The Project Gutenberg eBook of I Bianchi e i Neri: Dramma This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: I Bianchi e i Neri: Dramma Author: Francesco Domenico Guerrazzi Release date: January 6, 2015 [eBook #47888] Language: Italian Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I BIANCHI E I NERI: DRAMMA *** Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) SCRITTI DI F.-D. GUERRAZZI. I BIANCHI E I NERI. dramma. FIRENZE. FELICE LE MONNIER. 1847. I BIANCHI E I NERI, DRAMMA. Tu porterai novelle di sospiri Piene di doglia e di molta paura; Ma guarda che persona non ti miri Che sia nemica di gentil natura. GUIDO CAVALCANTI. PERSONAGGI. BIANCHI MESSER GUALFREDI. MESSER GERI _suo figlio_. BIANCA _sua figlia_. MANENTE. GUIDO. NELLO, _ed altri Fanti_. UBERTO _capo di masnada_. VANNI. UGHETTO. BACCIO. DONATO _ed altri Masnadieri_. NERI MESSER LEMMO. MESSER DORE. FRA LOTTERINGO _cavaliere Gaudente_. UOMINI, _che parlano_. _La Scena: in Pistoia._ FATTO STORICO. «Nel 1300 la detta città (di Pistoia) haveva assai nobili e possenti cittadini, infra i quali una schiatta di nobili e possenti cittadini e gentil'huomini, li quali si chiamavano Canceglieri, et havea quella schiatta in quel tempo dieciotto cavaglieri a speroni d'oro, et erano sì grandi e di tanta potenza, che tutti gli altri grandi soprastavano e batteano: e per loro grandigia e ricchezza montarono in tanta superbia, che non era nessuno sì grande, nè in città nè in contado, che non tenessono al disotto; molto villaneggiavano ogni persona, e molte sozze e rigide cose facevano; e molti ne faceano uccidere e ferire, e per tema di loro nessuno ardia lamentarsi. Seguitoe che certi giovani della detta casa li quali teneano la parte Bianca, ed altri giovani della detta casa i quali teneano la parte Nera, essendo a una cella ove si vendea vino, et avendo beuto di soperchio, nacque scandalo intra loro giucando; onde vennero a parole, e percossonsi insieme, sì che quello della parte Bianca soprasteo a quello della parte Nera, lo quale avea nome Dore di messer Guglielmo, uno dei maggiori della casa sua, cioè della parte Nera. Quello della parte Bianca che lo avea battuto, avea nome Carlino di messer Gualfredi, pure dei maggiori della parte Bianca. Onde vedendosi Dore essere battuto et oltraggiato, e vitoperato dal consorte suo, e non potendosi quivi vendicare, però ch'erano più fratelli a dargli, partissi, e pruoposesi di volersi vendicare; e quel medesimo dì, cioè la sera a tardi, stando Dore in posta, uno dei fratelli di detto Carlino che aveva offeso lui, che aveva nome messer Vanni di messer Gualfredi, et era giudice, passando a cavallo in quel luogo dove Dore stava in posta, Dore lo chiamò, et egli non sapendo quello che il fratello gli aveva fatto, andò a lui, e volendogli Dore dare di una spada in su la testa, messer Vanni per riparare lo colpo parò la mano: onde Dore, menando, gli tagliò il volto e la mano per modo, che non ve gli rimase che il dito grosso. Di che messer Vanni si partio, et andonne a casa sua; e quando lo padre e' fratelli e gli altri consorti lo videro così fedito, n'ebbero grande dolore, però ch'egli era, come detto è, dei migliori del lato suo: ed anco perchè colui che lo aveva fedito era quello medesimo intra quelli del suo lato; di che tutti gli amici e parenti loro ne furono forte malcontenti. Lo padre di messer Vanni e i fratelli pensarono per vendetta uccidere Dore, e il padre e i fratelli e consorti di quello lato. Eglino erano molto grandi e molto imparentati, e coloro gli temeano assai, e tanta paura aveano di loro, che per temenza non usciano di casa. Onde vedendo il padre, e' fratelli, e' consorti di Dore che li convenia così restare in casa, credendo uscire della briga, deliberarono di metter Dore nelle mani del padre e dei fratelli di messer Vanni che ne facessono loro piacere; credendo che con discrezione lo trattassono come fratello: dopo questa deliberazione ordinarono tanto che feciono pigliare Dore, e così preso, lo mandarono a casa di messer Gualfredi e del fratelli di messer Vanni, e miserlo loro in mano. Costoro, come spietati e crudeli, non riguardando alla benignità di coloro che gli lo avevano mandato, lo misono in una stalla di cavalli, e quivi uno dei fratelli di messer Vanni gli tagliò quella mano con la quale aveva tagliato quella di messer Vanni, e diedegli un colpo nei viso in quel medesimo lato dov'egli aveva fedito messer Vanni, e così fedito e dimozzicato lo rimandarono a casa del padre. Quando lo padre, e' fratelli, e' consorti del lato suo, ed altri suoi parenti lo videro così concio, furono troppo dolenti: e questo fue tenuto per ogni persona troppo rigida e crudele cosa a metter mano nel sangue loro medesimo, e spezialmente avendolo loro mandato alla misericordia. Questo fue lo cominciamento della divisione della città e contado di Pistoia, onde seguirono uccisioni di uomini, arsioni di case, di castella, e di ville.» — Così le _Istorie Pistoiesi dal 1300 al 1348_, dalla Crusca tenute di anonimo scrittore, e nelle note all'ultima edizione dello Ammirato, attribuite a Iacopo di Franceschino Ambrogi. «Focaccia fu dei Cancellieri di Pistoia, e a tradimento uccise un suo zio. Nel 1300 erano in questa famiglia tre fratelli, e Focaccia, giovane audacissimo e di pessimi costumi, era figliuolo di uno di questi. Intervenne che, giucandosi alla neve, il padre di Focaccia percosse un suo nepote, perchè troppo acerbamente aveva con la neve percosso un altro fanciullo, e questo fece come a sua famiglia, sendo zio. Ma il fanciullo, più temerario e più maligno che non richiedea la sua età, dissimulò il dolore, e dopo non lungo spazio finse volergli parlare all'orecchio: chinossi il zio, e il fanciullo gli dette una ceffata. Dolsene il padre, che rimandò il fanciullo al suo zio perchè lo punisse a suo modo. Ma egli stimando che più non si bisognasse pel fatto di un fanciullo, in luogo di batterlo, lo baciò in volto, e rimandollo al padre. Ma lo scellerato Focaccia, suo figliuolo, tagliò la mano a questo fanciullo, dipoi corse a casa del padre, che era suo zio, ed ucciselo. Dal qual parricidio ne nacque tanto scandalo, che tutta Toscana ne fu molti anni tribolata, perchè di qui ne derivarono le parti dei Bianchi e dei Neri, che divisero prima Pistoia poi Firenze.» — Così il Landino, _Commento di Dante, Inferno_, Canto XXXII. «Era fra le prime famiglie di Pistoia quella dei Cancellieri. Occorse che giuocando Lore di messer Guglielmo e Geri di messer Bertaccio, tutti di quella famiglia, e venendo a parole, fu Geri da Lore leggermente ferito. Il caso dispiacque a messer Guglielmo, e pensando con la umiltà il torre via lo scandalo, lo accrebbe; perchè comandò al figliuolo che andasse a casa il padre del ferito, e gli domandasse perdono. Obbedì Lore al padre; nondimeno questo umano atto non addolcì in alcuna parte l'acerbo animo di messer Bertaccio, e fatto prendere Lore dai suoi servitori, per maggior dispregio sopra una mangiatoia gli fece tagliare la mano, dicendogli: Torna a tuo padre e digli _che le ferite con il ferro e non colle parole si medicano_. La crudeltà di questo fatto dispiacque tanto a messer Guglielmo, che fece pigliare le armi ai suoi per vendicarlo, e messer Bertaccio ancora si armò per difendersi; e non solamente quella famiglia, ma tutta la città di Pistoia si divise.» Niccolò Machiavelli, _Istorie Fiorentine_, lib. II. Certo, maraviglia non poca apporterà ai leggitori, il pensiero come per tanti scrittori siasi potuto tanto diversamente narrare un medesimo fatto. Quantunque però li citati sien quelli che viemaggiormente tra loro diversificano, ciò non s'intenda già che altri infiniti, o contemporanei o posteriori all'avvenimento, concordino; chè anzi trovammo esser varii, e negli anni in che accadde, e nel modo della ferita, e nella cagione del nome, e nelle persone eziandio. Simone della Tosa, negli Annali, parla nel 1300 di questa fazione come di cosa già da qualche tempo avvenuta, non pure in Pistoia, ma sì ed anco in Firenze. Paolino di Piero, nella _Cronachetta_, la rammenta nel 1297 al modo stesso di Simone. Tolomeo lucchese, vescovo Torcellense, negli _Annali_, ne deriva l'origine fino dal 1286; e questa opinione è stata modernamente seguita dal Pignotti e dal Sismondi. Per la ferita, osservammo le Storie Pistoiesi contare di uno sfregio sul volto, e di una mano tagliata per modo, che non vi rimase appiccato che il dito grosso. Tolomeo Lucchese tace del volto, e dice che tre sole dita furono recise; Il Machiavelli narra la ferita essere stata leggiera. Il Landino semplice percossa. La cagione del nome dal Salvi nelle _Memorie Storiche della città di Pistoia_, dal Fioravanti nelle _Storie di Pistoia_, dal Machiavelli e da altri infiniti, si attribuisce a due mogli che furono di messer Cancelliere, di cui l'una si chiamò Bianca, l'altra Nera. Dal Ferretto Vicentino alla diversa capelliera di messer Guglielmo e di messer Gualfredi, che nera quegli, bionda questi aveano sortito dalla natura. Nè manca chi la derivi dall'aver tolto una parte per divisa il Bianco, e l'altra, per opporsele meglio. Il Nero. Finalmente nelle persone; perocchè il ferito ora è Vanni, ora è Pelleri, ora è Geri, e il feritore or Dore, or Focaccia e or Lore. Non senza consiglio poi ci prese vaghezza di tutte questo cose discorrere, imperciocchè se Istoriografi eccellenti, il principale studio dei quali dovea porsi in ricercare la verità, hanno tanto e diversamente parlato di questo atrocissimo fatto, confidiamo non sieno per saperci malgrado i cortesi, se in questa Opera nostra, in che noi non facciamo officio da Storico, dilungati alquanto da tutti l riferiti racconti, narrammo la novella pur noi a modo nostro. ATTO PRIMO. Amor celato fa sì come fuoco Il qual procede senza alcun riparo; Arde, e consuma ciò che trova in loco, E non si può sentir se non è amaro. CINO DA PISTOIA. SCENA I. Luogo remoto dietro Damiata castello dei Cancellieri. È vicina l'_Ave Maria_ del giorno. GERI, MANENTE. _Geri_ Credi che in buio eternamente cupo, Simile a questo, senza fine il mondo Sarà sepolto un dì? _Manente_ Credo. _Geri_ E che un giorno La condanna tremando intenderai, Che in guaio interminabile t'inchiodi Giù nell'Inferno disperato? _Manente_ Credo. _Geri_ E credi ancora ch'ove il nuovo sole Diffonda il raggio su la fronte a Dore, Occhio di Dore non vedrà più sole. _Manente_ Geri, — pensate al fine. _Geri_ A qual mai fine? Se di vita, — fors'io temo la morte? _Manente_ No, vivadio, siete valente, o Geri, Come la lama di questo pugnale, Cui mai fu d'uopo raddoppiare il colpo. _Geri_ Che altro terrammi, or via, se non è morte? _Manente_ La pena degl'infami... _Geri_ O masnadiero, Poichè pria del capestro la speranza Scorgi, codardo, tra l'opra e la pena, Tal tu tremi: — non io: se un ferro stringo, Ei dee passare certamente un core, O lo inimico o il mio. — Parato a tutto, E fermo che ove più cadami in fallo, — Capo che tal si avvisa, indarno spera Starsi lunga stagion sul busto all'uomo. E poi — nullo qui vede, — eternamente Ei tacerà. — Chi bene ha fesso il core Lingua non snoda. _Manente_ E il sangue? _Geri_ Hai tu mai inteso Gridare il sangue? _Manente_ E Dio? _Geri_ Dimmi, Manente, Se' tu di quelli che perduto il cielo Temono poi l'inferno? A te sta a dire Di Dio, a te? Conta del ciel le stelle: Tanti, e più, sono i tuoi misfatti. _Manente_ E voi A vostra posta il ciel guardate: — un occhio Eterno veglia colassù che scerne Anco pel buio della notte; — un braccio Che aggrava il capo dell'iniquo. — Dite, Sapete voi quanto un delitto pesa? Vedeste mai quando lo stanco senso Lascia libera l'alma, appiè del letto Starsi un demonio che vi guata fiso, E ride, e aspetta al varco della vita Il fiato eterno per piombarlo dentro Allo abisso infinito? E voi pauroso, Chiamare e Cristo e i Santi; e di repente Scendere l'Agnol del Signore, e vôlto A quello delle tenebre: — Vediamo, Dirgli, a cui spetta; — e qui cavare un scritto Breve, in che stanno i merti, e l'Infernale Sporger volume immenso, e pieno tutto Di colpe, e all'Agnol dire: — Or va beato; Quando per fuoco sarà fatto puro, Riedi per esso; — e quei partirsi, e un guardo Volgerti, — un guardo che disvela tutto E l'inferno acquistato, e il ciel perduto. In questa l'Infernal ruinarti addosso, E stringerti alla strozza, e dalla fronte Graffiarti il crisma e conficcarvi il segno Di Caino; — e voi ansoso e a forza desto, — Esterrefatto trabalzar dal letto. Come lapide freddo, e andar cercando Al lume di una lampada conforto... _Geri_ Io ti credea senza rimorso: — all'opra Basto solo... _Manente_ Messer, che dite? — male O voi intendeste, od io parlai. — La porta Della misericordia è per me chiusa, Nè questo labbro, via della bestemmia, Può dir parola che suoni preghiera. Nè io, nè altri per me prega: — un'opra Saria perduta. — Guai! se un giorno io cesso Addensarmi sul capo la vendetta Dell'Eterno. — Guai! se un punto io poso; Disperato un pensiero allor m'assale. Feroce un'ira, — un'agonia di morte. Vivo di sangue come d'aere; — ond'io Nè vo' lasciarvi, o posso, chè su quante Son cose al mondo a me più grata è questa. _Geri_ Ben volea dir ch'io m'ingannassi. — Or dove, Dimmi, accennava il sermonar tuo dianzi? _Manente_ Tanto è lo stato mio tremendo, — è tanto Crudo, che in altri mi farla pietade: Deh! non saperlo tu. — A me l'incarco Di spegner Dore lascia, — a me che sono «Per disperazion fatto securo.» Il terzo giorno ciberò del pane Nel vin temprato su l'arca del morto, Nè i suoi consorti ancideranmi. — Questo Bastami. — Questo sol dal Cielo io chieggo; Più che possibil fia tardi — mi piombi Giù nell'Inferno. _Geri_ Oh gran mercè! — Ma quale, Dimmi; è il sapor della vendetta? _Manente_ Frutto Crear Dio, che il desso non volle. _Geri_ E ben volle. E a tor vendetta che daresti? _Manente_ Dove Per me non fosse chiuso, — il cielo. _Geri_ Or sappi, Questa cacciarmi tra le mani il ferro. _Manente_ Che! — V'offendeva Dore? _Geri_ Atrocemente, E sempre; — e l'odio, e lo vo' spento. Intendi? Alcun qui move, odi un mutar di passi; Vieni; — t'ascondi... _Manente_ Seguovi... _Geri_ Rammenta I dì che furo. _Manente_ E voi — quei che verranno. SCENA II. DORE, BIANCA. LI DUE SVENTURATI. LAMENTO. _Dore_ Torna il verno. — Le fronde alla foresta Svelle e mena feroce in giro il vento; È triste il colle, la pianura è mesta;[1] Dell'usignolo il melodiare è spento: Il veltro per la notte alza la testa Esterrefatto, e prorompe in lamento; Orrore spira ogni cosa e paura, Sembra che gema Dio su la Natura. Dai campi seminati di umane ossa Torna la squadra, e il trepido sospiro Cessa la sposa amata che si è mossa Al caro amplesso, ed il padre deliro Di abbracciare il figliuol pria che alla fossa Lasci la carne e a Dio l'eterno spiro. Securo che nel dì di morte santo Ei glieli chiuda, or terge agli occhi il pianto. Gino non torna a Oretta. Sventurata! La mano della madre il bianco velo Avea trapunto, e i fior di fidanzata Esultante reciso dallo stelo. Quella mano per morte ora è ghiacciata! Rigido stringe quei fioretti il gelo! La squilla i prodi alle difese affretta; Gino partiva e non tornò più a Oretta. Ei non reddiva più. La disiosa, — Come colei che il suo mal teme, e spera, — Ne fea dimanda: — Il cavalier riposa Nella morte, risposerle; — sua schiera Combattendo perì da valorosa, — Chè co' forti quel giorno Iddio non era. — Volse al ciel gli occhi Oretta, e dolce in atto Disse: — Signore, il tuo voler sia fatto. Buio d'Inferno per lo cielo assembra Notte, e sul mondo per silenzio tetro Solennemente spiegalo, e rassembra Manto di trapassato in sul feretro; E il cupo mugghio del mare rimembra Gente che pianga in lamentoso metro, Nè tutt'uom dentro le paterne porte Dorme il sonno fratello della morte. Per questa notte dubitante e lento Move Gino alla casa del suo amore; Chè giacque offeso e non rimase spento Nel giorno maledetto del furore. La casa è vuota, e sol vi stride il vento; Ond'egli grida in voce di dolore: — Oretta, — Oretta, non ti vedrò più! L'eco dei monti gli risponde — più. Sorge un dì senza sole. Il cavaliere Pallido in faccia e con occhi compunti, Mesto mesto incamminasi al piviere Co' bracci in croce sul petto congiunti. Giunge: — e Oretta dov'è? domanda al Sere; Quei cela il volto, e il campo dei defunti Gli accenna. Ei corre. — Novamente smossa Comparisce la terra di una fossa. È la tomba di Oretta. — Eterno pianto Con la rugiada spargevi Natura... Cessa la umana lagrima col canto Che accompagna gli estinti in sepoltura. Ahi! l'anima quantunque sotto il manto Di Dio ripari, e in lui si faccia pura, Se un pio ricordo l'Angiolo le porta D'alto gaudio anco in Cielo si conforta. Fioria modesto su la tomba un giglio Alla infelice vergine: — lo colse: — Tal tu passasti un dì; — qual mai consiglio Riporrà il fiore ove mia man lo tolse? Chi a rianimare Oretta trarrà il figlio Del soffio eterno ove disio lo volse? Qui Gino tacque: ora riposan l'ossa Di quei due travagliati in una fossa. _Bianca_ Mesto è il tuo canto, o Dore; è mesto come Pianto di madre che il morto sembiante Del figliuolo involarse per la polve Vede curva sull'orlo della fossa. — Donna del Cielo, ella è menzogna in core Del giusto un seggio aver la pace; e i deschi Fuggire, e i letti, ove riso di pianto Ride, e sonno di spine il fallo dorme? _Dore_ O mia diletta, e può turbar fantasma Di colpa lui che dal tuo sguardo ha vita? Celeste cosa son l'anima e gli occhi Tuoi, e allor che pietosi al ciel li movi, Ogni spirto li segue in paradiso. — Io son tranquillo, — ma di pace stanca. Giaccio, — ma non riposo, — e sento tale Una quiete, che sarà nel giorno Dell'ira, quando staranno il giudicio Di Dio tremendo ad aspettar le genti. _Bianca_ Dal profondo del cor volgiti a Dio; Chiama, e risponderà. — Qual madre sorda Fu al grido dell'infante? A quale afflitto Non sovvenne invocato il sommo Dio? _Dore_ Il libro della vita è scritto: — è fissa Del dolor la misura, e della gioia È destinata, o Bianca: — e noi siam fiumi; Rapidi discorriamo per la china Entro un letto fatal, finchè ne accolga Lo abisso della eternità. _Bianca_ Ma Dore, Voi fate ingiuria al vostro Dio. — Qual mai Fu il fattore che odiasse sua fattura? L'arbore ei dette della vita, e noi Cibammo il frutto della morte; — noi Liberi come il raggio del pianeta. — Se il sapere di Dio conosce il fine. Non però il move; qual uom su la riva Mira la navicella indirizzarse Secondata dal vento al suo cammino. _Dore_ Oh parole celesti! O Bianca, bella Come il sorriso della prima madre Quando innocente si specchiava in Dio; Tu sola degna di parlar dei cieli; Nè cor più puro, nè più santo labro Mai innalzò prece: e che mai dirti io posso? Il mio intelletto vinci, eppur da molti Anni mi è aperto il mio destino. — _Bianca_ Quale Ruppe il velo del tempo, ed il futuro Vide presente? — Forse tu, con arte Che il Cielo aborre? _Dore_ Turbare io la polve Che riposa? — Io turbar l'ossa dei morti Guardimi Dio! — Rammenta i giorni andati In che un tetto copriva i nostri padri, E non violato era l'amplesso, e quella Speme ei nudrivan ch'or contesa è ai figli... _Bianca_ Ahi che rammenti, o Dore! _Dore_ E pur rammenta La notte turbinosa in ch'io, chinato Il capo sul tuo grembo, ascolto dava Al novellare dell'antica Lena... Povera Lena! or non è più: — che Dio Faccia pace a quell'anima. — Repente Fu battuto al castello; — era un Palmiero Che chiedeva per Dio posare il fianco Sotto il tetto dell'uomo. _Bianca_ Oh se il rammento! Coi labbri che baciaro il gran sepolcro Ei mi baciava; — questa ch'ei donommi Portai sempre sul core.[2] _Dore_ Egli accostossi A noi, — la man c'impose: — E voi godete, Disse, il piacer della innocenza, e l'ora Della pace; — ch'ella è di vita il lampo, E le succede tenebra di pianto, Di misfatto di pena e di rimorso... Si volse, e lagrimò; — dal ciglio cadde La lagrima, io l'accolsi, e da quel giorno In questo cuore è viva. _Bianca_ Ei ben si appose: Non siam noi infortunati? _Dore_ Più tremenda Sventura io temo. _Bianca_ Ed è? _Dore_ Perderti, o Bianca. Gran Dio! non sai di quale amore io t'ami, Perchè non fu, nè sarà mai favella, Che valga a dire ogni pensier di amore. — Odi visïon che testè m'apparve. — Suonata era la squilla degli estinti, Ch'io fui tratto in misterioso sogno. — Pareami uniti andassimo l'amore Nostro a sacrar nel tempio: — il guardo volsi Su i comitanti, e non conobbi amico, Ma strani tutti; — aveano intento il ciglio, La pupilla velata; — al tuo bel volto Il raddrizzai, — tu non avevi il serto Di sposa, — eran viole; — e già sospeso Tenevi il piè per valicar la porta, Quando dall'alto tal mosse una voce, — Di tua madre era voce: — Vieni, o amata. Dalla valle del pianto al sen materno, Vieni, ripara in Dio. — E tu sorgevi, Qual portò la colomba olivo al giusto, Nel gemito dell'anima io ti chiamo, Ma tu non odi, e su le sante piume Di un immenso desio librata, voli Vie, vie più lieve pel sereno azzurro... L'anima afflitta ama seguirti, — scuote Di Adamo il carco, ma nol spezza, e tutta Anelante il dì eterno si dibatte Pei lacci della vita. — Tal mi sveglio Freddo, affranto, dolente, e il corpo e l'alma Sono una piaga. _Bianca_ Se nel cielo è fisso Che sia tale il mio fato, o Dore, vivi, Vivi alla patria, e ad alle cose intendi... Pensa alla madre Italia: — ella sospira Da lungo un figlio di lei degno, — indarno. Pensa all'Italia:... e... qualche volta ancora Deh! pensa a Bianca tua;... ma non sia quello Pensiero di dolor. — Nel ciel beata Godrò di tua virtude, e se mai avviene Nel giorno della gloria un'aura senta Aleggiarti soave intorno al volto. Di': — Questa è l'alma della mia diletta. Che fa omaggio di amor, siccome è dato Ad immortale. _Dore_ Oh! vivrà pria il creato Senza la stella che conduce il giorno. Eppure qui nell'anima mi suona Triste una voce che mi dice: Mai Più con la Bianca parlerai di amore; Mai più la rivedrai. — Quindi al cospetto Di Dio e di tua madre or sii mia donna. _Bianca_ O Dore! _Dore_ Se quest'alma da me fugge, Forza è che vada a secolo immortale Con la tua fede. _Bianca_ O Dore! _Dore_ Ecco l'anello Che dà una sposa al Cancellieri. — Il padre Mio alla sua lo concedeva. — A Bianca Porgelo Dore... _Bianca_ E nol ricusa Bianca; E t'abbi in cambio questo mio. — Dal letto, Ove giacea la moribonda madre, Questo raccolsi e un bacio. — Io con te lieta Il legato divido. — Ecco l'anello; Lasciami il bacio: — pago sei? _Dore_ Son pago. _Bianca_ Omai più rade e pallide pel cielo Fansi le stelle... Intendi?... il sacro bronzo Suona la prece del mattino;[3] sembra Che flebile lamenti su la luce Che sorgerà tra breve a illuminare Le sventure dell'uomo ed i misfatti. Donna del Cielo, ah! tu soave inspira Senso quaggiù; — tu di alcun fiore adorna Questo calle di spine; — i duri sdegni Vedi, e la gente che su questa zolla Si divora incessante. — Alfin la terra La inghiotte, e invano; — chè la nuova schiatta Sorge, e su l'ossa dei padri contende! Donna del Ciel, fa che la via del ferro Oblii la destra, e sol dell'uom si stenda A impalmare la destra. — Oh! non consenta Voce all'ingiuria il varco, e sol le labbia Suonino il verbo della pace; — salve Fratello. _Dore_ Così sia. _Bianca_ Dore, la gioia, Di Dio sia teco. _Dore_ O dolce Bianca, — addio. SCENA III. DORE. Travagliata nell'anima si parte Senza conforto. — Oh pace almeno al giusto! Sul letto della vergine dall'ale Scuota l'Agnol di Dio i sogni vaghi Dei colori dell'iride. — Signore, Se la misura del tuo sdegno è colma. S'è ver che i figli den portare il peso Dei paterni misfatti, — ecco io mi t'offro Vittima espiatoria, — alma per alma, — Sangue per sangue; — fulmina, ma cessa Dalle vendette... e perdona. — Son tristi I figli tuoi... son crudi... ma infelici; E tu sei padre alfine... Dio, perdona! SCENA IV. GERI, MANENTE, E DETTO. _Geri_ Senti amasio quadrel di amore è questo?[4] _Dore_ Ahi traditore![5] E tu se questa è pena A tradimento. _Geri_ Son morto!... _Manente_ Non senza Vendetta... _Dore_ Oh quanti siete! Iddio m'aiti. _Manente_ E me l'inferno.[6] — Cavalier, mercede Per Cristo! _Dore_ Tolga il ciel, che in te si brutti Ferro onorato: — ti aspetta la scure. — Vivi, e se puoi, ti penti. SCENA V. GERI, MANENTE. _Manente_ Niun qui geme. — È trapassato... _Geri_ Manente! _Manente_ Vivete? Io vi facea tra i morti. _Geri_ Ah! dammi aita, Ferma il sangue che spiccia... Ahi questa è piaga, Che se altra è più mortal, nulla è più acerba. _Manente_ Gagliardo egli è quest'uomo Vostro![7] _Geri_ Quindi Più mi grava di spegnerlo. _Manente_ A quest'ora Poco spazio di terra avria sepolto Il trafitto, il misfatto e la memoria; — Ma io vel dico, voi — mai sarete un uomo. La buona spada innanzi al sol combatte, E dà in petto al nemico; — ma il pugnale Le tenebre ama e il dosso: — più veloce Quindi è la via che mena dritto al core. _Geri_ Vivo; — la sconterà. _Manente_ Ma intanto il vostro Sangue per lui tigne la terra... _Geri_ Vivo. Breve di pochi dì tremenda vita Io gli apparecchio, e morte disperata. ATTO SECONDO. E sì distretto m'ave in suo disire Lo core mio, che dallo suo pensare Un'ora solo io nol porria partire, DANTE DA MAIANO. SCENA I. Sala interna di Damiata. Spunta il giorno. GUALFREDI _al lume di una lampada legge una nota di proscritti_. E voi morrete, — Tedici, Lazzarri, Rossi: già foste amici, or troppo grandi Siete: — io non v'odio... ma perchè importuni Ove a posare ho il piè poneste il capo? Voi perirete. — Lemmo Cancellieri! Il figlio di mio padre! Il mio fratello![8] Uno stesso alvo!... un sangue stesso!... il nome! Di mie vigilie o lampada compagna, Vinta del sole al mattutino raggio, Sembri la Vita;... scintilla di eterno Lume... di vile umor figlia, che splende Nell'ombre: — sembri il tempo, che misura I pianti lunghi, il breve gaudio, e scava Le fosse. — O tempo, o vita, e che mai siete? D'immota eternità mobili figli, Tenebra di sepolcro, ombra di morte. — Ma ed io sarò un eterno? Qui di forma Muta tutto e non muore. E il mio giudicio?.., La mano tinta di fraterno sangue Arderà nell'Inferno... io fratricida... No, — non sarò.[9] Fratello, vivi, e quando Ne dovessi esser morto, e a vituperio Per le vie tratto, e alfin gittato ai fossi, — Vivi: — ciò tu non sai, ma io ne son lieto. Dunque vero è che un oprar bello, ov'altro Manchi conforto, alto a se stesso è premio? Ma io non posso esser giusto, — non posso. Nello... Guido! SCENA II. NELLO, GUIDO, E DETTO. _Nello_ Messere. _Gualfredi_ Il figliuol mio? _Nello_ Non giunse ancora alle paterne case. _Gualfredi_ Vagare innanzi dì per la foresta Forse disio prendevalo? _Nello_ Messere, Noi l'aspettammo tutta notte indarno. _Gualfredi_ Che!... gran Dio! Certo un qualche grave malo Lo incolse... in qualche perigliosa impresa Si cacciò male ardito... ahi! forse ei cadde. Tu perchè pria non mel dicevi? O figlio, Per darti stato a fiero passo io metto L'alma e la vita mie, e tal sì acerbo Tu mi rimerti? — Seguimi. _Nello_ Pensate. Ch'ora sia questa a uscir soli: — il nemico Però non dorme, e il capo vostro ha messo A prezzo. _Gualfredi_ Vieni... ch'ove tremi un padre Pei dì del figlio, non paventa morte... E già mi è troppo questa vita grave, Che vedovato strascinar la possa Del figlio mio.... SCENA III. GERI, MANENTE, E DETTI. _Geri_ Vosco sta il figlio... _Gualfredi_ Oh vista!... Tu se' ferito... ell'è mortal la piaga?... Chi t'offendeva?... Guido, il ferro mio... Tu corri... va per mastro Dino, Nello... Parla in nome di Dio; chi ti trafisse? Nello, ma Nello, la mia spada dammi? _Geri_ Rimanti, — lieve è questa piaga; — Dino Videla, un tal suo farmaco vi appose. Sì che ormai n'è la doglia al tutto spenta. _Gualfredi_ Ma il feritore... il feritor?... _Geri_ Lo taccio... _Gualfredi_ Svelalo... _Geri_ Padre!... _Gualfredi_ Se il mio amor t'è caro, Se grave t'è lo sdegno mio, lo svela. _Geri_ Quanta angoscia di pianto e di vendetta È per uscirne... _Gualfredi_ Non ti calga,... il noma. _Geri_ Egli consorte è nostro... _Gualfredi_ È Lemmo? _Geri_ È Dore... _Gualfredi_ Schiatta iniqua!... vil serpe!... io calpestarti Potea... nol volli... Maladetto l'uomo. Che vede il serpe e nol calpesta. — Oh spenti Siate voi tutti, ribaldi![10] ricada Il vostro sangue su la vostra testa... Sali il mio buon destriere, o Nello... sprona Al mio castello; — trova Uberto; — digli Che mova tosto, — che tra sesta e nona Con le masnade armate io qui lo aspetto... Parti, — vola. — E non se' partito ancora? — Ora tu dimmi, il fiero caso come Accadeva? _Geri_ Poichè disio vi prende Saper la triste istoria, e a vendicarvi Siete parato, — io ben volenteroso La vi dirò. — Con nera opra il codardo, Ordita in grembo della notte, d'onta Volea coprirci tal, che da qui innanzi Senza arrossire non osasse il volto Alzare un Bianco;... un redivivo... eterno Portare obbrobrio... una infamia infinita In casa di Gualfredo Cancellieri... _Gualfredi_ Onta a Gualfredo! _Geri_ E svellerti dal seno Paterno il capo diletto di Bianca... Spietato!... _Gualfredi_ A forza?... _Geri_ Oh! femminil talento Fievole è cosa, e più che d'ira, degno di pietà... _Gualfredi_ Dunque consentia colei?... _Geri_ Dai ribaldi travolta, con parole Dolci di pace vinta, ir si lasciava Semplicetta alle frodi... _Gualfredi_ E tu? _Geri_ Li colsi Al varco, — ruppi il nequitoso fatto. — Di lieve piaga ebbi la mano offesa. Ma di profonda il core. _Gualfredi_ O scellerata Figlia! Oh disdoro della casa mia! L'ora tua estrema è suonata... la gente Dirà a un punto il tuo fallo e la tua pena; E che Gualfredo tra il delitto pose E la tua morte quel tempo che vuolsi A trarre un ferro, e a trapassare un cuore. SCENA IV. UN SERVO, E DETTI. _Servo_ Messere, un uom, _Gualfredi_ Che vuole? _Servo_ A grande istanza Favellarvi... _Gualfredi_ Che rieda a vespro. _Servo_ Ei disse, La sua bisogna oltre ogni pensier grave Non dare indugio, e dove or non lo udite, Ei mai più tornerà. _Gualfredi_ Lo conoscesti? _Servo_ Io nol conobbi: a grande studio il volto Col mantel cela. _Gualfredi_ Or chi fie questo? — venga. SCENA V. DORE, E DETTI. _Dore_ Se Dore Cancellieri... _Gualfredi_ Iniquo! muori... _Dore_ Partecipate il retaggio dell'empio: Un innocente trucidate. _Gualfredi_ Il tuo Ferro scaldossi per entro le vene Del figlio mio, e se' innocente? _Dore_ Sono: Alla morte di Dio, lo giuro. — Questo[11] Mi svelava il misfatto: e per comando Del padre, solo, senza compagnia, Con la coscienza che sol mi francheggia «Sotto l'usbergo del sentirsi pura» Venni a mercè d'involontario fallo. — Assalito per l'ombra... a tradimento... _Geri_ Certo, assalire io ti dovea per l'ombra, Però che figlie di tenebra sono Le opre tue bieche... In grembo della notte Ogni codardo rapace l'artiglio Dispiega; e tal ti argomentavi Bianca Menarne, e farci infami... _Dore_ Ove non foste Voi mio consorte, e me solo offendeste, Altra risposta io vi daria che motti. Ma voi sozzate il vase del Signore, Sfrondate il giglio di Pistoia, quind'io Favellerò di queto: e posto ancora (Guardimi il ciel!) ch'io proponessi cosa Di lei non degna, avriami ascoltato ella? Bianca! — creatura che si piacque Dio Formar perfetta, onde di lui memoria Rimanesse quaggiù. L'amo, ma di alto. Di magnanimo amore io l'amo; — e dove Il ciel compagna la mi desse, ah! suora, Sposa, madre, per me tutto sarebbe; L'adorerei sì come cosa sacra, Nè direi più che questa vita è un pianto, Una scuola di angosce; ma una via Sparsa di fior che tra il diletto mena Alle gioie immortali. _Geri_ Oh! pria di morte Sposa che tua sarà... _Dore_ Geri, mi odiate, Il so; — pur io non vi offendeva mai. Membrate un fatto o un detto che in ingiuria Vostra da me movesse; — A correr giostra Certo talora, od a ferir torneo Vi soverchiava; — ed io per me non veggio, Oltre quest'una, altra cagion dell'odio Vostro atroce: — se ciò fosse, — sventura Al dì che appresi a trattare asta e spada! Sventura al dì che ferir l'uomo io seppi Con ferita immortal... con la vittoria!... _Geri_ Tu te ne menti: e quando mai vincesti Geri tu?... _Dore_ Mento io? — Queste labbia ignote Sono a menzogna, perocchè una sede Eterna ha su le tue. — Sul ver ti punsi; Ma se di un Cancellier figlio tu sei, Rammenta i giorni andati, e su la polve Pensa di quelli cui perpetua impresa Fu nella vita, ed ultimo sospiro Nella morte l'Italia, e tu pur anco Prode sarai; — e nel dì della battaglia Vedrai l'ombre paterne confortarti; — Udrai la voce che raddoppia il core, L'alito sentirai della vittoria. — Ma per invidia non si sale in fama. — Dagli stellati seggi nello abisso Giacque della tenebra chi astiando Avverso mosse al suo Fattore: — or l'astio Con Satano accomuna; un giorno ancora Avrai pena comune... _Geri_ Ormai più modo Non ha lo sdegno: — t'accomanda a Dio, Ch'or sei morto... _Dore_ Al ferire un uom senz'arme Ti riconosco... _Gualfredi_ Vivaddio, t'arresta![12] Hai morto il senno? — Queste mura senza Periglio a voi non sono: — andate, — e dite Al padre che di pace e di perdono Parole omai correr tra noi non ponno; — Che non più di una terra il fosso stesso Può rinserrarci, e nudrirne di un cielo Medesmo l'aere; — che di noi due, l'uno Da qui innanzi dee piangere, ed il giorno Maledire in ch'ei nacque. — Uno sterminio, Ditegli, in breve, una guerra di morte Io moverogli contra, ond'ei si guardi S'egli è vero che il dritto esalta Iddio. _Geri_ Non fie lieve così lo tuo commiato Da queste case. —[13] Altra ben'io di vostra Morte, tra breve, da costoro ordita, Trarrò vendetta. — Tu sappi per sangue, Per parole non già, piaga sanarsi; E l'anima tua... indegna che per questo Mio pugnale sia sciolta. — A te, Manente, Sotto pena di cor lo affido. _Dore_ Forza Mi fate voi? ben mi aspettava a questo. — Gualfredo, e il consentite? — Intendo or come Più che crudo esser frale è maggior danno; — Ma e bene intendo qual pena, e qual merta Pietà. — Gualfredo, per qualunque evento In vostra casa possa incormi, — io prego, Che conto un dì non vi domandi Dio... Io vi perdono... or lo sdegnate? — Un giorno Questa parola, più che prece e pianto, Misericordia impetrerà... _Manente_ Nè chierco Mai sermonò così soave, o frate. Venite al premio... _Dore_ La trascorsa notte, S'io mal non veggo, ti salvai la vita? _Manente_ Oh! tristo me, ch'io son di mente lassa; — E questo antico è sì, che omai non merta Membrarlo. SCENA VI. BIANCA E DETTI. _Bianca_ Empio, che fai! — lo meni a morte?. Non dà la terra a nudricarti il frutto? Non il liquore a dissetarti? — Il sangue Perchè e le membra dell'uomo desii? Oh! se dischiusi nuovamente i cieli Piovessero l'oceano della morte, E lo spirto di Dio fosse su l'acque Gridando: — Il giusto è salvo; si vedria L'arca pei mari di virtude in terra Segno, e di pietà in cielo, — o spenti tutti? _Manente_ L'arco baleno è un patto a più colori Che mi toglie il sospetto. _Bianca_ O padre mio, Son queste le promesse, i giuri questi. Che al letto della morte, ove la estrema Ora vivea la madre mia, faceste? Desioso di Dio, pur su la soglia Della vita fermavala un pensiere Di angoscia; a voi si volse, ed al perdono... Vi confortò del sangue vostro... e: Vedi, Disse, Siam polve,... la mercè di Dio Non fie a lui che visse odiando in terra... Voi piangevate, chè la pieta il varco Avea tolto alla voce; allora un lampo Vestì di gioia il volto alla beata, Compose il capo alla quïete eterna, E scosse l'ale al sempiterno riso... I labbri intanto della morta spoglia Parea pur sempre dicessero: — pace. — Spirto beato, dai stellati seggi Ove sei santo, a questa terra un guardo Volgi, e vedrai di quale amore il sangue Si ami dei Cancellieri; — e qual conceda Pace e perdono il tuo consorte. — Padre... Pensate che possa giurare invano L'uomo ai suoi morti? _Geri_ Or chi fie mai che nieghi Mastro gentile ai bei concetti amore! _Bianca_ Amore? _Geri_ Sì, — forse non ama il nostro Nemico Bianca? _Bianca_ Io... del Signor l'amico Amo; — inimico a nullo, io Dore amo; Nè tale è questo amor che voglia starsi Celato, — e al padre, e a te non pur, ma al mondo Io vorrei dire l'amo. — Oh a quello amore Guai! che di farsi manifesto adonta, O già fatto è delitto, o se ne appressa. _Gualfredi_ E lieti giorni e avventurosi Bianca Stimi trarre con Dore? _Bianca_ Avventurosi! — E chi lieto è quaggiù? — Non è ella prova Di pianto questa vita? _Gualfredi_ E qual conforto Or ti fie dunque averlo a sposo? _Bianca_ Un fuoco Che nudrono le vergini in onore Di Nostra Donna è l'amor mio, — modesto Sì, ma immortale: — la ragion non vince, Eppur sento che dove a sposo Dore Dio mi consenta, io gli dovrò tai grazie, Quali di suo più grande beneficio... Ma poichè la ventura a tal ne mena, Ecco prostesa in voi m'affido io tutta. Proferite giudicio: od all'amplesso Tornate il fratel vostro, e fie suggello Il mio nodo di pace; o consentite Ch'io al Ciel mi renda. Oh! non già lieve questo Sarammi; — ma un pensiero mi conforta: Più che sovra i felici il guardo intende Sovra gli afflitti Dio. _Gualfredi_ Sorgi... la mano. Che stringere desii di sangue è tinta, — Sangue del fratel tuo. — _Bianca_ Sangue!... chi il dice? Ella è innocente... _Dore_ Io questa mano, il giorno Delle vendette, francamente a Dio Per supplicarlo innalzerò; nè traccia Perenne è questa, perocchè non grido Di colpa, ma consiglio di natura Scorse la mano;... e la natura è figlia... Di Dio.... Mi striscia su le carni un ferro, — Percuoto nella tenebra... Per quanto È più nel cielo e in terra sacro, il giuro, — Sono innocente. _Bianca_ Cancelliero, il giuro È mala prova d'innocenza: — il fallo Al par lo adopra, e più. — Ben ti credo io, Ma sposa — finchè il mondo non conosca Te non essere un tristo — ch'io ti sia, Impossibile è cosa. _Dore_ In questi luoghi Volea tenerne il cugin nostro — a forza: Or volontario rimarrommi; e a voi, Gualfredo, il carco di chiarir se Dore Un fellon sia concedo; — e dove tale Non vi appaia, se voce di consorte Puote in voi nulla, — priegovi — torniamo Amici, deponiam l'ire fraterne E le contese, onde la gente dica: Ben serba il Cancelliero alma sdegnosa, Ma volentier perdona.... _Gualfredi_ Benedetta La pace che da lungo invan sospiro! — Figli... figli... Or deh, Bianca, alle tue stanze Riedi; — voi, Dore, nelle mie vi state: — Dei vostri padri è questa casa, — e vostra; Ogni timor quindi sbandite. — In breve Tornerò a voi. — Sappiate intanto ch'ove Pieni non sieno i desir vostri, certo Non fie per me che voi non siate lieti. _Bianca_ Parmi, o benigno il ciel s'inchina? _Dore_ Il voglia Iddio, ma non mi affido: — ad ogni evento Amami. _Bianca_ In cielo, dopo Dio, te primo. — _Dore_ Bastami. — Or va, ch'io son parato a tutto. SCENA VII. GUALFREDI, GERI. _Gualfredi_ Non periranno i Cancellieri.[14] — Figlio; Molte io fin qui sopportai cose in vostro Danno e mio da voi fatte, e pur di nulla Tanto mi dolgo quanto di questa una Che oggi faceste in mia presenza. — Or giovi Membrarvi, — Dore qui securo starsi Con la tutela del mio nome, — solo Esserne signore io; — e da qui innanzi Senza periglio non poter voi a scherno Torre la santa autorità paterna... — L'evento della notte... _Geri_ Udite cosa Che ultima vo' che in questo sia. — Gualfredo, Poichè al mio detto non fidate, e in dubbio Ponete la mia fe', non dirò verbo In difesa... io disdegno... _Gualfredi_ Oh! mal conviensi Disdegno in ciò, — ma si vorria ben onta Pria di mal fare. — Or vel ripeto, — sono Signor supremo io qui. — Voi fate senno Di mie parole, e pensate allo stato Cui, se ben veggo, non vi chiama il cielo. SCENA VIII. GERI. Nè a virtù tutto, — nè a delitto tutto: — Tra il Caino e l'Abele... A me è conteso Spegnerti o Padre: ora mi chiama il fato Tuo mal grado a ferire, e strascinarti Per una via di sangue al mio disegno. ATTO TERZO. . . . . . . . . . . . . . I lor tetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quasi spelunca di ladron son fatti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E tra gli altari, e tra le statue ignude Ogni impresa crudel par che si tratti. Deh quanto diversi atti! Non senza squille si comincia assalto Che per Dio ringraziar fur poste in alto. PETRARCA. SCENA I. Scena come nel primo Atto. È giorno. UBERTO, VANNI, UGHETTO, DONATO, BACCIO, ED ALTRI. _Vanni_ Poichè ne amate come figli, noi Qual buon padre non men vi amiamo, Uberto: Quindi è il piè in staffa, ed è la lancia in resta Al tuo comandamento; che buon dritto, Ragion, giustizia è a noi tuo cenno, — tutto. Pur, se ne assenti, a che ne hai tu condotti? A che venimmo? _Uberto_ Lo sapete voi? Certo non io. _Ughetto_ E fa mestier domanda? Non ella è aperta nostra sorte? — Amati, Reveriti, diletti oggi, e percossi Dimane, — come verga che alla pena Del figlio il padre innalza, e ov'ei si umili, Ridivenuto pio questi l'amplesso Dischiude del perdono, ed è la verga Tronca gittata a terra. _Vanni_ O come cane, Cui per la belva presa toccan'ossa Sovente e battiture. _Uberto_ Vanni, duolti Seguirmi? — rifà i passi, — io non ti tengo; Ma in ciò pon mente, nulla a perdere hai. Tua non è quella veste che ti copre, Tue non sono quell'arme; e appena appena L'anima è tua. _Ughetto_ Il non acquisto a noi Perdita è certa. _Vanni_ Dunque è destinata La vita nostra a far siepe ai codardi? — Nella promessa, ove li prema il danno, Infiniti: perchè, securi, il prezzo Non den pagar del sangue? Non si dona L'anima, ma si vende. _Donato_ E qual sia angoscia Sapete, Uberto, allorchè di compagni Scemi tornando a casa, alle accorrenti Donne null'altro possiam dir che: — Gemma, Prega requie allo sposo: — Agella, il padre Piagni: — e tu, Spina, non vedrai più il figlio. Sposo... padre... figliuol, son morti. _Baccio_ E l'onta Di farsi al tempio, e non potere offrire Al Signore che preci? _Vanni_ Arrogi al danno Lo strazio. Altra fiata i Cancellieri Chiamârmi, e Guelfi e Santa Chiesa e Papa Voller ch'io urlassi; — in questa un uom, con voce Geri additando e con mano, mi dice: Va, ponlo a morte. — Io lo facea; — quand'ecco Dore giungermi addosso, e tal di un stocco Darmi sul capo, che se Dio non era, E la barbuta nuova, ei mel fessava Fino al mento. _Ughetto_ E me pur poneva Geri, Onde tra l'arme non patisse oltraggio, (Tale almen disse), a guardia della donna Del giudice Benozzo, allorchè mosse Ratto a mia volta con sua gente Lemmo, E a vitupero mi cacciava. — Io solo Era; — nè basta incontra a' molti sdegno: Ritrassi il piè, ma me la cinsi al core. _Vanni_ Noi siam fratelli d'ingiuria: volete Essermi di vendetta? _Ughetto_ Anzi mi è grato: Mi vi lego per fede. _Vanni_ Ecco la mano. _Uberto_ O prodi, o forti, proseguite or via. Ma al ciel fo voto, che di voi qual parta Sì dalla insegna, che non oda il cenno Di mia voce, — saprà che all'arcion posi Pria di partirmi un capestro, e il contado Nostro molti nudrire alberi, ed alti. Per trescare una danza in campo azzurro. Non ordin fisso, non comando, o voce Di condottiero, ma furore, e rabbia Di vendetta, e ingordigia di rapina Guidanvi a queste guerre. — Per voi stessi Rotti, un timore di breve ora siete, E di vostra miseria una perenne Fonte. — Cacciare voi potete Uberto, — Trucidarlo anco; — ma finchè le vostre Voci mi appellan duca, — voi dovete Obbedirmi... _Donato_ Egli il ver favella. _Baccio_ È giusto. _Ughetto_ Buona milizia è questa. _Uberto_ E non sono io Lo padre vostro? e voi non siete i figli Miei? — la forza mia sola? A me lasciate, A me il pensier di farvi lieti. Io — nulla Son senza voi; voi — senza me. Ci stringe Necessità più salda assai di amore. — Fidate in me. _Donato_ Fidiamo in lui. _Baccio_ Fidiamo In Uberto. _Ughetto_ Il buon duca. _Vanni_ Viva Uberto! _Tutti_ Viva! _Uberto_ Ed a voi, qual può maggiori, Uberto Rende grazie. — Ma Geri i passi affretta Or ecco qui: tacetevi, e in disparte Fatevi, che non ama aprire a tanti La sua mente il signore. SCENA II. GERI, MANENTE, E DETTI. _Geri_ Ben ne venga Uberto, e ben con esso la masnada. — Nulla t'incolse al venir tuo molesto? _Uberto_ Nulla: — al comando di Gualfredo io mossi Ratto, e se mal non veggo, il suo disire Parmi ho precorso. _Geri_ E di ciò grande t'abbi Mercè. — Ti appella in questi luoghi un alto Consiglio; — e poichè il padre di altre cure Gravato or si sta lunge, — io pianamente Vo' chiarirti di tutto. — A tale impresa Vuolsi or por mano, in che il periglio scema A misura del core. _Uberto_ Ed io parato Pel piacer vostro sono a tutto. _Geri_ I Guelfi Non ti dirò perchè altra volta, e Roma, Chiamato a tutelar venisti, e come, Anzi che pro, te ne arrivasse danno: Perocchè ingrata questa terra tenne Vostra vita un tributo e il sangue un dritto. Giova gridare Impero, e i Guelfi adesso Cacciare in bando. _Uberto_ Ma che Pisa è un nome Pensaste mai, — Guelfa Fiorenza, — e starsi Sul roman seggio Bonifazio ottavo? _Geri_ Me' si sanno in Pistoia che in suo contado Queste novelle, Uberto. — I miei consorti Fatto han com'io di lor gente adunata, E di amistadi; e se un menar da franchi, Un assalire alla impensata i nostri Nimici a cacciar valgono, ella è vinta Tutta la impresa. _Uberto_ Io non comprendo. _Geri_ Lieve Fieti però quando saprai, Fiorenza Ordir la trama istessa, non diversa Argomentare Lucca, e a questa volta Venir con mille cavalier tedeschi Dell'imperio il Vicario: — il modo poi Di correr la città non anco è fisso; Quando fie tempo lo saprai. — L'impresa Questa è, — perigli questi: — or vo' che il premio Sappi — di patria non dirò, — di amici Meno, — e non pur della romana soma... Motti vani, novelle da contarsi Dal querceto alla rupe. — Un più securo Consiglio or teco valgami, che al core Ti giunga dritto. _Uberto_ Ed è? _Geri_ Lo tuo pro istesso: Però che farai tue le ricche spoglie Degli usciti, e i tenèri; e dove prima Errante masnadiere alla campagna, Or tolto al soldo del Comune avrai Stanza e vita secure. _Uberto_ Oltre il diletto Di farvi cosa che vi aggradi, voce Per me non suona sì soave, quanto Cangiar fortuna, come quei che traggo Dura vita, non certa del dimane, Ed appena dell'oggi. _Geri_ Or ben precorri Il premio tuo con la speranza. — In modo Vo' far che ti dirai contento. _Uberto_ Geri!... Poichè in periglio vita io pongo certa, Parmi, securo in ugual modo il premio Dovrebbe essere, e certo. _Geri_ Uberto!... il senno Vienti meno? — Ti chiamo nella terra, I miei ti affido, e me. — Signor di tutto, Securtà chiedi? _Uberto_ Che non sia dell'altre La mia testa più alta, — amo; — starmi Sublime senza scala, — temo; — e soglio Senza guatarla attraverso lo raggio Vuotar la tazza. M'intendete? _Geri_ Intendo. Se savio sei, ti guarda. _Uberto_ Dal nemico Mi guardo, — perocchè quando ei più presso A me verrà, che non la spada ho lunga, Freddo sarò; ma dalla man che blanda Par che si accosti a carezzarti il mento, E ti rompe la gola, chi ti guarda? _Geri_ Tanta astrattezza ricercar che giova? Noi non concerne: — il mio fedel tu sei, — Dovizioso per me; — dove fatto Tale, non fora ch'io ti muti certo Con nuovo impronto, che di te men valga. _Uberto_ Sia. Ogni uom suo sentier corre; io corro il mio, Pensando che sul letto della morte Alto conforto pel tradito è questo, Ch'ei può legar la sua vendetta. — Geri, Son vostro. _Geri_ Va, — nelle terrene stanze Tacito statti del castello; — all'uopo Quanto fia troverai. — Lo duca vostro Seguite voi silenziosi, come Sorprendete il viandante alla foresta. — Tu gli conforta a bene oprar la spada. _Uberto_ L'hanno tutti a due tagli. SCENA III. GERI, MANENTE. _Geri_ Ei vuol morire. Poca per celar sapienza, e ingegno Per conoscere ha troppo. Or tu ben nota, Manente; al terzo grido per lo Imperio Pon fine alla bisogna; — e tal ti adopra, Che al colpo primo la si spacci: — in modo Farò che Bianca non si opponga. _Manente_ Questo, Vel dissi io già, non lo raddoppia mai. _Geri_ Una volta mancasti. — Altrove io corro A vegliare. Ricorda... al terzo ei... _Manente_ Cada. SCENA IV. MANENTE. Facciamo i conti. — Mi torna ch'ei cada? — Debbo esser tristo traditore, o tristo Fedele? — Tristo sempre! — Parmi il meglio Torre il bel vanto di restar fedele... Ecco come s'accoppia al maleficio Virtude, e come ogni uom può dirsi onesto. SCENA V. BIANCA. Di arme un suono qui intesi. — Ah! m'ingannai. — Se come scellerata io son punita A inaridirmi nel sospetto, questa Innocenza che giovami? — Versato Fu il sangue qui del mio fratello... O terra, Dal dì che l'empio diffuse la prima Morte sul volto all'uomo, tu bevesti Più sangue che rugiada; eppur vestita Di luce, — eterna in tua beltà sorridi, E pietosa raccogli entro al tuo grembo E i giusti e i tristi — tutti! — È la tua faccia Cener di morte: — calpestiam la polve Dei padri noi, — calpesteranno i figli La nostra... O terra, una gran tomba sei! Non pertanto sorridi... Oh! quanto meglio Era non esser nati. — Ecco il vestigio... Dio già lo vide... Oh! a te non sorga il grido Di vendetta da questo... e s'ei surgesse... Non ascoltarlo, — no, — rimanga inulto; — Fu sparso senza offesa: — ma nol vegga La gente... deh! nol vegga... Oh! se uomo mai, Questo luogo accennando, e altrove il volto Per orrore volgendo: — Un Cancelliero, — Dicesse, — là trafisse un Cancelliero, — Oh I quanta infamia: — celisi, — nol vegga La gente, — deh! nol vegga.[15] SCENA VI. LEMMO, E DETTA. _Lemmo_ Perchè quello Che in pensando il tuo cor freme, — in altrui Vuoi sospettar? — Questo non è nè giusto Nè onesto; e il nome nostro delle genti All'orecchio fin qui non suonò infamia. L'anima sconfortata nel dolore Non ode l'argomento della mente, Nè palpito paterno ragion vince! — O auguste mura dei miei padri, — un giorno Men superbe sorgevate, ma certo Di tutela ospital, di cortesia Vi riparava il perseguito, — certo Delle oneste accoglienze il cavaliero; — Come della innocenza e del valore Al sacro asilo tutti. — Men superbe Sorgevate: — ma or son del signor vostro Le notti tutte quiete? — Il pianeta Vi schiara sì; — ma non v'allegra; — cade Suo raggio sopra voi, come su l'arca Del potente defunto. — O patria mia! Da quei muri esce un grido di minaccia; Però che guai alla terra ove castello Tal'erge il cittadin che può oppressarla: Guai! In breve, o il suo signor fia per te spento, Od ei ti fie tiranno. Insomma questo Dee pur finire in pianto... — Or parmi, e certo Scorgo una giovanetta in alcun'opra Intesa tutta: — oh! se della famiglia Di colui fosse cui nomar non oso. Fratello, — a lei chieder potria di Dore... — Gentil donzella, se benigno il cielo... _Bianca_ Gran Dio! qual voce è questa! Lemmo!... _Lemmo_ Tanto Nei miei consorti può l'odio, che desti La mia voce terrore? _Bianca_ Amor la voce Vostra, ed amor dolcissimo risuona Su l'anima di Bianca. _Lemmo_ Tralignato Non è il buon seme di colei che madre A te, ed a me dolce cognata, or siede Su in ciel santa. Or deh! dimmi: — il figliuol mio? _Bianca_ Degli avi suoi nella casa securo Vive. — _Lemmo_ Se come bella sei cortese, Non l'odii tu? _Bianca_ Odiare io Dore! _Lemmo_ Arrossi? — Tanto ti grava un pensiere di pace, Che a diffonderti valga su pel volto Il colore dell'onta? _Bianca_ Ahi! duro detto. _Lemmo_ Gemi? Ah! tu ben per tempo sei nudrita Nella scuola dell'ira. — Ah! ben per tempo Sai esultar nella gioia di futura Vendetta, e dolce un retaggio esser l'odio, Che dee di figlio in figlio tramandarsi. Pur chi il diria? così cortese sembri... M'ingannai... _Bianca_ V'ingannaste... il figliuol vostro... Io amo... _Lemmo_ L'ami? ma tuo padre... l'odia... _Bianca_ Io gliel svelava... _Lemmo_ Ne fremeva il figlio Di mio padre? _Bianca_ Il fratel vostro?[16] — Vermiglia Fu questa terra del sangue di Geri; — Or non è traccia: — tal dalla sdegnosa Anima sparve l'ira... perchè Dore È un innocente. _Lemmo_ Gioventù feroce! — E a te grazie, o leggiadra giovanetta. Che sì pietosa al genitor favelli Del figliuol suo. — Di', non aborre dunque Gualfredo Dore? _Bianca_ Ei ci nomava figli. — _Lemmo_ Figli! _Bianca_ E già mosse per alcun consorto, Onde lieto messaggio a te portasse Parola di amistà. _Lemmo_ Cara! non sai Quanta gioia nell'anima mi versi! E io dirtela non so; perchè — profonda, — Inesprimibile è. — Signor, mercede! Hai veduto lo spirto contristato Nell'angoscia di morte, e n'hai sentito Pietà; — non vuoi che nel sepolcro scenda Affranto nell'affanno il servo tuo. Or tu, diletta, al mio fratello vola; Digli che un cuore nel pensier dell'odio Inaridito spandersi sospira Per lo suo affetto intero: — un labro, amaro Finor per ira, ansa cambiare il bacio Di amistà sul suo labro; — e le mie braccia, Digli che mai fur giunte alla preghiera Dal dì che più gli si gittaro al collo Come pegno di amor. — Va... vola... parla Quello che vuoi, nè posso dirti io tutto. Chè al fervido sentir dell'alma è manca Favella umana; ma secreto un senso Prepotente e misteriosa fibra Dette il cielo ai gentili. Or dunque digli Quel che sentisti, non quel ch'io ti dissi. _Bianca_ Spirto non mosse mai sì lieto l'ale Verso del suo fattor, com'io del padre Ora al cospetto.... Quella via men lunga[17] Percorrerò. _Lemmo_ Verso la piazza io muovo Del castello; — colà se mia venuta Tuo padre assente... a dirmi vieni, o manda; Nè già ti prego io ratto; — chè qual spina Sia l'incertezza più che dirtela io, Potrai sentirla tu. SCENA VII. LEMMO. Questa è ben gioia!... Ma è figlia del travaglio. — Nel dolore Si nasce,... nel dolor si muore,... e l'ora Tra il nascimento e la morte è un dolore... S'ei tace, — godi... — in altro modo lieto Esser non puoi quaggiù. — Oh! non è questa La patria nostra... non è questa... In cielo, Al cospetto di Dio è vera gioia. ATTO QUARTO. Però bestemmio in prima la natura E la fortuna con chi ne ha potere, Di farmi sì dolere; E tocchi a chi si vuol, ch'io non ho cura; Che tanto è il mio dolore, e la mia rabbia, Ch'io non posso aver peggio di ch'io m'abbia. FAZIO DEGLI UBERTI. SCENA I. Scena come nel secondo Atto. È giorno. BIANCA. Triste un silenzio di morte qui regna. Qual fora mai cominciamento all'odio Se tal cominci, o amore? — Il padre or come Trovare io posso? — inoltrarmi non oso. SCENA II. GERI, E DETTA. _Geri_ Bianca, che cerchi? _Bianca_ Il padre. _Geri_ O Dore? _Bianca_ Il padre. Ma fie a me sempre, così piacque al cielo, Di Dore il volto un gaudio, perchè volto È d'uom giusto... _Geri_ Dal mio diverso tanto? _Bianca_ La lode al buono è vitupero al tristo... Tal ti se' fatto, che ti giunga amara Del cugin tuo la lode? _Geri_ Io! — no... ma il padre, Dimmi, a che cerchi? _Bianca_ Il fratel suo mi manda A chiedergli se fie sua vita salva Nella casa paterna... _Geri_ Oh! ben ne venga Lo dolce zio! — Riedi per esso; — digli Gualfredo testè giunto, alto aver mosso Lamento, onde nè in casa mai nè in via Gli occorresse; — ch'ei venga; — nè per ratto Muoversi farà mai che il gran desire Ne' suoi consorti di abbracciarlo agguagli. _Bianca_ Vado. _Geri_ Bianca, — la suora di tua madre, A Dio sacrata, di ferventi preci Empie e di pianto la romita cella; Or dirle cessi il lamentare, e Dio Avere inteso il suo sospiro; — insomma La nostra gioia dirle — non saria, Bianca, pietade? _Bianca_ Io ben pensava a questo, Fratello; — ma deh! pregoti, di pompa Abbian mie nozze nulla, di terreno Nulla... tutto di Dio... Dei convitati Parco il numero; — all'anima che intera Nell'amor si abbandona ei son di freno Insoffribile; — caste nell'ornato, Dovizia abbian di affetti. _Geri_ È tuo disire Legge. — Or va; — ma perchè ristai pensosa? _Bianca_ Fratel!... _Geri_ Sorella!... _Bianca_ Il priego di una afflitta Puote in te nulla? _Geri_ Onde mertar sì fatta Domanda che fec'io? _Bianca_ Parla sincero... L'anima tua veracemente l'ira Depose? _Geri_ Il lieve dolore del corpo Rimase spento dal gaudio dell'alma: — Ella è serena — come ciel d'Italia. _Bianca_ I canti delle vergini la lode Esaltino del pio, dell'uom potente, Che offeso perdonò; sol questo è calle Per cui la polve fino a Dio s'innalza. Il ciel cortese di pietosa donna Ti sia, e di figli onore ai tuoi verdi anni. Conforto ai tardi, — a tutti gaudio... Addio. SCENA III. GERI. Dove mai questo cor toccar potesse Gemito di pietà... tu mi faresti Piangere... SCENA IV. GUALFREDI, E DETTO. _Gualfredi_ Or dove mai Dore si asconde? _Geri_ Testè a diporto pel giardino errante Lo vidi. _Gualfredi_ Fate ch'ei qui venga. _Geri_ Padre... Il fratel vostro... _Gualfredi_ Lemmo! _Geri_ È in queste case. — _Gualfredi_ Che fa? perchè non viene? Andate, solo Convenire amo con esso. SCENA V. GUALFREDI, LEMMO. _Gualfredi_ A che stai? Fratel, non osi? — temi? — In questa casa Pensa che visse il padre tuo, — fratello... _Lemmo_ Oh nome! — quanto mai fur queste orecchia A non lo udire; — egli nasconde un suono Che di amoroso brivido mi scuote. — Deh! torna a dirmi, o mio fratel... fratello. _Gualfredi_ Fratel mio dolce, — fin dagli anni primi, Più che le dotte carte, a me la spada Piacque, la scienza a te; pur mai dai nostri Labbri volò l'oltraggio. — Un mal consiglio Ci divise, — pur mai nemici fummo. Indurarci la mente al ciel non piacque: Ella era amica, ma taceva; — i figli Non ci videro il cor che in suo secreto Forte piangeva la perduta pace. — Ei crebbero nell'ira; — essi son rei Di nostre colpe; — seminammo l'odio, — Raccogliamo il misfatto. _Lemmo_ Il ver pur troppo Parli. — Oh! se mai lo malo esempio il padre Della colpa, che poi rampogna al figlio, Avesse offerto, di gran pianto franca Saria la stirpe umana; ma di polve Figli, — dannati al male, — non ci è dato Schifar, ma solo riparare al fallo. _Gualfredi_ E si ripari. — Il fato che gli eventi Regge, senza cercarla, offre una via Soave, un laccio d'oro, onde torniamo Amici nell'amor dei nostri figli. _Lemmo_ Se eterno di quest'anima sospiro La pace sia, fratel comprendi. Tale Mi fai proposta, che volendo ancora Ricusar non potrei. — Anch'io talvolta Magnanimo mi credo; or veggo a prova Che tu vinci d'assai. Regale stato Non ho da offrire, e tu nol speri, a Bianca; Ma un viver mite, quale ad uom privato Conviene e a cittadino. _Gualfredi_ A me di farle Stato la cura lascia; — in ciò lo ingegno Adoprerò e la spada. _Lemmo_ Oh! dunque il tempo A più mite consiglio non ti volse? — Perchè di Dio la creatura intendi Contristar nel servaggio? — A che mai questa Tra le nequizie dell'uomo infinite Ultima, e la più cruda? — In ben ti torna? — Sale il tiranno e muore, e le insultanti Strida, e il riso feroce dell'oppresso Lo disperano al letto della morte: Suo scettro è fuoco che la man che il serra Arde, dannata per giudicio eterno Alla viltà di non lasciarlo. Il giorno Temi delle vendette. Iddio soverchia Chi sta sopra la legge, e la tremenda Ira di pazienza offesa. _Gualfredi_ Onesta È tua ragione, come di uom che i casi Della vita, raccolto entro sua cella, Specola. — Ma cosa è questo vantato Viver libero che serbar non sanno Omai, nè ponno? — A chi la coglie è gemma Per via gittata; ed io che possa assembro, E senno deggio far che in man non cada Di chi in mal la converta. Di Dio poi Nè io, nè tu sappiamo nulla; e speme Ch'ei non abbia mal grado invece accolgo Di surrogare un vivere civile A sanguinente libertà. — La spada. Io tel ridico, a ogni altro basta. _Lemmo_ Sali Tu dunque; — opprimi, e sali. — Io per me, quando La fiumana trabocca e mena in volta Dei tapini la vita, ed a frenarla Non valgo, sto sopra la riva e piango, Nè sulla libra dell'ira di Dio Dei miei delitti pongo il peso. — Oh! pera Il nome, asconda il corpo e la memoria La terra del sepolcro, ma non viva Scritta di sangue per la storia; — il pianto Non la rammenti: ore alla gloria è chiusa Lodevol via, basti alla polve umana Di uno amico la lagrima o di un figlio Al gran tragitto dal tempo all'eterno... _Gualfredi_ Credimi, Lemmo, è tal nostra natura. Che il ferro stesso che al suo mal la stringe Vuolsi a condurla al bene. _Lemmo_ Ad ogni costo Salir tu vuoi; — ma pensa ch'uom non sorge Senza mozzare molti capi in terra Ov'ei fu cittadino; — e quando al sommo Verrai, in che fie di un secol pianto un detto Tuo solo, — pensa, il buon voler non basta; Erra la mente, e si trascorre al male. _Gualfredi_ Ma e ch'egli è mai questo uomo, onde tu tanto Ti travagli per esso? Ah! mal conosci Di queste sedi la stirpe esecrata. — Virtù maligna dalle stelle piove Che il cuor dell'uomo indura e lo fa tristo. — Anch'io nei primi giorni della vita, Quando i sogni son di Angioli, e la mano L'agnello e il serpe palpa, e il labro ride Al fior della bellezza, e al fior de' morti, Alla cicuta e alla rosa, — uno amico Vagheggiava pur io sopra ogni volto. Stolto! e credei che l'anima, non altri, Informasse le voci. — Ahi! che ben presto Conobbi a dura prova unirci l'odio. — Fa al figlio il padre scontare il delitto Di averlo ingenerato; — fa l'amico Scontare amaro all'amico il delitto Di aver posto in lui fede; — l'uomo all'uomo Eterna è guerra; — in chi la scure teme, O Dio, non è di sangue, ma di frode. — Guai! se il timor di Dio cessasse; — guai! Se della scure il timore: — avventarsi Tu vedresti l'un l'altro, — trucidarsi. — Ma vivi lascia la strage di tutti Sol due: — si scorgono, — l'odio rattiene L'anima che fuggiva, — egri, — carponi Strascinansi; — son presso, — alzan la mano Per percuotersi entrambi, — a mezzo l'atto Tronca la morte, — spirano. La tomba Gli uomini in pace unisce sola. _Lemmo_ E verga Del Signor fatti: egli è temuto Dio, Ma è maladetto il fulmine. — Ah! non spenta È virtù; — vive questa via di stelle; Questa nei piani di Betuelle apparsa Mistica scala, che alla terra il cielo Aggiunge, — vive: — vedi dalle mura Diroccate, dal suol sparso di sale Della regia Milano assorge cinto Di aureola immortal l'Italo genio: — Vedi fuggire i Federighi, e in altre Portar terre la rabbia di mal spenta Fame, e il furore di un orgoglio oppresso. — Vili fummo divisi, — uniti, invitti. Natura invan co' monti e con le nevi Ci difende; non v'è figlio d'Italia Che accorra all'Alpi. — Lo straniero scende A suo grand'agio; — averi toglie e vite, E ci deride. — patria mia, ti strigni Con Fiorenza, e con lei Milano; — o stati Di poche spanne, in battagliarvi eterni Che fate voi? — un regio manto in brani Siete... V'unite, e surgeran più belle Le itale glorie che non fur mai morte; Però che il sole e la virtude spenti Fieno a un punto in Italia. _Gualfredi_ L'amistanza Che sia del forte non intendi; — meglio Servaggio intero, — meglio morte. — Il petto Nostro, se perir dessi, oh!... per altrui S'apra: per noi non già. Ma se t'è dato, Con l'ala del pensier sorgi tant'alto Che al baleno dell'occhio il mondo tutto Scorga, ed i piani del passato. — Vedi, Questa è vicenda di bene e di male; Ma gemesi mille anni nel dolore Per un lampo di gioia, e per la notte Vagasi in traccia un secolo di un punto Luminoso che appresso ha falsa luce. — Son tenebre per tenebre: — che giova Travagliarci? soffrire è la condanna Dell'uomo. Or se fortuna dagli oppressi Mi scevra, — accetto: — un più vetusto patto Ho con natura; di fuggire il danno. _Lemmo_[18] Cielo d'Italia, perchè non ti anneri. Poichè la gente che il tuo azzurro allegra Tanto è diversa? A che mai sorgi, o Sole? Qui non contempli più le ardue battaglie Che illuminavi un dì... qui non le geste. Qui non tombe di eroi; — ma colpe e sangue. O campi, o selve d'orror sacro piene, Copritevi di lutto; — il vostro aspetto Ridente mi contrista; — echi educati Agl'inni dell'onore, or vi ammutite. Qui non suona che gemito; sia nero Il manto della bara, — oscuro: — insulto È qui letizia; — è un oltraggio il sorriso. SCENA VI. GERI, MANENTE, GUIDO, NELLO, E DETTI. _Geri_ Pace, — una volta — pace; — è breve il varco Dall'ira all'odio, e or qui spirar dee amore. _Lemmo_ Falli, Geri; non è suon d'ira il mio, Ma di pietà... _Gualfredi_ Per altri serba, Lemmo, Codesta tua pietà; per me saria Non sopportabil peso. — Esser temuto Io voglio, — non compianto. _Lemmo_ Odi, Gualfredo, Cosa che in mente riporrai. — Son pochi In questa terra i buoni, — i tristi molti; — Agevol quindi è assuggettarla. — Capo Di parte avversa a te mi dice il grido, Ma nè anco potendo io ti sarei Nemico, chè uomo esser di sangue aborro, E tu mi se' fratello. — Uccidi e vinci. — Forse tepido il sole al fiore stretto Per gelo tornerà; — forse la scarsa Scintilla fie che un dì riviva in fiamma. — Quel che per colpa dei padri perdemmo Racquisteranno con virtude i figli; Così giova sperare. — Ai miei castelli Mi ritrarrò. _Gualfredi_ Dove il piacer ti mena Ti scorti il cielo; e quando mai consiglio Mutassi, — come il cor, teco diviso Sarà l'imperio mio. _Lemmo_ No, — abbilo tutto, E l'abbominio.... _Geri_ Ora a men triste cose S'intenda. — Volga fortuna la ruota, E il villano sua marra. — Or dite, Lemmo, Berrete voi per la salvezza nostra Una coppa? Fia dessa in che bevea Lo padre vostro. _Lemmo_ E perchè di sua casa Non berrà Lemmo alla salvezza? — Oh! viva Mille anni, — viva e gloriosa sempre... Ma e il mio figlio vi sia... _Geri_[19] Porgi la coppa. Prendi...[20] _Lemmo_ Ma... e Dore? _Geri_ Or vi sarà... _Lemmo_ Gualfredo! Sovvienti come il padre nostro — (il cielo Faccia pace a quell'anima) i bei fregi Di questa coppa scorrere godeva A parte a parte, e mostrarne il fin niello: Quindi additava l'arme: — ecco il lione, Dicea, rampante, ecco la immagin nostra, Sdegnosi e grandi. — O figli miei, lioni Siatevi sempre, — e non mai volpi. _Geri_ Bevi. _Lemmo_ Bevo. — Cortese il ciel vi sia... Ma questo È sangue! _Geri_ E t'abbi entro quel sangue il figlio... _Lemmo_ Tu... Dore hai morto?... Dio eterno! _Gualfredi_ Oh misfatto![21] _Lemmo_ Dov'è il mio figlio, scellerato? il figlio Rendimi... Ah! tu non lo uccidesti? — Cessa Dal triste giuoco; — egli feroce è troppo: — Le mie paterne viscere dirompe; — Io sopportar noi posso. — O Geri, in nome Di Dio chiamami il figlio... _Geri_ Il suono indarno Le sue orecchie percuote... ei non lo intende; — Perocchè dorme... _Lemmo_ Oh! — s'ei riposa... statti. Forte lo udii nelle trascorse notti Travagliarsi nei sonni... A lui mi guida Tacitamente; — ch'io lo vegga, lascia: — Vedere un figlio al genitor chi nega? _Geri_ Vieni, — lo vedi, — e mori. _Gualfredi_[22] Scellerato! Se il giudicio di Dio non mi tenesse... Io parricida... — A te che dir mai posso, Caro infelice?... maladetto l'uomo Che confida nell'uomo... entrambi fummo Traditi. — Oh! non confondermi nell'ira Co' rei: — deh! nel pregar da Dio vendetta, Non maledirmi; — del misfatto questa Ben è la casa, — ma innocente io sono. _Lemmo_ Sii benedetto... ma mi rendi il figlio... Le mie castella vuoi? — l'abbi. — Di patria Fuori desii che ramingando io vada? — Andrò. — Ma deh! fratel mio dolce, — Dore Rendimi, — Dore... solo... _Gualfredi_ Ah! s'io potessi Renderti il figlio, — sallo il ciel se a prezzo Del sangue mio lo ti rendessi. — O servi, Da questo infame luogo il rimovete... Infortunato! — in te l'angoscia ha spento La luce della mente... _Lemmo_ Chi mi strappa A forza? — o Dore, il padre aita. — Fuggi, O ch'ei ti ucciderà... possente ha braccio Siccome bello ha il core: — eccolo! — Vieni; Beami nel tuo amplesso. — Ahimè! disparve; Ei sotterra disparve. — Occhi miei tristi,[23] Spegnetevi, dacchè veder v'è tolto Il figliuolo nostro. _Gualfredi_ O deh! non farlo, misero![24] Solo, — come da fulmine percosso Di Dio merti le lagrime; — da questo Terreno affanno una pietà profonda Ben tosto ai gaudi dell'eterna vita Ti avvierà: — piagni, ma spera; — il cielo Me poi condanna al pianto, e alla paura. Vedi, uom di sangue, la bell'opra? —[25]Godi. _Lemmo_ Io ebbi amici, e non son più! — consorte Io m'ebbi, e non è più! — aveva un figlio, E non è più! — Ramingo... disperato Come Caino, e non ho colpa. — Dio, Perchè col peso del tuo sdegno aggravi Uno innocente? SCENA VII. GUALFREDI, GERI, MANENTE. _Gualfredi_ Il giorno in che la donna Dal materno alvo accolseti, e a me volta Disse: — Gualfredo, avete un figlio, — giorno Fu di dolore a Dio, e di tremenda Gioia a Satano. _Geri_ E porpora più vaga Al mondo fu di quella tinta in sangue Di un odiato? — E quale ebbe Fiorenza Vivo colore che al paraggio valga Di quel che scorre per entro le vene Di un nemico?... SCENA VIII. NELLO, E DETTI. _Nello_ Gualfredo! — a rumor mossa È la terra, — qui piegano aspramente Feriti i Bianchi: — per Dio! sorti... _Gualfredi_ Oh! tutti[26] Si trafiggano, — tutti; — e il corpo mio Faccia coperchio alla universa tomba. SCENA IX. GUIDO, E DETTI. _Guido_ Damiata è cinta: — ognun di voi domanda, Messere, e traditor vi appella. _Gualfredi_ Il tristo. Buon tempo egli è che pei sembianti appresi Starsi, — non per le cose. — Il nome è nulla, — E E poichè infame io non la temo... guardo Fiso la morte, e alla morte sorrido. SCENA X. ALTRO SERVO, E DETTI. _Servo_ Messer... la porta scassinata... a terra Cadde. — Lazzarri, il fier nemico vostro. Porta un capestro, e di appiccarvi grida Al balcon del castello. _Gualfredi_ Oh! nequitosa Plebe! — me appeso! — me d'infame morte Ucciso! — Ov'è una spada? — Or proverai Che sia destar lion quando si posa. — Io niuno stringo; — seguami chi vuole... Qualche bel colpo or la mia morte onori. SCENA XI. GERI, MANENTE. _Geri_ Inferocisti alfine! — Or corri ratto Manente a Uberto: — per la minor porta Esca, — furtivo i Neri a tergo assalga. — Io finch'ei giunga terrò fermo: — vola, — Pensa qui andarne di morte o di vita. ATTO QUINTO. Innamorata se ne va piangendo Fuora di questa vita La sconsolata, che la caccia Amore. Ella si muove sì dolendo, Che anzi la sua partita L'ascolta con pietade il suo Fattore. DANTE ALIGHIERI. SCENA I. Facciata di una Chiesa intorno alla quale stanno le arche de' Cancellieri. È sera. BIANCA. Grato ufficio compiei. — Trovai l'angoscia, Ho lasciato il contento... Oh! di qual puro Gaudio brillò! dei Santi gaudio egli era. — Quanti pochi deliziarsi sanno Nel gaudio altrui! Povera zia! di gioia Ben era tempo. — Tu piangesti tanto! Altro, e più mesto ufficio avanza. — In questa Tenebra, chi mai la diletta tomba Additerammi? — Il core. — Eccola... è dessa. — Polve che dentro di quest'arca stai, Di tal che fu tua figlia odi la prece: — I baci miei del marmo che ti fascia Temprino il freddo e ti riscalda. — Sorga Qualche scintilla dell'antico amore... Non risponde che l'eco. — E qual del cielo Parte ti accoglie, o madre, che non m'odi? Forse ti specchi in Dio, e nel suo ardente Riso ti fai beata? — Oh! a questa valle Volgi il guardo, e vedrai cosa che in cielo Anco ti fie diletta. — Ah! noi raminghi Di Eden condanna allo sapere al pianto; — Forse più che non temo a me si appresta Di travaglio... — A soffrire ti apparecchia... Meditiamo la morte...[27] SCENA II. DUE UOMINI CHE PORTANO UNA BARA. _1º Uomo_ A quel superbo Che per meglio punire il cielo innalza Piegan tutti, non io. — Ti aborro, o vile Idol di creta. _2º Uomo_ Alto corriam periglio... _1º Uomo_ Pari al piacer di dire allo infelice Padre: — piagnete qui; — qui dentro è il corpo Del figlio vostro. — Senza croce, — a lume Spento, volea ch'io lo gittassi a' cani. — Ma tu pria che a congiungerti alla terra Ritorni, — oscuro sì ma pur sincero Avrai, misero, il pianto. _2º Uomo_ Infortunato! Dei begli anni sul fior tolto alla vita Chi mai lo avrebbe detto? — Sì cortese. Sì costumato egli era. _1º Uomo_ Amico! il core Come per morte di un mio stesso figlio Ho sanguinente. _2º Uomo_ Sua dimora ha tolto Fra Lotteringo in questo monastero; Andianne a lui, e lo preghiam che venga Di acqua aspergerlo santa, e dei defunti Dirgli la prece pria che in tomba ei scenda. _1º Uomo_ O buon Gaudente, qual sarà il cor tuo All'atroce novella? Indarno pace Bramasti; ch'ella in questa terra frutta, Della scienza nuovo arbore, la morte. _2º Uomo_ Esaudisci, Signor, la mia preghiera; Questo spirto raccogli sotto il manto Di tua misericordia. _1º Uomo_ Così sia. Requie eterna concedi a lui, Signore.[28] SCENA III. BIANCA. Esser pareami in cielo... Or dove sono? Misera me! oltre il dovere assente Stetti; — al castello di tornare è tempo. — Polve diletta, che secondo spiro Per avviarmi a lieto porto sei, Vale: — estremo a involarti nella notte, Primo a spuntare sul mattino, — dolce Pensiero e caro. O santa madre mia, Volgi talvolta un guardo di conforto Alla figlia nella ora che frappone Ai nostri amplessi desiati il tempo. Ma alcun qui mosse: — già non v'era dianzi Quella torcia! — Che fia? — Cristo! un feretro! Ahi! come tremo io forte... Il tristo trema All'aspetto dei morti, o Bianca; — tutti Saran com'esso, e tu... Or chi fie questo Che come maladetto senza prece È portato alla fossa? — Ove a te ogni altra Manchi, — infelice! — avrai la mia: — ma in volto Io vo' vederti. — Ah mi si strigne il core; Nol far... Me preme una secreta forza.[29] Dore... Gran Dio! l'anima stanca acco...gli.[30] SCENA IV. GUALFREDI, GERI, MANENTE, UBERTO E SUA MASNADA, ED ALTRI PARTIGIANI. _Partigiani_ Vivano i Bianchi! _Altri_ Viva! _Al Al tempio. _Tutti_ Al tempio. _Gualfredi_[31] Da questa plebe che aborro travolto, Mi accosto al tempio tremando e sperando Che se reietti, non saranno almeno Esecrati i miei voti... Scellerato!... Come l'osate voi?... _Geri_ Ogni uom si stringe Dove gli torna la cintura. — Ogni uomo Provegga alla sua anima. — Volete Che io batta al tempio? _Gualfredi_ Scostati, demonio... Dio non s'insulta... Io batterò... _Geri_ Battete. SCENA V. FRA LOTTERINGO DAL TEMPIO, E DETTI. _Lotterin._ Chi percuote alle porte? — Che si vuole Dalla casa di Dio? — Chi se'? — Gualfredo! Esecrata dell'empio è la preghiera; Dio la disperde irato, o la converte In maledizion, e su la testa Folgorando allo iniquo la ripiomba. — Scostati dagli altari: — un giorno Dio Ti ruggirà su l'anima, e la impronta Vi scorgendo del sangue: — Immaculata — Ei dirà — e casta ella da me partissi, Perchè l'hai sozza? Non è più mia figlia. Scostati dagli altari. — Oza protervo Un fuoco arse celeste, e Core un fuoco Terreno incese. Una fraterna guerra Pugnasti, — una fraterna alma sciogliesti; E vuoi compagno a' tuoi misfatti Iddio? Tu non se' degno ch'ei la man ti posi Grave, tremenda sul capo, e ti sperda. Miserabile! — il fulmine è serbato A più alti delitti. — Al tuo... gli orrori Bastano della notte, e lo sognate Fantasime crucianti del rimorso, E la paura del fuoco infinito. — Ma Dio t'insegue: — oh! qua ti volgi; — vedi Questa bara? sai chi racchiude? — Il tuo Nepote atrocemente assassinato. — Tra il santuario e te, frapposto ha Dio Il tuo delitto. _Gualfredi_ Ahi! che innocente io sono. _Lotterin._ Sì, — come Giuda. Se tal sei, t'accosta, Vieni, e lo giura sul capo del morto... Ma temi che non scorra dalle peste Narici il sangue su le labbra; temi Non venga a ribollir spumoso... temi Fino all'inferno non si avvalli il suolo. _Gualfredi_ Padre! non sono io reo... _Lotterin._ Giuralo... _Gualfredi_ Il giuro... _Lotterin._ Tu tremi? _Gualfredi_ Sì... ma di pietà... _Lotterin._ Si scopra Il cadavero: or vieni... Oh morte eterna! Tua figlia! _Gualfredi_ Cristo! Lasciami...[32] O diletta! _Lotterin._ Scostati; — è morta! _Tutti_ È morta! _Gualfredi_ O Bianca!... o figlia, Nell'ora del dolor vegliami, o Dio, Che la morta ragion l'alma non stringa Al fiero passo dei martirii eterni. _Manente_ Io non ho vena che non tremi tutta. — Rendiamci a Lui che volentier perdona; Geri... rendiamci... a... Dio. _Geri_ Sul capo nostro Piovve commista al maledir di Dio La linfa del battesmo: eternamente Dannati... il cielo per tremar non s'apre... Gemi, codardo? — In me ti affisa... io voglio Che ben degno di lui m'abbia l'inferno. ALLUSIONI STORICHE. Pag. 424. _Appiè del letto_ _Starsi un demonio che vi guata fiso._ Questa credenza religiosa era comune a quei tempi. Nello _Specchio della vera Penitenza_ trovasi un fatto molto somigliante all'esposto; non sia grave di leggerlo qui trascritto. — «E' fu uno cavaliere in Inghilterra prode in arme, ma di costumi vizioso, il quale gravemente infermato, fu visitato dal re che era uno santo uomo; e indotto che dovesse acconciarsi nell'anima, confessandosi come buon Cristiano, rispose, e disse: Che non era bisogno, e che non voleva mostrare di aver paura, nè essere tenuto codardo o vile. Crescendo la infermità, e il re un'altra volta venne a lui, e confortandolo, e, come aveva fatto prima, inducendolo a penitenzia e a confessare li suoi peccati, rispose: Tardi è oggimai, messer lo re; perocchè io sono già giudicato e condennato, chè male a mio uopo non vi credetti l'altro giorno quando mi visitaste, e consigliastemi della mia salute, che, misero a me! ancora era tempo di trovare misericordia. Ora, che mai non fossi io nato! m'è tolta ogni speranza; chè poco dinanzi che voi entraste, a me venneno due bellissimi giovani, e puosonsi l'uno da capo del letto, e l'altro da piè, e dissono: Costui dee tosto morire; veggiamo se noi abbiamo nessuna ragione in lui. E l'uno si trasse di seno un piccolo libro scritto di lettere d'oro, dove, avvegnachè in prima non sapessi leggere, lessi certi piccoli beni e pochi ch'io aveva fatti nella mia giovanezza, innanzi che mortalmente peccassi: nè non me ne ricordava. E avendone grande letizia, sopravvennero due grandissimi, nerissimi e crudelissimi dimoni, e puosono innanzi a' miei occhi uno grande libro aperto, ove erano scritti tutti i miei peccati, e tutti i mali ch'io aveva mai fatti, e dissono a quelli due giovani ch'erano gli angioli di Dio: Che fate voi qui? conciossiachè in costui nulla ragione abbiate, e il vostro libro, già è molti anni, non sia valuto niente. E sguardando l'uno l'altro, gli angioli dissono: E' dicono vero. E così, partendo, mi lasciaro nelle mani dei dimoni: i quali con due coltella taglienti mi segano l'uno dal capo, l'altro da' piedi. Ecco quelli da capo mi taglia ora gli occhi, e già ho perduto il vedere. e l'altro ha segato infino al cuore, e già non posso più vivere — E dicendo queste parole, si morì.» — Dante, al XXVII dell'_Inferno_, tal fa parlare Guido da Montefeltro: Francesco venne poi, com'io fu' morto, Per me; ma un de' neri cherubini Gli disse: Nol portar; non mi far torto. Venir se ne dee giù tra' miei meschini, Perchè diede il consiglio frodolente, Dal quale in qua stato gli sono a' crini; Ch'assolver non si può chi non si pente; Nè pentere e volere insieme puossi, Per la contraddizion che nol consente. O me dolente! come mi riscossi, Quando mi prese, dicendomi: Forse Tu non pensavi ch'io loico fossi! E al VI del _Purgatorio_, non con diversa immagine si esprime Buonconte figlio dello stesso Guido. Pag. 425. _Il terzo giorno ciberò del pane_ _Nel vin temprato su l'arca del morto._ La causa di parlare siffatto è manifesta dal Commento che fa il Landino al verso del Canto XXXIII del _Purgatorio, — Che vendetta di Dio non teme suppe_. «Creda che Dio ne farà vendetta.» Referisce lo Imolese che in Firenze era opinione, che chi avesse commesso omicidio, e mangiasse sopra il corpo del morto una zuppa, non potea dipoi per vendetta esser morto: e il figliuolo di Dante, il quale commentò questa Commedia, afferma che in questi tempi, quando alcuno dei grandi cittadini era stato morto nella nostra città, i propinqui guardavano la sepoltura insino a nove giorni che alcuno non vi mangiasse zuppa. Pag. 427. _Oretta, — Oretta, non ti vedrò più!_ _L'eco dei monti gli risponde — più. _ Questa idea fu suscitata da quel verso di Byron nella _Fidanzata d'Abido_, «Where is my child? an Echo answers, Where.» — Byron poi confessa di averla tolta da un manoscritto arabo citato nelle note dei _Piaceri della Memoria_, che dice: «I came to the place of my birth and cried, the friends of my youth, where are they? and Echo answered, Where are they?» Pag. ivi. _Mesto mesto incamminasi al piviere ec._ Da tutti i monumenti storici della età della quale trattiamo, agevol cosa è rilevare _pivieri_ dirsi li scompartimenti dei contado oggidì chiamati cure e parrocchie; qui poi Piviere sta propriamente per la casa del Pastore, che ora intendo nominare Canonica: _sere_ essere il titolo del sacerdoti e dei notaj, che or tuttavia questi ultimi conservano, avendolo i primi mutato col don; e mastro, o maestro, quello dei medici. Pag. 429. _Il libro della vita è scritto._ La quistione sul libero arbitrio, di cui si fa motto nella Scena presente, era la favorita dei tempi. Dante nel VII dello _Inferno_ aveva attribuito una qualche influenza alla fortuna su le azioni umane. Cecco di Ascoli, che trasse l'oroscopo alla figlia del duca di Calabria, e per influsso di pianeta chiarì entrambi sagacissime femmine, che, come astrologo fu abbruciato a Firenze, stimando aver tolto l'Alighieri il libero arbitrio, nel suo poema l'_Acerba_ acremente il rimprovera al passo che comincia: _In ciò peccasti, o Fiorentin Poeta_: il quale per esser riferito dai Tiraboschi, dal Ginguené, dal Pignotti e da molti altri, non riportiamo. Niuno però era più che Dante convinto del libero arbitrio; la sua dottrina in questo proposito è chiara pel discorso che fa tenere a Marco Lombardo al XVI Canto del _Purgatorio_, e più anche per li due terzetti del Canto XVII del _Paradiso_: La contingenza, che fuor del quaderno Della vostra materia non si stende. Tutta è dipinta nel cospetto eterno. Necessità però quindi non prende, Se non come dal viso in che si specchia Nave che per corrente giù discende. Nel qual luogo dimostra come la prescienza di Dio non è contraria al libero arbitrio; la imagine della nave è stata imitata da noi, come ad ognuno è manifesto. Se poi ella sia buona ragione, a noi non istà a dire; avvertiremo solo che qualunque ama sprofondarsi per queste astrattezze, materia di ben molte meditazioni metafisiche intorno a ciò potrà rinvenire nella LXIX delle _Lettres Persanes_ di Montesquieu. Pag. 430. _Era un Palmiero._ Questa voce fidiamo non ci sarà rimproverata sì come obsoleta, dacchè il Grossi l'ha tante volte adoperata nei suoi _Lombardi alle Crociate_; pur chi amasse conoscerne la proprietà, legga questo passo di Dante tratto dalla _Vita Nuova_, che comenta il Sonetto _Deh! peregrini, che pensosi andate_. «E però è da sapersi che in vari modi si chiamano le genti che vanno al servigio dello Altissimo: chiamansi Palmieri, in quanto vanno oltremare, là onde molte volte recano la palma. Chiamansi Peregrini, in quanto vanno a Galizia, perocchè la sepoltura di San Iacopo fu più lontana dalla sua patria che d'alcuno altro Apostolo; chiamansi Romei, in quanto vanno a Roma, ecc.» Pag. 435. _D'immota eternità mobili figli._ E a me sempre giunge lieto il momento in ch'io posso fare onorevole ricordanza del Pacchiani, che tolse benevolo a scabbiarmi l'anima. Quest'uomo nato per ingrandire le menti, seguendo troppo bene il consiglio del gran cancelliere Bacone, _che l'uomo che sa tutto, compendia tutto_; tale definiva il tempo, scientificamente, in due parole: _È la durata misurata_; poeticamente: _È il figlio mobile della eternità immobile_. Entrambi i modi fanno disperazione di dir meglio. Pag. 445. _Volea tenerne il cugin nostro — a forza._ Secondo l'albero della famiglia de' Cancellieri, che si trova nelle _Memorie storiche_ del Fioravanti, Lemmo e Gualfredo erano cugini in primo grado; Dore e Vanni, o Geri, In secondo: noi, alterando la Storia, accostammo i gradi della agnazione. Chi non ne indovina il perchè, è indegno che gli sia detto. Pag. 449. _Per trescare una danza in campo azzurro._ Questa, e ben altre frasi, come — _Dar de' calci al rovaio — Mandare in Piccardia — Ballare nel paretaio del Nemi — Serrare il nottolino — Salire senza scale,_ ec. — adoperavano i nostri antichi a esprimere quello che più apertamente significavano coll'appiccare per la gola, come si usa cogli uomini di garbo. Pag. 455. _O auguste mura dei miei padri._ Damiata veramente era un castello che apparteneva ai Neri; e questa è nuova alterazione della Storia. Nella cacciata dei Neri, seguita nel 1301, fu insieme con altri nobilissimi palazzi atterrato, come da tutti gli Storici. Pag. 468. _Quindi additava l'arme._ L'arme di questa famiglia, conservata dal solo ramo dei Cancellieri del Bufalo, non era già un lione, ma sibbene un porco in campo liscio. Anche adesso quest'arme si vede in Pistoia sul palazzo di detta famiglia, estinta sul finire del secolo scorso, ed ora posseduto dal cavaliere Ganucci Cancellieri, che colla eredità ne prese il casato. Pag. 470. _E quale ebbe Fiorenza_ _Vivo colore. _ Famosi furono i Fiorentini per conciare i panni: principale artificio appo loro era la tintura. Formavano i tintori un corpo separato dalla lana, ma erano tenuti a mallevarla di 300 fiorini d'oro. Un ufficiale particolare, chiamato _dalle magagne_, aveva cura d'invigilare alla buona tintura; laddove si fossero trovati i colori falsi, o meno buoni di quello che dovevano essere, i tintori erano puniti come falsarii. Ognuno poi sa lo scarlatto essere il panno a que' tempi maggiormente usitato. Vedi Pignotti, _Comm. dei Toscani_. Pag. 473. _Sua dimora ha tolto_ _Fra Lotteringo._ Questo frate gaudente vivea a Pistoia, e si chiamava Bertacca, ed era de' Cancellieri. Noi abbiamo variato il nome di Bertacca in Lotteringo, siccome poco poetico. Chi vorrà leggere il passo seguente delle _Storie Pistoiesi_, potrà conoscere quanta sia la confusione de' fatti del Landino e del Machiavelli, che riportammo a principio dell'Opera. «Veggendo li figliuoli di messer Rinieri Canceglieri e gli altri Bianchi di Pistoia che la parte Nera salía, e la loro scendea, pensarono di voler vendicare la morte di messer Bertino, e uccidere uno dei maggiori caporali della casa de' Canceglieri della parte Nera, e ordinarono col Focaccia e col Fredduccio di messer Lippo, che era uno nipote di messer Bertino, che lo dovessino fare; e quando ebbono ciò ordinato, ebbono loro fanti, e stavano in posta che messer Detto di messer Sinibaldo de' Canceglieri Neri venisse alla piazza de' Lazzari; e perocchè alcune volte vi soleva venire, non guardandosi da' consorti suoi, che non credea che volessero fare le vendette altrui nel sangue loro medesimo. Onde, un dì venendo messer Detto alla detta piazza, e entrando in una bottega di uno che gli facea un farsetto di zendado, presso a casa de' figliuoli di messer Ranieri, lo Focaccia e Fredduccio, con certa quantità di fanti, entrarono nella detta bottega, e quivi lo uccisono, e partironsi. Lo romore si levò per la terra, e grande gente trasse da una parte e dall'altra: molto fue tenuto danno di lui, perocchè era lo più gagliardo della casa. Onde seguitarono tra loro aspre e forti battaglie, e fue l'una parte e l'altra mandata ai confini, salvo che rimase messer Bertacca padre del Focaccia, perchè era cavaglieri Gaudente, vestito a modo di frate.» — Qual poi bramasse saper chi questi Gaudenti si fossero, dove si adoperassero, e come vestissero, poche linee del Fioravanti il chiariranno: «Quest'ordine di cavalieri, confermato da Urbano IV, fu creato per pacificare le fazioni guelfe e ghibelline, e quelli che vestivano l'abito di questo ordine si chiamavano cavalieri di Santa Maria, e come altri vogliono, i cavalieri Mariani, o frati della Madonna. I quali portavano un abito bianco, ed un mantello bigio, entrovi una croce rossa con due stelle rosse in campo bianco, e vivevano nelle loro case con mogli e figliuoli esenti dalle comuni imposizioni; e chi non era nobile, non poteva essere di quest'ordine, e vivevano assai esemplarmente.» — Dante ne caccia due nell'Inferno. Pag. 476. _Ma temi che non scorra dalle peste_ _Narici il sangue._ Superstizione. Tommaso Tomai, fisico da Ravenna, a p. 222 del suo _Giardino del mondo_, queste cose riferisce. «Fra le rose memorabili del sangue, non resterò di dire, come il sangue del morto per ferite, venuto alla presenza del malfattore, lo scopre, uscendo fuori dello ferite; e oltre i moltissimi esempi ch'io potrei addurre, ne dirò uno notabile, narratomi dal signor Biagio dell'Orso da Ravenna, dottore illustre e grandissimo pratico nelle cose criminali; ed à che ritrovandosi egli al servizio del serenissimo signor duca di Mantova in Mombello, casale in Monferrato, avendo uno di notte ammazzato uno frate di Santa Maria delle Grazie di Trino, che non si sapeva, dopo l'essere il frate sei ore morto, e trovato la mattina cadavero secco e agghiadato, essendo ivi concorso molto popolo, non si vide alcuna mutazione, ma fatto chiamare uno che si trovava in qualche sospetto, subito giunto alla presenza del morto, il sangue uscì fresco talmente dalle ferite, che trapassando il letto mortorio, arrivò fino a terra, non senza grandissimo stupore di quelli che v'erano presenti. Laonde preso e condotto alle carceri, dopo alcuni tormenti datogli, avendo confessato il delitto, fu condannato a morte dal suddetto signor Biagio.» — In fine di certa difesa fatta per un accusato di perduellione, da Carlo Antonio Rosa marchese di Villarosa, innanzi il marchese di Vigliena duca d'Ascalona, vicereggente del Regno di Napoli del serenissimo duca d'Angiò, la quale comincia «Eccellentissimo Signore, l'infelice Ferdinando Ballati, a cui l'avvocato fiscale a guisa di _Marte_ minaccia la _morte_, ricorre oggi a _Giove_, qual è l'Eccellenza Vostra, ec.» si leggono le presenti parole: «Ciò nonostante fu condannato a morte; contro la qual sentenza furono da me proposte le nullità, ma nondimeno fu confermata. Avvenne poi che per un giorno intero si vide sgorgar vivo sangue dalla bocca e dalle narici del suo cadavero: il che diè motivo a molti d'intingere i fazzoletti in quel sangue, e di credere ch'egli fosse innocente.» CONCLUSIONE. Addio, libro. Senza me tu vai alla bella Firenze. Uscito dai domestici lari, adesso come nave testè varata ti aspettano i flutti e le procelle del pubblico. Dio ti preservi dal sinistro! Ma dove mai ti sorprendesse l'uragano, rammenta che se favellasti parole forse acerbe, tu non sapesti dirle mai codarde, nè sleali. — Il padre tuo può errare inconsultamente, ma errare e nuocere con deliberato animo non mai: e quante volte egli non potè usare la libertà del parlare intera, comprese tutta la dignità del tacere. Adesso poi mi assicurano giunta la felicità dei tempi nei quali ti è concesso manifestare quello che senti _con fronte liberal che l'alma pinge_;[33] adesso mi accertano il Supremo Correttore essersi persuaso che la Storia Plaude a re che apparecchia appoggio e strada A legge che menzogna in volto accenna All'uom, che meno è accorto, e men vi bada: A quei, che franca agli Scrittor la penna, E va per prova di arte al lido amico. Accerta il corso, e poi muove l'antenna.[34] Onde io sperimenterò i tempi scrivendo più spesso che io non soleva, me consultando e il mio genio, però che poco mi talenti procedere in compagnia, e mi abbia giovato assumere per divisa quel motto di Michelangiolo: Io vo per vie più disusate e solo. E quando le cose (il che non piaccia a Dio) camminassero diversamente da quello che io aveva immaginato, tornerò a tacermi o a stampare fuori di paese, aborrendo per istituto e per carattere la stampa clandestina. La stampa clandestina accenna sempre due cose: o suprema necessità o suprema codardia. Suprema necessità, quando dovere cittadino o carità di patria o altro qualunque affetto magnanimo ti costringono ad aprire l'animo tuo, e tu non puoi farlo senza grave pericolo. Allora se le tue parole non suoneranno vili, non ingiuriose o procaci, ma dignitosamente libere, ove non te ne venga lode sfuggirai il biasimo certamente; o se biasimo alcuno sarà da compartirsi, ne terranno meritevole non te, ma quello che avvezzo a unire il fulmine ai suoi voleri ti costrinse. Fuori di questo caso parmi che colui che si tiene celato sia degno di riprovazione. Dicesse anche il vero, poichè adoperava, dicendolo, le arti della menzogna e della frode, ha da portare le pene dei fraudolenti. Le cose sincere voglionsi rivelare sinceramente, perchè dobbiamo sperare che vi sieno orecchie disposte a intenderle e animi pronti ad approvarle. Quando mai alcun danno incogliesse al franco parlatore, egli otterrà nella sentenza che lo condanna un arnese di ferro col quale arroventato marcare in fronte chi osò giudicarlo. La esperienza insegna due essere Tribunali, uno nella curia, l'altro nel fôro, e inique le sentenze di quella dove non ratificate e confermate dalla libera coscienza di questo. Poco, a vero dire, conforto nelle cause ov'è lite di averi: grandissimo e supremo quando si contende di fama. Nel 20 febbraio 1774, mentre il Parlamento Meaupou condannava Beaumarchais a fare ammenda onorevole in ginocchioni, ed ordinava che le sue Memorie fossero _lacérés et brûlés au pied du grand escalier du Palais par l'exécuteur de la haute justice, comme contenant des expressions et imputations téméraires_ ec., si stampavano e vendevano 10,000 copie di coteste Memorie. _La cour et la ville_ si recarono a casa sua per salutarlo, e il principe di Conti lo conduceva seco a pranzo dicendo: «sentirsi nato da famiglia abbastanza illustre per dare lo esempio del come dovessero onorarsi i grandi cittadini.» Insomma, chiunque è vago della lode di onesto, o taccia od abbia il coraggio della condizione in cui favellando si pose. Corrono adesso molti anni che a me, preposto alla direzione del Giornale lo _Indicatore Livornese_, pervenne lettera anonima di preghiera a stampare gravissimi addebiti contra diversi scrittori del Giornale, e più specialmente contro uno. Mandai subito la lettera a questo uomo, il quale accorse premuroso interrogando se intendessi pubblicare cotesta diatriba in suo vituperio. Risposi: avergli mandato lo scritto perchè se mai alcuna cosa vera contenesse, con la debita ammenda la riparasse; se falsa, stesse con tranquillo animo e disprezzasse. Io poi, dato alle fiamme lo scritto, così ammoniva severamente l'anonimo scrittore nel nº 28 del Giornale, 7 settembre 1829: AVVISO Dixerunt ei: — _Quid venit insanus iste ad te?_ Qui ait eis: _Nostis hominem._ _Regum_ IV, 9. Con la posta del 30 agosto pervenne alla direzione dell'_Indicatore Livornese_ uno scritto anonimo intorno diversi articoli di questo Giornale. — Noi siamo dolenti d'impiegare alcun verso del nostro Foglio onde fargli convenevole risposta; ma dacchè in altro modo non sapremmo come manifestare le nostre intenzioni all'ignoto scrittore, così è pur forza che i nostri _Associati_ se ne chiamino contenti. — Ora dunque, e sia qualsivoglia l'Anonimo, apprenda che male dimostra conoscere la indole nostra se crede con perfida lusinga indurre noi a collegarci seco in altrui vituperio. Per quanto serba dominio la volontà sopra le azioni umane, ci serberemo incontaminati da ogni bassa voglia, da ogni vile talento, dalle invidie, dalle ire solite a turbare gl'ingegni che muoiono in un punto stesso _alle memorie e alla vita_. Finchè lo consentono i cieli (e sempre spero il consentiranno), la mano che verga questo scritto si manterrà degna di stringere qualunque altra mano Italiana. Sono le lettere un sacerdozio morale, e guai a colui che sotto aspetto diverso le considerasse! — Gli tornerebbe in danno la sua stessa dottrina, e la sua fama sarebbe quella di Erostrato! — L'attitudine a bene scrivere largita a pochi avventurosi, se volta a ritrarre le immagini di una calda fantasia, ossivvero ad esporre sentenze di utili dottrine, feconda fiori immortali a quegli avventurosi; — adoperata in turpi litigi, vuolsi paragonare alle spade della patria affidate ai suoi figliuoli per la propria salvezza, e che nell'ira del vino si cacciano forsennati nelle viscere. Percorrendo la storia delle sepolte generazioni, gemiamo di sdegno per le risse letterarie del Poggio, del Filelfo, di Giorgio da Trebisonda, del Valla e degli altri uomini dotti del quattrocento. Nel sesto secolo vediamo un Castelvetro comprare da un sicario l'anima di Alberigo Longo colpevole di averlo biasimato, e Castelvetro fuggirsi nudo per la notte dalle case che gli aveano incendiato gli offesi dalla sua penna mordace: — prostituire Annibal Caro _i sacri studi, e le onorate scuole, onde è simile a Dio la nostra mente_,[35] in turpi motteggi contro quel _veglio, di cui lo stil, l'inchiostro, e le parole, son la rabbia, il veleno, il ferro e il dente_.[36] Insaniscono vituperati l'uno contro l'altro l'Aretino e il Berni. Sacrilego Bettinelli abate si accosta alla venerata urna di Dante, e ne conturba le ossa; altri ardisce angustiare l'anima grande di Vittorio. — Ma perchè non paia che noi, siccome ne avemmo rampogna, più che non convenga ci dilettiamo a cercare per le colpe umane, ci rimanghiamo dal noverarle più oltre. — Forse vorrà alcuno gittarci sul volto il nostro stesso esempio, e ci dirà: Tu pure trascorresti alla ingiuria vergognosa. — Altri coll'altrui esempio si difenda, non già noi: _peccavi_!.... Ma se alcuna notte vegliammo su i volumi del vero, se di qualche speranza facemmo lieta la patria, ci sia rimesso il peccato. Non si conti quel giorno nei giorni dei nostri anni:[37] noi ne daremmo cento perchè fosse obbliato. Dunque non saremo migliori mai dei padri defunti? Andrà perduto il tesoro della esperienza, e dalle passate sventure non ritrarremo nè anche il retaggio del sapere? Nello spazio brevissimo in cui viviamo enti pensanti tra polvere e polvere, non ci ameremo mai? Certo comparvero nel nostro Giornale alcuni scritti immeritevoli di lode: — basti il rifiutargliela; ma si vorranno biasimare gli animi pronti, la voglia amorosa che indusse quei cortesi ad adoperarsi in prò di questo patrio instituto, mentre altri poltriva in ozio neghittoso? — Dovranno incontrar male per bene? — Forse distesero un cattivo scritto, ma fecero una buona azione; e se intendiamo biasimare le buone azioni, noi non vediamo cosa altro ci rimanga ad operare se non che commendare le pessime. Imitino questi oscuri Scrittori la modestia dell'_Indicatore Livornese_: — quale è il libro che sia stato da noi con parole amare ripreso? — Il tempo vuole le _sue giustizie_ sopra le triste scritture, e noi lasciamo adoperare a questo unico riparatore dei torti la sua potenza. Le discipline gentili non si promuovono con gli esempi del pessimo; la mente e il cuore si scaldano davanti ai simulacri di eterna bellezza, nè Longino e gli altri retori innamorarono le genti del _sublime_ con i falli di Omero. L'anonimo Scrittore, forse _classico_ abbastanza da aver letto le male arti delle Sirene nella _Odissea_, stimò col suono della lusinga assopir noi onde gli offrissimo mezzo di avvilire la lama di un individuo. — Anonimo, anonimo, rammentati che Ulisse si turò le orecchie, e passò illeso dal canto pericoloso, come noi dalle tue adulazioni. — Ogni uomo rende pur troppo, e più che non crede, strettissimo conto davanti la pubblica opinione delle opere sue; ma te chi fece, anonimo, giudice di morale? — Forse la fama candidissima, forse il retto costume? — Mostrati allora a viso aperto, e vediamo se tu sarai quegli che devi scagliare la prima pietra. Ora dunque io voglio che sappiano, che per anni e per vicende non mutato in nulla, molto meno avrei saputo o voluto mutarmi in queste norme di onesto vivere civile, e che io respingo da me con disprezzo il sospetto di potermi tanto avvilire da scoccare dalla corda di pelo di volpe dardi velenosi riparato dietro l'anonimo. Io ho detto sempre a viso aperto, a mio rischio e pericolo, quanto mi parve dover dire; e Dio consentendo, la mia giovanezza non avrà a vergognarsi della mia virilità. NOTE: [1] Comparisce Bianca. [2] Una reliquia. [3] La campana dell'_Ave Maria_. [4] Dando una pugnalata a Dore. [5] Dore para il colpo, e ferisce Geri in una mano, che cadendo gli lascia il suo mantello. [6] Incespica, e cade in ginocchio. [7] In apprestandosi a fasciargli la piaga. [8] Si alza turbato, e fattosi al balcone, l'apre, e dopo aver considerato alcun poco il sol nascente, torna là donde si era mosso. [9] Cassa dalla lista il nome del fratello. [10] Segna i nomi del fratello e del nipote su la lista dei proscritti. [11] Mostra il mantello di Geri. [12] Fermando Geri. [13] Volgendosi a Gualfredo. [14] Torna a cassar dalla lista dei proscritti i nomi del fratello e del nipote. [15] Si adopra in qualche modo a cancellare le tracce del sangue, e rimane meditando in quell'atto. [16] Lo trae al luogo d'ond'ella rimosse le tracce del sangue. [17] Accennando la porticella del palazzo. [18] Facendosi verso un balcone. [19] A Manente. [20] A Lemmo. [21] Lascia cadersi oppresso da grave dolore sopra una sedia. [22] Levandosi furente [23] Fa atto di svellersi gli occhi. [24] Lo rattiene pietoso. [25] A Geri. [26] Siede, e pone la testa tra le mani. [27] Si assopisce a' piè dell'arca. [28] Lasciano la torcia a un braccio della bara. [29] Alza il manto della bara. [30] Cade sulla bara, e rimane coperta dal manto. [31] Gualfredo a Geri. [32] A Uberto che il trattiene. [33] Parini. [34] Pacchiani. [35] Sonetti di Annibal Caro contra il Castelvetro. [36] Idem. [37] Job III. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of Project Gutenberg's I Bianchi e i Neri, by Francesco Domenico Guerrazzi *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I BIANCHI E I NERI: DRAMMA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. 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