

Il rullo dei tamburi s'avvicina; la folla si apre in due ali; ecco gli zappatori; ecco i tamburini, ecco la musica, ecco il colonnello a cavallo....

—E i soldati?—domandò ansiosamente la vecchia.

[Pg 361]

—Un momento. Tra il colonnello e i soldati c'è sempre una diecina di passi. Eccoli.—

La donna si slanciò un'altra volta, e un'altra volta il soldato la trattenne.—Oh Dio benedetto! abbiate un po' di giudizio. Volete che ve lo caccino in prigione a tutti i costi?—

Il reggimento è schierato.

—L'ho veduto! L'ho veduto!—grida la buona vecchia battendo palma a palma.—Guardatelo là.—

—Dove?—La donna gli indica dove.

—Non è quello là; v'ingannate; ve lo assicuro io; Di qui non lo potete conoscere; siamo troppo lontani.

—Allora è quell'altro là.

—Quale?—La donna gli indica quale.

—Ma no, vi dico, non è neppur quello là; è impossibile che lo possiate vedere; è in seconda riga.

—In seconda riga?

—Già.

—Che cosa vuol dire in seconda riga?

—Vuoi dir dietro gli altri.

—Oh santa pazienza!—esclamò la donna e si passò la mano sulla fronte e sospirò.—E adesso cosa fanno?

—Non vedete? Il colonnello è venuto a mettersi di fronte al reggimento per fare un discorso. Prima di dare la medaglia a un soldato si usa di fare un discorso, in cui si racconta il fatto com'è accaduto, e si dice agli altri soldati che seguano l'esempio del loro compagno, che è un bravo soldato, che ha fatto il suo dovere, che ha onorato il suo reggimento e via discorrendo. Ecco; sentite.—

Il colonnello ha cominciato a parlare.

—Non sento niente. Cosa dice?

—Ecco, il fatto è questo. Il soldato che deve aver la medaglia, un giorno è stato assalito da tre briganti, [Pg 362] che gli tirarono nello stesso punto tre fucilate. Non fu colpito, non si spaventò; scaricò subito il fucile contro uno di quegli assassini, e lo stese morto; all'altro piantò la baionetta nella pancia; al terzo tolse il coltello di mano e glielo piantò nella gola.

—Oh Dio mio!

—È o non è un bel fatto?

—E gli hanno dato la medaglia?

—Gliela danno adesso.

—Sarà contento, povero giovane?

—Figuratevi; i suoi compagni gli vogliono un bene dell'anima; i suoi superiori lo trattano come un figliuolo; tutti lo rispettano, tutti lo stimano; e se lo merita, sapete? se lo merita davvero; è uno dei più bravi soldati del reggimento; ce n'è pochi, sapete, come lui; ve lo assicuro io.

—Ma dov'è questo soldato?

—A momenti il colonnello lo chiamerà fuori delle file.—

Il colonnello tacque.

—Guardate! guardate! esclamò improvvisamente l'ordinanza facendo voltar la donna dalla parte opposta al reggimento e accennandole le finestre della casa di fronte.—Guardate quanta gente s'è affacciata alla finestra! A momenti batteranno tutti le mani; vedrete; le altre volte mi fu detto che hanno sempre fatto così, e faranno così anche adesso.—

Intanto il soldato era uscito dalle file, era venuto accanto al colonnello, e s'era volto di fronte al reggimento, per cui la donna, rivolgendo la faccia verso i soldati, non lo potè vedere nel viso.

—È quello là il soldato?

—Già.

—E cosa fa adesso?

[Pg 363]

—Non vedete? Il colonnello gli mette la medaglia sul petto.

—Oh santa Vergine, mi batte il cuore per lui. Come dev'essere contento, povero giovane! E adesso cosa fanno?

—Adesso tutto il reggimento gli presenta le armi.

—Davvero? domandò la donna con gran meraviglia.

—Sicuro.

—Oh che onore!—esclamò la buona vecchia giungendo le mani e rimanendo immobile in quell'atto, cogli occhi sfavillanti d'un bellissimo sorriso, misto di contentezza, di meraviglia e di affetto.

Il colonnello si volse verso il reggimento e con voce alta, sonora, vibrata, così che ne echeggiò tutta la piazza, gridò:

—Presentate le armi!

La donna si senti correre un fremito per tutta la persona, e si accostò al soldato e gli si strinse ai panni come se avesse paura.

Al grido del colonnello i quattro maggiori del reggimento si volsero ciascuno al suo battaglione e ripeterono, con un grido poderoso, il comando.

Quasi in un sol punto, come se fossero stati mossi da un unico braccio, mille duecento fucili si sollevarono, lampeggiando, da terra, e risonarono simultaneamente percossi da mille duecento mani, e tutti i volti restarono immobili e tutti gli sguardi si fissarono in faccia al soldato. Gli uffiziali salutarono colla sciabola. La folla spettatrice die' in uno scoppio d'applausi. La banda suonò.

—Ma chi è questo soldato?—proruppe la povera madre meravigliata, intenerita, affascinata da quello spettacolo stupendo.

[Pg 364]

L'ordinanza si voltò, la guardò, aprì la bocca, mandò fuori una voce articolata, girò gli occhi sul soldato, li rivolse di nuovo alla donna....

La musica continuava a sonare; il reggimento era sempre immobile.

—È vostro figlio!—gridò l'ordinanza.

La vecchia diè un grido, stette un istante immobile cogli occhi spalancati e la bocca aperta, si cacciò le mani nei capelli bianchi, sorrise, gemette, singhiozzò; quegli applausi, quella musica le risonarono in fondo all'anima come un'armonia di paradiso; quei mille fucili scintillanti le si confusero allo sguardo in un torrente di luce; la mente le si intorbidò tutto ad un tratto, le si velarono gli occhi, vacillò.... Fu sorretta.

Quando rinvenne, il reggimento era sparito; suo figlio le s'era già avviticchiato al collo, e i due cuori eran così stretti l'un contro l'altro che la medaglia d'argento ci stava compressa in mezzo a gran pena. E stettero lungamente in quell'atto.

—Ma come mai?—furon le prime parole del figliuolo, appena sciolto da quell'abbraccio divino.—Come sapevi ch'io era qui? Chi te l'ha detto? E come sei capitata qui in questo giorno e a quest'ora?—

La donna narrò concitata e affannosa che il giorno innanzi un uffiziale a cavallo era venuto nel suo paesello, che s'era fermato dinanzi alla sua porta, che le avea detto dove fosse il figliuolo, e le s'era offerto di darle del danaro perchè ella potesse venir subito alla città in carrozza, e questo denaro glie l'avea dato, ed ella era venuta, e avea trovato subito un soldato che d'incarico dell'uffiziale stava nella piazza ad aspettarla....

—Dov'è questo soldato?—

Guardarono tutti e due intorno; l'ordinanza era scomparsa.

[Pg 365]

—Ma adesso capisco, vedi, ripigliò la donna, capisco perchè quell'uffiziale volle ch'io venissi qui stamattina; voleva che io vedessi....

Guardò il figliuolo, sorrise e l'abbracciò.

—Voleva ch'io vedessi tutto, e non mi disse nulla per farmi una sorpresa, e il soldato era d'accordo con lui. Oh che sant'uomo! Ma come ha fatto a saper dove sto? E che interesse aveva di procurarmi questa felicità, se non mi conosceva neppure? Dimmelo tu, figliuolo!

Il figlio pensava.

—Ma dov'è quest'uffiziale! quest'uomo! Io lo voglio vedere; voglio baciargli il vestito, io; io gli debbo la vita. Voglio andar da lui, sai, figliuolo? Conducimi subito da lui.

—Subito!—esclamò il soldato, riavendosi dai pensieri che lo tenevano assorto.

E prese per mano sua madre; attraversarono a passi frettolosi la piazza, imboccarono la via della caserma, vi giunsero, si fermarono a una trentina di passi dalla porta, davanti a cui erano affollati quasi tutti gli uffiziali aspettando il gran rapporto, e la vecchia cominciò a cercare avidamente cogli occhi, e il soldato a sollecitarla cogli atti e colle parole, cercando, per moto istintivo, anche lui, senza sapere chi volesse trovare.

—Chi è? L'hai veduto? Accennalo.

—Non l'ho ancora trovato.

—Cerca, cerca.

—Quello là, guarda, quello che si appoggia ai muro.... no, no, sbaglio, non è quello, non è quello. Quell'altro, piuttosto; quello che accende il sigaro.... aspetta che si volti, aspetta.... aspetta.... no, non è lui....

—Ma chi è dunque!

—Ah! eccolo là! Questa volta ne son sicura. È [Pg 366] quello che ha messo la mano sulla spalla al suo compagno che gli è accanto.

—Chè!

—È proprio lui.

—Mamma!

—Ne sono sicura, ti dico.

—Davvero? non t'inganni? ne sei proprio sicura?—gridò il soldato afferrando per le mani sua madre.

—Sicura come della luce del giorno.—

Il soldato fissò gli occhi sul capitano e stette immobile a contemplarlo.

Intanto la madre, che più che al capitano aveva il cuore e la testa a suo figlio, gli si strinse ai panni, e pigliandogli la medaglia fra l'indice e il pollice della destra, vi avvicinò il viso, la guardò attentamente di sotto e di sopra, e disse sorridendo al soldato, che stava tuttavia immobile a guardare il capitano.

—Scommetto che, a questo mondo, dopo tua madre.... la cosa che hai più cara.... è questa.—E sollevò la medaglia per tutta la lunghezza del nastro.

—No,—rispose il figliuolo senza voltarsi.

—No! E qual'è dunque la cosa che hai più cara al mondo dopo tua madre?—domandò la donna con un sorriso affettuoso.

Il soldato levò il braccio e stese l'indice verso il capitano e rispose:

—Quell'uomo là.—


[Pg 367]

PARTENZA E RITORNO.
RICORDI DEL 1866.


Alberto, amico mio, copio qualche pagina dal libro dei tuoi ricordi; non te n'avere a male; se queste pagine non ti faranno onore come letterato, non ti faranno torto sicuramente come soldato e figliuolo. Acconsenti e contentati della mia discrezione, chè se volessi veramente abusare della nostra intimità, potrei pubblicare di te ben altri segreti.

IN CASA.

I.

Perdute le illusioni e le gioie della giovinezza, quando non mi resterà che il conforto di ricordarle, più che ad ogni altro giorno della mia vita ripenserò spesso e lungamente e con sempre viva tenerezza agli ultimi d'aprile e ai primi di maggio del mille ottocento sessantasei.

Io non aveva mai veduto Torino così allegra, così bella. L'imminenza della guerra nazionale da tanti anni aspettata e invocata, aveva risvegliato improvvisamente [Pg 368] tutta l'indole generosa e guerriera di quella città. Bastava passare la sera in una delle strade principali, per accorgersi dal brulichìo, dall'atteggiamento insolito della gente, da quei drappelli d'operai, di studenti e di fanciulli, che qualcosa v'era, che qualcosa bolliva nell'animo di quel popolo, che qualche gran fatto era seguito o stava per seguire. Parevan tutte sere di festa.

Eran que' giorni che, incontrando un soldato, si guarda; e si almanacca sul cavalleggere che traversò la strada con un plico nell'abbottonatura della tunica; e la gente si ferma a veder passare i convogli del treno d'armata; e nelle scuole de' ragazzi non c'è più modo di tenere un po' di quiete; e i vecchi ufficiali pensionati parlano ad alta voce nei crocchi dei caffè battendo il pugno sul tavolino; e le madri si fanno pensierose; e i giovanotti diventano pazzi; e le donne si veggono guardate un po' meno del solito, e cessano un po' d'intromettersi, come fanno sempre, in tutti i pensieri, in tutti i desiderii, in tutti i disegni; ch'è una fiera tirannide anche quella.

E Torino sentiva quei giorni; essa è la città di quei giorni. La mattina, i viali della piazza d'arme eran pieni di gente; le famiglie, i parenti, gli amici dei soldati della seconda categoria, chiamati da pochi giorni alle armi, la più parte ancora coi loro vestiti: cappelli a cilindro e papaline rosse, eleganti calzoncini chiari e grandi ghette da pastore alpigiano, soprabiti neri e giacchette cenciose, tutti alla pari: bello! Intorno alle caserme un girandolare continuo di mamme co' fagotti sotto il braccio, un va e vieni di ufficiali e di messi della Divisione e della Piazza, e una folla di curiosi davanti alla porta; dentro, un chiasso assordante. La sera, dietro le fanfare e i tamburini della ritirata, una immensa turba che marciava in cadenza, a schiere di dieci o dodici [Pg 369] insieme a braccetto; canti, fischi, grida, che n'echeggiavano tutte le strade d'intorno. Nel punto che la musica e i soldati rientravano in caserma, applausi, evviva, strette di mano, saluti:—a domani! a domani!—Parevan tutti soldati. Là ti sentivo, Piemonte!

II.

Quanto eravamo tutti migliori in quei giorni!

L'aspettazione di quella guerra solenne per cui doveva esser rivendicata la libertà e restituita la patria a un popolo tanto illustre, tanto amato, che aveva tanto patito; il sapere che anche il popolo delle classi più povere capiva, sentiva che quella era una guerra giusta, santa, ch'era necessità e dovere di farla; il vedere que' poveri giovani della campagna, rozzi, ignari di tutto, venire anch'essi a fare i soldati con tanto buon volere, con tanto buon cuore, e partecipare così presto, se non dell'entusiasmo, dell'allegrezza comune; l'udire che dappertutto seguiva lo stesso, che dappertutto accorrevano ad iscriversi fra i volontari centinaia e centinaia di giovani d'ogni condizione, e che i padri e le madri stesse li accompagnavano, e il popolo li salutava e li benediceva; che in quella meravigliosa unanimità di speranze e di voti si componevano le discordie politiche e non si udiva più che un sol grido; tutto questo metteva negli animi una serenità, una letizia così piena e viva che pareva felicità. Ogni mala passione ci fuggiva dal cuore; si perdonavano antiche offese, si sopivano antichi rancori, si cercavano, o si ritrovavano, per ufficio d'amici comuni, i nemici, e si metteva una pietra sul passato. Quel pensiero sempre presente, quell'affetto profondo che ci occupava di continuo, [Pg 370] ci dava un'energia, una vitalità insolita e vigorosa, che traspariva dagli accenti, dagli sguardi, dagli atti, dai passi. Che giovialità, che affettuosa armonia tra gli amici! Come tutti i nostri pensieri eran più alti, più puri, e tutti i nostri affetti più forti! La primavera non rideva soltanto nei fiori, non si sentiva soltanto nell'aria e nel sangue; rideva nell'anime, si sentiva nei cuori; era come il soffio di una vita vergine che ci aveva penetrati. Che giorni! O patria! se potessimo sentirti sempre così!

III.

Fin dai primi giorni che si parlava della probabilità della guerra, mi s'era cominciato a far nella testa un po' di confusione; la quale crebbe poi a mano a mano che la probabilità si venne mutando in certezza. Confusione, dico, e non saprei dir altro: pensavo, parlavo e operavo come per l'effetto d'un liquore inebriante. Dapprima agitazione, poi irrequietezza, poi febbre addirittura; ondate di sangue infuocato alla testa, gran prurito di menar le mani, grande smania di moto, d'aria, di luce, di musica e di versi, e assoluta impossibilità di fissare la mente in un qualunque pensiero. Neanco nel pensiero della guerra; però che il rappresentarmene coll'immaginazione gli avvenimenti, per quanto meravigliosi e terribili, gli era pure un togliere qualcosa a quell'idea d'un avvenire indeterminato, avventuroso, che m'infondeva tanta allegrezza e tanta pienezza di vita.

Entrato io in casa, non c'era più quiete. Tiravo giù dallo scaffale una dozzina di libri, ne scorrevo una pagina per ciascuno, sbuffando e contorcendomi sulla [Pg 371] seggiola e pestando i piedi, e poi li buttavo tutti all'aria ad un tratto.—Non bastano! gridavo; non bastano i libri! I libri non dicono quel che mi bolle qui dentro!—Aprivo un giornale; in que' giorni i giornali eran di fuoco;—davo un'occhiata al solito articolone entusiastico, e stracciavo il foglio in cento pezzi.—Ma questo è fiacco, Dio mio! questo è freddo!—E preso da un estro improvviso, sedevo a tavolino e mi mettevo a scrivere in furia.—Lo scriverò io un articolo!—dicevo; e subito dopo gettavo via carta, penna e calamaio e sclamavo:—Tutto freddo! È una disperazione! Ma di' tu, mamma, in nome del cielo, ma che in tutta la letteratura italiana non ci siano dei versi che mi esprimano questa febbre che mi divora?—Berchet!—ella mi suggeriva timidamente.—No, no, Berchet,—io le rispondevo con accento drammaticamente soave;—Berchet è irato, Berchet odia, Berchet maledice, ed io amo in questi momenti, amo immensamente, amo tutti, mi sento fratello di tutti, getterei le braccia al collo a tutti quelli che incontro per la strada. Amo anche gli Austriaci, sissignora! Tirerò a freddarne molti; ma li amo, perchè gli è grazie a loro che l'Italia si riscuote così, e solleva la testa, e si rivela così potente e bella e cara, e diffonde in tutti i suoi figli questo sentimento ineffabile di orgoglio e di gioia! Morte agli Austriaci, ma viva anche loro! Non mi son mai sentito tanto cristiano!—Poi mi slanciavo alla finestra e mi stizzivo del silenzio che regnava nella strada.—Ma guardate che tranquillità vergognosa! Ma è possibile? Ma perchè non scendon tutti giù a fare strepito? Ma che gente sono costoro?... Oh! domiamo questa febbre.—E chiusomi in camera e dato di mano alla sciabola, supponevo d'aver a fronte un ufficiale austriaco di que' lunghi, magri, con un par di baffoni irsuti e d'occhioni stralunati, [Pg 372] e mi mettevo in guardia, e giù botte, parate, molinelli, salti e grida, finchè cadevo sul sofà rifinito. Matto, via.

Non è a dire se il vicinato s'accorgesse della mia esistenza. Oltre che le mie declamazioni poetiche si sentivano dalla strada, solevo passar tutta la sera sul terrazzino del cortile; e tutti sanno come sono i cortili delle case nuove di Torino (stavamo in uno de' tre grandi palazzi di via Nizza, dirimpetto alla stazione della strada ferrata); sono grandi piccionaie, dove c'è più gente che pietre, e dopo desinare tutti fan capolino alle finestre, e quei di sopra guardano in casa di quei di sotto, e quei di sotto vedono le gambe di quelle di sopra, e nelle soffitte si fa all'amore, e sui terrazzini i bimbi fanno il chiasso e gl'impiegati leggono i giornali, e dai letti in giù fino al pian terreno, e dal pian terreno in su fino ai tetti, que' d'un piano dicon male di que' dell'altro, e tutti si salutano e si sorridono da buoni amici. Stavamo al secondo piano. Avevamo da un lato una gentile, colta ed arguta signora napoletana, nostra grande amica; una donna alla Cairoli, piena di energia e di slancio, immaginosa, faconda; la quale, un giorno che suo figlio dovea battersi in duello, aveva colpito di meraviglia e di ammirazione mia madre, dicendo tranquillamente:—Egli farà il suo dovere.—Dall'altra parte stava un vecchio ingegnere, pittore, ottuagenario, cieco, veterano di Napoleone primo, circondato da una mezza dozzina di nipotini piccini e carini ch'erano la mia delizia; un bel vecchio, un cuor santo; mi voleva un gran bene, mi chiamava suo figliuolo, e quand'ero lontano e tardavo un paio di giorni a rispondergli, andava a domandar timidamente a mia madre se nell'ultima sua lettera io avessi trovato nulla che mi potesse offendere. Allo stesso piano, dirimpetto a noi, abitava [Pg 373] una vedova sui quarant'anni, elegante, languida, magra, bruttina, furiosa divoratrice di romanzi, solita ad affacciarsi alla finestra ogni volta che c'ero io, e a darmi certe occhiate lunghe e stanche, stringendo la bocca e piegando malinconicamente da un lato la testa finto-ricciuta. Alla finestra accanto alla sua stava pel solito la sua cuoca affetta d'incipiente passione per la mia ordinanza (bel giovinetto, tra parentesi); un faccione tondo, porporino, gonfio che parea che soffiasse; due gran labbra, due grand'occhi, due gran spalle, e qualche ardita curva qua e là, che dava nell'occhio fino alle ultime lontananze della casa. Al terzo piano, sopra la ninfa languida, ci stava uno studente d'Università, giovanissimo, buon figliuolo, smanioso della guerra, già iscritto nel ruolo dei volontari, un capo ameno dei più curiosi e più cari. In qualunque ora del giorno, a un mio batter di mani, balzava d'un salto sul terrazzino colle braccia e il viso in aria a guisa di poeta improvvisatore, e m'interrogava e mi rispondeva in versi, e intavolava discorsi di alta politica, di alta guerra, di alta filosofia, di alta letteratura (stava al terzo piano), declamando, gesticolando, canterellando, ch'era una festa a sentirlo. Al suono della sua voce tutto il vicinato si faceva alle finestre.

—«O risorta per voi la vedremo....»—gridava tendendo un braccio verso di me, e battendo la cadenza coll'altra mano sulla ringhiera del terrazzino. Ed io a lui:—«Al convito dei popoli assisa....»—E lui:—«O più serva (la serva volgeva gli occhi in su), più vil, più derisa....»—Ed io:—«Sotto l'orrida verga starà. «E lui:—Sotto l'or....—Ed io:—Rida ver....—E lui:—Ga starà.—E poi tutt'e due assieme:—Ga starà! ga starà! ga starà!—

Grande ilarità a tutti i piani.—Così mi piace la [Pg 374] gioventù,—mormorava il buon vecchio. E la cuoca si nascondeva dietro un'imposta e dava in uno scroscio di risa. E la sua padrona faceva un bocchino ridente che voleva dire:—Che cari matti!—E la signora napoletana mi lanciava un frizzo, e mia sorella scappava, e mia madre mi tirava pel vestito, e mio fratello brontolava:—È troppo,—e mio cugino il colonnello, quando c'era, soldato rigido, austero, che mi voleva un gran bene, ma mi faceva delle gran lavate di testa, per cui gli avevo posto il nome di burbero benefico, mi diceva seriamente:—Sii serio.—

E davanti a lui, non lo nego, restavo un po' mortificato; ma tutt'ad un tratto scappava fuori l'amico con un'altra strofa, e allora addio serietà, e più matto di prima.

Codesta era la commedia pubblica, seguiva poi la privata. Veniva a trovarmi il nipotino più grande del vecchio soldato, ed io:—Animo, in riga!—e pigliavo pel braccio mia madre, e mia sorella, e il bambino, e volere o non volere li mettevo in riga, e ce li facevo stare, e se mia madre rideva le battevo una mano sulla spalla e le dicevo:—Ferma, cara signora, e dritta, e seria, se no noi chiuderemo le porte e vi declameremo cinquanta ottave con tutta la forza dei nostri polmoni, e voi sapete che ce li avete fatti robusti.—No! no! per pietà!—essa rispondeva.—Dunque silenzio!—gridavo io.—E bisogna starci!—mormorava ella ridendo di nuovo e rivolgendosi a mia sorella, ed era tanto caro, tanto gentile quel suo riso!—Attenti! Marche!—Il grido era così tonante che i miei soldatini si disordinavano e se la battevano chi di qua chi di là turandosi le orecchie; e io dietro, e uno per uno li riconducevo al posto, e li lasciavo poi liberi a patto che gridassero tutti insieme:—Viva la guerra!—Ma mia madre mi diceva:—E [Pg 375] io non grido.—E tu griderai.—E io no.—Allora pigliati un bacio, angelo.—

Ma di giorno in giorno ella diventava più pensierosa. Parecchi reggimenti erano già partiti; da un'ora all'altra s'aspettava l'ordine di partenza pel mio; essa lo sapeva. Spesse volte, mentre facevo il chiasso, la sorprendevo che stava guardandomi con aria malinconica, e le dicevo:—Cosa pensi?—Figliuolo,—mi rispondeva tristamente,—penso che non abbiamo più che pochi giorni da stare insieme.... Godo che tu sia allegro così, e nello stesso tempo.... questa tua allegria.... mi fa male, perchè.... penso che sentirò assai più dolorosamente il vuoto e il silenzio.... che ci sarà in questa casa.... tra poco.—

È vero, io pensava. Povere donne! Coraggio, coraggio! noi diciamo loro; noi che andiamo alla guerra pieni d'entusiasmo, di ambizione, di sogni di gloria, allegri, spensierati, circondati d'amici; ma esse restan qui sole, senza conforti, senza, distrazioni, sempre con quel pensiero, con quel dolore fisso, immobile....

—In questi giorni....—soggiungeva mia madre—io capisco, io sento che in questi giorni non son più nulla per te.... No, no, lascia ch'io lo dica; non me ne lamento mica, sai!... Povero figliuolo, è naturale... ma....

—Senti,—io le dicevo per consolarla;—tu che hai un cuore così nobile, così eletto, tu puoi trovare un conforto in te stessa, assai più facilmente di molte altre donne. Non siamo egoisti. Credi tu che questa guerra si debba fare? che sia giusta? che sia un sacro dovere per il paese?

—Oh questo sì—essa rispondeva asciugandosi le lacrime.

—E dunque, se non la facessimo noi, generazione adulta, la dovrebbero far dopo noi i nostri figliuoli. [Pg 376] Se non ci fossero adesso cinquecentomila madri che piangono, ci sarebbero fra venti, fra trent'anni. Noi ci sacrifichiamo pei nostri figliuoli, pei cinquecentomila bambini e le cinquecentomila bambine che adesso stanno ancora nelle fasce; queste hanno in quelli i loro predestinati amanti, i loro predestinati sposi; non vorremmo noi assicurare, per quanto sta in noi, il loro avvenire da ogni dolore, da ogni sventura, e fare che un giorno essi possano innamorarsi, sposarsi, e moltiplicarsi in pace?—

Mia madre sorrideva, ma tornava subito trista.—Tutto questo è vero....—diceva sospirando;—ma non basta, figliuol mio, non basta a consolare una madre!—

E appoggiati i gomiti sulla tavola e abbandonata la fronte sulle mani, piangeva tacitamente. Io tentavo di consolarla.—No, figliuolo; vattene fuori, va a cercare i tuoi amici, io non voglio rattristarti; lasciami pianger sola; va.—

Era di sera; ella stava là al buio in un cantuccio della stanza, sola, muta, e pensava e pensava.

Non ho esperimentato mai quanto in que' giorni la meravigliosa potenza dell'immaginazione sul sentimento. Cominciavo talvolta, così per ozio, a fantasticare intorno ai casi possibili della guerra, e poi a poco a poco mi raccoglievo e m'internavo così profondamente nella immaginazione delle battaglie, delle entrate trionfali, dei ritorni, che mi pareva proprio d'esserci, di sentire, di vedere, e mi si rimescolava il sangue, e mi stringevo la testa fra le mani che pareva la mi dovesse scoppiare tant'era il tumulto delle idee che vi turbinavano dentro, e il petto mi ansava, e mi pigliavano degl'impeti di tenerezza infantile.

Una notte ero di guardia al Palazzo Madama; ero [Pg 377] solo nella mia camera, seduto a tavolino, col lume davanti, e fantasticando più stranamente del solito, supponevo di essermi levato a sì grande altezza da abbracciar collo sguardo il paese intero, monti, valli, fiumi, foreste; e sentivo e vedevo in tutte le città le strade brulicare di popolo, e le piazze d'armi sfolgorare di baionette; e dalle fortezze, dagli arsenali, dai porti, uscire un suono confuso di armi e di canti, lo strepito cupo d'un lavoro concitato, febbrile; e per le strade ferrate, convogli sterminati, pesanti, lenti, percorrere il paese in tutte le direzioni, incontrandosi, incrociandosi, inseguendosi, salutati a festa dal popolo della campagna accorrente, e fermarsi qua e là, e versar cannoni, carri, cavalli, onde d'armati; e ad un tratto scoppiare concordemente da tutte le parti un formidabile frastuono di tamburi e di trombe, e da ogni città spuntare e allungarsi per la campagna le colonne dei reggimenti, convergere, congiungersi due a due, tre a tre, e avanzar lentamente verso i confini, incoronando le alture, serpeggiando lungo i fiumi, allagando le valli, spiegandosi in immense linee di battaglia sui piani; e sui monti del Tirolo, dal Lago di Garda su su a perdita d'occhio, rosseggiare in mille punti le bande dei volontari, inerpicarsi, precipitar giù per le chine, sparir nei burroni, riapparire in vetta alle rupi; e intanto tutta la vasta pianura lombarda popolarsi di tende e di parchi, risonar di musiche e di grida; e poi calare la notte, e tutto quetarsi; e finalmente, al primo chiarire d'una bell'alba di primavera, un nuvolo di cavalieri spiccarsi colla rapidità del fulmine dal quartier generale, spargersi in tutti i sensi, e propagare un grido di campo in campo; e tutto l'esercito rimescolarsi violentemente, e riordinarsi, e avanzare.... E qui l'immaginazione non potendo abbracciar tutto il quadro della [Pg 378] smisurata battaglia, m'appariva un immenso velo di nebbia rotto qua e là a grandi tratti, d'onde si vedevano i nostri giovani reggimenti lanciarsi all'assalto dei colli, retrocedere, risalire ostinati; e squadroni di cavalieri a lancia calata irrompere pancia a terra contro i quadrati; e batterie raggiungere di volo altre batterie, e dal sommo delle alture fulminare e squarciare i fianchi delle colonne fuggenti; e stormi infaticabili di bersaglieri sparpagliarsi e riannodarsi e inseguire e recedere e celarsi e ridistendersi in lunghe catene; e in ogni parte assalti succedere ad assalti, linee succedere a linee, e il cielo rimbombare dell'orrendo fragore. Quand'ecco tutto ad un tratto si fa un alto silenzio, la nebbia si dissipa, la polvere dispare, sulle creste di tutti i monti ondeggiano i nostri battaglioni, sventolano le nostre bandiere, echeggiano le nostre fanfare, e dall'uno all'altro capo d'Italia un grido di gioia lungamente preparato, lungamente compresso, si sprigiona e.... Sii pure immenso, o grido, e risuonino di te tutte le volte del cielo; ma non me lo copri, no, non me lo copri quel filo di voce tremola che prorompe dal seno.... Oh Dio! la mia testa, la mia testa!

Mi slanciai fuor dalla camera, uscii dal Palazzo; Piazza Castello era deserta e queta come il cortile d'un vasto convento; la collina di Superga si disegnava distintamente sul cielo limpido e stellato, e la facciata della Gran Madre di Dio, rischiarata dal raggio della luna, pareva che fosse lì a due passi.—Che bella notte!—esclamai.—Oh! io sono veramente felice!—

Ma un'immagine turbava quella mia felicità: l'immagine di una povera donna, seduta in un cantuccio della sua cameretta, colla fronte appoggiata sulle mani, al buio, che pensava, pensava.


[Pg 379]

PARTENZA.

I.


Il 6 di maggio, verso le cinque di sera, stavamo in crocchio una diecina d'ufficiali sulla porta della caserma, quando s'udì un passo precipitoso giù per le scale e subito dopo comparve l'aiutante maggiore affannato gridando:—Signori! Si parte questa sera alle otto. Bagagli in caserma alle sette. Montura di marcia.—

Un grido di gioia, e senza neanco domandare dove s'andava, via di corsa, chi al caffè vicino ad avvisare gli amici, chi in caserma a chiamare l'ordinanza, e chi a casa. Di lì a un momento scoppia nel quartiere uno strepito d'inferno, sonano i tamburi, si sparge la notizia nel vicinato, la gente accorre, e in pochi minuti, di casa in casa, di strada in strada, vola la voce per mezza la città, e si propaga l'allarme fra le mamme.

Corro a casa, salgo le scale a tre scalini alla volta, picchio, m'aprono, è mia madre.

—Dio mio! cos'hai? cosa c'è?—

Ansavo come un cavallo.

—Bisogna partire.

—Oh!

—Già.... e non c'è tempo da perdere.

—Quando?

—Alle otto.

—Alle otto;—ripetè collo stesso accento mia madre, come per eco, e restò li senza far motto nè gesto, guardandomi con aria di stupore.

—Presto, presto; bisogna fare il baule; alle sette [Pg 380] bisogna che sia in quartiere; a momenti verrà l'ordinanza; intanto bisogna cominciare; animo....—

E dopo un istante, vedendo che mia madre non si moveva:—Dunque?

—Ah!—diss'ella, come riavendosi da uno stordimento.—Eccomi pronta. Erminia!—

Mia sorella comparve subito.

—Parte—le disse in fretta mia madre;—bisogna mettergli al posto la roba; è tutta pronta, non è vero? Oh bene. Adesso.... aspetta. Dov'è il baule? Ma no; è meglio prima.... guarda.... o piuttosto....—

E guardava di qua e di là come smemorata.—In queste occasioni, è fatta apposta per perder la testa quella povera donna.—Dunque? domandò poi, per levarsi d'impiccio, a mia sorella che stava lì anch'essa immobile e come trasognata.

Ah!—rispose scuotendosi ella pure tutt'ad un tratto;—Presto, sì, bisogna sbrigarsi.—

E corsero tutt'e due nell'altra camera.

Una scampanellata; apro: è l'ordinanza.—Eccomi!—esclama trafelando.

—Maria!—grida mia madre tornando in fretta. La donna di servizio accorre.

—Andate a chiamar subito mia figlia. Passando, dite al portinaio che venga a pigliare il baule. Fate chiamar Ettore qui al caffè vicino. Che vengan subito tutti. Presto.—

L'ordinanza porta il baule sul terrazzino; il rumor del baule chiama alla finestra la ninfa languida; la ninfa languida chiama alla finestra la cuoca purpurea; l'atto impetuoso con cui la cuoca purpurea spalanca la finestra chiama sul terrazzino gli altri vicini.

Intanto mia madre andava e veniva senza concluder nulla.

[Pg 381]

—Amico!—grido io battendo le mani.

—Italia!—egli risponde nello stesso punto apparendo sul terrazzino in maniche di camicia e in atteggiamento ispirato.

—Parto alle otto.—

Scompare, torna vestito, leva in alto il bastone:—Ti aspetto alla stazione!—esclama, e precipita giù per le scale urlando:—Viva la guerra!—e facendo scorrere il bastone sui ferri della ringhiera che faceva un fracasso di casa del diavolo.

L'ordinanza mette nel baule la tunica e i calzoni. Atto di languida sorpresa della ninfa. Grande spalancamento d'occhi della cuoca.

—Alberto,—esclama mia madre sostando dal suo affannoso andirivieni.

—Eccomi.—

Mi tira in disparte.

—Dimmi.... dove andate, lo sai?

—A Piacenza.

—A Piacenza. E.... dimmi un po': è una città fortificata Piacenza, non è vero?

—Si, è fortificata.

—Resterete là.

—Non credo.

—Ma.... non le difendono le città fortificate?

—Quella là no, perchè noi andremo avanti, ed essa resterà indietro.

—Già....—ella disse coll'aria di chi perde una speranza. E ritornò di là.

Altra scampanellata; apro: è mia sorella maggiore. Mi stringe forte la mano e va di là.

Terza scampanellata. È mio fratello Ettore. Stretta di mano, e via.

Do un'occhiata alla ninfa: oh Dio, che sfinimento! [Pg 382] La mia ordinanza osserva colla coda dell'occhio se le guancie purpuree danno segno di voler impallidire:—no. Io suppongo di avere un cerotto sul collo, e tento di piegare il capo in atto melanconico: invano; la patria è più forte.

Intanto ritorna mia madre, colle braccia cariche di biancheria, seria, impassibile, che mi fa stordire; dietro a lei tutti gli altri, silenziosi, colla testa bassa.

Mia madre si china sul baule; l'ordinanza fa un atto rispettoso per pigliarle la roba; ella si scansa e risponde:—No; lasciate fare a me.—Le mie sorelle stendon le mani per far lo stesso.—Lasciate fare a me—risponde un'altra volta mia madre; e si china per mettersi in ginocchio.—Mamma!—io le dico con accento di affettuoso rimprovero trattenendola pel braccio. Essa mi guarda.—Non voglio—io soggiungo. Ed essa con accento più affettuoso del mio:—Te lo domando per piacere.—

S'inginocchia e ripone la roba. Il soldato mi guarda tra intenerito e sorpreso come per dirmi:—Quanto siete fortunato, tenente!—Io lo guardo come per rispondergli:—Lo so; mi rincresce che non ci sia la tua.—

Mia madre s'alza e va via. Sento un respiro affannoso; mi volto; è mia sorella minore che piange.

Mia madre ritorna con un non so che tra le mani, lo pone nel baule e va di nuovo di là; guardo: è il suo ritratto.

Ritorna con tre libri e li mette sopra il ritratto.

—Che cosa sono, mamma?

—Sono I Promessi Sposi .

—Oh grazie!—e le baciai la mano; essa la ritirò in fretta; sempre impassibile; la guardavamo tutti stupiti, ci metteva inquietudine.

—Lèvati la sciarpa.

[Pg 383]

—Perchè?—domandai.

Essa senza dir nulla me la toglie e la mette nel baule.

—Mamma.... me la debbo mettere.—Non risponde: va nell'altra camera. Altro respiro affannoso: piange mia sorella maggiore.

Mia madre torna con una magnifica sciarpa di seta, me la mette al collo e mi dice:—L'ho fatta nell'ore che tu eri in piazza d'armi.

—Mamma!—e giunsi le mani in atto supplichevole come per dire:—È troppo!—Ella voltò la testa dall'altra parte.

L'ordinanza guarda mia madre cogli occhi lucidi.

—C'è tutto—essa dice guardandosi intorno. Breve pausa, e poi.

—Si può chiudere.—

Abbassa il coperchio, preme colla mano, non riesce a chiudere; preme col ginocchio respingendo coi gomiti chi la vuole aiutare, le scivola un piede, vacilla....—Ma, mamma! ma cosa fai!—esclamiamo tutti noi sorreggendola.

Picchiano: è il portinaio che viene a prendere il baule.

—Già qui?—esclama mia madre volgendosi in tronco, con un accento di spiacevole sorpresa....—Prendete.

Il portinaio si mette il baule in spalla.

—Alla Caserma di Porta Susa—dico io.

—So dov'è—egli risponde avviandosi.

—Fermatevi!—esclama improvvisamente mia madre; quegli si volta.

—Badate....—e cerca qualcosa da dire; badate di non lasciarlo cadere.

—Non dubiti.—

[Pg 384]

Esce; mia madre lo accompagna fino alla porta; lo guarda scender le scale;—è scomparso;—stringe le labbra, batte le palpebre, ha vinto; il nodo di pianto è andato giù; impassibile come prima; comincio a turbarmi.—Come finirà!—

Ecco il burbero benefico.—Buona sera.—Nessuno risponde; ha già capito; mi guarda in viso; io alzo la fronte.—Via non c'è male—par che dica. E passiamo tutti nella stanza accanto.

Un'ultima occhiata alle finestre; languore mortale. Nuovo sforzo di collo: invano; vince la patria; addio per sempre!

Siamo tutti seduti in circolo nell'altra camera; nessuno parla. S'ode il fruscìo d'una veste, s'apre la porta, ecco la signora forte; tutti s'alzano in piedi.

—Mia buona amica—ella dice porgendo tutt'e due le mani a mia madre con quel suo garbo, con quel suo brio così vivo e sereno.—Ho saputo ora soltanto che vostro figlio doveva partire. Sono momenti dolorosi, certo; ma tutti bisogna che soffrano la loro parte per il paese. Gran giorni son questi per l'Italia! Gran guerra! Credete; è impossibile che il nemico regga lungamente a quest'onda di fuoco che lo investirà d'ogni parte. L'esercito ha alle spalle tutto un popolo pronto a scendere in campo. Gran giorni questi! Così si fanno le nazioni!—

Mia madre la guardava attonita.

—Poterla vedere un momento, da lontano, la gran battaglia! Vederla nel punto più bello, quando i nostri reggimenti avranno cacciato i nemici da tutte le colline della linea di battaglia, e giù per le chine, dall'altra parte, cavalli, soldati, carri, cannoni, tutto a precipizio e a rifascio!.... Coraggio, cara signora; questa è una vera crociata; anche le donne e i bambini anderebbero [Pg 385] a combattere; se l'esercito si dissolvesse, in quindici giorni ne sorgerebbe un altro.

—Sì! sì!—proruppe mia madre con uno slancio che volea parere entusiasmo, ma non era altro che amor materno velato di amor di patria:—Sì! È una crociata! Dovrebbero andarci tutti alla guerra, tutti, da esserci a milioni a milioni, che i nemici avessero paura, e smettessero persino l'idea di resistere e aprissero le porte delle fortezze....

—Dov'è il mio figliuolo?—domanda una voce tremola dalla camera vicina; s'apre nello stesso punto la porta e compare il vecchio cieco, colle braccia tese in atto di chiamarmi a sè. Io lo abbraccio; egli mi tocca la sciabola, la sciarpa, le spalline e domanda con voce commossa:—Già pronto?—Poi mi mette le mani sulle spalle, mi appoggia la guancia sul petto e resta fermo così. Silenzio generale. Il burbero, ritto in fondo alla stanza, contempla il quadro colle sopracciglia aggrottate e le braccia incrociate sul petto. Mia madre mi guarda fiso.

Trascorsero alcuni minuti, ed io, guardato in fretta l'orologio, dissi con grande sforzo:—È ora.—

Tutti balzarono in piedi e fecero un passo verso di me. Il burbero mi si accostò e mi susurrò all'orecchio:—Sii uomo.—Pausa.

—....Dunque—io mormorai, mettendomi il cheppì.

—Dunque—disse risolutamente la signora stringendomi e scotendomi la mano ad ogni parola;—coraggio, fatevi onore, ricordatevi di noi, e scrivete.—Detto questo, si ritirò.

—Addio, Alberto!—esclamò mio fratello gettandomi le braccia al collo e baciandomi.

Le mie sorelle mi abbracciarono singhiozzando e fuggirono.

[Pg 386]

—Qua!—esclamò il vecchio aprendo le braccia;—qua figliuolo! E stringendosi la mia testa contro la spalla, mormorò colla voce tremante: Se questa fosse l'ultima volta che t'abbraccio.... voglia il cielo.... che questo segua per causa mia.—

Il burbero mi strinse la mano, mi guardò fiso, e si ritrasse.

Io e mia madre ci fissammo un istante; essa mi si slanciò tra le braccia, mi avvinse il collo con una forza virile, mi coprì di baci disperati, poi afferrandomi con una mano un braccio e premendomi l'altra sulla spalla, stretta, attaccata al mio fianco, si fece trascinare, più che condurre, sino alla porta. Là mi sciolsi a forza e mi slanciai giù per le scale. Nel punto istesso, come se m'avesse visto piombare in un precipizio, ella gettò un grido lungo, straziante:—Alberto! Alberto!—

Sentii, continuando a scendere, che erano accorsi tutti gli altri; udii un rumore confuso di voci; il mio soldato fra gli altri che diceva:—Coraggio, signora; io gli starò sempre vicino; glielo prometto!...—i singhiozzi disperati di mia madre; un ultimo e stanco grido di:—Alberto!—e poi più nulla.

Traversando frettolosamente il cortile incontrai i quattro nipotini del vecchio che tornavano dalla scuola; li fermai, li copersi di baci:—Oh! me li soffoca!—gridò la bambinaia spaventata.

—Signor tenente, se vedesse!—esclamò l'ordinanza raggiungendomi col fazzoletto agli occhi.

—Taci.—

E via di gran passo.

[Pg 387]

II.

Arrivai alla caserma ch'era quasi buio. Le compagnie eran già armate e schierate nel cortile. Fuori, una confusione indicibile; la strada stipata di gente e illuminata colle fiaccole da un gran numero di studenti dell'Università; la porta del quartiere ingombra di ufficiali; intorno a loro una moltitudine di mamme, di sorelle e di fratelli piccini che vogliono entrare e piangono e pregano a mani giunte:—Ce lo lascino vedere ancora una volta, un momento solo, appena una parola!—E l'ufficiale di picchetto a spingerli indietro e a gridare e a pregare anche lui:—Mi facciano questo favore, si tirino in là, lascino libero il passo; non possiamo lasciarli entrare; è proibito; noi facciamo il nostro dovere; li vedranno quando andranno via.—Un accorrere di mogli d'ufficiali coi bambini per mano venute a porgere gli ultimi consigli e l'ultime preghiere; più in là un va e vieni d'altre donne e d'altre ragazze, che non sono nè madri nè mogli nè sorelle, altre piangendo, altre fingendo di piangere per destare qualche utile simpatia in que' che restano, altre in disparte malinconicamente atteggiate; drappelli d'operai che passano cantando e sventolando bandiere; grida, applausi, e un ondeggiamento e un mormorio confuso come di mare agitato.

Scoppia un rullo di tamburi; gli ufficiali spariscono, nella folla si fa un improvviso silenzio. Di lì a un minuto vengon fuori gli zappatori del reggimento a sgombrare la strada.

Mi colse un pensiero:—Si va alla stazione.... Dio mio! Bisogna passare sotto le sue finestre!—

Echeggia la musica, il reggimento è fuori, fiancheggiato [Pg 388] da due lunghe file di fiaccole; le famigliuole danno l'assalto alle file; gli ufficiali e i sergenti le respingono; respinte di qua, tornano di là; la gente s'affaccia alle finestre sventolando le bandiere; qua e là piovon sigari e aranci; una moltitudine precede il reggimento cantando; una moltitudine lo segue.—Viva la brigata Piemonte! Viva il vecchio reggimento del 637!—gridò un signore da una finestra.—E un altro:—Viva i valorosi di Calmasino!—

Siamo in via Santa Teresa, siamo in Piazza San Carlo, siamo in Piazza Carlo Felice; a misura che vado innanzi il cuore mi si stringe più forte; mi tremano le gambe.—Sentirà la musica, sentirà queste grida quella povera donna!—

Alzo gli occhi; ecco la casa, ecco la finestra illuminata; c'è una persona, non è lei, chi sarà? Non si può distinguere; saluta colle mani; guarda giù; Dio mio, chi sarà?

Tutt'ad un tratto spunta un lume sulla finestra di sotto.—Ah! l'ho visto; è il cieco. Dio ti benedica, papà!—

Ecco il mio amico; m'abbraccia, mi bacia, mi grida:—Buona fortuna, fratello! viva la guerra!—e scompare.

Siamo nel convoglio; sporgo fuori la testa; sempre la finestra illuminata, sempre il cieco solo che agita le mani in atto di saluto.—E questa musica che non si quieta mai! Oh povera madre!—

S'ode il fischio; il convoglio si muove; il cuore mi dà una scossa tremenda: chi altri è venuto alla finestra? Vedo due braccia prostendersi verso di me.... Dio mio! Ho sentito un grido?

La casa è scomparsa.

—Addio, mio buon angelo! addio, madre santa e [Pg 389] adorata! Il cielo mi consenta di rivederti, o di morire così nobilmente, che l'orgoglio d'essermi madre t'alleggerisca il dolore d'avermi perduto.

—Adesso a noi!—dissi volgendomi vivamente al mio vicino e battendogli una mano sul ginocchio.

Il vicino immerso sino allora nella malinconia d'un abbandono amoroso, si scosse tutt'ad un tratto, e gridò forte anche lui:—Viva la guerra!—

E tutti gli altri:—Fuoco ai sigari!—

In un momento la carrozza fu piena di fumo, di strepito e d'allegria.


IN CAMPAGNA.


A questo punto trovo nel libro una lunga serie di lettere d'Alberto, e accanto a ciascuna la risposta della madre attaccata al foglio. Dall'esame dei caratteri della madre si potrebbe cavar la storia della guerra; il tremito della sua mano è certo il più sicuro indizio degli avvenimenti. Su per giù, le sue lettere dicon sempre lo stesso, è naturale; ma in quelle del figliuolo c'è qua e là qualcosa da notarsi. E io noterò questo qualcosa, che riuscirà come una cronaca slegata, incompleta, ma schietta e viva delle varie vicende, o, meglio delle varie impressioni che alcune tra le vicende della guerra lasciaron nell'animo del mio amico.

Do la mia parola ai lettori che copio letteralmente.

Piacenza, 8 maggio.

....Piacenza sembra una caserma; c'è più soldati che cittadini, e più medaglie che soldati; a ogni passo incontro qualcuno che n'ha il petto coperto; a ogni svoltata [Pg 390] vedo un generale; i colonnelli non mi paion più niente. Come sento la mia piccolezza in mezzo a tutti questi galloni! Le grandi riunioni militari hanno questo di male, che noi poveri tenentucci nessuno ci guarda più; si scomparisce affatto. Scherzo, sai; io ho te, ho i miei soldati, ho i miei amici, ho il sangue pieno di fuoco, il cuore pieno d'Italia, l'anima piena d'avvenire; io son contento, io non desidero nulla, io non invidio nessuno.—Siamo alloggiati in un convento, e dormiamo sulla paglia.—È una disperazione con questi coscritti che non sanno nè vestirsi, nè camminare, nè mangiare. Si son fatte le cose troppo in furia. Se domani si aprisse la guerra ti dico io che ci troveremmo a cattivo partito; mezzo il reggimento non sa ancora caricare le armi; c'è un gran bisogno dei soldati provinciali; si aspettano.—In tutto il quartiere non s'è potuto trovare una camera per l'ufficiale di picchetto. L'altra notte mi son ricoverato nell'ufficio di Maggiorità e ho dormito sui registri....

In fondo alla risposta della madre trovo queste parole:—Bada di non guastare i registri; possono essere importanti. Hai almeno pensato a metterti qualche cosa sotto la testa? Erminia s'è ammalata dal dolore della tua partenza. L'altro giorno, spolverando la tua roba, piangeva; la vidi, glielo dissi, negò; ma piangeva proprio; tu non lo conosci ancor tutto quel suo bel cuore.—La lettera finisce:—Dove sono gli Austriaci?—

In un'altra lettera sua è posto questo quesito:—Di' un po', Alberto; mi hanno detto che i battaglioni degli Austriaci son più grossi dei vostri. Come va questo? Come farete?—

Il figlio risponde:—Ne manderemo due de' nostri contro uno dei loro.—

[Pg 391]

E la madre di rimando:—Allora va bene.—

Tutte queste lettere e quelle che vengono appresso son piene di saluti affettuosi del vecchio e della signora napoletana che aspetta «grandi descrizioni di grandi cose;»—e v'è a quando a quando un poscritto della mamma che domanda:—Cosa fa l'ordinanza?—

Rilevo dal libro che il colonnello, il burbero benefico, era al quartier generale dell'Esercito, e che da quella «superba altezza» vegliava amorosamente sull'oscuro cugino, per via di lettere e d'informazioni indirette; ma il cugino non ne sapeva niente. Il «burbero» nascondeva il protettore, per non coprire il colonnello; e ne lo lodo.

Il reggimento d'Alberto era da quattro giorni accampato presso S. Giorgio a poche miglia da Piacenza, ed egli non aveva scritto a sua madre che il giorno della partenza per annunziarle «che andava a dormire sotto la tenda.»

—Quattro giorni che non scrive! Povero Alberto, dorme per terra; soffrirà, si sarà ammalato; chi sa cosa gli sarà seguito! Oh Dio mio! Un telegramma al colonnello, subito.

E mandò il telegramma:—Datemi notizie di Alberto. Vi supplico. Non ricevo lettere. Tremo per la sua salute.—

Il colonnello le rispose subito:—Sta benone. Ma è tanto delicato!—

Mia madre capì l'ironia, e si stizzì un pochino, e prese la penna e cominciò:—Carissimo amico. Non dico che Alberto sia delicato; ma credo di poter....—Smise.

La divisione Cugia è partita per Cremona; da Cremona [Pg 392] andrà verso Goito. Una lettera della madre dice così:

—....Dirai che sono una sciocca, che parlo di cose che non capisco; ma tant'è, io questa gran necessità di passar subito il Mincio non la vedo. Se fossi il generale La Marmora, mi pare che aspetterei ancora; non si sa mai cosa possa accadere; ad ogni modo farei prima andare avanti i soldati del generale Cialdini, che hanno la flotta vicina e che in ogni caso...—Ci si potrebbero rifugiar dentro?—domanda Alberto ripigliando la frase nella sua risposta. E la madre ribatte:—Non sono momenti da scherzare.—

La divisione Cugia è sul Mincio. La lettera della madre è scritta a precipizio, tutta puntini e punti di esclamazione e parole che s'accavallano e righe che si confondono e aste che serpeggiano per la lunghezza d'un dito.

—....Per carità, figlio mio; fa il tuo dovere, sono io la prima a dirtelo; ma non far troppo.... Gli eserciti hanno bisogno degli ufficiali, e se gli ufficiali si espongono più del bisogno, che cosa ne seguirà? Ne seguirà che i soldati resteranno senza guida e senza disciplina, e allora.... che cosa doventerà l'esercito? Per carità, pensa anche un poco ai soldati..., (o amor materno, come argomenti sottile!).... e pensa anche a me; fa il tuo dovere, sì, ma pensa....—Qui c'è qualche parola che non si capisce. E poi:—....La tua vita è la mia. Oh figlio mio! che giorni! che tremendi momenti! Non ti dico che cosa segue in casa tua per non contristarti, io prego per te....—Il resto non si capisce. C'è un poscritto incominciato:—Oh Alberto!—e poi non c'è più niente. Veggo certe curve tracciate dal figliuolo, che a prima vista si possono prendere per isole; ma credo [Pg 393] ch'egli abbia inteso di passare la penna intorno ai segni delle lagrime di sua madre, e che ne sian riuscite così quelle figure.

Qui trovo una pagina intitolata:—Ciò che seguì il 28 giugno.—E dice:

—Mia madre era seduta alla tavola da pranzo, e aveva davanti un giovinetto, il figlio della nostra amica napoletana, e al fianco il mio vecchio papà. In mezzo alla tavola c'era una carta topografica.

—Se ne persuada, cara signora;—diceva il giovane;—la divisione Cugia non ha nè può aver preso parte alla battaglia; è evidente.

—Oh sì.... evidente!—esclamava mia madre scrollando la testa e passandosi la mano sugli occhi umidi di pianto.

—Ma sì; ma lo creda; e poi già... che serve ch'io lo dica? Lo dice la carta; guardi, senta. O la divisione Cugia è passata per ec. (e stringeva e scoteva l'uno dopo l'altro i diti della mano sinistra fra l'indice e il pollice della destra), e allora è impossibile che si sia trovata là nel momento in cui.... O è passata per quest'altra strada, e in questo caso non è ammissibile che possa esser giunta in tempo.... O finalmente, e questa è l'ultima, è passata dietro alla divisione che le stava a sinistra, e se questo è vero, è anche fuor di ogni dubbio, è chiaro, è indiscutibile, ch'essa si è spinta affatto fuori del campo di battaglia. Non le pare, ingegnere?—

Il vecchio senz'aver nulla capito nè veduto rispondeva:—Sicuro.

Mia madre continuava a guardare attentamente la carta topografica, rigirandola da tutti i lati, scorrendo col dito tutte le strade, levando gli occhi in su come per raccogliere i pensieri, e poi tutt'ad un tratto prorompeva [Pg 394] con voce di pianto:—Oh sì, sì, non è arrivata in tempo! Chi lo dice? Chi lo può sapere? La carta? Cosa prova la carta? Non basta la carta. Intanto son passati tre giorni e non m'ha ancora scritto, e se non fosse seguìto nulla io saprei qualche cosa, e questo vuol dire che la divisione è arrivata in tempo, e che lui ci è stato, e che.... Oh figliuolo mio! Oh mio Alberto! mio povero Alberto!—

E battendosi le mani sulla fronte rompeva in pianto dirotto.

—Signora! Signora!—esclamavano ad una voce gli altri due—si calmi, per carità, si calmi; non sarà seguìto nulla, non può esser seguìto nulla!... Ce lo creda; il suo amore materno...

—Dio mio!—gridava mia madre, con un accento d'angoscia quasi disperata;—Dio mio! il mio amore materno! Ma se non ha scritto! Ma se due mie amiche che hanno un figliuolo ufficiale ne han già ricevuto notizia! Ed io no! io niente! Oh Erminia!—Mia sorella accorreva:—Che c'è?

—Signora!...

—Alberto! Alberto!

—Dio mio! Che è seguìto?

—Una disgrazia! Io la sento! Io morirò! Presto, un telegramma al colonnello, che dimandi, che cerchi, che sappia dire qualcosa, che mi tolga questa disperazione dall'anima, che....

Una sonata di campanello.—Silenzio.—Ecco la donna di servizio.

—Signora, una lettera.

Mia madre si slancia sulla donna, le strappa la lettera, la guarda, manda un grido, la riguarda, se la preme sul cuore con un gesto convulso, ansa, sorride, leva gli occhi al cielo ed esclama:—Grazie! Grazie!—e [Pg 395] bacia e ribacia il foglio, e si stringe sul seno la testa della figlia, e mormora con voce fioca:—Alberto!—e si abbandona sulla seggiola. I due amici le sorreggono la testa e tentano di levarle la lettera di fra le mani;—indarno;—sono tanaglie.

Ecco alcuni squarci della lettera.

Cerlungo, 25 giugno.

—....T'ho detto tutto quello che ho visto, che è poco; non so però darmi ragione di certe lacune rimaste nella mia memoria; le quali, se non ricordassi molte altre cose, mi farebbero dubitare di aver perduto la ritentiva, tanto son strane e incredibili. Ho dimenticato affatto dove e quando si sia fermato il mio battaglione per la prima volta, e mi ricordo lucidissimamente d'un soldato d'un altro reggimento ch'io fermai mentre correva, e gli chiesi:—Donde vieni?—ed egli mi accennò una piccola casa sulla china del monte, esclamando:— N'avimmo fatta na 'nzalata ,—per dire che in quella casa s'era fatto strage d'Austriaci, ed era vero. Me ne ricordo un altro ch'ebbe una palla nelle dita nell'atto che si chinava per toccare un morto; mise un grido, e si guardò intorno stupefatto ritraendo la mano dietro le reni, e mormorando lamentevolmente:— A'm fa mal! —Ricordo l'arringa fatta dal mio maggiore al battaglione, pochi minuti prima che ci movessimo, la quale fu d'una semplicità e d'un laconismo veramente singolare.—Soldati!—disse freddamente senza neanco voltare il cavallo verso di noi:—temo che oggi non avremo da far nulla; ma caso mai.... voglio credere che.... siamo italiani, diavolo!—E qui finì; precise parole. Poco prima, porgendo la sua fiaschetta piena di rhum a un piccolo crocchio di ufficiali che non gli parevano [Pg 396] allegri, aveva detto sorridendo:—Prendano; si rinfranchino gli spiriti infermi.—

Mi sono profondamente convinto che il vero coraggio deriva dal cuore e dalla coltura dello spirito; e il vero coraggio consiste meno nel non aver paura che nel mostrarsi e nell'operare, avendola, come se in realtà non s'avesse; il che è effetto di ragionamento, o piuttosto d'un'infinità di ragioni, di ricordi, d'immagini, di esempi, che in quei momenti ti passano con fulminea rapidità per la mente e ti dicono:—Fermo.—E passano anche delle intiere strofe di poesie patriottiche; e mi passò e ripassò la tua immagine col braccio tremante, ma teso, e l'indice appuntato verso il nemico, e gli occhi lacrimosi fissi nei miei, e le labbra contratte dai singulti; ma che dicean con voce franca e vibrata:—Fa il tuo dovere.—O madre, quant'ero vicino a te in quei momenti!

....Non lo credere; i morti non fanno quell'orrenda impressione che si suol dire, almeno fin che il pericolo dura. Il mio battaglione era in ordine di colonna, e andava avanti, e i pelottoni si soffermavano man mano sull'orlo d'un fosso a guardare il cadavere d'un soldato a cui la mitraglia avea deformata la testa; io vi feci stendere una tenda sopra, e nessuno guardò più. È penoso il vedere quei soldati feriti, che a furia di avvoltolarsi per terra e di toccarsi qua e là, si riducono la camicia e i calzoni di tela a non vederci più un palmo di bianco, tutto sangue; e il più delle volte non hanno che una ferita leggera. Da principio si è così profondamente assorti nello spettacolo del campo, che non si bada, e non si pensa nemmeno che ci abbiano ad essere dei feriti. Ed è quasi una sorpresa il vederli poi venir giù a gruppi, colle teste fasciate, colle braccia al collo, sorretti sotto le ascelle, portati a quattro mani, bianchi come [Pg 397] morti, chi premendosi una mano sur un fianco, chi sul petto, chi traendo alte grida, chi gemendo fioco; e i medici correre affannati di qua e di là, senza sapere dove cominciare, o da chi; e poi esaminare, lavare, tagliare, fasciare, alla lesta, dopo l'uno l'altro, dopo l'uno l'altro, e poi via tutti all'ambulanza, e poi altri gruppi, altre grida, altri lamenti; Dio, che scene! Ho visto un gruppo di soldati intorno a un medico che curava un ferito e ho sentito gridare: ahi! ahi! Mi sono avvicinato, il ferito era già in piedi.—Va all'ambulanza, va—il dottore gli disse. Quegli s'avviò a passo lento e tremante.—È già guarito? domandai.—Guarito? Vivrà ancora qualche ora,—mi rispose il dottore. Ne fui meravigliato.—Scherzi delle palle,—egli soggiunse.

Ho visto dei begli atti di fermezza e di coraggio. Un bersagliere venne a farsi cavare una palla dalla gamba e tornò indietro a raggiungere il suo battaglione sul campo. Un soldato di fanteria, gravemente ferito, portato a braccia da due compagni, pallidissimo, cogli occhi semispenti, teneva tuttavia un mozzicone di sigaro fra i denti e sporgeva il labbro di sotto in atto di noncuranza e di disprezzo. Passò accanto al mio battaglione; molti corsero a guardarlo; egli volse lentamente lo sguardo intorno e, vistosi osservato, per far parere anche meglio la sua freddezza, fece un movimento della bocca come per addentar meglio il sigaro che gli stava per cadere.

....È morto uno dei miei più buoni e più cari amici, di cui t'ho parlato molte volte, un sottotenente dei granatieri, lombardo, un bellissimo giovine, Edoardo B. Era nella mia compagnia in collegio; tu hai una fotografia in cui ci siamo tutti, cercalo, è il primo a destra, seduto in terra, col sigaro in bocca; me ne ricordo. [Pg 398] Vedi com'è morto: il suo reggimento era fermo in faccia ai cannoni del nemico; egli stava seduto sopra un tamburo, a capo basso, e colla punta della sciabola andava sforacchiando per trastullo le zolle che aveva tra i piedi. All'improvviso cadde riverso mandando un grido; una scheggia di mitraglia aveva ferito lui nel petto e ucciso il cavallo dell'aiutante maggiore che gli stava dietro. Morì dopo cinque ore di spasimi atroci. Povero amico! Chi te l'avrebbe detto quando studiavamo pel nostro ultimo esame di collegio, in quelle stanzuccie del quinto piano, al lume di quel moccolo, con quei quaderni e quella brocca d'acqua tinta di fumetto; allora che avevi tante belle speranze, ed eri così felice!....

La risposta a questa lettera è del fratello; la madre s'era messa a letto colla febbre.—Di tratto in tratto—scrive il fratello,—essa cade in delirio e ti chiama.

L'esercito retrocede verso l'Oglio.

Piadena, 5 luglio.

....È una tristezza, è un dolore questo continuo attraversare villaggi e città, in mezzo a due ali di popolo immobile, muto, freddo, che ci guarda con gli occhi stralunati come se fossimo un esercito sconosciuto. Chi ha il coraggio di alzare gli occhi in faccia alla gente? Mi par di leggere su tutti i volti:—Ma bene! ma bravi! O che metteva conto di far tanto chiasso, per far poi di coteste figure?—I reggimenti sfilano a capo basso, silenziosi, che paiono una processione di frati. È uno spettacolo che mi fa male; il mio pensiero ricorre a te, madre; ho un infinito bisogno di te. Perdonami: avessi almeno la consolazione di tornare a casa senza un braccio; potrei dire:—per conto mio ho vinto un braccio di meno.—Ma tornare a casa intatto e sano e grasso [Pg 399] e rosso da mettere invidia a un pascià, è veramente vergognoso e insoffribile. Quanta bile mi dà questo specchietto che per quanto io fatichi, e sudi, e mi roda dentro, s'ostina a riflettermi sotto il mento un altro mento che fa capolino! Io l'odio questo neonato insolente che ride sulle sventure della patria! Scherzo; ma è uno scherzo che va poco giù. Marciamo sotto il sole di mezzo giorno; a destra e a sinistra della strada, orti, campi floridi e ville; a traverso il cancello dei giardini vediamo in lontananza, in fondo ai viali, signori in maniche di camicia sdraiati all'ombra dei pergolati, e signorine vestite di bianco, vaganti pei poggi in mezzo ai pini e alle mortelle. Oh loro felici! Non perchè stanno all'ombra e riposano; ma perchè non portan sull'anima questo terribil peso di sconforto e di tedio.

Risposta:—Capisco; capisco tutto; le madri capiscono tutto; coraggio, figliuolo.

La divisione Cugia è a Parma; parte per Ferrara.

Parma, 10 luglio.

....Benedetti soldati! Mi par d'amarli di più dopo quella nostra sventura; son sempre gli stessi loro, sempre rassegnati, buoni. In marcia, quando cominciano a curvarsi e a zoppicare, li guardo, li guardo: mi ci struggo, proprio. Qualche volta, quando me ne fanno qualcuna, io fo tra me un ragionamento lungo e sottile per provarmi che quello è veramente il caso di andare in collera, e poi alzo la voce:—Insomma, è tempo di finirla! Così non si va avanti! Fareste perder la pazienza a un santo! Or ora....—Impostore—mi dice una voce di dentro—tu non sei mica in collera.—È vero!—io rispondo sorridendo, e smetto. Ma poi fermo il proposito di non amarli più, o almeno di non farmi scorgere, chè [Pg 400] se no addio disciplina.—La vedremo,—dico,—vedremo se riusciranno più a intenerirmelo questo core di sasso.—E cammino duro, con un cipiglio da metter paura, sicuro della vittoria. Ed eccotene subito uno:—Tenente, glielo porto io il cappotto?—Ed io brusco:—No.—Lei è stanco.—No.—Si!—Come! Stiamo a vedere che ho da essere stanco quando vuoi tu! Al posto.—Ne viene un altro con una borraccia:—Tenente, questa è fresca.—Non ne ho voglia.—Assaggi.—Non assaggio.—Una goccia, e vedrà.—Nemmeno una goccia.—Ed egli mi mette la borraccia sotto il mento:—Vedrà che è fresca.—So bere da me.—Piglio la borraccia, m'inumidisco la bocca e gliela ridò.—Tenente!—Cosa?—Lei non ha bevuto.—Ho bevuto.—Ma se c'è ancor tutta!—e scuote la borraccia.—Oh insomma! la volete capire che sono stanco e stufo che non ne posso più? Andate al vostro posto, subito, di corsa, o vi faccio mettere alla guardia del campo per quindici giorni.... Che modo è questo?—Impostore!—mi ripete la solita voce.—È vero, io rispondo un'altra volta, e smetto.—Oggi il signor tenente è di malumore!—dicono i soldati.—No, no—io rispondo sollecitamente tra me;—no, razza di bricconi.—

Risposta:—Io lo dico spesso con tua sorella Erminia: Alberto se l'è proprio conservato tutto, tal'e quale, il cuore che aveva da fanciullo. Non dico che sia merito mio; ma però....

La divisione è partita da Ferrara alla volta di Padova.

Monselice.... luglio.

Trista cosa marciar colla pioggia. Era già notte, eravamo ancora lontani quattro miglia da Rovigo, e cominciò a piovere a catinelle. In pochi minuti mi trovai [Pg 401] ridotto come se mi fossi cacciato in un bagno bell'e vestito; l'acqua mi correva a rigagnoli giù per la schiena e pel petto; il cappotto mi s'era inzuppato che pesava da non poterlo più reggere; nella strada un palmo di fango; sicchè, figurati! Passando, vedevamo per le finestre delle case dei contadini «rara tralucer la notturna lampa» e qualche ombra far capolino un istante e sparire. Ed io pensavo a te, che quand'ero fanciullo, la sera, spingevi il mio letticciuolo verso la finestra, perchè mi piaceva sentir battere la pioggia sui vetri e il fischio lungo e lamentevole del vento, e addormentarmi fantasticando paurose avventure di pellegrini smarriti per le foreste, e misteriosi lumicini risplendenti da lunge, e fatali castelli ospitali.—Oh povero ragazzo, in che stato!—esclamavi giungendo le mani quand'io tornava dalla scuola un po' fradicio; povera mamma, se tu mi vedessi adesso!—Era il giorno delle disgrazie. Arriviamo vicino a Rovigo, piantiamo il campo in un pantano, e poi via, in paese. Io e un mio amico troviamo una stanzuccia dove asciugarci e riposare, in casa d'una buona famiglia; ci mettiamo a letto, dormiamo; balziamo giù alle nove della mattina per andare al campo e partire.... Dio eterno! non m'entran più gli stivali; li ho lasciati accanto al fuoco, si son ristretti e induriti che non ci passa neanco la gamba d'un bambino.—Aiuto, amico, aiuto per pietà!—A noi!—egli grida; si rimbocca le maniche, e li tutt'e due, tira e tira e tira, e smetti per respirare, e ripiglia con nuova lena, e smetti daccapo, e ritenta ancora con tutte le forze della disperazione.... Ah invano! Le gambe intormentite si rilassano, le braccia spossate cadono penzoloni, e la testa si riversa all'indietro cogli occhi fuori dell'orbita e la fronte grondante di sudore.—Un estremo rimedio!—grida l'amico; scucir gli stivali.—Scuciamo!—Mano [Pg 402] alle forbici e ai temperini, e all'opera. Ma i punti non si vedono, e più ci si affanna e meno si trovano, e le dita gingillano tremanti, e lo stivale scivola dalle mani, e il mio amico s'è ferito, ed io pure, e il tempo passa.... Ah! i tamburi! siamo perduti!—Il reggimento partì senza di noi; lo raggiungemmo in vettura un'ora dopo che s'era accampato.—Come mai?—domandarono gli amici. Io risposi mostrando i piedi: li avevo cacciati nel primo paio di barche postomi in mano dal primo ciabattino di Rovigo che avevamo mandato a chiamare: erano spettacolose. Un minuto dopo, un biglietto d'arresto a me e al mio compagno. Appena entrato nella tenda, sbattei in terra gli stivali gridando:—Là, carnefici!—Ma lei che non aveva l'impedimento della calzatura,—domandò poi il colonnello al mio compagno,—perchè non è venuto?—Colonnello! abbandonar gli amici nella sventura....

Risposta:—Quante volte non ho predicato, fin da quando eri bambino, contro questa maledetta manìa di portar le scarpe strette! Chi sa cos'avrà detto di te il colonnello! Ma non c'era almeno una donna che avesse un po' la testa a segno in quella casa di Rovigo, che cercasse subito, mandasse a vedere, provvedesse, vi levasse in qualche modo d'impiccio? Pare impossibile! tutti senza giudizio.

Dalle vicinanze di Mestre, 20 luglio.

—...Ho visto Venezia da lontano. Non credevo che si potesse amar tanto una città da provare, vedendola, quello stesso effetto che fa l'innamorata. Al primo vederla, così stupenda e gentile, che sembra a galla sul mare, non mi venne sulle labbra nè un «viva!» nè un «bella!» come parrebbe spontaneo; mi venne una parola più affettuosa e più dolce, ed esclamai:—Cara!—Dice [Pg 403] un mio amico che Venezia, vista così da lontano e di sera, gli fa l'effetto d'una fanciulla pallida e melanconica, appoggiata sul davanzale, col capo reclinato da una parte sulla palma della mano, e lo sguardo teso sull'orizzonte del mare, in atto di chi pensa ed aspetta. E appena la vide gridò:—T'amo!—Sì, tale è il senso che ispira da lontano Venezia; dentro sarà grandiosa e magnifica e ne imporrà; vista di qui intenerisce e innamora. Cara madre, tu hai una rivale formidabile....

....Gran buona gente questi contadini veneti. Ero di gran guardia vicino a una casipola, avevo sonno e picchiai per domandare ricovero; nota ch'eran le due dopo mezzanotte. Mi apre una donna, mi fa entrare nella prima stanza, mi porta un pagliericcio, una materassa, una coperta, un guanciale, mi dà la buona notte e va via. Mi corico e dormo da principe. La mattina appena desto, mi affaccio all'altra stanza per ringraziare la mia ospite, e la vedo che dorme stesa in terra, sopra un po' di paglia, con due bambini, uno fra le braccia, l'altro da un lato, senza un lenzuolo, senza un guanciale, senza un cencio di coperta; aveva dato ogni cosa a me. N'ebbi rimorso, ira, vergogna; mi diedi dello snaturato, del poltrone, del villano, del tristo.... Non ricorderò mai quella notte senza dolore.

Risposta (ah pietosissima spietata!):—Un po' di torto l'hai certamente; ma.... in fin dei conti tu avevi faticato e dovevi levarti per tempo; mentre quella donna aveva dormito fino allora e poteva dormir poi. Un'altra volta badaci però.

....Dalle vicinanze di Mestre.... agosto.

....—Senti questa ch'è nuova di zecca. Ieri l'altro ero d'avamposto dalla parte di Malghera. Allontanatomi un centinaio di passi dalla gran guardia, veggo venir [Pg 404] verso di me tre signore, una attempata, le altre due giovanissime (eran sue figliuole), belline, vivaci; e tutt'e tre mi si ferman davanti, mi fanno un inchino, mi domandan nuove della mia salute, mi dicono che sono scappate da Venezia, che son dirette a Mestre, che vogliono andare a Padova dai loro parenti, e che intanto sono felicissime di vedere un ufficiale italiano,—non n'avevano ancora veduto nessuno, io era il primo,—e mi fanno festa, mi affollano di gentilezze, ridendo, girandomi intorno, giungendo le mani in atto di ammirazione e di sorpresa, e tutto questo con una ingenuità e una grazia veramente incantevoli. Dopo ch'io l'ebbi ringraziate tutt'e tre con grande effusione di cuore, la mamma si voltò alle ragazze e disse loro:—Fategli vedere che cos'avete sotto il vestito.—Oh che diavolo?—io pensai. Le ragazze si peritavano.—Animo, alzate.—Alzate!—pensai di nuovo.—Animo, su, o che c'è da vergognarsi?—Io cadevo dalle nuvole. Le ragazze fecero ancora un po' le ritrose, ridendo e coprendosi il viso con una mano; e poi, tutt'e due assieme, facendomi un grazioso inchino, tiraron su delicatamente con tutt'e due le mani la gonnella del vestito, e mi mostrarono una bellissima sottana fatta di tre pezzi, uno verde, uno bianco, e uno rosso con una gran croce bianca nel mezzo....

Risposta.—Cosa viene a fare codesta signora colle sue figliuole in mezzo a voialtri? Abbi giudizio. Te lo dico perchè so che ce n'è bisogno; hai una testa!

Padova, 5 settembre.

....—M'ha preso la febbre, sono venuto a Padova, sono entrato nel l'ospedale dei Fate-bene-fratelli, m'hanno curato, sono guarito, e domani torno al reggimento: ecco tutto. T'ho voluto scrivere a fatto compiuto, [Pg 405] come suol dirsi, per impedirti di venir qua, chè certo ci saresti venuta. E adesso va' in collera, grida, scrivi, protesta; la è tutt'una; è finito; bisogna rassegnarsi. Anzi, fa' a modo mio, cara madre; ringrazia il cielo che non sia stata che febbre; pensa a questi poveri giovani che ho intorno, chi ferito di palla, chi di baionetta, condannati al letto chi sa per quanti altri mesi, e fortunati quelli che s'alzeranno ancora. Ho davanti a me un luogotenente dei granatieri, lombardo, che s'è preso una baionettata nel petto, a Custoza, da un sergente dei croati, e ferito com'era non s'è voluto allontanare dal campo. M'ha fatto veder la sua tunica; è ancor tutta macchiata di sangue. È quasi guarito, si leva, cammina; ma quando si sveglia, nell'atto che fa per mettersi a sedere sul letto, prova ancora dei dolori atrocissimi. Mi raccontò il fatto.—Mi ricordo di poco,—mi disse;—mi ricordo come di un sogno, d'aver veduto quattro o cinque ceffi orrendamente stravolti correre contro di noi mandando un urlo prolungato, e uno di essi mi guardava. Ho sempre presenti quei due occhi spalancati e la punta di quella baionetta; era un uomo alto, nero, con due gran baffi. In che modo sia riuscito a ferirmi non mi sovvengo. Ricordo che mi passò dinanzi, rotando la sciabola, un ufficiale austriaco senza barba, un viso femmineo, giovanissimo, che gridava disperatamente:— Jesus Mària! Jesus Mària! —Passò e scomparve. Quello lì lo vedo sempre, lo riconoscerei. Parecchi giorni dopo, essendo all'ospedale colla febbre e il delirio, mi sentivo ancora l'orecchio intronato da quegli urli e dal suono dei fucili cozzanti, e vedevo lontano lontano una punta scintillante che veniva innanzi, nella direzione del mio cuore, lentamente, lentamente, come se mi guardasse per riconoscermi; e me la sentivo entrar poi tutt'ad un tratto nelle carni, dura, fredda, [Pg 406] e starci lungo tempo e andar sempre più giù. Ti parrà strano; ma per molti giorni, ad ogni rumore improvviso ch'io sentissi, allo sbatter d'un'imposta, al cader d'una seggiola, mi correva un brivido per tutta la persona....—Questo povero giovane, ferito com'è, l'altra notte saltò giù dal letto in camicia e venne a domandarmi se avevo bisogno di nulla, perchè gli era parso ch'io mi fossi lamentato. Mi vergognai. Un imbelle e volgare febbricitante esser causa che un nobile ferito di baionetta s'incomodi per lui! Da quella notte in poi, ad ogni rumore ch'egli fa, sia anco russando, salto giù.—

—Il quartiere generale è a Padova, lo sai? Ieri, mentre dormicchiavo, mi vidi balenare sugli occhi un petto coperto di medaglie e di croci; guardo, è lui, è il «burbero benefico.» Ci stette un'ora. Entrai a discorrere della guerra; egli lasciò cadere il discorso; non sorrise mai; era molto tristo. Mi lasciò stringendomi a più riprese la mano e dicendomi con molta serietà:—Sii forte.—

La risposta è una protesta violenta, che dalle prime all'ultime parole va però gradatamente scemando di forza, tanto che comincia:—Sei proprio indegno dell'immenso bene che ti voglio.... Il cielo è ben crudele con me,...—e finisce:—Sia ringraziato il cielo; vedo proprio che ci protegge: e tu sii benedetto, mio buon Alberto.

Martellago, 15 settembre.

....Finalmente! Siamo per la prima volta acquartierati a Martellago, poco lontano da Mestre; ho una camera! un letto! un tavolino! uno specchio! Oh felicità sovrumana! Tu non lo capisci, cara, che cosa voglia dire per noi possedere un po' di casa dopo tanti mesi che si dorme in terra e ci si lava il viso nei rigagnoli.—È [Pg 407] mia!—esclamo misurando in lungo e in largo la camera a passi lenti e gravi, e girando lo sguardo sulle pareti.—È mia; me la pago e me la passeggio e me la godo e tengo tanto di chiave in tasca!—La prima sera, nell'atto di salir sul letto, ho provato una certa peritanza, una certa soggezione; mi pareva d'essere un contadinaccio penetrato segretamente in un salotto di signori, e che da un momento all'altro mi dovesse calar sulle spalle una tempesta di bastonate. Poi, quando ho messo il ginocchio sulla sponda e l'ho sentita dar giù, credetti di cadere, mi trattenni, sorrisi e risalii, con una sorpresa, con un piacere, che mi ricordò quello che provavo da ragazzo aprendo la scatoletta da cui saltava fuori il mago sabino con quella gran barba. Che sonno delizioso! Che allegro svegliarsi!... Una camera! Ma io sono un re; voglio spassarmela, voglio fare il giovin signore ; voglio goder la vita. Ho già cominciato. Mi son fatto portare il caffè a letto; mi son levato e vestito lemme lemme, sbadigliando voluttuosamente e domandando ogni momento del tempo e dell'ora; ho avuto l'impertinenza di mandarmi a chiamare un barbiere del paese, e di riceverlo sdraiato sulla poltrona, e di accendere un sigaro e di aprire un libro.... Gran bella cosa nuotar negli agi e nelle morbidezze! Cara, lo crederesti che io amo tanto la mia cameretta da curare la disposizione simmetrica delle seggiole? Tu riderai; eppure.... Adesso comincio a rendermi ragione del perchè e del come voi altre donne amiate tanto la casa; non ti burlerò più per quella tua cura religiosa che tutto sia al suo posto, pulito, lucido. Quante cose insegna la tenda!—

Risposta:—Per capir certe cose non ci dovrebb'essere bisogno della tenda, mi pare! Dormi colla finestra chiusa; non son più giorni da pigliar aria i primi di settembre; [Pg 408] se non hai abbastanza coperte, chiedine alla padrona di casa. A proposito: è giovane questa tua padrona? è maritata? ha figliuoli? Che donna è? Queste padrone di casa mi dan sempre da pensare perchè per solito vogliono immischiarsi un po' troppo nelle cose che non le riguardano. Tu poi sei un benedetto ragazzo!

Martellago, 16 settembre.

....È strano; cioè è naturalissimo, ma in sulle prime mi parve strano, che fra noi, dopo una campagna, anche coloro che parevano più spensierati, più freddi, più cinici, sentano un prepotente bisogno d'affetto, e parlino ad ogni momento e con tutti della loro famiglia (molti avean persino dimenticato d'averla), e scrivano di qua e di là, e custodiscano religiosamente le lettere, e scongiurino gli amici lontani a mandare i ritratti, e cerchino per mare e per terra un amoruzzo sentimentale pur che sia. Questi mutamenti seguono più generalmente e in modo più pronto e più vivo dopo una guerra sfortunata; si capisce. Certuni sono andati a dissotterrare non so che cugine lontane, di cui forse non sapean neanche il nome, ed hanno intavolato con loro una corrispondenza letteraria disperata. Le cugine, sorprese e intenerite dalla subita e appassionata espansione di quei cuori, rispondono cose di fuoco; i ferri, come si dice, si scaldano; prevedo di gran matrimoni. Le guerre rubano molti figliuoli alla patria; ma gliene preparano anche molti. Se tu li vedessi, come li vedo io, certi don Giovanni in diciottesimo, certi crapuloni, che qualche mese fa ponevano la bottiglia, il sigaro e la bionda o la bruna al di sopra di tutti gli affetti e di tutte le felicità umane; se tu li vedessi la sera, appoggiati alle finestre, guardar la luna con occhio melanconico, e lamentarsi [Pg 409] con me:—Son due giorni che non mi scrive!—È inutile, già; la donna è sempre la nostra riverita signora e padrona; l'ambizione, la gloria, qualche altra felicità aspettata o sperata, possono qualche volta illuderci, farci credere che si possa fare a meno di lei, nasconderla, per così dire, agli occhi della nostra mente e ai desiderii del nostro cuore; ma poi.... Ella non ci arresta, come dice il Manzoni, nel viaggio superbo;

Ma ci segna; ma veglia ed aspetta,
Ma ci coglie....

Oh ci coglie sempre!

Risposta:—E tu chi hai dissotterrato? Per carità: giudizio! giudizio! giudizio!

17 settembre.

—....Un altro fenomeno da notarsi, dopo una guerra, è l'ardore della lettura che rinasce vivissimo in tutti, anche nei più alieni, o per indole d'ingegno o per insufficienza di coltura, da questa maniera di occupazione e di diletto. Tutti leggono, tutti cercan libri; il parroco del paese è stato costretto a mandare in giro tutti i volumi della sua biblioteca. A me che vado agli eccessi, come tu dici, in tutto, è venuta una vera manìa; non è più voglia di libri quella ch'io sento, è fame, fame rabbiosa. Ma son sempre fedele al mio amore antico. Tutte le ore libere del giorno e della sera le passo leggendo e rileggendo e pensando e sviscerando questo caro, questo benedetto, questo santo romanzo I Promessi Sposi, mio eterno compagno ed amico, fonte per me di tante dolcezze, di tante consolazioni, e di quella eguale e soave tranquillità d'animo e di cuore, in cui ogni mio affetto si purifica e si rafforza, ogni mio [Pg 410] pensiero s'innalza, e le cose e gli uomini e il mondo e la vita, tutto mi si presenta all'intelletto sotto il suo aspetto migliore, tutto circonfuso d'amore e di speranza. Non so come; ma la mia patria, il mio reggimento, te, gli amici, tutto sento d'amar di più e più nobilmente, meditando questo vangelo della letteratura. E non v'è una pagina a cui non sia legato un ricordo delle nostre prime letture; quando tu tenevi il libro sulle ginocchia, ed io leggevo e tu ascoltavi, e le mie lacrime cadevano sulle tue mani, e a certi punti si chiudeva il libro e ci abbracciavamo; o s'io leggeva nella mia camera, uscivo e venivo a cercarti per piangere fra le tue braccia. L'ho qui dinanzi questo libro, lo tengo fra le mani, me lo stringo sul cuore e gli dico:—Per tutte le lacrime che hai fatto spargere a me e a mia madre, per tutti i santi affetti che m'hai destati e tenuti vivi nell'anima, per tutto l'amore che m'ispirasti agli uomini e alla vita e alle cose nobili e grandi, io ti giuro che come fosti la mia prima lettura, sarai l'ultima, e che fin che la mia mano ti potrà reggere ed il mio sguardo fissarti, cercherò te, sempre te, libro-paradiso!—

Dopo questa lettera c'è l'annunzio della partenza da Martellago, e poi, giorno per giorno, un cenno delle partenze e degli arrivi successivi, da Padova a Rovigo, da Rovigo a Pontelagoscuro, da Pontelagoscuro a Ferrara, da Ferrara a Modena, da Modena a Parma.

Parma, 16 ottobre.

—Senti che tiro m'ha fatto quel briccone di ordinanza. Due settimane fa, ricorrendo il giorno del suo nome, presi una bottiglia di barbèra dal vivandiere, ci attaccai sul collo un pezzo di carta con suvvi scritto—San Remigio—e, colto un momento ch'egli [Pg 411] non c'era, andai a mettergliela sotto la tenda. Non seppi altro; non mi ringraziò; non die' mai segno di nulla; credetti che glie l'avessero rubata. Ieri sera, tornando da una passeggiata fuori del campo, entro nella tenda e vedo al mio posto un gran monte di paglia fresca, ben raccolta e spianata, che pareva levata allora da un pagliericcio; e dalla parte dove metto la testa, un'immagine di santo appesa al sostegno della tenda, con foglie e fiori intorno, e un cerino acceso dinanzi; accanto, sul coperchio del baule, un astuccio di legno, fatto col coltello, che poteva passare per un portasigari; sotto l'astuccio un mazzetto di sigari legato con un nastrino rosso. Guardo l'immagine: c'è scritto su—Santa Teresa—; guardo l'astuccio—Santa Teresa;—guardo il nastrino dei sigari—Santa Teresa.—Ne rimasi commosso. Non credevo che il cuore di questo giovane, oltre all'esser tanto buono, fosse anche tanto delicato, da onorare e festeggiare il nome di mia madre invece del mio.—

La risposta della madre è un vero schiaffo al regolamento di disciplina. Se il soldato d'Alberto fosse diventato ad un tratto generale d'armata, essa non avrebbe potuto scrivere in altro modo. E pare che in seguito il signor Remigio non fosse mal ricompensato della sua delicatezza perchè un giorno si presentò all'ufficiale con una lettera di casa sua tra le mani e colle lagrime agli occhi, e fece con voce tremante un lungo ringraziamento....

—Ho capito—disse Alberto tra sè quand'egli ebbe finito;—le due madri sono amiche.—

Da Parma a Piacenza, da Piacenza a Pavia, da Pavia a Bergamo; altri quindici giorni di marcia, di cui la metà colla pioggia.—Penso alle scorticature dei tuoi poveri piedi—dice una lettera della madre, e non posso [Pg 412] far altro che mandarti dei sospiri di dolore.—Mandami delle calze di filo—risponde il figliuolo.

Bergamo è l'ultima stazione, dalla quale ricomincia il racconto di Alberto.


RITORNO.


Eran gli ultimi giorni di dicembre; io era sempre a Bergamo col mio reggimento, ricreandomi co' libri dal servizio di guarnigione, che sempre, ma in ispecie dopo una guerra, è d'una monotonia e d'una noia.... Zitto! Non pensavo nemmeno a tornare a casa perchè il periodo dei lunghi congedi non era per anche aperto, e di brevi sentivo dire che il colonnello non ne voleva dare, se no l'avrebbero chiesto tutti; mia madre continuava a scrivermi che—assolutamente e a qualunque costo mi voleva rivedere e non poteva più durarla così,—ed io a risponderle:—abbi pazienza; aspetta un altro poco,—ed ella:—è impossibile; e io daccapo a quetarla, e intanto passavano i giorni e le settimane.

Una bella mattina sento picchiare all'uscio della mia camera, apro:—Chi veggo! Colonnello!

Mi salutò con molta gravità, non volle sedere, mi disse che veniva da Venezia, ch'era diretto a Milano, che aveva buone notizie della mia famiglia.... A questo punto mi guardò in viso e disse con una cert'aria di pietà e di rimprovero:—Io già capisco che tu hai una gran smania di tornare a casa.

—Eh.... dopo una campagna!—risposi umilmente.

—Campagna! campagna!—egli ripetè in suono di [Pg 413] stizza;—non la chiamare così; sono state quattro marcie mal fatte e quattro schioppettate mal tirate.—

Io tacqui. Egli continuò serio serio:—Avvezzati a tenere il reggimento per la tua vera famiglia.—

Io continuai a tacere. E lui:

—Tu, per indurirti un po' codesto cuoricino di cera, per diromperti un po' alla vita del soldato, che non sai ancora cosa sia, lasciatelo dire, avresti bisogno di fare una campagna nelle Indie almeno almeno di cinque anni.—

Ed io zitto. E lui ancora:

—Tutta questa impazienza, tutto questo gran bisogno di riattaccarsi al grembiale della mamma, è molto antimilitare.—

Io sempre muto. Seguì una breve pausa, ed egli soggiunse raddolcendo appena sensibilmente la voce:

—Ho parlato col tuo colonnello; t'ha dato un congedo di cinque giorni; puoi partire anche subito.—

Caddi dalle nuvole; volli ringraziarlo, esprimergli tutta la mia riconoscenza, dirgli che gli andavo debitore d'una gran felicità, che mi sarei ricordato sempre.... Mi troncò la parola in bocca dicendomi che partiva subito; si accomiatò, e giunto sulla porta si voltò ancora una volta indietro per dirmi:

—Sii soldato.—

E se n'andò. Feci un salto da sfondare il pavimento, e urlai:—Remigio!—Remigio venne.—Fammi la valigia, subito.—Quando seppe dove andavo, ne parve più contento di me:—Che festa, figuriamoci, per la sua signora madre! Mi par di vederla.—Metti dentro l'immagine di Santa Teresa, i fiori secchi, l'astuccio e i sigari—io gli dissi. Egli mi guardò meravigliato.—Ah! tu non sai dove siano! Eccoli qua.—E aperta una cassettina che tenevo sempre chiusa, vi presi e gli porsi [Pg 414] ogni cosa.—Ha conservato tutto!—esclamò quel buon soldato giungendo le mani in atto di grande sorpresa, e seguitò per un po' di tempo a guardare ora me ora gli oggetti sorridendo ed esclamando affettuosamente:—Anche i fiori secchi!—

Di tutto quello che ho fatto prima di partire non mi ricordo altro se non che, visitato il colonnello, girai come un arcolaio per la città e pigliai a braccetto tutti gli amici che incontravo, non ristando mai dal magnificare le bellezze di Bergamo:—Guarda che cielo! guarda che colline! guarda che stupenda pianura!—e gli amici si stringevano nelle spalle. L'ordinanza mi accompagnò alla stazione; pagai il biglietto e mi dimenticai di pigliare il resto; mandai un dispaccio telegrafico a mia madre, dicendo non so che sciocchezza al telegrafista, che ebbe la bontà di ridere; fumai, o piuttosto disfeci a morsi due o tre sigari in pochi minuti, e finalmente....—Signor tenente—mi disse l'ordinanza porgendomi la valigia quando cominciò a sonar la campanella;—mi faccia il favore di portare i miei saluti alla sua signora madre, e dirle che io non mi sono mai dimenticato della bontà che ella ebbe per me e per la mia famiglia e che le ho sempre....

—Che le hai sempre voluto bene, sì, dillo pure, mio buon Remigio; non mi dimenticherò di nulla; a rivederci presto; addio.

—Buon viaggio, tenente!—

Il convoglio era già in moto; misi fuori la testa e vidi ancora la mia ordinanza ferma dietro il cancello della stazione; appena mi scorse, alzò la mano alla tesa del cheppì e ve la tenne fin ch'io gli disparvi allo sguardo.

Dovevo arrivare a Torino alle dieci della sera.

Giunto alla stazione di Milano, vidi un battaglione di fanteria che si disponeva a salire su lo stesso convoglio; [Pg 415] riconobbi un ufficiale mio amico, e lo chiamai.—Andiamo a Torino—mi disse;—s'aspetta che attacchino dell'altre carrozze; abbiamo con noi il colonnello e lo stato maggiore; il comando del reggimento resterà a Torino; ci si scrive di là di non so che accoglienza che ci sarebbe preparata alla stazione.... Anche questa ci mancava! Gli applausi, oramai, mi fanno molto peggiore effetto dei fischi. Oh speranze! Domanderò la dimissione, anderò a fare il consiglier comunale nel mio paesucolo, sarò capitano della guardia nazionale, mi abbonerò alla Gazzetta Ufficiale , porterò i calzoni larghi in fondo, piglierò moglie e tabacco, e morirò cavaliere. È il mio destino. Addio.—

Il suo reggimento, di cui non ricordo il numero, s'era splendidamente condotto alla battaglia di Custoza.

Quel viaggio da Milano a Torino fu eterno.—Che tormento—dicevo—star rinchiusi in questa prigione di carrozza! Non c'è aria, non si respira; ci dovrebbero essere dei posti sopra, che diavolo. Oh! intanto godiamoci il nostro arrivo colla fantasia. Supponiamo di essere già entrati nella stazione. No, è troppo presto; voglio godere lentamente. Supponiamo di essere ancora fuori della cinta di Torino, molto fuori. Il convoglio va, va, va; ecco la cinta; oh che respiro! Ecco le prime carrozze della stazione; oh Dio! supponiamo un impedimento qualunque; fermiamoci; va troppo presto questo maladetto convoglio. Avanti, s'entra nella stazione, il convoglio si ferma, no! non ancora! che fretta importuna! lasciami godere a mio bell'agio; così; avanti. Dio mio! eccomi sceso, ecco lì fuori la gente che aspetta, ecco.... Oh che caldo con questo cappottacelo pesante! Ma come fate voi altri a dormire,—dicevo guardando i viaggiatori che avevo intorno;—come fate a dormire voi altri con questa febbre che.... ho io?

[Pg 416]

Ah! non è più fantasia! Ecco le belle colline di Torino, ecco la cinta, ecco quei campi, quelle case, ecco le prime mura della stazione; oh chetati cuore! Coraggio, su lo sguardo; ah! ecco i tre palazzi di Via Nizza! La finestra! Cielo! chi c'è alla finestra che alza ed abbassa le braccia in atto di saluto? È lui! è lui! è il mio papà!... Che sento! la musica! le fiaccole! Tutto come quella sera! Il convoglio si ferma, salto a terra, esco di corsa, ecco la folla, eccoli! eccoli tutti! mi hanno veduto, m'apron le braccia....—Ah! madre!—Sento ancora intorno al collo la stretta vigorosa di quelle due braccia convulse, odo ancora quella musica, veggo ancora quella luce.

Siamo davanti all'uscio di casa, si apre, mi getto nelle braccia del mio buon papà, che piange e ride senza poter far parola; ecco tutti i suoi nipotini, un bacio per uno, forte, che lasci il segno; ecco la signora napoletana, ecco suo figlio.—Grazie della carta topografica!—Risa generali; arrivano altri vicini; sostengo un assalto impetuoso di saluti, di felicitazioni, di strette di mano, di domande; mia madre mi si stringe ai panni, mi disputa a tutti, mi guarda, mi tocca le braccia, le mani, le spalle, se son tornato tutto intero; le mie sorelle girano di qua e di là per farsi un po' di strada e venirmi a riabbracciare; i bambini mi saltano intorno; è una festa.

Finalmente, a poco a poco, i vicini e gli amici se n'andarono; se ne tornò a casa mia sorella maggiore; se n'andò a dormire, colle lagrime agli occhi, anche l'altra; mio fratello uscì, e non restammo che mia madre ed io.

Appena soli, ci sedemmo in gran fretta l'uno di fronte all'altra, avvicinando le seggiole e pigliandoci per tutt'e due le mani, come fanno gl'innamorati quando restano un momento senza testimoni, e mia madre, [Pg 417] tratto un sospirone in cui si sentiva tutta la storia della guerra, cominciò a dirmi con voce commossa:—Che giorni ho passati, figliuol mio, che ansietà, che terribili batticuori! Non te lo scrivevo per non rattristarti; ma mi pareva deserta questa casa dopo la tua partenza! Non sentir più, a quella solita ora, il tuo passo concitato su per le scale, la tua voce allegra, quella scampanellata che ci faceva correre tutti a chi arrivasse pel primo, non esser più messa in riga coi nipotini del tuo papà; non aver più da starti intorno perchè non ti dimenticassi l'ora della piazza d'armi.... Che sere lunghe, eterne! E il giorno poi! Se splendeva il sole,—povero Alberto, in marcia con questo caldo!—Se pioveva,—povero Alberto, se la piglia tutta!—La sera avevo quasi vergogna di andare a letto pensando che tu dormivi sulla terra, e, quando tuonava, mi svegliavo, accendevo il lume e dicevo: È impossibile, è impossibile ch'io dorma con questo tempo! Chi sa dove sarà adesso quel povero figliuolo!—Ero persino diventata superstiziosa dal continuo tremare e tormentarmi per te; andavo a cercare una cosa, e dicevo tra me:—Se la trovo, non gli seguirà nessuna disgrazia: se non la trovo;...—come le donnicciuole. A guardare i tuoi vestiti, i tuoi libri, tutte le tue cose, mi si stringeva il cuore. Mi era un tormento il vedere e sentire che qui nel vicinato c'era della gente allegra; veder dei giovanotti della tua età e della tua condizione passeggiare per la città tranquilli e contenti mi faceva male; mi affacciavo alla finestra a guardare quei pochi soldati che passavano, e li guardavo sin ch'erano spariti; mi pareva che avessero un po' di te. Leggevo e rileggevo tutte le tue lettere degli anni andati, e mi rifacevo in mente la tua storia, la nostra, a cominciare dalle notti che ti vegliavo bambino, e poi quando andavi a scuola, e io [Pg 418] piangevo se tu tornavi col pensum e te lo facevo io ingegnandomi di imitare i tuoi caratteri, e guardavo, non potendo far altro, e bagnavo di lagrime l' Antologia latina quando tu non riuscivi a tradurre e ti disperavi. E poi ricordavo gli anni che sei stato in collegio, e il tempo che fosti qui così allegro, così felice, e quella sera ch'io sentii quella musica che mi lacerava il cuore e mi rannicchiavo in un angolo della mia camera turandomi le orecchie colle mani.... La paura di perderti da un momento all'altro mi faceva parer quasi un sogno l'aver questo figlio di nome Alberto! Mi parevano scorsi pochi mesi dal primo giorno che t'avevo veduto! E la sera, dopo che tua sorella era andata a dormire, ed io restavo qui, in questa camera, sola, cadevo in ginocchio là, guarda, accanto a quel letto, e pregavo Iddio come e quanto non l'aveva pregato mai pel passato, e gli offrivo cento volte la mia vita per la salvezza della tua, e pronunciavo cento volte il tuo nome, forte, come se tu fossi stato là presente a sentirmi; finchè mi mancavano le forze, mi sentivo un'oppressione qui sul petto, che mi pareva di morire.... Ma tu sei qui, tu sei salvo, sei mio, posso guardarti, parlarti, abbracciarti, stringermi sul seno questa cara testa. Oh mi pare un sogno! mi pare impossibile! Dimmi che sei proprio qui, Alberto; dimmi che mi ascolti, dimmi che mi vedi piangere....—

Io le caddi davanti in ginocchio.

—Ma figlio, che cosa fai? alzati!

—Ma cara madre che cosa pretendi? Ascoltami. Se ho patito, non ho patito che per te, perchè ti voglio bene. Ero stanco? Avevo sete? Se lo immagina, pensavo, quella povera donna, e soffrivo. Ma questo immenso affetto che ti porto mi dava forza e coraggio. Patisco? dicevo; oh! mia madre ha patito molto di più per me, e con [Pg 419] che animo, quando malata dissimulava il dolore e il pericolo per non atterrirmi. E pensando a te, al bene che mi vuoi, alla stima che fai del mio cuore e del mio carattere, l'idea, soltanto l'idea d'un atto ignobile e dappoco mi metteva orrore perchè mi pareva un oltraggio a te, e meglio che oltraggiarti morire. E anch'io, sai, mi rifacevo in mente la tua storia, in quelle lunghe sere passate sotto la tenda; e come i bambini fantasticano il paradiso a modo loro, io mi sognava di vederti bambina; e poi fanciulla; quando là nel tuo giardino di Savona leggevi i libri che mi ponesti tra le mani pei primi; e poi sposa e poi madre, quand'ero malato, e tu per ricrearmi facevi que' cappellini di carta, ti ricordi? e te li mettevi in testa e sonavi il tamburo con due righe sulla spalliera della seggiola, e mi portavi il caffè a letto, e io non volevo, e tu mi dicevi:—Lasciatelo portare; queste sono le mie consolazioni.—E poi tutta l'assistenza che hai fatto al mio povero padre infermo, quelle lunghe notti vegliate: cara! santa! E poi quando son tornato la prima volta dal collegio e tu m'hai baciato la tunica.—Ma chi è questa donna?—mi domandavo: guarda che pazzo; perchè mi ama, perchè mi adora tanto, che io per lei sono la vita, il mondo, la felicità? In grazia di che tutto questo? Che meriti ho io? Chi sono? Ce ne son ben tante altre madri che non sono, che non fanno come lei, e perchè Iddio doveva proprio destinarlo a me quest'angelo? O perchè almeno non le ha dato un figliuolo più degno? No, no, lasciamelo dire; com'esserti grato abbastanza? come compensarti? Ti mettessi anche ai piedi la corona del mondo, ti renderei io forse la millesima parte del bene che mi ha fatto codesta tua bell'anima, codesto tuo santo cuore? Senti: te l'ho sempre detto, te lo ridico, te lo dirò eternamente, te lo ripeterei nel mio ultimo istante; voialtre [Pg 420] madri nessuno vi conosce, pochi vi capiscono; ma se vi conoscessero e vi capissero tutti, se il mondo si occupasse delle grandi madri come dei grandi cittadini, a una madre come te , vedi, a un angelo come te si innalzerebbe un monumento....

Mia madre mi pose una mano sulla bocca.

....—Un monumento d'oro, e tutti quelli che hanno anima e cuore, e io prima di tutti bacerebbero l'orma dei tuoi piedi come un'immagine sacra!

—Alberto! Alberto! taci! è troppo! io non reggo!—

E tutti e due, stretti per le mani, tremanti, ansanti, io in ginocchio, ella chinata sopra di me, ci guardavamo negli occhi, piangendo, sorridendo, chiamandoci per nome.

....—E anche adesso ti bacio la tunica!—esclamò ella poi con impeto, e mi abbracciò e mi inchiodò la bocca sul petto.

—Madre! io le dissi tenendole ferma la testa colle mani e guardandola fiso:—tu sei sublime!

Pochi minuti dopo, tutti e due col lume in mano, ella andava verso la porta della sua camera, e io, dalla parte opposta, verso la mia.

Giunti sulla soglia ci voltammo tutti e due, si rise e si tornò in mezzo alla stanza.

—Che cosa volete voi?—le domandai stringendole il mento tra il pollice e l'indice per farle alzare la testa.

—Niente, e voi cosa volete?

—Niente anch'io; dunque andate per la vostra strada, voi.

—E voi andate pei fatti vostri.—

Un'altra volta tutti e due sulla porta e tutt'e due vôlti indietro.

—Alberto!... Chi sei tu?

[Pg 421]

—E tu chi sei?

—Tu sei un cattivo soggetto.

—E tu sei una santa.—

Ella mi guardò, scrollò la testa, e stette un po' di tempo immobile in quell'atteggiamento, illuminata di sotto in su dalla candela, cogli occhi lucenti di lagrime, con un sorriso e una serenità così calma e soave che pareva proprio una santa.

Quante volte, ora ch'io vivo lontano da lei, tornando a casa a notte avanzata, solo, tediato, col peso di qualche rimorso sul cuore, mi par di vederla là sulla soglia, immobile in quell'atto, in aria di dirmi:—Tu sei un cattivo soggetto!

È un rimprovero dolce; ma solenne, che mi risuona nel profondo dell'anima, e mi fa pentire, e fermare il proponimento d'essere quindi innanzi più onesto, più buono, più degno di lei.

E addormentandomi, mi trema ancora dinanzi agli occhi l'immagine di quel volto ridente e luminoso.


[Pg 422]

UNA MORTE SUL CAMPO.


Le artiglierie, sul campo di battaglia, presentano uno spettacolo che fa ad un tempo meraviglia e terrore.

Il vedere quel lungo convoglio di cavalli, di cannoni e di carri muoversi, ad un cenno, dall'uno all'altro capo, e con tremendo frastuono lanciarsi di carriera, attraversare campi, strade, vigneti, salendo, scendendo, svoltando con rapidissimi serpeggiamenti;—e nella corsa impetuosa superare argini, saltar fossi, rovesciare e schiacciare siepi e piante e solchi, e ravvolto in un turbine di polvere e di sassi dileguarsi tra gli alberi lontani;—e indi a pochi minuti vederlo apparire in cima a una collina, e in un istante rompersi, dividersi, schierarsi, levare al cielo una immensa nuvola ed empiere di alti rimbombi tutte le valli d'intorno;—e ad ogni colpo veder quelle bocche formidabili retrocedere come atterrite del proprio grido, e lontano lontano rovinar case, alberi spezzarsi, e schiere compatte di nemici rompersi e disseminarsi per la campagna;—gli è davvero uno spettacolo che meraviglia e atterrisce.

Dal sentimento della potenza meravigliosa e terribile delle proprie armi, il soldato d'artiglieria trae quel suo carattere particolare di gravità e di alterezza, che non gli si scompagna mai dall'animo nè dall'aspetto, [Pg 423] neanche dopo una battaglia perduta, quando tutti gli altri sono prostrati dalla tristezza e dallo sconforto.

Così, seri, pensosi, ma non iscorati, non avviliti, entravano sul far della sera, in Chivasso, i cannonieri d'una batteria dell'esercito piemontese, quindici giorni dopo la battaglia di Novara. Alla batteria mancavano molti carri, molti cavalli, un cannone, due uffiziali e parecchi soldati. L'accompagnavano un capitano e un luogotenente. Il popolo assisteva tacito e mesto alla loro entrata come al passaggio di un convoglio funebre.

Si fermarono nella prima piazza. Il capitano ordinò al suo uffiziale di parcare la batteria, e, sceso da cavallo, si mise a guardare intorno come se cercasse qualcuno in mezzo alla gente che s'era affollata.

Di lì a un minuto, gli si avvicinarono due giovani (l'uno poteva essere sui venticinque anni, l'altro sui diciotto), si tolsero il cappello e gli domandarono timidamente:—È lei il signor capitano....?

Il capitano non li lasciò finire, strinse la mano a tutti e due chiamandoli amichevolmente per nome, e disse:—Mi son preso la libertà di scrivere addirittura a loro senz'aver l'onore di conoscerli, perchè in questa città non sapevo a chi altri rivolgermi; avrei scritto anche prima, se prima avessi potuto saper qualcosa della loro famiglia.... Ma neanco i suoi amici,—soggiunse con accento mesto,—non seppero dirmi nulla.... E sì che ne avea molti e carissimi, quel povero giovane.

E porse di nuovo la mano ai due compagni che gliela strinsero forte.

—Han detto nulla al loro padre della mia lettera?

Risposero che non gli avean detto altro se non che il capitano della batteria a cui apparteneva il loro povero fratello sarebbe venuto un giorno a fargli una visita; non gli avean potuto dire di più perchè era leggermente [Pg 424] malato e temevano di dargli una troppo viva commozione; però alcuni particolari della morte del figliuolo gli erano noti fin da due giorni dopo la battaglia; era tuttavia inconsolabilmente addolorato.

In quel mentre s'avvicinava a loro il luogotenente.

—Ecco l'uffiziale di cui parlai nella lettera,—disse sottovoce il capitano, e presentò il tenente ai due fratelli, che gli strinsero con trasporto la mano, facendogli mille proteste di affetto e di gratitudine, a cui egli rispose con molta effusione di cuore. Dette poche altre parole, ritornò verso la batteria. Il capitano stabilì coi due giovani che sarebbe andato a trovare il loro padre la mattina dopo alle sette, poichè alle otto dovea partire per Torino, e fattosi dire la strada, il numero della porta e il piano della casa, richiamò il luogotenente e gli susurrò nell'orecchio:—Domattina, se alle otto io non sarò qui, parta ugualmente colla batteria; ma avverta di non passare per la strada....—E gliela nominò. Il tenente ne comprese il perchè, rispose che avrebbe obbedito; il capitano si allontanò coi due fratelli.

L'indomani mattina alle sette il capitano, seguìto dall'ordinanza con un involto sotto il braccio, picchiava alla porta di casa dei due nuovi amici. Dovette aspettare un minuto che gli parve un'ora. Era desiderio impaziente o timore quello ch'ei si sentiva in quel punto? Forse non lo avrebbe saputo dire nemmen lui; ma provava un'ansietà penosa. S'aprì finalmente la porta e comparvero i due fratelli. Non gli diedero tempo di parlare; si posero il dito sulla bocca come per dire zitto, gli fecero segno che tenesse ferma la sciabola e, salutandolo tacitamente, lo introdussero e gli diedero da sedere. L'ordinanza posò l'involto sopra una seggiola e se ne andò.

[Pg 425]

—Dorme—disse il fratello più grande;—ma sta assai meglio.

—Mi fa proprio piacere,—rispose il capitano mettendosi a sedere; e i due giovani sedettero anch'essi, avvicinando le seggiole in modo da poter discorrere a voce bassa.

—Credono che gli si potrà parlare senza pericolo?

—Oh adesso sì—risposero ad una voce i fratelli,—adesso non c'è più pericolo....

—Ne godo. Ma se credessero il contrario, io li pregherei di dirmelo francamente; non vorrei, sperando di venir qui a portare un po' di consolazione, essere invece la causa di un male maggiore. Piuttosto, sentano: di qui a Torino c'è poco; fra tre o quattro giorni potrei fare una scappata di qualche ora.

—Oh troppo buono!—esclamarono i due giovani stringendogli la mano—grazie di tutto cuore; ma in verità non occorre che ella s'incomodi un'altra volta per noi. Nostro padre sta veramente meglio. E poi s'egli fosse un altr'uomo da quello che è, forse, anche vedendolo star meglio, ci sarebbe da esitare.... Ma ci creda, signor capitano; egli ha un cuore tanto mai capace di sentire una consolazione della natura di quella che lei gli porta da non lasciar dubbio sull'effetto che gli faranno le sue parole. Ha un buon cuore di padre, ma anche un ottimo cuore di cittadino....

—Oh lo credo.—

In quel punto s'aprì una porta e comparve un bel ragazzino biondo, che poteva avere una diecina d'anni o poco più. Visto il capitano, fece l'atto di tornare indietro.

—Vieni qua—disse uno dei fratelli.—Il ragazzo venne innanzi.

—Questo è il nostro fratellino.

[Pg 426]

—Quanto somiglia a quel povero giovane!—esclamò il capitano.—

—È vero!

Dopo altri cinque minuti di conversazione a bassa voce, il capitano aprì l'involto e parlò coi tre fratelli di una sorpresa da farsi al padre, finchè il secondogenito s'alzò, e passò nella stanza attigua per isvegliare il malato.

Il fratello maggiore e l'uffiziale si strinsero la mano dicendosi l'un l'altro:—Coraggio, via!—

Il giovinetto s'avvicinò in punta di piedi al letto di suo padre. Il buon vecchio dormiva leggermente con un braccio steso fuor della coperta e la faccia volta dalla parte del figlio. Questi ristette un istante a contemplare quella fronte aperta e venerabile, che pur nella quiete del sonno serbava l'impronta d'un profondo dolore, e pensò:—Ora ti desto, povero padre;... ti desto per richiamarti al dolore; ti tolgo anche questi pochi momenti di pace.... Ma è necessario.—Babbo!

Aprì lentamente gli occhi e colla mano che aveva fuori strinse quella del figliuolo. Questi, posandogli la destra sulla fronte, si chinò e gli chiese come stava.

—Molto meglio.

—Oh bene!... E.... senti, babbo; c'è di là una persona che vorrebbe vederti.

—Falla entrare.

Il figlio non si mosse.

—Chi è?...

—Chi è?... È un uffiziale.

Il vecchio fissò il giovinetto senza parlare.

—È un capitano.

—Un capitano? e spalancò gli occhi.—Seguì qualche momento di silenzio. Il figliuolo, facendosi un gran coraggio, soggiunse in fretta:

[Pg 427]

—È un capitano d'artiglieria.

—Eh!—sclamò con molto impeto il padre e fece un subito sforzo per levarsi a sedere. Il figlio glie l'impedì.

—No, babbo—disse poi con molta dolcezza,—non ti muovere; te ne potrebbe venir male; lo sai pure che il medico ti ha proibito di pigliar dell'aria; sta coricato, babbo, sta quieto.—

E gli fece riporre sotto la coperta il braccio che teneva fuori. Gli occhi del vecchio lampeggiavano e il respiro era affannoso. Di lì a un poco, senza guardare in viso il figliuolo, colla voce mal ferma mormorò:

—E questo capitano...?

—....Era il suo capitano.

La risposta era presentita.

—È venuto qui in paese apposta per vederti.

Il padre stette un istante pensieroso, poi scrollò la testa, strinse le labbra e si coprì gli occhi con una mano.

—Babbo,—disse affettuosamente il giovinetto baciandolo sulla fronte—fatti coraggio; il capitano è venuto qui per darti una consolazione, e te la darà, ne son certo. Non far così, via (e gli fece staccar la mano dagli occhi); fatti coraggio, babbo.

—Chiamalo.

—....Subito?

—Sì, subito.

—Dunque.... ho da andare?

—Va'.

—Vado; ma fatti animo, babbo; il capitano ti darà una consolazione; vedrai.—

E a rapidi passi uscì dalla camera. Il padre lo accompagnò collo sguardo e fissò gli occhi sulla porta. Un breve bisbiglio, un rumor di sciabola.... Ecco il capitano. Appena lo vide, il vecchio tese le braccia verso di [Pg 428] lui, ed esclamò dolorosamente:—Ah, capitano! capitano!—Questi accorse, lo abbracciò e gli disse affettuosamente:—Coraggio, caro signore.

Il figliuolo maggiore e il piccino si misero da un lato del letto e il secondogenito dall'altro. Il padre aveva abbandonato la fronte sul braccio del capitano e piangeva. Per un po' di tempo nessuno fiatò.

Tutto ad un tratto, il malato si sciolse da quell'abbraccio, alzò la testa e rasciugandosi gli occhi disse con accento risoluto:—Capitano.... voi eravate là quel giorno; voi avete veduto;... ditemi.... raccontatemi.... io voglio saper tutto; sarò forte.... mi sento forte.... starò a sentire senza commuovermi...., senza interrompere....; ma voglio che non mi si taccia nulla...; voglio saperlo, io.... ho bisogno di saperlo in che modo.... (e qui il pianto gli fe' intoppo alla parola).... in che modo è morto.... il mio povero figliuolo!

E nuovamente abbandonò la testa sul braccio del capitano e scuotendola in atto sconsolato esclamò:

—Era tanto giovane!

—Ma ora è tanto grande!

A queste parole il povero vecchio si scosse, alzò la testa, e guardò fiso il capitano; e a misura che lo guardava, il suo volto lacrimoso assumeva una espressione gradatamente più viva di serenità e di alterezza, e gli si animavano gli occhi, e andava ritraendo a poco a poco il braccio di sulla spalla dell'uffiziale, come se il nuovo pensiero ond'ei pareva occupato bastasse a tenergli vece d'ogni sostegno e d'ogni sollievo. Questo pensiero, che fino allora era rimasto come ravvolto e addormentato nel dolore, sorse tutt'ad un tratto nella sua mente, e gli diede un subito e inatteso sentimento di fiero conforto, e gli sviluppò nell'animo una forza di cui non si sarebbe mai creduto capace.—Tanto [Pg 429] grande! ripetè tra se stesso, e poi soggiunse con voce franca e vibrata:

—Dite pure, capitano.—

Il capitano sedette quanto più potè accosto al letto e, accarezzando le frange della dragona, cercò un modo di cominciare. Non lo trovò subito, nè il trovarlo gli sarebbe riuscito facile; ma il fratello maggiore venne in suo aiuto.

—Ebbe molto da fare, signor capitano, la sua batteria?

—Alla battaglia di Novara? non mica tanto. Cioè: quanto a fare, veramente, si è fatto poco; ma s'è faticato come se si fosse fatto moltissimo; s'è corso tre o quattro ore senza un minuto di respiro; avanti e indietro, avanti e indietro, quasi sempre per le medesime strade.—Capitano! mi si gridava, vada ad occupar quell'altura.—Ed io via di galoppo. Ma appena ero lassù, eccoti un contr'ordine, e giù subito al posto di prima. E così tre o quattro volte senza fermarsi un momento. Poveri cavalli, la parte loro l'han fatta quella mattina! Meritavano proprio una sorte migliore.

—Furono uccisi?

—Una buona parte.

—Peccato!... E dove ha poi finito di fermarsi?

—Proprio il punto preciso non lo saprei; cioè, non glie lo saprei nominare; ma ricordo esattamente la figura del luogo. Eravamo a metà della china di un colle; fra quel punto e la cima, il terreno s'incavava così profondamente da nascondere benissimo un par di battaglioni agli occhi di chi ci venisse incontro dalla parte del nemico. Quando arrivai là, si vedevano in lontananza giù nella pianura tre lunghe colonne di Austriaci che si avanzavano lentamente, ora accennando di piegare a destra, ora a sinistra, ma sempre mantenendosi [Pg 430] nella nostra direzione; eran molto lontane; appena appena se ne vedevano biancheggiare le uniformi e luccicare le baionette. Uno dei miei uffiziali fu subito mandato con due cannoni sul fianco destro del colle. Sul posto rimanemmo io e il mio primo luogotenente con quattro cannoni. Al cannone di destra (qui il capitano si volse al maggiore dei figliuoli).... c'era vostro fratello.

Il vecchio non fece alcun moto; stava profondamente intento e impassibile. Il capitano proseguì:

—.... Stava al cannone di destra. Si cominciò subito il fuoco. Appena caricato il suo cannone, vostro fratello, come sergente, doveva «puntarlo».—Alla colonna di mezzo! gli gridai.—Sissignore! egli mi rispose chinandosi per obbedirmi.—Facciamoci onore! soggiunsi. Sorrise, pigliò la mira, fece due passi indietro, comandò: fuoco! e quasi nello stesso punto si vide saltare in aria il tronco d'un albero ch'era in mezzo alla colonna del centro; questa ondeggiare confusamente, allargarsi, disordinarsi; gli uffiziali a cavallo correre di galoppo qua e là; poi, a poco a poco, le schiere ristringersi, ricomporsi e continuare il cammino.—Bravo! io gli gridai.—A un altro.—Pigliò un'altra volta la mira e un'altra volta colse nel segno.

Il vecchio battè la palma della mano sul letto.

—Colse perfettamente nel segno; la colonna si scompigliò più di prima; di nuovo gli uffiziali le corsero intorno, e di nuovo essa si ricompose; ma si soffermò. Nello stesso punto si videro apparire di lontano quattro cannoni, giungere di gran trotto sulla linea delle colonne, due di essi collocarsi fra quella del centro e quella di sinistra, gli altri due tra quella di destra e quella del centro, e cominciare a tirare contro di noi.—Coraggio! io gridai rivolgendomi ai miei soldati; questa [Pg 431] è una buona occasione per far vedere chi siamo.—Cominciammo a tirare contro i cannoni del nemico. Le colonne retrocessero d'un buon tratto. Quella del mezzo si avvicinò ad una piccola casa, e parve che v'entrasse una buona parte dei soldati.—Sergente!—gridai a vostro figlio; mettetemi una palla in quella casa.—Sissignore! sempre con quel suo accento fermo e risoluto. In quel punto passò di galoppo dietro di noi un colonnello di stato maggiore, sentì le mie parole, si fermò e voltosi verso il cannone di destra disse forte:—Vediamo.—Fuoco! comandò quasi nello stesso tempo quel bravo giovane, e dal tetto della casa vedemmo levarsi in alto e piombare in mezzo alla colonna assi, tegole e travi, e una frotta di soldati precipitarsi fuori e sparpagliarsi in tutte le direzioni.

Il padre stropicciava con tutt'e due le mani la coperta del letto come se fosse preso da un accesso nervoso.

—Bravissimo!—esclamò il colonnello, e s'allontanò di carriera. Ma i cannoni austriaci tiravano a meraviglia. Le palle venivano a cadere a otto, a dieci passi intorno a noi e si conficcavano profondamente nei solchi, sollevando dei nuvoli di terra e di sassi che tratto tratto avvolgevano cannoni e cannonieri e li nascondevano intieramente ai miei occhi. Scomparso il nuvolo, si vedeva sempre il vostro bravo figliuolo cavarsi sorridendo la terra d'in fra il collo e la cravatta, tranquillo, impassibile, come se per lui non ci fosse alcun pericolo.... Ma fummo sfortunati. Una palla cadde in mezzo alla compagnia di fanteria che ci stava di scorta alle spalle e uccise tre soldati. Dopo un momento uno dei nostri cavalli fu ucciso e due altri caddero gravemente feriti. Questo però fu il minor male.... Non eran trascorsi due minuti, quando s'udì uno schianto terribile [Pg 432] e un altissimo grido; una palla avea spezzato la ruota d'un cannone e stesi a terra, sformati, due cannonieri.... Non era il cannone di vostro figlio.

Il vecchio respirò come se gli restasse speranza che suo figlio vivesse.

—A quella vista, mi ricordo che vostro figlio si diede un gran colpo della mano sulla fronte e mise un grido di dolore. Non eravamo però ancora ridotti in condizione disperata; avremmo potuto star fermi al nostro posto ancora per un pezzo; ma due nuovi cannoni nemici si vennero ad aggiungere ai primi quattro; le colonne austriache ricominciarono ad avanzarsi; noi non potevamo restar più a lungo in quel punto. Improvvisamente sentimmo dietro di noi un rumore confuso di passi, di voci e di armi, e vedemmo due battaglioni schierarsi in fretta sulla cresta della collina nell'attitudine di respingere un attacco. Fra la cresta e noi, il terreno, come dissi, s'avvallava; perciò alla fanteria non conveniva di avanzarsi fin sulla nostra linea; toccò a noi a retrocedere. La colonna del mezzo veniva innanzi molto rapidamente. Aspettai che giungesse a tiro e comandai:—Tiro a mitraglia!—Al comando di «fuoco» si udì come uno scoppio di tuono accompagnato da un sibilo orrendo, si sollevò un gran nuvolo di polvere che ci nascose la colonna, e poi subito scomparve, e vedemmo nelle file dei nemici uno sgomento, una rotta, uno scompiglio d'inferno. Ma era tardi. I nemici, così com'erano sparpagliati e confusi, continuarono audacemente a salire; non c'era tempo da perdere, bisognava salvare i cannoni. I cavalli non bastavano:—A braccia! io gridai; indietro!—Trenta braccia vigorose afferrarono subito le ruote, gli orecchioni, le bocche, e cominciarono a spingere indietro i cannoni. Al cannone di destra mancava un artigliere; [Pg 433] Vostro figlio ne fece le veci; afferrò egli stesso la ruota di sinistra.—Coraggio! gridava: forza! forza!—Ma il tratto di terreno che dovea percorrere il suo pezzo era smosso; le ruote affondavano; lo sforzo che si dovea fare per ismoverle era tremendo; quei cinque bravi soldati facean la forza di venti; si vedevano i muscoli di quelle mani e di quei colli rilevarsi e tremare che pareva volessero lacerare la pelle; eran color di fuoco, grondanti sudore, trasfigurati. Coraggio! dicevano i soldati e gli uffiziali d'in sulla vetta del colle. E gli artiglieri, sbuffando, gemendo, raddoppiavano gli sforzi. Già ci sentivamo alle spalle il passo pesante della colonna nemica e le voci animatrici degli uffiziali; una catena di cacciatori spinta innanzi dalla colonna nemica di sinistra ci tempestava di palle, eravamo quasi sulla vetta.... In quel punto egli fu ferito!

—Dove? dove ferito?—domandò ansiosamente il povero vecchio come se sentisse per la prima volta quella notizia.

—....Alla gamba.

—Oh! E in che punto?

—....Qui,—rispose il capitano indicando alla sfuggita il polpaccio della gamba destra.—Appena ferito, si voltò un istante a guardar la gamba e gridò: nulla! nulla! animo, forza; e seguitò a spingere la ruota.

—Bravo!—interruppe con voce ferma e sonora il malato.

—Oh sì! bravo davvero; e in fatti i soldati ch'eran là presso gli gridarono: Bravo! I cinque valorosi fecero un ultimo sforzo, spinsero il cannone fin sulla vetta e mandando un altissimo grido: È salvo! caddero spossati a terra. Si rialzarono però subito....

—Ma non si rialzarono tutti!—esclamò il vecchio coprendosi il volto colle mani;—oh lo sapevo!

[Pg 434]

—....Era stato ferito in un fianco.

Seguì un momento di silenzio.

—Appena i cannoni ebbero oltrepassata la vetta, i due battaglioni di fanteria ruppero in un fittissimo fuoco di fila sulla colonna assalitrice. Il cannone di destra fu trascinato innanzi per altri trenta passi. Mentre lo trascinavano (a questo punto il capitano si levò in piedi), il vostro bravo figliuolo, steso in terra, premendo una mano contro la ferita, gridò ancora due o tre volte: Forza! forza! Poi gli mancò la voce, fece ancora un cenno colla mano....

—Oh capitano!—gridò il vecchio con voce di pianto.

—Sentite.... Appena i nostri cannoni furono fermi, ci arrivarono i cavalli di alcuni altri pezzi caduti in mano del nemico; ordinai che li attaccassero subito. Il luogotenente, sceso da cavallo, badava a far eseguire i miei ordini, stando fermo davanti al pezzo di destra, colle spalle volte dalla parte del nemico; i cavalli erano già attaccati; egli era sul punto di volgersi a me per dirmi: siamo pronti. Quando tutto ad un tratto si sente stringere un ginocchio di dietro, si volta e vede....

Il vecchio balzò a sedere sul letto e afferrò gagliardamente la destra del capitano domandandogli con un grido:—Chi?

—Vostro figlio.

—Dio!

—Vostro figlio, che estenuato, moribondo, s'era trascinato carponi sin là per dare l'ultimo addio al suo cannone, ai suoi compagni....

—Capitano!

—Tutti i cannonieri gli si fecero attorno: due di essi lo presero sotto le ascelle e lo sollevarono in ginocchio. Agitava tutte e due le braccia, e apriva e chiudeva la [Pg 435] bocca guardando il luogotenente come se volesse dirgli qualche cosa.—Che cosa vuoi, bravo soldato?—il luogotenente gli domandò con una voce piena di affetto e di slancio,—che cosa vuoi?—Allora egli alzò le braccia e giunse le mani come per far l'atto di abbracciare. Il luogotenente ebbe una buona idea, battè la mano sulla bocca del cannone e poi gli domandò: Questo?—Sì! sì! sì! parve ch'egli volesse dire scotendo la testa e dando segno d'una vivissima gioia. I due soldati lo alzarono fino al cannone, egli lo ricinse colle braccia, vi si serrò sopra col petto, mandò un grido e.... morì.

Il padre che fino allora era stato a sentirlo con una commozione sempre crescente, stringendogli convulsamente ora la mano, ora la sciabola, ora le falde della tunica, e palpandogli le spalle e le braccia come avrebbe fatto un cieco per riconoscerlo, a quell'ultime parole ruppe in un singhiozzo violento che avea insieme del riso e del pianto; i suoi occhi s'infiammarono e tutto il suo volto s'illuminò d'una gioia superba.

—....La vista di quella morte da eroe—proseguì con accento appassionato il capitano—ci rapì d'entusiasmo. Il luogotenente afferrò con tutt'e due le mani la testa di vostro figlio, e fissandogli gli occhi negli occhi come s'egli fosse ancora vivo, gridò due volte quasi fuor di sè stesso: Caro! Caro!—Viva! proruppero ad una voce tutti i soldati, ed io gridai:—Salutatelo,—e tutti levarono la mano al berretto e lo salutarono, e ripeterono tutti insieme: Viva!

Il vecchio diede in uno scoppio di pianto.

—Sì, sì,—continuò il capitano sempre più concitato; versatele pure queste dolci lacrime; queste vi fanno bene; versatele; egli è l'orgoglio della nostra batteria; non sarà dimenticato mai più; fra vent'anni, i nostri soldati, pronunziando il suo nome, si sentiranno battere [Pg 436] il cuore come noi adesso, pochi giorni dopo ch'egli è morto, e diranno tutti ch'egli è stato un valoroso, e lo ameranno e lo benediranno come un fratello lontano.... Sì, sì, piangete pure adesso; adesso potete piangere; anzi, piangete qui, voglio che me la bagniate del vostro pianto questa divisa; qui, qui....

E ciò dicendo, ricinse colle braccia e si serrò sul petto la bianca testa del vecchio, e se la tenne un pezzo così. I figliuoli piangevano.

L'infermo spossato dalla lunga e profonda commozione, appena sciolto dall'abbraccio, abbandonò la testa sul guanciale, e disse con voce fievole e interrotta:

—Grazie, capitano; grazie dal più vivo del cuore. Le vostre parole m'hanno fatto un gran bene. Mi pare che il mio cuore si sia sollevato d'un gran peso. Mi par quasi di non soffrir più. Mi avete dato un gran conforto, mio buon capitano.... vi ringrazio.—

E socchiuse gli occhi e riposò così qualche tempo che parea che dormisse. In questo mentre, tutti e tre i fratelli erano andati l'uno dopo l'altro nella stanza vicina ed eran successivamente tornati tenendo ciascuno un braccio dietro la schiena. Da ultimo, anche il capitano avea preso quell'atteggiamento. L'infermo non s'era accorto di nulla.

—Capitano!—disse finalmente, riscotendosi.

—Signore?

—Egli era vostro sergente.

—Sì.

—Allora.... forse.... voi avrete qualche suo scritto, qualche lettera.... o qualche....—e non trovava la parola.

—Rapporto, volete dire?

—Appunto; l'avete, capitano?

—Ne ho; ne ho molti; appena arriverò a Torino [Pg 437] ve li manderò subito subito. Oh io ci avea pensato a questo! Se voi ora non me ne aveste parlato, ve ne avrei parlato io.

—Oh capitano!—esclamò il vecchio;—quanto siete buono! Quanto vi debbo!... Io lo conserverò religiosamente tutto quello che ha scritto il mio povero figliuolo, lo leggerò dieci volte al giorno, lo terrò sempre sott'occhio.... Oh voi mi manderete un gran conforto, capitano, mandandomi quelle carte.

—Ma non sarà il solo conforto ch'io vi voglio dare.

—E qual altro?—interrogò vivamente il buon padre, e si levò di nuovo a sedere.

—Questo, per esempio,—rispose il capitano, e gli porse un berretto da sergente d'artiglieria che teneva nascosto dietro la schiena.

Il vecchio mandò un lieve grido, afferrò con tutt'e due le mani il berretto e lo baciò tre o quattro volte ardentissimamente.

—Babbo—disse allora il figliuolo maggiore—ho anch'io un conforto da darti.... eccolo qui—e gli porse un paio di spalline da sergente.

E il padre afferrò e baciò anche le spalline.

—Ne ho uno anch'io—disse subito dopo il secondo fratello, e porse al padre i cordoni gialli da parata.

Egli li prese e li baciò collo stesso slancio di prima.

—Ed io....—disse finalmente il ragazzo.

—Oh bambino!—esclamò affettuosamente il padre giungendo le mani.

—Ho anch'io da darti una cosa in.... (e pensò un istante) in anticipazione, come mi ha detto che dicessi il signor capitano; eccola.

E porse al padre una medaglia al valor militare col nastro.

Il padre aveva appena intraveduta che già la teneva [Pg 438] fra le mani e si stringeva sul petto in un solo amplesso la testa del bambino, i cordoni, le spalline, il berretto, dicendo:—Oh qui c'è mio figlio! c'è mio figlio! io lo sento!

Lasciò finalmente libero il ragazzo e ricadde spossato sul guanciale, sempre tenendo stretti sul seno colle braccia incrociate que' suoi oggetti preziosi. E di tratto in tratto, cogli occhi socchiusi, ripeteva a fior di labbro:—Oh qui c'è mio figlio.... lo sento.... lo sento.—E stringeva le braccia più forte.

Tacquero tutti per un po' di tempo, finchè il capitano disse sottovoce ai figliuoli ch'era ora ch'ei partisse. Eran le otto: non si poteva pregarlo di indugiare.

—Babbo!—disse forte uno dei giovani. Il vecchio aprì gli occhi.

—Il capitano deve partire.

—Partire?... Di già partire? Oh Dio buono, e perchè? Non potete restare ancora qualche ora con noi, signor capitano?

—Non posso, caro signore, e me ne rincresce; bisogna proprio ch'io parta subito....

—Capitano!

—Caro signore!... Stringetemi la mano. (Il padre glie la strinse vigorosamente.) Tornerò; verrò qualche volta a trovarvi; vi scriverò, non dubitate.—È impossibile che io mi scordi mai più di voi, nè di questo bel giorno. Io vi voleva bene prima di conoscervi, perchè il padre di un bravo soldato non si può non amarlo, anche senza averlo mai visto; ma adesso! Adesso che ho conosciuto da vicino il vostro cuore generoso e il vostro animo nobile, adesso vi ammiro, v'amo mille volte più di prima. Vi saluto, dunque; fatevi animo; ricordatevi qualche volta di me, e pensate che come ho sofferto del vostro dolore, così sarò sempre orgoglioso del vostro [Pg 439] orgoglio, e che colla stessa intima gioia con cui voi potete dire: Quell'eroe era un mio figlio, io dirò sempre: Quell'eroe era un mio soldato. Addio, caro signore.

—Addio.... Oh io non posso ancora dirvi addio, caro capitano. No.... è troppo presto.... non posso....

Il capitano aprì la bocca per parlare; ma il vecchio gli fece un cenno risoluto colla mano come per imporgli silenzio, abbassò la testa e stette immobile nell'atto di chi tende l'orecchio a un rumore lontano.

—Che c'è?—domandò uno dei fratelli.

—Silenzio!—ripetè il padre.—Tutti ammutolirono. Il capitano tese anch'egli l'orecchio, fece un atto di sorpresa e di rincrescimento, e disse tra sè:—Che se ne sia scordato? Che non m'abbia capito?—Si sentiva infatti un rumore lontano, sordo, indistinto, che cresceva a mano a mano.

—Babbo, che cosa senti?—domandò un'altra volta il figliuolo.

Il padre senza muovere il capo nè gli occhi, stese la mano verso il capitano, lo afferrò pel braccio, lo trasse a sè e gli domandò sottovoce:—Capitano, sentite?

—Io?... nulla.

In quel punto si sentì una voce lontana che parve un comando militare; il rumore si era fatto più distinto.

—Capitano!—gridò impetuosamente il vecchio balzando a sedere;—questi sono cannoni!

Il capitano tremò.

—Questa è la vostra batteria!

—Chè! Non può essere, v'ingannate, ve l'assicuro...

—È la vostra batteria, vi ripeto! Io la sento! Io la veggo! Ditemi la verità, signor capitano!—La sua voce e il suo volto avevano qualcosa di terribile.

—Ma no!—ripetè il capitano alzando la voce per [Pg 440] coprire il rumore, e tutti gli altri fecero lo stesso;—non è possibile, vi ripeto; io son venuto qui solo; la mia batteria è a Torino già da più giorni; questo che sentite è un convoglio di carri delle sussistenze militari; credetelo, ve l'assicuro; che ragione avrei d'ingannarvi? Io non....

—Oh tacete tutti!—gridò imperiosamente il vecchio svincolandosi dai figliuoli che lo tenevano abbracciato; —voglio che taciate tutti!—

Era impossibile disobbedire; tutti tacquero, e si sentì distintamente il rumore dei carri, lo scalpitìo dei cavalli e le varie voci dei comandanti.

—Ah, ve lo diceva io! gridò con un accento di trionfo il povero vecchio quasi fuor di sè dalla gioia; ve lo diceva io! Ma se lo sentiva il mio cuore che erano cannoni! Ma se li vedevo io!... Qua, presto, subito, i miei vestiti, voglio alzarmi, voglio scendere....

—Ma no, babbo, no! no! proruppero tutti assieme i figliuoli; tu non puoi scendere, tu sei malato, tu potresti farti del male;...—e tentavano di tenerlo fermo sul letto. Ma egli, aprendo vigorosamente le braccia e respingendoli tutti da sè:—Lasciatemi, gridò, in nome del cielo! Voi volete farmi morire! Qua i miei vestiti, subito, li voglio!—E fece l'atto di gettarsi giù dal letto. Glielo impedirono; ma non era più possibile frenarlo; dovettero obbedire; gli porsero i panni e l'aiutarono in fretta a vestirsi, pur non restando dal supplicarlo a desistere.—No.... no.... no.... egli andava ripetendo con voce soffocata e affannosa, voglio scendere.... voglio vedere....

Vestito alla meglio, sorretto dai figliuoli, si diresse a passi ineguali fuori della camera. Ma in quel frattempo il capitano s'era affacciato alla finestra e, chiamato il luogotenente che passava proprio in quel punto, gli avea [Pg 441] ordinato che mettesse la batteria al trotto. L'ordine fu eseguito. Il vecchio giunse nella strada, vide che la batteria s'allontanava di corsa, mandò un grido disperato e tentò di gettarsi ai piedi del capitano supplicandolo a mani giunte:—Oh per pietà, capitano, per pietà!...

Il capitano non potè resistere—Caporale!—gridò al primo caporale che gli passò dinanzi;—andate a dire al luogotenente che fermi subito la colonna!—

La colonna si fermò. Il vecchio, sempre sorretto dai figliuoli, preceduto dal capitano, s'avviò barcollando verso la batteria che lo aveva oltrepassato di un buon tratto.

Giunsero all'ultimo cannone; il vecchio si voltò verso il capitano e, non potendo articolar parola, gli fece un cenno.

—No, non è questo,—il capitano rispose;—avanti.

In quella capitò il luogotenente. Giunsero al secondo cannone.

—Nemmen questo; avanti ancora.—

Giunsero al terzo. Il capitano non ebbe mestieri di parlare. Il vecchio si slanciò con un trasporto inesprimibile di tenerezza sopra il cannone e lo ricinse colle braccia verso il mezzo: il figlio morente lo avea abbracciato alla bocca.—Qui! qui!—gridò il capitano battendo la mano sulla bocca. Il padre spinse le braccia verso la bocca, vi si serrò contro col petto e vi lasciò cader sopra con affettuosissimo abbandono il viso, singhiozzando:—Oh figliuolo!.... figliuolo mio!...

In quel mentre, a un cenno del capitano, il luogotenente era sceso da cavallo, erano scesi di sul cassone i due cannonieri che avean sorretto il sergente moribondo, e si eran messi tutti e tre dietro al vecchio, l'uffiziale in mezzo, i due soldati ai fianchi.

[Pg 442]

—Signore!—esclamò il luogotenente.—Il padre, senza staccar le braccia dal cannone, voltò la faccia, intravide quei tre, gli balenò alla mente la scena narratagli dal capitano, balzò in piede, gettò un braccio a destra e uno a sinistra intorno al collo dei due cannonieri e chinò la fronte sul petto del luogotenente. Questi, commosso, rapito, strinse fra le mani la testa del vecchio e gli rese sulla fronte il bacio che avea dato al figlio sul campo di battaglia.

—Tutti i miei figli!—gridò il povero padre.

Il capitano fece un cenno; tutti i soldati si levarono in piedi e lo salutarono militarmente.

Il buon vecchio si sentì mancar sotto le ginocchia e cadde fra le braccia dei figliuoli.

Qualche minuto dopo, l'ultimo cannone della batteria stava per isparire in fondo alla strada, e il padre appoggiato al braccio dei figli dinanzi alla porta di casa, lo salutava colla mano come se veramente partisse con esso il suo morto figliuolo.

—Oh babbo—gli disse uno dei giovani—nostro fratello non è morto!

Egli, levando alteramente la testa, rispose:

—E non morirà più.


[Pg 443]

IL PIÙ BEL GIORNO DELLA VITA.


Chi non ha provato quel senso di tedio stanco e quasi melanconico, che ispira una città grande, a guardarla dall'alto d'una collina, dopo il tramonto del sole, quando la si vede come a traverso un velo di nebbia, e ci presenta l'immagine d'un'ampia macchia biancastra che svanisce a poco a poco sul fondo bruno della valle? Quella moltitudine di case d'ogni forma e d'ogni grandezza, agglomerate, strette, che par che si pigino e si opprimano, e le une escan fuori dalle altre, e le ultime s'innalzino sui tetti delle prime, e facciano a sovercharsi a vicenda e a rubarsi l'aria e la luce; e tutte quelle finestre che viste così di lontano paion buche; e i terrazzini, stie; e le piazze, cortili; e le strade, chiassuoli; e la gente, formiche; oh che spettacolo uggioso e meschino in confronto di quello che ci si offre allo sguardo volgendo intorno la testa: questi bei colli, questa bella verzura, quest'aria pura ed aperta. Oh qui si vive, qui ci si sente dilatare le vene, e le arterie battere in armonia, e tutte le potenze vitali esercitarsi con un attrito tanto soave! Ma laggiù, Dio mio, là dentro, in quel formicolaio, in quell'aere corrotto, in mezzo a quello strepito, come si fa a vivere! come si fa a respirare! come resiste a starci tutta quella gente! E io dovrò ritornar là? Oh se avessi una villa anch'io! [Pg 444] Se avessi quella lassù, in cima a quel monte, o quest'altra ai piedi del colle, od anche quella là più piccina, su quel poggio, con quella corona di cipressi; io me ne contenterei, e vivrei là solo, tranquillo, leggendo, studiando, ricordandomi appena della città come d'un paese lontano e sconosciuto.... Che dolce vita io vivrei, che serenità, che pace! Oh se avessi una villa anch'io!—Così si sente e si pensa qualche volta, e si finisce coll'esclamare sospirando:—Ah che mondo!

Era così amena e romita, come noi ce la fingeremmo col desiderio, una villa, ch'io vidi qualche anno fa, vicino a Valdieri, in cima a un bellissimo colle, sul confine delle terre riserbate alle caccio del re. Quel colle è l'ultima altura d'una catena, da cui son divise le valli anguste di due torrentelli che gli si vengono a congiungere ai piedi. Qui v'è un ponte; al di là delle acque poche casuccie e una chiesuola; alcune capanne sparse lungo la riva; tutt'intorno montagne altissime popolate di abeti, di noci e di castagni enormi; verdi in basso, d'un verde vivo e scuro; azzurre lassù, dove appena arriva lo sguardo. Il colle, la valle, il paesello, tutto deserto e queto; la presenza dell'alpi gigantesche par che imponga alla circostante natura una specie di raccoglimento pauroso e solenne.

La strada del ponte ascende la collina, passa dinanzi alla villa, e va oltre. La villa è una casina a due piani, di color rosso e di forma graziosa. Da un lato ha la casa dei contadini; dall'altro un gran pergolato di forma quadrata, chiuso verso la strada da un ampio frascato; sul davanti, fra la strada e la casa, un tratto di terreno erboso, largo quanto un piccolo cortile, circondato da un'alta siepe, e tutto ombrato da quattro grandi castagni che intrecciano i rami. Finestre e porte sempre chiuse. A passar per di là, si sente qualche volta dalle [Pg 445] finestre a terreno una voce d'uomo che legge forte; ma per lo più v'è un silenzio profondo. Quella casina solitaria, mezzo nascosta dagli alberi, chiusa, queta, par che dica a chi le passa davanti:—Zitto!

Ma fu un giorno, dieci anni fa, in cui si vide quella villa stranamente mutata. Fin dalla mattina per tempo tutte le finestre erano spalancate; spenzolavano dai davanzali ghirlande di fiori campestri; dalla finestra di mezzo sporgeva una bandiera tricolore; quattro bandierine sventolavano ai quattro angoli del pergolato; molti palloncini di carta colorita, di quei che s'usano per le luminarie, pendevano dai rami dei quattro castagni; nel piccolo prato, lungo la siepe, panche, seggiole e tavolini; sulla strada, davanti al cancello, una schiera di ragazzi accorsi dalla campagna, che stavano guardando colla bocca aperta.

Perchè tutto questo?

Un momento; bisogna prima conoscere il padrone di casa; egli è là, sotto il pergolato, seduto dinanzi a un tavolino, e scrive. Si è levato per tempo, come vedete; non sono ancora le sei della mattina. Egli non ha perduto le abitudini della vita di soldato. Era colonnello; ora è in ritiro, e passa qui nella quiete della sua villa que' pochi anni di vita che gli rimangono; perchè è vecchio, quasi ottuagenario, e ha molto faticato e patito; da soldato a colonnello, figuratevi! Ma badate; non è mica uno di quei soliti colonnelli in ritiro che si veggono nelle commedie e nei drammi, tutti fatti sul medesimo stampo, con quei baffi irsuti, con quel cipiglio, con quel vocione. No, egli è mansueto, egli è sereno, e di quella serenità aperta ed uguale, che si dà in pochi vecchi; in quei soli ne' quali alla letizia naturale dello spirito s'unisce quella più profonda che sorge dalla coscienza d'una gioventù ordinata e d'una virilità operosa ed onesta; serenità [Pg 446] che cresce, si può dire, cogli anni, sino a diventare in alcuni un'allegrezza quasi infantile; e il colonnello è un di questi. Ha modi e gesti subiti e franchi, come di giovane; e una parlantina viva e piena d'affabilità ingenua. I bimbi gli voglion bene subito, e dopo poche parole allungano la manina per afferrargli un baffo; e le ragazze che vengono la sera a far crocchio sulla via, si divertono tanto a starlo a sentire, quand'egli appuntando il dito ora verso l'una ora verso l'altra, con quell'aria malignuzza, dice che sa di gran misteri, e che parlerà. Ed è un vecchio vegeto, e quei capelli lunghi e bianchissimi fanno un grato vedere intorno alla sua fronte abbronzata, e ha l'occhio grande e soave, e quando ride mostra due file di denti bianchi che certo una volta non devono aver penato di molto a lacerare la cartuccia.

Ha finito di scrivere, guarda intorno e chiama:—Cesare!

—Eccomi!—risponde una voce fuori del pergolato.

Un giovinetto sui ventisei anni, vestito in gala, con un bel panciotto a fiori e una gran cravatta a colori che gli si annoda sul petto, pettinato, liscio, lindo, si viene a piantar davanti al colonnello. È un contadino; ma non n'ha l'aspetto, e sembra serio e fiero; ma quando sorride, il suo viso si trasforma, s'illumina e non par più quel di prima; è un bel giovane.

—Buon giorno, signor colonnello.—

Il colonnello lo guarda e lo riguarda da capo a piedi, e poi gli rende il saluto.

E dopo un'altra guardata, sorridendo:—Come hai dormito questa notte?

—....Male!

—Ma per l'ultima volta.

[Pg 447]

—Oh sì!—risponde il giovane con un sorriso e un sospiro.

—Dunque.... trovàti i compagni?

—Trovàti; ma ho fatto un gran girare, sa! Ne ho radunati una quindicina. Non li ho potuti veder tutti, qualcuno era fuor di casa; ma l'ho lasciato detto ai parenti, e verranno lo stesso. E ne trovai quattro o cinque che non volean credere.—Ma se noi non lo conosciamo il signor colonnello! Ma come mai gli è venuta quest'idea? domandavano.—Che v'ho da dire? io rispondevo; gli è venuta perchè è un signore di cuore, ecco. E non se ne capacitavano ancora e dicevano:—Scusateci, ma l'è una cosa che non s'è mai veduta!—Lo so anch'io che non s'è mai veduta, ma la vedrete adesso. E lì a spiegare che lei era colonnello, che voleva un po' di bene a me, per bontà sua, e che io ho fatto il soldato, e che oggi debbo sposare, e che il signor padrone ha voluto farmi quest'onore di invitare alle nozze tutti i giovani dei dintorni che sono stati al servizio, perchè egli vuol bene ai soldati, e di tanto in tanto gli piace di vedersene qualcuno intorno, che gli pare di ritornare in mezzo al suo reggimento, e via discorrendo. Una volta persuasi, saltavano dalla contentezza, e non rifinivano di ringraziarmi.—Ce ne fosse uno al giorno di questi colonnelli!—dicevano. Li ho invitati per le quattro di questa sera.

—Bene;.... e ti ricordasti di dire che venissero vestiti da soldati?

—L'ho detto.

—Cosa risposero?

—Risero; ma dissero che sarebbero venuti come lei voleva. Qualcuno non aveva più tutta la roba. Mettetevi quel che avete, gli ho detto.

—Naturale. Dunque.... sentimi adesso; siedi.

[Pg 448]

Il giovane sedette.

—In questi tre giorni dacchè sei venuto, io non t'ho ancora potuto tenere fermo un'ora, qui, a quattr'occhi, per farmi raccontare per filo e per segno come sia andata tutta questa faccenda.... che s'ha da concludere quest'oggi. Dalle lettere ho capito qualcosa, ma poco e male; vorrei sapere le cose chiare e netto. Vedi di stare fermo e quieto un momento, e di' su tutto per bene; tanto prima dell'otto non l'hai da vedere; adesso dorme, m'immagino, che sarà stanca di ieri, e poi ci vorrà un po' di tempo prima che sia vestita per andare.... Sentiamo dunque, e mettiti il cuore in pace un momento; già essa non ti scappa, lo sai.—

Il giovine rise, si fece scorrer due o tre volte le mani sulle ginocchia, si fece serio, poi di nuovo rise, e finalmente cominciò a parlare. Il colonnello appoggiò un gomito sul tavolino e il mento sulla mano.—Sentiamo queste grandi avventure.

—Ecco come l'è andata, signor colonnello; le dirò tutto, e lei abbia la bontà di compatirmi se parlo male. Eravamo di guarnigione a Savigliano, due battaglioni di bersaglieri, sul finire del cinquant'otto, come lei già sa. La città non è brutta, la gente ha buon garbo coi soldati, e c'era poco da fare; io ci stavo volentieri e il tempo passava presto. Quattrini da casa non me ne lasciavano mancare, e io, i giorni che non ero di servizio, appena mangiato il rancio, me ne andavo ad aggiungervi un'insalatina di lattuga dal vivandiere, e uscivo di caserma contento come una pasqua. I superiori chiudevano gli occhi, io portavo un pennacchio lungo così, e tutta la roba accomodata per bene al mio dosso, e faceva anch'io la mia figura. In quelle ore d'uscita, passeggiavo la città in lungo e in largo con quattro o cinque camerata, quasi sempre li stessi, o s'andava a fare un giro [Pg 449] in campagna o a bere un bicchiere in compagnia. Uscendo di quartiere, portavo ogni giorno, per abitudine, una grossa fetta di pane in tasca, e la davo a uno dei poveri che stavano davanti alla porta del quartiere, il più delle volte a un ragazzino che poi le dirò chi fosse. Me la passavo bene, via, e non avevo da lamentarmi di niente e di nessuno. Oh.... senta adesso, signor colonnello. Una bella sera.... veda come tante volte dalle piccole cose.... a pensarci mi pare ancora impossibile.... basta; una sera esco solo di caserma, e mi avvio per la solita passeggiata. Potevano essere le cinque. Dovevo passare per una strada tutta disselciata e ingombra di mucchi di terra, di ciottoli, e di operai che lavoravano. Arrivato al punto dove incominciavano gl'ingombri, vedo un povero tutto lacero, vecchio, cieco, che stentava a reggersi in piedi e voleva andar oltre e si peritava e tastava qua e là col bastone senza saper da che parte voltarsi. La gente guardava e non si moveva.—Accompagnalo tu—disse una donna da una finestra, rivolgendosi a un ragazzo; il ragazzo fece una spallata.—Ma che non ci sia proprio nessuno che abbia un po' di carità per quel povero disgraziato? la donna domandò.—Ci son io,—risposi; e senza dir altro presi il vecchio a braccetto, e adagio adagio, facendogli scansare i sassi, insegnandogli dove doveva mettere i piedi, un passo dopo l'altro, con santa pazienza, lo condussi fuor di pericolo, dove ricominciava la strada piana. Allora il vecchio mi ringraziò, mi toccò per sapere chi fossi, e sentito il pennacchio e la daga, disse tutto contento:—Ah! è un bersagliere.... Bravo bersagliere!—E andò via. In quel punto alzo gli occhi e vedo a una finestra una ragazza che mi guarda. Appena mi vide, scomparve; ma l'avevo sorpresa che mi guardava con un'aria tanto buona, così colla testa un po' chinata da una parte, come se dicesse:—Oh! [Pg 450] che buon giovane!—Oh! che buona ragazza! pensai subito tra me, al primo vederla. Sa, signor colonnello, ve n'è di quei visi che fanno dire così; appena veduti si fanno voler bene; che so io? paion persone di casa; si direbbe d'averle conosciute qualche altra volta. Basta, non ne feci caso e tirai avanti per la mia strada. Ma ricordo che era una bella giornata, e faceva un fresco ch'era un piacere, e tutta la gente pareva allegra, e non so come, ma tutto in un momento mi parve d'esser contento anch'io. Ora senta che cosa m'è seguito una settimana di poi. Si faceva una festa a un santuario poco lontano dalla città. Io e due miei compagni ci andammo. C'era moltissima gente. Sul tardi, mentre tutti tornavano, in un punto dove la strada faceva un gran giro, uno dei miei camerata domandò: Prendiamo una scorciatoia? Prendiamola, si rispose. Bisognava saltare un fosso largo un quattro metri per lo meno. La gente fa un po' di posto, il primo prende la rincorsa, spicca il salto, e va a cascare proprio sull'orlo della sponda, che un palmo più indietro gli era dentro. Il secondo salta anche lui, ma batte in terra colle ginocchia. Salto io, e piombo di là un buon passo d'avanzo, dritto come un fuso.—Bene! Bravo! Svelto quel giovane!—dicono dall'altra parte. Io mi volto, e in mezzo a tutti quei visi che mi guardavano, rivedo quel tale, quel della ragazza, un po' chinato da una parte e che sorrideva, proprio come la prima volta. Allora mi sono sentito un po'.... Da quel tanto che ho potuto travedere, perchè era mezzo nascosta dalla gente, e poi non mi venne più fatto di ritrovarla, mi è parso che fusse una povera ragazza. Tutta la sera, tutta la mattina del giorno appresso non me l'ho potuta levar dalla testa.—Dove l'ha la testa il numero sette? mi gridava il sergente in piazza d'armi.—A momenti lo consegno.—Quella parola «lo consegno» [Pg 451] m'ha fatto venir freddo; non avevo avuto mai tanta paura di restar segregato in quartiere, e per tutto quel giorno rigai diritto che parevo il primo soldato del battaglione. All'ora solita esco, e quasi senza accorgermene, di passo in passo, mi ritrovo in quella strada. Avevo quasi paura a andare avanti, veda un po'! Camminava impacciato come se avessi avuto le gonnelle. A una certa distanza, vedo uscire molte ragazze da quella casa, mi fermo, osservo, e capii che ci doveva essere una sarta. Tre o quattro si fermano in mezzo alla strada e guardano ridendo dentro la porta, come se aspettassero qualcuno che non vuole uscire. Finalmente esce un'altra ragazza, era lei; esce in fretta e infila la strada dalla mia parte, rasento il muro, colla testa bassa, come se avesse vergogna. Le altre ragazze la guardavano e ridevano. Mi accorsi che ridevano del modo con cui era vestita; essa pareva quasi una povera, e le altre, signorine; camminava a passi corti corti, forse per non far vedere gli stivaletti, e io m'accorsi ch'eran sdruciti sulla punta; e avea il viso quasi coperto dal fazzoletto che teneva fermo sotto il mento con una manina magra e pallida. Venne innanzi sempre più in fretta, e appena mi vide diventò rossa come il fuoco. Mi si strinse il cuore, e sentii una compassione tanto forte di quella povera giovane che, non so come, mi venne un'idea.... Doveva passare fra me e il muro; c'era una grossa pietra, mi chinai, la presi, la buttai in disparte, feci un passo indietro, ed essa passandomi davanti come una freccia, mi guardò e disse:—grazie.—Ed io restai là sbalordito a guardarla mentre s'allontanava. Ad un tratto sento ridere qualcuno dietro di me, mi volto e vedo un giovane, un signore, che andava in fretta dietro la ragazza, guardando per terra. Non c'era altri nella strada: aveva riso di me. Gli tenni dietro coll'occhio, [Pg 452] non si voltò, non mi guardò, tirò innanzi. Ma io rimasi come se m'avessero data una mazzata sul capo. Aveva una fisonomia cattiva quel signore; gli luccicavano gli occhi in un certo modo che faceva quasi paura. Passai una gran brutta nottata quel giorno, signor colonnello! Che cosa vuole? Io non avevo mai provato un'affetto così.... Non sapevo nemmeno io quel che mi volessi; avrei voluto che ci fosse una guerra, che so io? un incendio, o qualche altro gran diavolìo, da potermici gettare in mezzo come un disperato. Il giorno dopo ripassai per di là e incontrai di nuovo quel signore. Appena mi vide, si andò a piantare proprio dinanzi alla porta della sarta. Io stetti a osservarlo da lontano. Le ragazze uscirono, e si fermarono nella strada; usci lei per l'ultima, le altre risero, il signore le si avvicinò per parlarle, essa gli voltò le spalle e tirò via; quando mi fu vicina mi accorsi che piangeva. Mi guardò come il giorno prima, passando in fretta, e scantonò alla prima strada, e il signore dietro.—Questa volta voglio vedere anch'io,—dissi tra me, e li seguitai da lontano. Gira e rigira, per quei vicoli torti e oscuri, la ragazza arrivò finalmente nella via dietro l'ospedale militare, dove stava di casa. Infilò una porta e lasciò il suo cacciatore grullo e confuso con un piede sulla strada, e un altro sul primo scalino della scala e la faccia rivolta in su. Dopo un minuto, essa fece capolino a una finestrella del quarto piano, guardò giù, e riscomparve. Questa stessa stessissima scena si è ripetuta per altri sette o otto giorni. Lui mi guardava sempre col cipiglio e lei con quell'aria dolce e buona; lui continuava ad andarle dietro come l'ombra del suo corpo, e lei continuava a scappare, e io teneva d'occhio tutti e due. Intanto, nella strada della sarta, la gente se n'era accorta, e ogni giorno ch'io ci andavo mi sentivo bruciare il viso dalla vergogna, perchè lei lo [Pg 453] sa, signor colonnello; quando si vede un soldato che guarda una ragazza, non si crede che ci possa essere altro che il solito perchè, e la ragazza perde la reputazione, e a me piangeva il cuore a pensarlo, e in parola di soldato d'onore, io glielo dico adesso a lei come se parlassi davanti a Dio, se mi è mai venuta solamente l'idea.... Ma come fare a non andarci? A non andarci mi sarei immaginato subito che dovesse accadere chi sa che, sarei stato sempre col batticuore; mi sentivo forzato ad andare. Ora senta che cosa seguì. Io conoscevo di veduta un giovinastro, che poteva avere un ventitrè o ventiquattro anni, ozioso, ubriacone, accattabrighe, tenuto d'occhio dalla questura, uno dei più cattivi soggetti del paese, e lo conoscevo per avere avuto da fare con lui più d'una volta, di notte, girando per la città colla pattuglia. Ebbene, un bel giorno.... non iscorderò mai la sorpresa e la tristezza che n'ho provato.... un bel giorno incontro questo individuo a braccetto della ragazza. Mi son sentito mancar le gambe, e per un momento non vidi e non capii più nulla. Da quel giorno, per più d'una settimana, non vidi più la ragazza sola; questo giovinastro l'andava ad accompagnare la mattina e l'andava a prendere la sera. S'accorse presto di me, e cominciò a guardarmi con due occhi di basilisco; io non gli badava. Ogni giorno, nel punto dove c'incontravamo, o ci fosse o non ci fosse quel tal signore, e se n'accorgesse o no il giovane che le era assieme, essa mi dava sempre un'occhiata, una sola, sempre uguale, sempre come me l'aveva data il primo giorno, e questo mi metteva nel cuore una gran forza e un gran coraggio. Ma chi sarà costui? io mi domandava ogni momento. E veda un po' per che curioso accidente sono riuscito a sapere chi era. Un giorno, insieme alla solita fetta di pane, mi penso di [Pg 454] regalare al ragazzo una cravatta vecchia da bersagliere, di quelle azzurre, che io non so perchè avevo rotondata colle forbici ai due capi. Due giorni dopo ti vedo l'amico della ragazza con quella cravatta al collo. Lo guardo ben bene nel viso, confronto le due fisonomie, e mi pare che lui e il ragazzino si somiglino, e mi viene il sospetto che siano fratelli. L'indomani tiro in disparte il ragazzo, e gli domando:—Di' un po', lo mangi tutto tu codesto pane, o ne dai anche a tuo fratello?—Ne do a mia sorella, mi rispose.—Hai anche una sorella?—Una sorella e un fratello.—E che cosa fa tua sorella?—La sarta.—E tuo fratello?—Pensò un momento e poi rispose:—Niente.—È lui, pensai. E infatti, continuando a interrogarlo, mi accertai di tutto. Seppi che la ragazza si chiamava Luisa, ed era sui diciassett'anni; che non aveano più padre nè madre nè altri parenti da quasi due anni; che lei, povera giovane, lavorava dì e notte per vivere e per dare qualche soldo a suo fratello, il quale andava poi a spenderli all'osteria, e tornava a casa ubriaco, e la maltrattava, e la faceva piangere.—Tante volte, mi disse fra le altre cose il ragazzo, egli torna a casa alle due o alle tre dopo mezzanotte, e mia sorella lavora ancora; e poi conduce con sè i suoi compagni, e tutti insieme si mettono a cantare e a ballare, e allora essa esce di casa e resta addormentata sugli scalini col suo lavoro in mano.—Se non mi venne da piangere lì in presenza sua fu perchè feci un gran sforzo; ma non ho potuto tenermi quando fui solo. Da quel giorno diedi al ragazzo tutto il mio pane, risparmiai tutti que' pochi soldi che ho potuto e gli diedi anche quelli; mi parve quasi che fosse un mio dovere; non mettevo più soltanto il cuore in codesti sacrifizi, ma anche la coscienza, e mi sentivo il coraggio di tirare avanti così eternamente, tanta era la tenerezza e la compassione che mi faceva [Pg 455] quella povera disgraziata, sola, senza difesa, ridotta a campar di pane e a logorarsi la salute col lavoro. Oh! signor colonnello, se lei sapesse quel che provavo io, di notte, alle due, alle tre della mattina, quando passavo dietro l'ospedale colla pattuglia, e vedevo lassù al quarto piano quella finestrina illuminata, e pensavo che in quel momento lei era là che cuciva, al freddo, stanca Dio sa come, forse senz'aver mangiato!... Senta ora come mi sono fatto conoscere; è stato un caso. Una mattina il ragazzo mi viene a dire che sua sorella gli aveva chiesto chi era il soldato che gli dava il pane e i soldi. Guardi che combinazione! Io ero stato promosso caporale il giorno prima, e m'ero messo i galloni quel giorno stesso; mi è venuta quest'idea.—Va a dire a tua sorella, gli dissi, che il soldato che ti dà il pane è uno che si è messo i galloni oggi per la prima volta.—La sera esco, col cuore in trepidazione, la incontro, mi guarda, diventa rossa, poi ride, e si copre il viso col fazzoletto. Ah! lo creda, signor colonnello, io non ho provato una contentezza come quella; io ebbi quasi paura di perdere la testa.

Qui Cesare tirò un gran respiro.—Avanti,—gli disse subito il colonnello. Egli continuò:

—Ma era destinato che le mie contentezze durassero poco. Una mattina, andando in piazza d'armi col battaglione, vedo da lontano, in fondo a un vicolo, due persone.... due persone che non avrei mai voluto vedere insieme, quel tal signore e il fratello di Luisa che discorrevano. Se non mi cascò il fucile di mano fu un caso. Già lei si può immaginare quello che sospettai. E non mi potevo mica ingannare, perchè a giudicar dalla maniera con cui quel signore andava dietro alla ragazza, che aveva l'aria di dire:—Son sicuro del fatto mio!—e rideva e faceva lo sfrontato, ce n'era [Pg 456] d'avanzo per capire a cosa mirava. E poi il fratello era un pessimo soggetto, capace di tutte le cattive azioni. Si figuri dunque che cuore fu il mio, quando, pochi giorni dopo, il ragazzo mi venne a dire che la sera prima sua sorella e suo fratello s'erano litigati, che lo avevano mandato fuori di casa per poter discorrere tra loro, e che lui, dalla scala, avea sentito il fratello parlar forte e con rabbia, e la sorella piangere e rispondere:—mai! mai;—e che poi era seguito qualche minuto di silenzio in cui non avea potuto capire che cosa facessero, e infine s'era aperta la porta, e n'era uscita Luisa bianca in viso che pareva una morta, scarmigliata, e con una guancia livida. Il fratello l'aveva picchiata, e lei non avea gridato per non farsi sentir dai vicini. Mi si oscurò la vista, mi prese un tremito così forte che mi pareva d'aver la febbre, mi sentii diventar cattivo; se lì per lì avessi incontrato il fratello, lo stritolavo senza dargli tempo di fiatare. Decisi di andarlo a cercare, lui e il signore, e chiunque avesse mano in quell'intrigo infame; ma poi mi frenai, e pensai meglio d'aspettare anche un po'.—Va a dire a tua sorella che si faccia coraggio, dissi al ragazzo, e che c'è qualcuno che le vuol bene davvero, e che pensa per lei.—L'indomani era giorno di festa, e avevamo tre ore di libertà più del solito. Uscii solo e me n'andai a passeggiare per la città. Camminavo circa da un'ora, quando mi accorsi d'esser seguitato alla lontana da due individui, due monellacci sullo stampo del fratello, due faccie proibite. Feci le viste di non accorgermene. Dopo un po' di tempo vidi che a quei due se n'erano aggiunti altri due, e che s'avvicinavano.—Ho capito,—dissi tra me;—sono mandati; voglion tenermi a bada; qualcosa questa sera deve seguire.—Stavo per uscir di città, ritornai verso il centro, e affrettai il passo in [Pg 457] modo che mi perdettero di vista per un pezzo. Intanto trovai due miei compagni, li informai della cosa, si combinò il nostro piano, e poi, siccome cominciava a imbrunire, mi diressi verso l'ospedale. Nel punto che attraversavo una piazzetta là vicino, vidi il mio.... quel signore che scantonava in fretta dalla parte opposta. Non s'accorse di me; io affrettai il passo, arrivai nella strada, mi andai a mettere poco lontano dalla casa di Luisa, in un angolo buio, e stetti osservando. Quel giovane arrivò pochi momenti dopo e si mise a passeggiare davanti alla porta, adocchiando di tratto in tratto l'orologio, e voltandosi ad ogni passo a guardare se nessuno veniva. Notai che si voltava sempre dalla stessa parte.—Debbono venir di là,—pensai, e per una via laterale corsi difilato in fondo alla strada, dalla parte che guardava l'amico. Non ebbi da aspettar molto; comparvero quasi subito il fratello e la sorella.—L'ho detto, io ripensai—che qualcosa deve seguire; ma o ci lascio la pelle o non ci riescono per Dio!—M'era salito tutto il sangue alla testa; non sapevo più quel che mi facessi; stringevo i denti e i pugni, e mi sentivo forte per quattro. Girai largo in punta di piedi, e andai a mettermi una quindicina di passi dietro Luisa; non potevo essere veduto, la strada era quasi buia. Parlavano sottovoce fra loro; Luisa piangeva, e si fermava tratto tratto, e il fratello la spingeva innanzi stringendola pel braccio. A un certo punto essa battè forte un piede in terra e disse risolutamente:—No! Ammazzami piuttosto.—Allora il fratello, digrignando i denti come un cane, la interrogò ancora tre volte:—Vieni?—Ed essa tre volte rispose no. Alla terza quel manigoldo alzò una mano,... essa gittò un grido, io mi slanciai fra loro, afferrai quel braccio levato in alto e glie lo ributtai indietro con una scossa da slogargli la spalla, dicendogli:—Cosa [Pg 458] fai, mascalzone!—Non avea finito di profferir queste parole, che mi vidi comparir davanti dieci persone in aria minacciosa; erano i compagni del fratello; in mezzo a loro, il signore; più in là qualche curioso; Luisa s'era appoggiata al muro.—Cos'ha lei? Come c'entra lei? mi domandarono tutti insieme avvicinandosi.—Indietro!—io gridai quasi fuor di me;—c'entro, chè qui si vuol fare un mercato infame!—È matto! gridarono tutti insieme, avvicinandosi ancora.—Indietro!—io ripresi con voce soffocata;—indietro, o spacco il cranio a qualcuno!—e avevo la daga nel pugno.—Eh! via, mi si levi dai piedi, imbecille!—gridò il signore facendo un passo innanzi per sollevare Luisa caduta; io gli diedi uno schiaffo; gli altri mi si slanciarono addosso per finirmi.—Un momento signori!—gridò una voce dal mezzo della strada. Quei manigoldi si voltarono, e videro dieci bersaglieri schierati colle daghe nel pugno. Rimasero tutti là fermi, senza fare un gesto, senza dire una parola. Poi, tutto ad un tratto, se la svignarono chi di qua chi di là, mogi mogi, come cani bastonati. Luisa, più portata che condotta, entrò in casa. Il signore, tutto stravolto, mi si accostò e mi disse:—Il suo nome?—Io gli dissi nome, cognome, compagnia, squadra, numero di matricola, tutto quel ch'egli ha voluto. Egli notò tutto e se n'andò dicendomi:—Ci rivedremo.—Come le pare—risposi.—Ringraziai dopo i miei compagni:—Se tardavate un minuto, ero spacciato; vedevo già luccicar dei coltelli.—Allora si misero tutti insieme a farmi mille domande, a voler sapere i come e i perchè e i quando, e io raccontai addirittura tutta la storia da principio. Noti però, signor colonnello; bisogna esser giusti; tutti quei mascalzoni, era il fratello di Luisa che li aveva radunati, e non l'altro; l'altro non ne sapeva niente; anzi, se avesse preveduto [Pg 459] che razza di gente doveva pigliare le sue difese, io credo che non sarebbe nemmeno venuto. Ma poi che si trovava nell'impiccio, e il dispetto e la rabbia lo rodevano, cercò d'uscirne a tutti i patti; è naturale.

—Ma chi era questo signore?—interruppe il colonnello.

—Chi lo sa?... Quel che è certo è che in città, come mi fu detto in seguito, era pochissimo stimato, e si diceva che fosse solito a tentare di quelle imprese, e che usava sempre con gente di mal affare.... Quella sera tornai in quartiere che proprio, creda, non potevo più reggere; tra per la contentezza d'aver mandato a monte quel tentativo, tra per la commozione d'essere scampato a quel pericolo, ed anche per l'ansietà di quel che poteva accadere dopo, io ero in uno stato che se non mi venne addosso una febbraccia da tenermi a letto sei mesi, posso ringraziarne la mia buona fortuna. Ero però più che mai risoluto a resistere fino alla fine. Ma come, io domandavo discorrendo fra me e me, perchè io sono un povero giovane, perchè sono un soldato, perchè non ho altro che il mio cuore e il mio onore, se si dà il caso che io pigli passione per una ragazza povera come me, che mi piace, e anch'essa mi vuol bene, tutti hanno da perseguitarmi e da darmi addosso come se fossi un galeotto o un bandito, e la mia affezione disonorasse una donna? Chi è che ha il diritto di disprezzare le mie affezioni? Cosa credono costoro, che noi non ci si abbia niente qui, sotto le medaglie, perchè siamo soldati? E perchè non abbiamo la famiglia con noi, perchè siamo lontani da casa, perchè non facciamo un mestiere, perchè mangiamo nel gamellino e ci danno due soldi al giorno, dunque, per tutto questo, noi non abbiamo diritto a nessuna consolazione, e dobbiamo vivere come cani, ed [Pg 460] essere morti al mondo? Un soldato!—dicono,—una ragazza che si perde con un soldato! Un soldato d'onore ne val dieci di voi, ubriaconi, oziosi e viziosi! Anche il soldato ha un nome e una famiglia, e due braccia per lavorare quando tornerà a casa, e un cuore di galantuomo per amare e rispettare una donna! Le pare, signor colonnello? Io non dico mica che tutti i soldati, quando sono al servizio, abbiano da riscaldarsi la testa per una ragazza; si starebbe freschi; Dio ce ne guardi in eterno, se no, addio esercito! Ma chi per combinazione ci casca, si porti da uomo e da galantuomo, e non si lasci far paura da nessuno, e non ceda, dovesse rimetterci le ossa; dico bene?

Il colonnello fece segno di sì.

—E mancò poco che io non ci rimettessi le ossa davvero. La mattina dopo seppi dal ragazzo che Luisa era a letto con un po' di febbre e che il fratello non aveva più fiatato. La sera tardi, appena ritornato in quartiere, mi vengon dinanzi due sergenti, uno della mia compagnia che mi voleva bene, e un altro d'un'altra, e mi tengono questo discorso:—Noi sappiamo tutto quel ch'è accaduto. La stessa persona in questione ce n'ha informati e c'incaricò di parlare con te. Noi ti daremo un consiglio, non da superiori, ma da amici, e tu lo seguirai o non lo seguirai secondo che ti parrà. Tu gli hai dato uno schiaffo in presenza di molta gente, e uno schiaffo è ama delle più grosse offese che si possano fare ad un nomo; per questo egli ha diritto di avere una soddisfazione, ne convieni?—È naturale,—risposi,—Ora senti: se tu fossi uno di quei coscritti minchioni che non sanno niente e non capiscono niente, quella persona si cercherebbe un'altra maniera di soddisfazione; ma con te che sei un soldato fatto, un giovane intelligente, e hai cuore e fegato per quattro, con te gli è un altro par di maniche....—Basta, [Pg 461] ho capito—diss'io;—eccomi qua bell'e pronto.—Bravo; capisci anche tu che l'è una faccenda da terminarsi così, e poi è anche un onore ch'egli ti fa a sfidarti; lasciati guidare da noi.—Se loro abbiano fatto bene, non so; ma io credo d'aver fatto quel che non si poteva a meno di fare. E per tagliar corto, la cosa seguì due giorni dopo, un miglio fuori di città, verso le cinque di sera. Avevano scelto la sciabola; s'immagini cosa potevo saper fare io colla sciabola, che l'avrò presa in mano sei o sette volte; ma ero istruttore di bastone, in guardia ci sapevo stare, e avevo il braccio forte e le gambe pronte. Andammo in un prato. Quando lo vidi, pensai a Luisa, a quel gesto ch'egli aveva fatto per alzarla da terra, a quella volta che mi aveva riso alle spalle, e mi si accese il sangue e mi sentii pieno di coraggio. Quanto a lui, era un po' pallido, ma capii che era deciso di tirare a freddarmi.—Sia pure, dissi fra me; tanto la pelle, se non si taglia, si logora; niente paura.—Al segnale dei padrini, ci mettemmo in guardia; m'accorsi subito che sapeva tirare. Uno, due, tre colpi, alto, son ferito al braccio; lo prevedevo; è una cosa da niente; avanti. Altri due colpi, un'altra ferita, il medico guarda, è una scalfittura.—Si continui—dicono i padrini. Si continuò; mi cominciava a montare il sangue alla testa; avrei preferito pigliarmi una botta che mi buttasse in terra; essere tagliuzzato a quel modo, come un pollo, mi umiliava; cominciai a avanzare digrignando i denti che parevo uà arrabbiato; mi sentivo un braccio di acciaio; la sciabola mi tremava nel pugno come una verga di salice. Altri quattro o cinque colpi, un'altra ferita alla spalla; gettai un urlo, diventai una bestia, non ci vidi più, mi cacciai sotto alla disperata; egli fu sopraffatto, dette indietro; poi tutto ad un tratto lasciò cadere la sciabola, portò tutte [Pg 462] e due le mani alla fronte, e il viso gli si coperse di sangue. Non mi ricordo bene cosa fecero e cosa dissero allora gli altri; so che mi fu fasciato il braccio, e dopo qualche minuto, noi da una parte, loro dall'altra, ce ne andammo pei fatti nostri; nessun contadino era accorso, nessuno se n'era avveduto. Ma come nascondere le ferite? domandai ai sergenti. Mi risposero che non c'era mezzo di nasconderle e che bisognava andare all'ospedale.—Vatti a dichiarar malato subito—mi dissero entrando in quartiere. Ci pensai un poco e poi decisi di non farne nulla; volli provare a resistere. Le ferite erano leggere, sangue n'avevo perduto pochissimo; vediamo. La notte la passai bene; cioè, dormii bene; ma sognacci, signor colonnello, cose d'inferno, coltellate, sciabolate, morti, becchini, il finimondo; solamente, fra tutte queste brutte immagini, vedevo lei, Luisa, colla sua testina chinata da una parte, e gli occhi pieni di lacrime, e quel sorriso così buono, che mi dava una gran consolazione. La mattina, piazza d'armi. Ci vado? non ci vado? ho da darmi per malato? Feci la pazzia d'andare. Si figuri! Strada facendo cominciai a sentirmi un bruciore terribile alle ferite; arrivato in piazza d'armi, mi accorsi che s'erano aperte e che colava giù sangue; diventai bianco come un cadavere. Come fare? Ancora uno sforzo, finchè posso reggermi in piedi; avanti, barcollando come un briaco; mi sentivo mancar le forze, e a poco a poco mi si stendeva un velo oscuro sugli occhi. Tutto ad un trattò un ufficiale manda un grido:—Cos'è questo? Mi si accosta, mi prende per la mano, io guardo, era tutta insanguinata. Uscii quasi fuori di me, fui condotto in quartiere, e poi all'ospedale, e mi prese una febbre maledetta, che per poco non mi mandò all'altro mondo. Fui visitato dai medici, dagli ufficiali della [Pg 463] compagnia, dal maggiore; m'interrogarono, interrogarono i miei amici, e vennero in chiaro di tutto. Un soldato che si batte con un signore non è affare di tutti i giorni; la cosa fece chiasso per la città; per un pezzo non si parlò d'altro; tutti, anche i miei superiori, lodavano il coraggio e la forza che avevo avuto di resistere tante ore alle ferite; tutti volevano sapere chi fosse quel signore; tutti erano curiosi di conoscere la ragazza. Dirle quanto mi rincresceva, quanto mi faceva male il pensare che Luisa veniva così messa in piazza, come suol dirsi, per causa mia, io non saprei dirglielo; n'ero disperato, avrei dato metà del mio sangue Perchè non fosse. Seppi dopo che quel giovane aveva una ferita grave nella testa; poi mi dissero ch'era quasi guarito, e poi che se ne voleva andare dalla città. Di Luisa non seppi più notizia. Temevo che fosse malata, che fosse andata via, poi m'immaginavo che suo fratello, a cagione di quello ch'era seguìto, la maltrattasse peggio di prima, e che quel signore, appena guarito, avesse ricominciato a ronzarle intorno; vivevo in ansietà continua, e stentavo a guarire, e la sera, debole com'ero che m'intenerivo per niente, qualche volta mi veniva da piangere, e facevo compassione a me stesso. Intanto stava per finire l'inverno, e si cominciava a parlare della guerra.—Ci fosse pure la guerra! pensavo; chi sa che non mi levasse dal cuore questa disgraziata passione.—Dopo la febbre mi eran venuti addosso cento altri malanni, e io menava la più triste vita che si possa immaginare. Non mi lasciavano neanche veder gli amici per paura ch'io mandassi lettere o imbasciate per mezzo loro, e facessi nascere nuovi guai, e volevano che tutto fosse finito. Oh che brutte giornate, signor colonnello!... Ma in una sera, in una sola sera tutto mutò. Era sull'imbrunire; io stavo già a letto; ero più tristo del solito; [Pg 464] venne una monaca a darmi da bere;—vi sentite molto male?—mi domandò, vedendomi gli occhi rossi.—Perchè vi scoraggiate così? che cos'avete?—Ah! sorella—risposi scrollando la testa;—io sono un disgraziato, ecco quello che ho!—Eh via! fatevi animo,—ella rispose, e poi soggiunse sorridendo:—non sentite che c'è della gente che canta per farvi stare allegro?—Io tesi l'orecchio, e sentii una voce lontana, dalla strada, da una casa della parte opposta, una voce di donna che cantava, una voce debole, ma che pareva facesse uno sforzo per farsi sentire; il sangue mi si rimescolò, il cuore mi cominciò a battere forte, mi prese come un affanno violento, mi sforzai, mi sforzai, e finalmente mi diedi giù a singhiozzare e a ridere come un bambino, appoggiando la testa sulle braccia della sorella, che mi guardava tutta maravigliata.—Oh Luisa!... sei tu,—esclamai ricadendo sul guanciale;—sia benedetto il cielo!—

Il colonnello respirò come se anch'egli in quel punto si sentisse liberato d'un affanno.

—Da quel giorno cominciai a star meglio; i miei amici che volevano vedermi furono lasciati venire; in capo a una settimana mi potei levare. Il mio primo passo fu verso la finestra. Era una delle più belle mattinate di aprile. Mi accostai all'inferriata tremando, mi afferrai prima ai ferri colle mie mani smunte e bianche, e poi guardai all'ultimo piano della casa dirimpetto. C'era! Pareva che mi aspettasse! Stava appoggiata al davanzale col viso rivolto alla mia finestra; mi guardò attentamente; pareva che non mi riconoscesse, che fosse incerta, agitata; si stropicciava le mani, sporgeva la testa a destra e a sinistra, e se ne andava, e tornava, e non si dava pace. Io colsi un momento che non avevo nessuno intorno e avvicinato il viso alla grata [Pg 465] dissi sottovoce e con forza:—Luisa.—Ah!—essa gridò, e rimase là ferma come una statua a guardarmi.—Luisa! io ripetei.—Essa sorrise e si appoggiò con una mano al davanzale come se le mancassero le gambe. Io la chiamai ancora una volta.—Oh Dio!—essa gridò, e scomparve. La stessa mattina mi mutarono di posto, e addio finestra. Ma in pochi giorni fui in piena convalescenza, e poco dopo mi trovai in grado di uscire. Parevo matto! Uscire, rivederla, dopo quel che era accaduto, dopo aver sofferto tanto! Ma guardi se non era proprio destino che io non dovessi mai esser contento per un pezzo. La guerra, in quel frattempo, era diventata quasi sicura; molti corpi avevano già lasciate le loro guarnigioni; ed eccoti che il giorno prima dalla mia uscita dall'ospedale, vien l'ordine ai due battaglioni di partire. Come fare? Non vederla più? Andar via così incerto, senza farle una promessa, senza almeno sapere di sicuro che mi vuol veramente bene, e che mi aspetterà? Ma ad avere una risposta non c'era più tempo, e bisognava che mi contentassi di scriverle io. Uscendo dall'ospedale dovevo andar difilato in quartiere, e dal quartiere difilato alla stazione della strada ferrata; pensai che qui o là avrei trovato il ragazzo. Scrissi un bigliettino in fretta proprio al momento di partire, e non dicevo altro che questo:—Se vivrò, tornerò; ne do la mia parola d'onore.—Al quartiere il ragazzo non c'era; lo vidi alla stazione; pareva che mi cercasse. In quei pochi minuti di riposo prima di salire nelle carrozze, potei allontanarmi dalle righe, egli mi venne dietro, e tutt'e due mettemmo nello stesso tempo le mani in tasca; io gli diedi il biglietto; lui tirò fuori con gran segretezza una cosa ravvolta in un pezzo dì carta, me la mise in mano, e disse:—È mia sorella,—e scappò. Guardai: era una borsa da tabacco. Signor colonnello.... lei mi [Pg 466] capisce. Fu il giorno dopo che io scrissi la prima volta a casa tutto quello che era seguito, manifestandole mie intenzioni, e fu dopo quella lettera che lei ebbe la bontà di occuparsi dei fatti miei e di aiutarmi. Quel che avvenne poi lei lo sa. Io feci tutta la campagna col mio battaglione. A San Martino, come le ho scritto, girando pei campi dopo il combattimento, trovai tra i feriti più gravi un bersagliere che mi parve di conoscere e che portai io stesso all'ambulanza, dove morì appena arrivato. Era il fratello di Luisa, che si era arrolato volontario dopo cominciata la guerra, e avea toccato una palla in un fianco. Prima di morire, mi riconobbe, mi ringraziò, e mi raccomandò sua sorella. Povero giovane! Finita la guerra, il mio battaglione andò a Torino. Là seppi che una signora di Savigliano, sua conoscente, avea preso a proteggere Luisa, e che Luisa stava bene, benchè avesse molto sofferto per la morte di suo fratello maggiore, e che il ragazzino andava a lavorare. La mia classe fu congedata, e io partii subito per Savigliano, dove sapevo che, per grazia sua, signor colonnello, erano arrivati o stavano per arrivare mio padre e mia madre. Arrivai la mattina per tempo. Era una bella mattinata serena e fresca come quel giorno che avevo visto Luisa per la prima volta. Corsi subito, così come ero vestito da bersagliere, nella strada dietro l'ospedale. Essa stava sempre là, non aveva voluto mai andarsene, benchè la signora sua protettrice le avesse offerto di riceverla in casa propria. Salii le scale a salti, col cuore che mi batteva da rompersi; mi avvicinai in punta di piedi a quella porta; una donna che era sul pianerottolo, e pareva informata di tutto, mi fece segno che Luisa c'era; la porta era socchiusa; accostai l'orecchio allo spiraglio; sentii canterellare, era lei; tirai fuori la borsa e la gettai dentro la stanza; il canto cessò, udii un grido acuto, [Pg 467] entrai, la vidi, aprì la bocca per gettare un altro grido, non potè, agitò due o tre volte le mani in aria come una pazza, poi vacillò e mi cadde fra le braccia. La sera arrivarono i miei parenti, l'indomani partimmo per Valdieri ed eccoci qui da tre giorni; qui con quella cara e santa... Oh Dio! Eccola qui.—

Luisa era comparsa sotto la pergola, vestita da sposa, con un velo bianco sul capo e una veste di seta nera bene adatta alla sua vita esile e snella. Aveva il viso roseo e gli occhi umidi e dimessi, e nell'andatura e negli atti una compostezza piena di peritanza e di grazia. Le stavano da una parte il padre e la madre di Cesare, dall'altra il fratello, un ragazzo sui dieci anni; dietro un gruppo di parenti e di amici, tutti silenziosi.

—Signor colonnello,... essa mormorò timidamente facendo un inchino.

Poi si voltò allo sposo, vibrò un lampo dagli occhi, sorrise e chinò la testa.

Il colonnello, tuttora commosso dal racconto di Cesare, la guardò lungamente con un misto di curiosità e di tenerezza. Cesare si mise a contemplarla con quello sguardo avido degli innamorati che gira intorno alla persona e l'abbraccia e l'avvolge, come se volesse stringerla nelle sue spire e tirarla a sè. La madre e le altre donne la guardavano anch'esse con un'aria di compiacenza rispettosa, allungando di tratto in tratto una mano per accomodarle ora una piega del velo, ora del vestito. E tutti stavano zitti, e Luisa, confusa da tanti sguardi, cogli occhi bassi, col sorriso sulle labbra, fingeva di guardare un capo del velo che stropicciava tra le dita.

—...Dunque,—uscì a dire dolcemente il colonnello così per rompere quel silenzio;—a momenti si va?

Gli sguardi dei due giovani s'incontrarono.

[Pg 468]

—La chiesa è a pochi passi di qui; voi Luisa l'avrete veduta venendo; è là in fondo alla valle appena passato il ponte; la strada è bella, ombrosa....

Tutti continuavano a tacere.

—E poi abbiamo una stupenda giornata; anche il tempo fa festa, come vedete;.... per che ora avete fissato?

—Per le sette,—rispose la madre.

—Allora,—soggiunse il colonnello guardando l'orologio,—è ora.

I due giovani si scossero, si guardarono, e fecero un passo l'uno verso l'altro.

—Dunque?—domandò la madre con un sorriso, guardando prima l'una e poi l'altro.—Animo, a braccetto.—

Cesare porse il braccio alla sposa, essa vi appoggiò il suo, e tutti e due accompagnarono collo sguardo quell'atto come se avessero dovuto fare qualcosa di difficile o di strano: tremavano.

—Avanti,—disse la madre.

Fecero due o tre passi per uscire; poi s'accorsero che s'erano scordati di salutare il colonnello, voltarono la testa indietro tutti e due dalla stessa parte, e s'incontraron coi visi. Tutti sorrisero, Luisa arrossì.—Dio v'accompagni, ragazzi,—disse il colonnello alzandosi per vederli andar via. Gli sposi s'allontanarono camminando a passi incerti e ineguali; dietro a loro i parenti e gli amici; la madre e il colonnello si scambiarono un sorriso, come per dire:—Poveri giovani, non han più la testa a segno.

—Dio v'accompagni,—ripetè il colonnello rimasto solo, guardando il cancello per cui erano usciti.

La lieta comitiva era già un pezzo innanzi giù per la strada del colle.

[Pg 469]

Istanti divini! Non v'è dolcezza umana che ne valga un solo. Alla piena della gioia che v'invade l'anima, par che la vostra povera creta non regga; la mente istessa non la comprende intera, e la travede a lampi, e non potrebbe fissarvi lungamente il pensiero. Si va innanzi compresi d'una specie di stupore, come sognando, quando par di attraversare sconosciuti giardini, folti di piante fantastiche e illuminati da luci arcane. Tutto par sogno: la gente che si ferma per vedervi passare; l'allegro bisbiglio dei parenti che vi accompagnano; quel lontano campanile della chiesa che par che vi guardi e vi aspetti; e i luoghi noti e le cose che sembrano animarsi per riconoscervi e mandarvi un saluto.—Guardate con chi sono!—dice il cuore.—Ella è mia, lo sapete?—E procedete a passo tremante, e vagate qua e là coll'occhio estatico; o guardate con un senso quasi di curiosità la piccola mano che s'appoggia sul vostro braccio, come se si fosse messa là a vostra insaputa; e prestate l'orecchio al fruscìo della veste, come al suono d'un bisbiglio misterioso; e provate una profonda dolcezza a sentirvi nel viso quell'alito caldo e frequente, e sul braccio il peso leggero di quella cara persona che tratto tratto pare che manchi e vi s'abbandoni sul fianco. E sopraffatti così da quella dolcezza, vorreste quasi affrettarne gli istanti, e giunger presto alla chiesa, chè vi sembra d'aver rapito al mondo un troppo grande tesoro, e qualcuno voglia ritorvelo, e v'insegua. E i vostri due visi, a quando a quando, si voltano, e gli occhi s'incontrano e s'abbarbagliano, e ogni cosa intorno s'oscura, e in quel rapido incontro non vedete più che quella pupilla umida che splende, vi fissa, v'affascina e si vela. E si muovon le labbra, si parla, di che? di nulla, di tutto.—Guarda.—Di'.—Cesare.—Senti.—Luisa.—Dio!—suoni sfuggiti all'intima [Pg 470] e arcana armonia dell'anima. Ecco la porta della chiesa.—Oh! ragazzi, dove andate? Per di qua,—grida la madre.—Sbagliavano; che sanno più essi di questa terra?

Escono.

Qui l'anima si queta, e l'idea della vostra felicità, alla quale dapprima non bastava la mente, si rifrange in mille immagini ridenti che si seguono rapide e distinte, traendovi il core di contento in contento fino al sentimento schietto ed intero di quella gioia onde eravate poc'anzi soverchiati ed oppressi. E prima l'immagine del viso di lei addormentata al vostro fianco, quando voi, contemplandola nel silenzio della notte, le direte col pensiero mille dolcezze, e vi parrà ch'ella dormendo v'intenda, e vi risponda con quel riso sfuggevole che le sfiora le labbra socchiuse:—Ti sogno, angelo. E il primo saluto della mattina, allegro, fanciullesco, soave, temperato a volte da un subito ritorno della timidezza verginale, non tutta vinta ancora dalla consuetudine della vita comune. E i molti giorni in cui, tornando a casa, vi parrà sempre strano ch'ella debba esser là ad aspettarvi, e tremerete quasi di non ritrovarla, e affretterete il passo, e il primo suono della sua voce festosa, e il suo batter di mani, e il rumore di quel passo rapido e leggero che verrà incontro al vostro, vi scenderà nel profondo dell'anima come dopo una lunga lontananza. E quelle fresche e splendide mattinate di primavera, in cui, col risvegliarsi della natura, vi si risveglierà tutto nell'anima l'ardente amore dei primi giorni, e un impeto irresistibile vi spingerà l'un verso l'altro, e nel guardarvi e nel sorridervi risentirete la infinita dolcezza dei primi sguardi e dei primi sorrisi. E quelle ore tristi, quando contemplerete dalla finestra la campagna coperta di neve, o la pioggia lenta ed eguale, e in quel [Pg 471] silenzio e in quella solitudine si farà più viva e profonda la tenerezza dei vostri colloqui melanconici, e ad ogni lampo e a ogni tuono vi stringerete in un abbraccio più forte, e parlerete più sommesso e più dolce. E le lunghe sere d'inverno passate fra voi due soli, quieti, sereni, ora discorrendo delle vostre faccenduole domestiche, ora celiando e ridendo con ingenuo e spensierato abbandono, ora evocando i cari ricordi del tempo in cui non vi parlavate ancora:—Che cosa dicesti fra te quella volta? Che cosa pensasti di me quel giorno?—E quelle sere felici in cui, essendo soli, sentirete di non esser più soli, e vi parrà che qualcuno v'ascolti e vi guardi, e proverete per la vostra compagna un sentimento di affetto più delicato e geloso, e a certi suoi moti di sorpresa, a certi turbamenti improvvisi, tratterrete il respiro e interrogherete il suo sguardo, e al rasserenarsi del suo viso palpiterete di gioia e le aprirete le braccia. E quelle notti in cui, destandovi, sentirete alitare e muoversi vicino al vostro capo una creaturina inquieta, e la sua piccola mano cercare il vostro viso, e una vocina lamentevole chiamarvi padre, e due tenere braccia ricingervi il collo. E quelle tante volte che il vostro sentimento di gratitudine per quella dolce compagna, che vi sta sempre al fianco, che vive per voi, che non ha altro bene che voi, che è felice delle vostre gioie, e trema dei vostri dolori, e vi consola, e v'inspira la rassegnazione, e v'infonde il coraggio, e vi fa amare il lavoro, la casa, la pace, la virtù; e soffrendo e pregando esercita con amoroso entusiasmo il suo santo ministerio di madre, e insegna ai vostri figliuoli ad adorarvi, e vi prepara una vecchiezza riposata e serena, dopo aver beata la vostra gioventù di tutto il fuoco della sua bell'anima vergine, appassionata e credente; quelle tante volte, dico, che il vostro sentimento di gratitudine [Pg 472] per questa dolce compagna, provocato per caso da un ricordo, da una parola, da un atto, si espanderà improvvisamente in un trasporto di tenerezza ineffabile, e la colmerete di carezze, di grazie, di benedizioni, bagnandole il seno di lacrime, chiamandola coi nomi più soavi, domandandole perdono di tutte le amarezze che avrà provato per cagion vostra, e così commossa, come la vedrete, e radiante, vi parrà più bella del giorno che la conduceste all'altare. Ricchezze, gloria, potenza, oh come vi guarda dall'alto l'Amore!

Il colonnello andò incontro agli sposi fino al cancello e li ricevette con molta festa e li accompagnò fin sotto il pergolato. Luisa piangeva, Cesare pareva fuori di senno, e tutti gli altri della brigata, allegri, commossi, facendo un chiacchierio assordante, giravano senza posa intorno all'uno ed all'altro, senz'esser veduti, nè sentiti, nè capiti.

Stettero qualche ora tutti insieme sotto il pergolato; quelle ore in cui, riavuta l'anima dalla foga della gioia, gli sposi pensano, e la moltitudine delle loro prime immagini si va diradando man mano, sin che ne resta una sola, che senza fissarsi mai nella mente, le gira intorno, l'assale, sparisce, ritorna di soppiatto, dietro altre immagini, e desta nel cuore improvvisi palpiti e trepidazioni misteriose. In mezzo all'allegrezza della brigata, quelle due sole fronti paiono di tratto in tratto pensierose, e quegli occhi si cercano e si fissano con una specie di curiosità infantile, e l'uno osserva attentamente dell'altro ogni gesto, ogni moto, e le anime si interrogano e s'intendono senza parlare, o le parole hanno per loro diverso senso da quel che suonano, e i sorrisi dicon tutt'altre cose. Son quelle ore deliziose, [Pg 473] tante volte sognate, tante volte pensate, che ci facevano domandare a noi stessi:—Che cosa le dirò in quei momenti? Come mi guarderà?—Le ore in cui, a misura che il tempo trascorre, noi ci sentiamo come allontanare dal mondo, e vediamo tutto ciò che ne circonda oscurarsi, e intorno a noi farsi una gran luce. Quei momenti, in cui se qualcuno degli astanti dice:—Domani,—il nostro cuore si scuote, e l'anima ripete in se stessa:—Domani;—e pare che tutto, domani, debba esser mutato nel mondo, e ci trema più vivamente nel pensiero quell'immagine arcana.

Poco prima dell'ora fissata pel convegno degli amici, il colonnello chiamò a sè gli sposi e il fratellino di Luisa, li condusse in una stanza a terreno, e s'intrattenne un pezzo con loro, forse a parlare d'interessi, e per fissare le nuove attribuzioni di Cesare, di cui già da molto tempo aveva in animo di mutare lo stato.

—Forse tutti questi discorsi,—egli concluse,—non importava neanco di farli; non vivrete voi vicino a me, sotto i miei occhi? E dunque basta. Fate conto di me in ogni bisogno come lo fareste di un vecchio amico; io voglio che abbiate confidenza in me, perchè vi voglio bene, e la merito. Capirete: io non ho parenti, non ho amici, son qui diviso dal mondo, solo, non ho altri che voi a cui voler bene, e vivrò per voi; che volete che io viva ancora per me a quest'età? Ebbene, che io vi sappia felici, tranquilli; che io abbia il vostro buon giorno la mattina e la vostra buona notte la sera, e vegga Cesare lavorare di buona voglia, e tu Luisa far la tua vita di casa col cuore sereno e contento; che volete che io desideri di più? Purchè mi lasciate fare quattro chiacchiere di tanto in tanto....

—Signor padrone!—esclamarono i due sposi ad [Pg 474] una voce, guardandolo con un aria di tenerezza quasi compassionevole.

—Dico davvero; e tu Luisa sarai contenta, te lo assicuro, perchè conosco Cesare prima di te, fin da bambino; e sarai compensata di tutto quel che hai sofferto, povera creatura. Oh è più che giusto! Qui dimenticherai i tuoi giorni tristi; faremo tutti quanto sta in noi per farteli dimenticare. Eri rimasta sola al mondo; ora eccoli in buona compagnia; hai uno sposo, una mamma, e.... se lo vuoi, anche un papà, ti contenti?

Luisa non potè raccoglier la voce.

—E anche noi saremo amici, non è vero, bambino?—Ciò dicendo prese per mano il fratello e se lo trasse accanto.—Sicuro; e faremo insieme le nostre passeggiate per la campagna, e leggeremo, e scriveremo, e faremo tante altre cose, e vivremo allegri, vedrai; e quando le mie gambe comincieranno a non voler più fare il loro dovere, domanderò un po' d'aiuto al tuo braccio, che già a fare ogni giorno un giretto per questi bei colli io non ci rinunzio. Starai meglio qui che a lavorare in città, senza famiglia e senza protezione, te lo prometto. Povero ragazzo, eri abbandonato! Oh! ma c'è una Provvidenza per tutti.... Che cos'hai? Che vuol dire?... Ah! capisco, sì; vieni qua, povero ragazzo, abbraccia pure il tuo vecchio babbo che ti vuole un gran bene; oh! povero bambino! Chetati, via.

Il ragazzo singhiozzava che pareva gli si volesse schiantare il petto.

—E tu Luisa che cos'hai? Perchè mi guardi in quel modo?

—Signor colonnello,—rispose Luisa colla voce tremante, facendo uno sforzo;—che vuole che io le dica? Io non trovo parole, io non so.... Mi par di sognare.... mi par che tutto questo non possa esser vero.... [Pg 475] Ero una povera ragazza senza padre, senza madre, abbandonata da tutti; lavoravo per vivere e non avevo nemmeno tanta roba da coprirmi, e pativo il freddo, e qualche volta persino;... e vivevo così senza speranze, e passavo dei giorni e delle notti che mi prendeva quasi la disperazione.... E poi ecco che tutto cambia; incontro lui, Cesare, che mi vuol bene, mi protegge, va alla guerra, n'esce salvo, si ricorda di me, ritorna, mi dice che mi vuole sposare, fa venire i suoi parenti, mi conduce qui, e tutti mi fanno festa, e trovo un signore come lei che si piglia cura di mio fratello e parla in cotesto modo e mi fa vedere un avvenire così bello.... e poi tutto quel che vedo e che mi sento dire da tre giorni in qua.... Che cosa vuol che pensi io? Io non so.... Io non posso quasi credere.... È troppa felicità tutta in una volta.... Io non ho fatto niente per meritar tutto questo.... Io ero una povera ragazza.... Che cosa.... vuole.... che io le dica!

E scoppiò in pianto.

—Voglio che tu mi dica che sei la mia figliuola e nient'altro, ecco!

—Oh! è troppo!—esclamò Luisa con un accento di tenerezza inesprimibile, e si slanciò per baciar la mano al colonnello.

—Via! via! che fai, pazzerella? zitta, guarda, c'è gente.—

Luisa e Cesare si voltarono e videro quattro bersaglieri che venivano innanzi sul praticello; erano i primi invitati.

—Eccoli!—esclamò vivamente il colonnello alzandosi per andar loro incontro;—ah! mi sento fuggire vent'anni dall'ossa!

Luisa rimase nella stanza per rimettersi un po' in calma, Cesare uscì col colonnello; i parenti e gli amici [Pg 476] che stavano sotto il pergolato corsero anch'essi incontro ai soldati.

—Benvenuti, camerata! esclamò Cesare stringendo la mano a tutti e quattro.—Ecco il signor colonnello che vi ha invitati.—

I bersaglieri lo salutarono militarmente facendo il viso serio e ritenendo la mano alla tesa del cappello; egli li guardò fisso l'un dopo l'altro, tentando di rifare il suo antico cipiglio di quando voleva imporre ai soldati indisciplinati; poi sorrise e porse loro tutt'e due le mani dicendo affabilmente:—Qua, giovanotti.—Allora risero anch'essi, gli strinsero la mano, e cominciarono a parlargli con una franchezza così aperta e confidente che parevano suoi intimi amici da un pezzo. In un momento l'affollarono di domande, tutti ad una voce.

—Signor colonnello, noi non sappiamo proprio come ringraziarla.

—Lei è stato troppo buono con noi, signor colonnello.

—Perdoni, signor colonnello, è molto tempo che lei ha lasciato il servizio?

—Signor colonnello, che reggimento comandava?

—Fin dove arriva il suo podere, signor colonnello?

—Oh che bella villa!

—Guarda: ci sono le bandiere!

—E i palloncini coloriti.

—E le ghirlande.

—E la musica.

Erano entrati nel prato sette o otto sonatori coi flauti e coi violini.

—È questa la villa?—domandò in quel punto una voce dalla strada. Subito dopo comparve davanti al cancello un altro gruppo di dieci o dodici soldati. Tutta [Pg 477] la comitiva gli andò incontro. C'erano dei bersaglieri, dei soldati di linea, un soldato di cavalleria, due artiglieri: tutte le armi v'erano rappresentate. Chi col cheppì, chi col berretto, chi colla papalina, chi colla tunica, chi col cappotto, chi coi calzoni da soldato, chi coi calzoni da contadino; ognuno s'era messo indosso quel poco che gli era rimasto; tutta roba vecchia, scolorita e sdrucita, che mostrava la campagna del cinquantanove un miglio di lontano. Qualcuno aveva la medaglia della Crimea. Tutti giovanotti robusti, abbronzati dal sole, con un fare sciolto, fiero ed allegro. Dietro a loro veniva uno stormo di curiosi che si fermarono davanti alla porta.

—Avanti! gridarono tutti insieme, il colonnello, Cesare e i contadini.

I soldati vennero innanzi; furono ricevuti con ogni sorta di dimostrazioni festevoli, circondati, assordati; il colonnello si voltava di qua e di là, porgendo la mano ora all'uno ora all'altro; Cesare era tirato per le braccia da tutte le parti; le contadinelle ch'eran del numero degl'invitati, giravano intorno tutte strette in un gruppo, adocchiando i soldati, ridendo, parlandosi nell'orecchio, facendo ogni sorta di amabili vezzi; e chi batteva le mani in segno di allegrezza, e chi meravigliandosi guardava intorno a quell'apparato festivo, e chi tra i contadini riconosceva ed abbracciava congiunti ed amici; e tutti parlavano e ridevano insieme, facendo un gridìo dell'altro mondo.

In mezzo a quella confusione Cesare sparì.

Tutti gli altri continuarono a discorrere avvicinandosi alla porta della villa. Quel vecchio bianco e curvo, in mezzo a quel gruppo di giovani soldati, era bellissimo a vedersi; pareva il padre di tutti ed era pieno d'anima e di foco come il più vivo e più ardente di loro. Una parola a uno, una parola all'altro, un cenno di qua, un sorriso di là, teneva tutti a bada. E tutti lo guardavano, [Pg 478] lo ascoltavano, e gli parlavano, fin da quei primi momenti, con un'espressione di rispetto, di tenerezza e di confidenza quasi figliale.—Bravi i miei soldati!—diceva egli di tratto in tratto girando lo sguardo su tutti i volti—bravi! Avete fatto bene a venirmi a trovare.—Ed essi ridevano e si guardavano gli uni cogli altri come per dirsi:—Vedete un po' che buon cuore! che caro vecchio!

Si fece silenzio.

—Ecco gli sposi,—disse il colonnello.—Luisa e Cesare erano apparsi sulla soglia della porta; Cesare era vestito da bersagliere coi suoi vecchi galloni da caporale.

Il gruppo dei soldati si divise in due ali, gli sposi passarono in mezzo, e di qua e di là si scoprirono le teste e sorse un bisbiglio vivace.—Bel visino!—Bella figura!—Pare una madonnina!—Bravo Cesare!—Ha l'aria d'una buona ragazza.—È di buon gusto l'amico.—Sembra una signora.—Begli occhi!

Qualcuna di queste parole arrivò all'orecchio degli sposi; Cesare ne gongolava, e si voltava per guardar Luisa negli occhi; Luisa sorrideva e si copriva il viso col ventaglio.

Fecero circolo in mezzo al prato, e a due, a tre alla volta, tutti i soldati andarono a parlare alla sposa, facendo un grande sforzo per assottigliare un po' que' loro vocioni terribili, usati a far sentire «l'all'erta» lontano un miglio; e Luisa accolse tutti con quel suo sorriso e que' suoi modi soavi, senza staccarsi mai dal braccio del suo sposo, e girando collo sguardo intorno al viso di quei che le parlavano senza mai fissarli negl'occhi. Cesare stava osservandola mentr'ella riceveva i complimenti dei suoi compagni, con una curiosità, con un piacere, come se la vedesse allora per la prima volta.

—A tavola, amici,—esclamò il colonnello.

[Pg 479]

Tutti si mossero verso il pergolato, parlando confusamente.

La mensa era apparecchiata sotto il pergolato; erano dieci o dodici tavole accostate in modo da formare una tavola sola, grande per una trentina di persone, chè tanti erano i commensali, fra contadini e soldati. Gli sposi si misero l'uno accanto all'altro; il colonnello in faccia a loro, in mezzo ai due artiglieri; tutti gli altri soldati si mescolarono coi contadini. Qua e là, fra le larghe spalle di due bersaglieri, spuntava la testina d'una villanella, tutta raccolta, contenta nel cuore, peritosa nel viso, che non sapeva nè dove guardare nè da che parte voltarsi. La conversazione cominciò subito animatissima, accompagnata da gran lavorar di mani e di denti, chè avevano tutti, tranne due, un appetito da non vederci più. Cinque o sei ragazzotti servivano a tavola, e avevano un gran da fare a farsi sentire dai commensali, che dessero loro i piatti da portar via, tanto erano tutti assorti e infervorati ne' discorsi. I soldati si chiamavano e si parlavano da un capo all'altro della tavola, gesticolando colle forchette e coi coltelli. Il colonnello, apostrofato e interrogato da tutte le parti, non aveva tempo di rispondere a nessuno; un soldato che gli era accanto gli ragionava con molta serietà di certi inconvenienti del servizio; un altro d'in fondo alla tavola gli andava facendo un lungo racconto di cui egli non capiva una parola. Tre o quattro soldati, ciascuno nel suo cantuccio, s'erano fatti intorno un po' di uditorio, e narravano gli episodi della guerra ai contadini attoniti, o provocavano di tratto in tratto un'alta risata con burleschi aneddoti di caserma. Altri si andavano ricordando tra loro i giorni passati assieme nei reggimenti, e i casi, e gli amici e gli ufficiali, con quella indulgenza benevola di giudizi che si mostra in simili [Pg 480] occasioni, per cui anche i superiori che s'odiavano diventano «buoni diavolacci» e i compagni più indifferenti «camerata d'oro.»

Luisa aveva accanto un soldato che s'ingegnava di farle il cavaliere, e non sapendo che dirle altro, le tesseva i più caldi elogi di Cesare, suo amico da molti anni,—un giovane d'oro, un giovane che ce n'è pochi come lui, e che ha anche dell'istruzione, e che se fosse nato signore sarebbe diventato qualche cosa di grosso.—Ed ella stava a sentire attenta attenta, coll'aria di chi ascolta una musica delicata e sommessa, mormorando di tant'in tanto:—Oh sì!—È vero.—Lo so.—E guardava intorno ai commensali, e incontrando lo sguardo di uno, si lasciava sfuggire un lieve sorriso, e guardava un altro, e domandava al suo vicino i nomi, e si faceva spiegare le differenze delle uniformi. E Cesare era il più allegro e il più chiassone della brigata; chiamava a nome i lontani, batteva la mano sulle spalle ai vicini, versava da bere di qua e di là, ed entrava nei discorsi di tutti, voltandosi di tratto in tratto per dir a fior di labbra:—O Luisa!—a cui rispondeva un:—Cesare!—sempre più pronto e più soave. A mano a mano l'andirivieni delle bottiglie si andava facendo più rapido, le ragazze cominciavano a snodare la lingua, tutte le voci si mescolavano, tutti gli occhi scintillavano, tutte le mani s'agitavano in aria, e il colonnello, rapito dalla comune allegrezza, s'era lasciato andare fino a prendere a braccetto i suoi due vicini e a dar loro una scossetta vigorosa esclamando:—Ah benedetti ragazzi, voi mi fareste ritornare al reggimento, vecchio come sono!

—Questo è il re dei pani!—gridò un bersagliere levando in alto un pane di munizione ch'era rimasto intatto sulla tavola: tutti si voltarono a guardarlo.—Chi [Pg 481] non gli piace il pane di munizione, diceva un sergente, fateglielo mangiare a furia di bastone,—e diceva giusto.—Io l'ho sempre mangiato tutto fino all'ultimo briciolo.—E tu?—Anch'io.—E tu?—Anch'io.—E tu, Cesare?—Il cuore di Luisa diè un palpito forte; Cesare le afferrò la mano che avea sotto la tavola e rispose prontamente:—Anch'io.—Di' Cesare; diceva un altro poco dopo; dove te l'han fatta quella ferita alla mano?—Era la ferita del duello; gli occhi di Luisa lampeggiarono.—Te lo dirò poi,—Cesare rispose;—è una storia lunga.—Di lì a un momento:—Fa vedere questa borsa da tabacco,—un terzo gli diceva, pigliandogli la borsa che gli spuntava dalla tasca della giacchetta.—Bella, graziosa; chi te l'ha data?... Una mia amorosa—rispondeva Cesare.—Ah si? Luisa sussurravagli allora nell'orecchio—aggiusteremo i conti.—E rideva. Era il primo scherzo di quel genere che diceva al suo sposo: egli n'ebbe una sorpresa e un piacere indicibile.

Tutt'ad un tratto, un bersagliere si levò in piedi, alzò il bicchiere e gridò:—Alla salute degli sposi!

—Alla salute degli sposi!—risposero tutti in coro, e alzatisi in piedi, cominciarono a far cozzare i bicchieri, allungandosi quanto più potevano sopra la tavola, intrecciando le braccia in tutt'i versi, chiamandosi l'un l'altro, cercandosi, facendosi un po' di posto in mezzo alle braccia dei vicini, di sopra, di sotto, alle spalle, e scambiandosi augurii, occhiate e sorrisi. Fra tutte quelle brune e robuste mani dei soldati e dei contadini, spiccavano le piccole e bianche mani di Luisa.—I soldati le dicevano l'un dopo l'altro:—Sposina....—ed essa rispondeva man mano colla voce commossa.—Grazie... grazie...

Si rimisero tutti a sedere. Si alzò il colonnello. Un'auretta viva gli scompigliava e teneva su ritti i [Pg 482] lunghi capelli bianchi; e con quella chioma e con quel vestitone che aveva indosso, abbottonato fin sotto il mento e lungo come un mantello, egli pareva una di quelle grandi figure di santi che si vedon dipinte sulle volte delle chiese; era bello e venerabile. Tutti stettero zitti.

—Sentite;—egli disse con un affabile sorriso «un suono di voce dolce e lento;—voialtri soldati avete bevuto alla salute degli sposi; gli amici e i parenti hanno fatto tutti qualche regalo all'uno o all'altra; da me solo essi non hanno ancora avuto niente; è una cosa che non istà bene; voglio fare il mio regalo anch'io; voltatevi tutti da quella parte là.—

E stese il braccio dinanzi a sè, dalla parte opposta al frascato, verso i campi. Tutti si voltarono da quella parte.

—Voi non avete ancora veduto quelle bandiere, non è vero?—

Un lungo tratto del confine del podere era segnato da una fila di bandiere; al di là di quel confine cominciavano i possedimenti del Re.

—Non le avevamo ancora vedute—risposero tutti.

—Ebbene, tutto il terreno che corre di qui a quelle bandiere...

Luisa si appoggiò al braccio di Cesare.

—... Non è più mio, è di Cesare e di Luisa.—Tutti i commensali proruppero in un grido; Luisa e Cesare restarono senza parola, immobili, cogli occhi pieni di lagrime fissi sul colonnello.

—E adesso beviamo alla vostra salute, miei bravi soldati, miei buoni figliuoli; vi assicuro che in vita mia ho fatto ben pochi brindisi di cuore come questo. Avevo proprio bisogno di stare un po' in mezzo a voialtri. Ci sono stato tanto tempo, ci ho passata la mia gioventù, [Pg 483] ci sono diventato vecchio. Quelle poche consolazioni che ho avute in vita mia, le ho avute tutte da voialtri soldati. Ne ho visti tanti entrar coscritti nel reggimento, ne ho visti tanti partire in congedo, ne ho avuti tanti amici, tanti che hanno fatta la guerra con me.... Mi ricordo di tutti, li riconoscerei tutti. Io non li vedrò più; ma penserò sempre a loro, come a gente di casa mia. E quando andavano in congedo, io li radunavo sempre, come ho fatto adesso di voi, e li salutavo, e, a vederli partire, provavo una tristezza come se fossero partiti dei miei figliuoli. I miei soldati erano tutto per me: compagni, amici, famiglia. Che bei giorni abbiamo passati insieme! Che bei campi! Che vita allegra! Oh, ma adesso che vi conosco, non vi perderò mica più d'occhio, sapete; no, no; di tanto in tanto vi vorrò qui, tutti assieme, in famiglia, a discorrere un po' di caserma; sicuro! E verrò anche a immischiarmi nelle vostre faccende di casa. Quando qualcuno di voi piglierà moglie, io lo vorrò sapere, e gl'insegnerò io come dovrà tirar su i suoi figliuoli, glieli darò io i buoni consigli. E gli dirò: fateli crescere con un bel cuore di soldato i vostri figliuoli, un bel cuore grande così che, se avranno da mettersi il cappotto, se lo mettano di buona voglia, e si facciano onore. Non è un buon figliuolo chi, al bisogno, non sa fare il suo dovere di soldato, e chi ha fatto il suo dovere di soldato è sempre un buon padre di famiglia; credetelo, e lasciate che gridino i tristi e gli svogliati. Appendete il vostro cappotto al muro nella stanza dove mangiate, accanto al ritratto del vostro re, e lasciatelo là che i vostri figliuoli lo vedano e lo rispettino, e se ne tengano d'avere un padre che l'ha portato e che ha fatto questa bella guerra che avete fatto voialtri. Io gli volevo bene al mio cappotto di soldato, e l'ho conservato con tutte [Pg 484] le cure, e l'ho ancora, e quando lo guardo mi batte il cuore, e mi pare di essere ancora soldato, perchè io ho fatto il soldato, sapete; quattordici anni l'ho fatto, e adesso, a trovarmi in mezzo a voi, a parlare con voi, non so... mi sento... vorrei ritornare come allora.... vostro camerata... e... guardate se lo torno... Eccomi qua!—

Tutti si alzarono in piedi gettando un grido e protendendo le braccia.

Il colonnello, con un rapido moto, s'era levato il vestito, ed era rimasto col suo vecchio cappotto da soldato, logoro, riciso, d'un panno grigio chiaro, svariato d'ogni maniera di mezze tinte dalla pioggia e dal tempo; aveva cinque medaglie sul petto. Quell'atto era stato fatto con una vivezza così pronta e spontanea, ed accompagnato da un sorriso così modesto ed ingenuo, che ne sarebbe stato commosso anche chi, non conoscendo quell'uomo, avesse sospettato in quel suo entusiasmo giovanile un po' di ostentazione e di sforzo.

Se non erano a tavola, i soldati gli si slanciavano addosso.

—Alla salute dei miei buoni soldati!—gridò il colonnello alzando il bicchiere.—Alla vostra salute!—ripeterono i contadini toccando coi soldati.—Alla vostra—i soldati risposero.

Un bersagliere fe' cenno di voler parlare; tutti tacquero.

—Adesso..., egli cominciò con voce malferma tenendo una mano sul petto e reggendo coll'altra il bicchiere;—adesso noi beveremo alla salute del signor colonnello, che dobbiamo ringraziarlo della bontà che ha avuto d'invitarci, e si vede il bene che vuole ai soldati, tanto più che noi non avevamo nemmeno l'onore di conoscerlo di persona, e da questo si può veramente capire il buon cuore che ha, come se fosse nostro padre [Pg 485] e noialtri i suoi figliuoli, e per questo beviamo alla sua salute....

Tutti si alzarono.

—Un momento.... e dirgli che noi non dimenticheremo mai questo bel giorno, che è una delle più belle soddisfazioni che si prova di essere stati al servizio, e ricorderemo i suoi buoni consigli che egli ci ha dati, che sono giusti e preziosi, che tutti li dovrebbero tenere a mente, e imitare il suo esempio, che dopo tanti anni ha ancora il cappotto di soldato, che è una cosa che gli fa onore a lui e c'insuperbisce noi; e beviamo dunque, alla sua salute e viva il signor colonnello che è così buono coi soldati!

—Viva!—gridaron tutti con trasporto.

—Viva il nostro Re! gridate,—esclamò il colonnello.

Tutti gli altri risposero:—viva il nostro Re!—

—Signor colonnello, c'è il Re!—gridò una donna accorrendo.

I soldati s'alzarono impetuosamente da tavola rovesciando seggiole e panche, e si slanciarono per uscire. Il Re comparve in quel punto sotto il pergolato, a cavallo, vestito da cacciatore. Rimasero tutti interdetti per un istante, e poi tutti assieme, come di concerto, ripeterono entusiasticamente:—Viva il nostro Re!

Il Re salutò e guardò intorno meravigliato.

Tutti fecero silenzio.

—Come mai tutti questi soldati?—domandò sorridendo.

Nessuno ardiva di parlare. Un soldato si fece innanzi e rispose disinvolto e vivace:

—Ecco, Maestà! Noi siamo tutti soldati in congedo; questo è il signor colonnello in ritiro che s'è messo il suo cappotto per star con noi; questi due sono [Pg 486] gli sposi, e adesso si faceva il pranzo di nozze, e noi siamo stati invitati dal signor colonnello.—

Detto questo, egli volse intorno uno sguardo trionfante, come per dire: Vedete se lo so io come si parla coi re!

Il Re sorrise, chiese al colonnello il suo nome, guardò la villa, le bandiere, gli sposi, i soldati, e poi disse:—Bravi, mi piace di vedere i soldati allegri,... bravi;... avete fatto tutti la campagna?

—Tutti!—risposero i soldati ad una voce.

—Maestà!—gridò uno di essi, scoprendosi un braccio fino al gomito e battendo la mano sopra una cicatrice;—questa è della Cernaia!

—Questa è di Palestro, Maestà! gridò un altro segnando una cicatrice che aveva sulla fronte.

—E questo di San Martino!—gridò un terzo mostrando una mano a cui mancavano due dita.

—Bravi ragazzi!—rispose il Re con voce commossa;—qua la mano, tutti.—

I soldati gettarono un grido di gioia, e s'affollarono intorno al cavallo, e strinsero l'un dopo l'altro la mano al re; l'ultimo fu Cesare.

—Bel giovanotto!—disse il Re.—Tutte le contadine guardarono Luisa; Luisa sorrise e tremò.

—E lei, colonnello?—domandò il Re, dopo ch'ebbe stretta la mano a tutti i soldati. Il colonnello, che era rimasto fino allora in disparte, immobile come un estatico, venne innanzi colla bocca aperta e gli occhi lucenti di lagrime, e strinse la mano al Re.

—Domani mattina lei verrà a far colazione con me, a Valdieri, non è vero?—

Il colonnello non potè rispondere, fece segno di sì e guardò il Re cogli occhi spalancati.

—Maestà!—gridò un bersagliere avvicinandosi;—le domando una grazia!

[Pg 487]

—Quale?

—Eccola!—il soldato rispose, e gli porse un bicchiere di vino.

Il Re bevve.

—Viva il Re! gridarono tutti, e la folla che era nel prato e nella strada ripetè:—Viva il Re!

—Signor colonnello, permetta! disse il bersagliere ripigliando il bicchiere vuoto e mettendoselo in tasca. Tutti risero.

—Che voglion dire quelle bandiere laggiù?—domandò il Re accennando verso il confine del podere.

Un soldato glielo spiegò.

—Allegri, giovanotti; buona sera, colonnello; a domani.—Detto questo, voltò il cavallo, e via di galoppo. Tutti gli si slanciarono dietro gridando.

Un'ora dopo era quasi notte; il prato era tutto illuminato dai palloncini accesi; una folla di contadini, uomini e donne, misti ai soldati, andavano e venivano tra la strada e il prato levando un festoso gridìo; si cominciavano a sentire gli accordi dei flauti e dei violini.

—S'ha da cominciare questo ballo?—domandò il colonnello agli sposi.

Cesare si voltava per rispondere quando gli comparve dinanzi un ragazzo affannato, che voleva dir qualche cosa e non riesciva a tirar fuori la voce.

—Che cosa c'è? domandarono—Luisa e Cesare quasi spaventati.

—C'è....

—Che cosa?

—C'è che le bandiere che io avevo messo sul confine del podere, adesso non ci son più!

[Pg 488]

—Come? Perchè? Dove sono?

—Le hanno trasportate un mezzo miglio più in là, sull'altra collina...

—E chi è che le ha fatte trasportare?

—Indovinate.

—Chi?

—Il Re.

—Eccovi ricchi!—disse una contadina agli sposi.

—Musica!—gridò il colonnello colla voce tremante.

La musica cominciò; tutti corsero a ballare; Luisa e Cesare rimasero immobili come due statue.

—E voi altri?—domandò il colonnello più stordito di loro.

Si misero a ballare anch'essi.

Non avevano fatto quattro passi che Cesare gettò un grido, la musica cessò, e tutti s'affollarono intorno a lui domandando:—Che c'è? Che è accaduto?

—Mi s'è svenuta Luisa tra le braccia,—Cesare rispose; la sorreggeva infatti perchè non cadesse in terra.

Il colonnello s'avvicinò a Luisa e la chiamò per nome.

Luisa aperse gli occhi, guardò in torno, mise un sospiro e sorrise.

—Ah! non è nulla!—esclamò Cesare riavendosi.

—È stato un eccesso di gioia—soggiunse il colonnello.—Musica!

Ricominciarono a ballare.

Due ore dopo il prato era deserto e silenzioso. Qua e là, fra i rami degli alberi, risplendeva ancora qualche lumicino. Tutte le finestre della villa eran chiuse, tranne una, quella di mezzo, aperta e illuminata. Ci si vedeva qualcuno seduto colle braccia incrociate sul davanzale e la testa appoggiata sulle braccia: era il colonnello. Spirava [Pg 489] un fresco ventolino d'autunno, che faceva stormire le foglie dei castagni; la bandiera che sporgeva dalla finestra, sventolando, s'andava a posare di tratto in tratto sulla testa del vecchio; il cielo era stellato e limpido; lontano lontano, in fondo alla valle, si sentiva un canto confuso di molte voci, di momento in momento più fioche: erano i soldati che tornavano a casa.

Tutt'ad un tratto, una delle finestre a terreno s'illuminò e vi passarono due ombre; poi tornò buia.

—I miei figliuoli sono felici,—mormorò il vecchio porgendo l'orecchio al rumore dei loro passi;—io ho visto i miei soldati, il mio Re... Morirei tranquillamente così.

—Oh! no morire!—proruppe una tenera voce alle sue spalle.

—Ah! sei tu, mio buon ragazzo! Vieni, vieni qui fra le braccia di tuo padre! No, morire, no! Vivere! Vivere per te! Vivere ancora!

FINE.

NOTE DEL TRASCRITTORE


—Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.

—L'indice è stato spostato all'inizio dell'opera.

—La copertina è stata creata dal trascrittore ed è posta in pubblico dominio.