The Project Gutenberg eBook of Il buco nel muro This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Il buco nel muro Author: Francesco Domenico Guerrazzi Release date: December 20, 2020 [eBook #64089] Language: Italian Credits: Giovanni Fini, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL BUCO NEL MURO *** IL BUCO NEL MURO STORIA PUBBLICATA PER CURA DI F. D. GUERRAZZI MILANO CASA EDITRICE ITALIANA DI M. GUIGONI 1872 _Proprietà letteraria._ Tip. Guigoni PROLOGO Il quale dirà a quelli che lo leggeranno di che cosa ragioni. Care ricordanze dì affetto e venture di rado liete, spessissimo triste, e avvicendarsi cotidiano di fratellevoli offici operarono sì, che Domenico e Francesco sieno, come si costuma dire, due anime in un nocciolo. Il mio e il tuo non si conosce fra loro; amici sono, quali io penso che ormai non se ne abbia a trovare più la stampa nel mondo: a mala pena forse tu ne potresti cavare la idea nel trattato, scritto da quell'omaccione che un giorno fu Marco Tullio intorno all'_Amicizia_; piuttosto ti ci accosteresti dove tu immaginassi la domestichezza loro arieggiare quella degli Etiopi, appresso i quali si reputa non pure inurbano ma turpe se lo amico dello zoppo accompagnandosi con lui per le vie della città non arrancasse a sua posta; ond'è, che dopo tutto questo non ti parrà forte davvero se ti dirò, che essendosi recato l'altro ieri Francesco in casa Domenico, inteso dalla fante com'egli fosse uscito per certe sue faccende, se ne andasse diffilato nel suo studio dove assettatosi davanti al banco si mise, senza un rispetto al mondo, a rovistare per le scritture di lui. Il banco di Domenico è veramente un magnifico arnese, condotto di legni pellegrini con sottile lavoro: glielo donava il padre suo, comecchè questi non si trovasse con gli averi in troppo prospera fortuna, e ciò non mica per superbia, bensì perchè ornando oltre le sue facoltà lo studio al figliuolo, questi riponesse nell'animo, che quando il nostro spirito dà opera alle umane discipline: Ond'è simile a Dio la nostra mente ha da penetrarsi di celebrare una cosa solenne, anzi l'accettissimo dei sacrifizii al Creatore dell'universo. Forse è da credere che il padre di Domenico, il quale, per quello che ne afferma il suo figliuolo, fu uomo assai versato nello studio della vita e dei costumi dei nostri uomini grandi, così operando venisse mosso dal concetto medesimo, che persuadeva Niccolò Machiavelli a deporre gli abiti villerecci, e vestire il lucco prima di entrare nello studio, dove o meditabondo consultava i secoli passati, o scrivendo i discorsi sopra le Deche di Tito Livio legava la sua sapienza ai secoli avvenire. Di fatti tôrre cotesto banco a Domenico sarebbe stato lo stesso che separare il Paganini dal suo _Stradivario_, o arrisicando più oltre, Orfeo dalla sua lira; ed egli, mostrando talvolta un regolo accomodato con garbo, narrava molto piacentemente come egli fanciullo, vegliando le intere notti seduto al banco, certa fiata vinto dal sonno ci si addormentasse, e la lucerna a caso spinta mettesse fuoco al legname, onde il padre da cotesta notte in su cogliendo ora un pretesto, ora un altro, non si coricasse se prima non lo aveva veduto andare a letto; la quale cosa egli prese indi a poco a costumare più presto del solito per aver agio, appena sentiva addormentato il padre, di uscirsene chiotto chiotto da letto, e tornarsene ai libri. E intanto che Domenico narrava questi casi faceva bocca da ridere, ma una lagrima gli dondolava nel cavo degli occhi, cui egli, io non so dire il come, si ribeveva. Perchè mai ei se la ribeveva? Forse pari alla conchiglia marina, la quale mostrata appena la perla richiude i nicchi, egli aborriva palesare i tesori di bontà, che possedeva nell'anima: ad ogni modo egli adoperava nel celare le sue virtù tanto studio, quanto altri ne pone a nascondere i suoi vizii. Queste cantere e questi scaffaletti del banco baleneranno un giorno peggio delle batterie di un vascello a tre ponti per fulminare coloro, che contristarono il suo cuore, o piuttosto (e questo io credo che preferirà) per chiarire come il suo cuore fosse ampio abbastanza, dopo cavatone un mantello pei suoi nemici e per parecchi dei suoi amici, a farci il gonfalone per la Patria rifiorita alla gloria vetusta: ma questo poco gl'importava, o fingeva importargli poco: ad ogni modo scarsi erano quelli che in cotesto punto lo sapevano, come saranno numerosi gli altri che a suo tempo lo dovranno sapere. E allora quale egli avrà premio dei benefizii per esso seme di perpetui tradimenti? Quale ristoro agl'ineffabili affanni senza pure stringere le ciglia patiti da lui? — E' pare gli basterebbe un ricordo, un saluto, un palpito del popolo, che glorioso ammira come visione divina, e avvilito dei vizii proprii e dalla tirannide altrui deplora come fratello infermo; nè cercherebbe di più; imperciocchè egli, sicuro dì vivere oltre i funerali, non dubiti che ai morti dentro le tombe si aspettino altri premii della vita nobilmente spesa, o piuttosto creda che essi ne godano un solo ma grande e divino, cui egli fa consistere nel sentirsi ricordare dai superstiti con amorosa benevolenza. Però egli non ci spera; chè la esperienza gl'insegnò come popoli e mari conservino nella medesima maniera la traccia di quale per sua sventura ci navighi sopra; e questo contrasto tra il desiderio e la speranza lo tengono sempre annuvolato a mo' di un giorno di primavera, allora quando le lagrime della pioggia appese ad ogni fiore e ad ogni foglia, mentre la luce dei nuvoli rotti riconduce la giocondità sopra la terra, porgono testimonianza che al breve corruccio della natura successe la consueta grazia del cielo. Inclito figlio di questa alma genitrice, unica forse per la potenza di cavare dalle lagrime i colori dell'iride, ornarsene il capo come gemme preziose e potere dire: — sono la regina del pianto, ma sono regina! — A Domenico più che a veruno altro intelletto italico parve che Dio veramente consentisse la facoltà di celebrare con immortale epitalamio le nozze del dolore con la poesia, e cantando innamorare le anime della sventura.... Ma di ciò basti, chè altri potrebbe credere com'io, svisceratissimo di lui, ci mettessi troppa mazza; torniamo al banco: quivi ogni cosa occorre disposta ottimamente. Havvi una cantera, sul davanti della quale si legge: _Religione_, e dentro tu vedi sopra frusti di carta appunti di letture e note di pensieri; però lo inchiostro diventato colore della ruggine dimostra come lo scritto appartenga a tempi remoti, e che da parecchi anni Domenico ha smesso aggiungervene dei nuovi. In fondo della cantera occorre un foglio stampato, il quale dice così: _livree, che tutti i sacerdoti di questo mondo mettono addosso a Dominedio, perchè questi faccia loro le spese e le faccende di casa, massime quelle del Canovaio_. Alla cantera della Religione tiene dietro quella della _Filosofia_: poche note ci scorsi dentro, ed anco queste vecchie: nel fondo stanno scritte, così che appena aprendola tu le possa leggere, le parole: _dolori di capo_. Succede un'altra cantera indicata col titolo: _Economia politica_; io la trovai piena di appunti presi, ma considerazioni di suo mi ci apparvero scarse, e queste poche cominciavano nel modo che segue: — _uscita topo di casa alla scienza, entrò nella dispensa della presunzione, dove, pasciutasi a crepa pancia di ciarlataneria, non le riesce più di ripassare dal buco; dov'ella da ora in poi si risolva a provare molto, ad affermare poco, e sopratutto a procedere modestamente, a casa sua un giorno e' ci potrà tornare_. Seguita la cantera della _Poesia_: un vero scrigno di diamanti, tutti della sua miniera, e forbiti e riforbiti con inestimabile amore: verun frammento è rimato, bensì tutti dettati in prosa o in verso sciolto, e lì pure nel fondo occorre di leggere: «Odio il verso che suona e che non crea, «Perchè Apollo mi disse: io Fidia prima «Ed Apelle guidai con la mia lira.» e poco sotto: — _fiore caduto dalla mano della creazione per gloria e per conforto della razza umana_. Di Storia ci hanno due cantere piene zeppe di appunti, e dentro appaiono distinte in iscompartimenti, che dicono: — _Storia Epica_ — _Storia Filosofica_ — _Storia Oratoria_ — _Storia Drammatica_ — _Storia Pindarica_ — _Storia Chiaccherina_ — _Storia Bugiarda_ — _Storia Maligna_ — ed anco ci erano i nomi degli scrittori, scarsi quelli delle prime maniere di storia ed antichi; infiniti gli altri e moderni, anzi pure modernissimi, quali fossero però io non trovo spediente palesare; questo sarà fatto a suo tempo e luogo: intanto basti sapere che anco il fondo di questa cantera possiede la sua leggenda, la quale dice: _fili di passioni perpetuamente pari, rinterzati con contingenze così fisiche come morali perpetuamente diverse; spesso in meglio, qualchevolta in peggio_. Dentro una cantera più capace delle altre occorreva scritto: _Filosofia della Storia_. Mirabile la quantità dei ricordi presi, non so nemmeno io per quale vaghezza, sopra carte di mille colori; forse essi dinotavano i popoli ed anche i tempi diversi; ma proprio di suo io non ci lessi niente, eccello la solita sentenza in fondo del coperchio, che diceva: _arte di cercare e scoprire leggi regolatrici del mondo morale. Peccato! che i professori avendo creduto scoprire prima di cercare, è da temersi che non troveranno più il bandolo della matassa: e' sarebbe stato mestieri confidarne la cattedra ad Aasvero, l'ebreo errante dalla nascita di Gesù Cristo in poi, ed anco non sarebbe bastato. Ora volge la stagione della semente; i secoli futuri porteranno quella della messe; adesso non fa frutto, però che gli uomini continuino a guardare il mondo col cannocchiale alla rovescia: cercate_. Sopra la cantera accanto si leggeva: _Politica_, e rovistandoci dentro si trovavano note, frammenti e ricordi, e per la massima parte estratti dal Machiavello, che egli dichiarava maestro nell'arte di guardare bene le cose e giudicare gli uomini dirittamente: in fondo egli aveva scritto: _scienza difficile per cui pensi un mese, parli tre minuti, ne scriva cinque; pianissima per quale ne parli sempre, ne scriva tutti i giorni, e non ci pensi mai. I giornalisti l'hanno condotta a giornata, ma questi spettano alla politica come zanzare alla estate. Però chi avrebbe cuore di respingere la dolce stagione pel tedio delle zanzare? E chi astenersi dalla politica per colpa dei giornalisti? Questa scienza con larga notizia dei casi passati e dei presenti, pratica grande di negozii, esperienza di uomini, di rado s'inganna a giudicare su i generali, pure qualchevolta s'inganna; nei particolari poi erra meno infrequentemente, perchè su certi punti le bisogna indovinare: ora, oltrecchè lo indovinare gli effetti di cause recondite sia sempre incerto, accade spessissimo che avventure inopinate, e nè inopinabili, ti vengano a mutare le carte in mano, e la opera che sotto gli occhi tuoi cominciò Achille tu te la veda finire da Tersite. Palestra terribile, dove non pertanto troverai Ercole e i Pimmei, nè questi già insaccati nella pelle leonina di quello, bensì baccanti, schiammazzanti e arrangolati da dare la emicrania a Ferdinandone di porto_[1]. Oltre le note questa cantera conteneva un libro scritto di mano di Domenico, e certamente opera sua; era nitido, senza mende e però ricopiato; nondimanco nell'ultima pagina occorreva avvertito: _va rifatto_, e dopo quest'altra avvertenza: _post obitum_. — Ah! se per leggerlo stampato devo aspettare che tu sia morto, Domenico, io pregherò il cielo di non farmelo leggere mai, non già per prolungare la mia vita di un filo solo oltre la trama che mi prescrissero i fati, bensì perchè aborro sopravviverti, Domenico. Penultima veniva la cantera della _Filologia_. Se non me ne fossi sincerato proprio con questi occhi, io non avrei creduto mai che Domenico potesse raccogliere con pazienza affatto benedettina tante schede intorno alla lingua: eranvi migliaia di voci lasciate fuori dei dizionarii, con gli esempii accanto, di locuzioni erronee, di modi tenuti buoni e poi trovati viziosi, e all'opposto di modi ripresi per viziosi e poi rinvenuti legittimi; di prove ad esprimere il concetto stesso in venti e più maniere, vera anatomia della lingua, e in fondo della cantera al solito si leggeva: _arnesi pei quali lo intelletto si rivela all'intelletto: parole, ale dell'anima; parole, vincolo per cui un cuore si lega e si separa da un altro cuore_. L'ultima cantera era piena di racconti, e sopra la più parte di questi si leggeva: _politici_. Certa nota chiariva la intenzione dello Scrittore, la quale sonava in questa sentenza; _che cosa importi esercitare l'arte per l'arte non si capisce; le scritture movono sempre dalle passioni o buone o triste o neutre, e partoriscono sempre effetti profondi nella comunanza civile. Tu venererai buone le lettere allorquando confortano la virtù, ottime poi e pietose quando la confortano languente, e la riaccendono spenta: imperciocchè la virtù si spenga talora pur troppo in mezzo ai popoli! Però reputa addirittura cuore malnato colui, che potendo sovvenire con libere carte alla Patria serva o avvilita, se ne astiene. Ora la Patria nostra non comparendo libera tutta, e la parte emancipata non agile, non vispa, bensì torbida e tarda nei moti dell'odio e dello amore, a queste infermità devono principalmente sovvenire le lettere. Se così non adoperano, quale tu troverai differenza tra il letterato e il musicante e lo strione? Guai al letterato, che sè reputa artista soltanto! Egli ha da essere, la Dio mercè e la valorosa dignità sua, tale che alla occasione si possa cavare da lui o magistrato, o legislatore, o capitano, o maestro di quelle scienze, che porgono fondamento all'ordinato vivere. Dicono che le opere uscite dalle mani delle arti durino assai più delle altre, che la passione crea; e questo dissi certa volta ancora io; però, fattaci sopra migliore considerazione, adesso risolutamente nego, conciossiachè le figure, le imagini, i baleni insomma della scrittura prorompano appunto dalle passioni: ma quando anco e' fosse così, coteste opere di arte si conserveranno come le statue di granito dei re di Egitto, spaventevoli all'occhio, obliate dalla memoria._ _Ora di Ettore non avanzano simulacri, e tu, di', non preferiresti durare nei ricordi della gente, che hanno sacro il sangue versato per la Patria come Ettore, che ingombro agli occhi come le statue di Faraone? Però quando pensi, scrivi, argomenti ed operi, intenditela con la tua coscienza e con Dio, nè porgere mai orecchio al susurro dei critici maligni, i quali vivono a mo' dei tarli, rodendo, e le infelici opere loro ad altro non sono buone, che a deturpare il capo di Giove con le tele di ragnatelo._ Così argomenta Domenico, e, se bene o male, altri giudichi, non io; solo dirò che Francesco, oltre i racconti politici, vide nella cantera altri manoscritti intitolati racconti fantastici, racconti bizzarri; ma Domenico gli aveva condannati tutti scrivendo sopra le fasce: _stravizii dello spirito_. Di questi percosse Francesco uno, il quale Domenico aveva battezzato _Storia_, non già racconto, ond'egli senza riguardo alcuno lo prese e cominciò a leggerlo. Allo improvviso, quando ei se lo aspettava meno, si sentì battere sopra la spalla, e levando il capo vide Domenico, il quale sorridendo gli disse: — Tu hai morso la mela proibita e duolmene per te, che d'ora innanzi tu partorirai i figliuoli con molto dolore e morirai. — — E tu goditi la tua immortalità e lasciami leggere, rispose Francesco, non meno dell'altro motteggevole e arguto; diffatti non si rimase finchè non giunse in fondo, allora si ripose prima il manoscritto in tasca, e poi voltatosi a Domenico con faccia imperterrita, disse: — Vedi, tu avresti a fare una cosa; tu me lo avresti a donare. — Queste tue maniere, rispose Domenico, arieggiano agli imprestiti volontarii, che l'Austria metteva addosso alla Lombardia; tu prima pigli, poi chiedi. — — Già! O che i buoni esempii non hanno a fruttare mai? Diversamente, tu lo sai, tanto è il male che non mi nuoce, quanto il ben che non mi giova. — Ma tu, che cosa intendi farne? — Stamparlo. — Guardatene! Ch'ella è Storia pretta, sai? E le _Dramatis personæ_ vivono tuttavia. — Che monta questo? Mettonsi esse forse alla gogna per opere ree? Dunque lascia correre l'acqua per la china; ancora, ne caveremo guadagno, e poichè certo uomo di Stato versatissimo nelle scienze economiche (e mi dicono anche nelle morali, ma in queste un po' meno) bandisce come articolo di fede, che i poveri non hanno a possedere altro patrimonio, eccetto quello della carità pubblica, così bisogna da ogni lato empire questo salvadanaio: ne caveremo pertanto danaro pei poveri. — Se dal mio calamaio può uscirne questo, accostati Francesco tanto ch'io possa rovesciartelo sul capo, e amministrarti un secondo battesimo d'inchiostro: ma di' un po, come si chiama egli l'uomo di Stato tanto generoso pel popolo? — Te lo dirò un'altra volta; per ora mi basta che tu convenga meco che non importava innalzare la economia alla dignità di scienza, nè beccarsi il cervello per riuscire poi a cosiffatte dottrine. Il Senato di Genova fin dal principio dello scorso secolo, senza andare a scuola di pubblica economia, intendendo manifestare l'animo riconoscente al popolo dell'Algaiola, il quale per esserglisi mantenuto fedele vide le sue case sovvertite, i colti arsi, gli armenti distrutti, con amplissimo senatusconsulto decretò potessero cotesti fedeli disperati domandare liberamente la elemosina a Genova ed anco nelle Riviere, credo, ma questo non lo so bene. — Misericordia! Pensa se Genova si sarà rimescolata da cima a fondo per tanto scialacquo! Dev'essere senz'altro da quel dì che giudicarono necessario sottoporre in massa il patriziato genovese ai curatori, perchè non mandasse a male il fatto suo. I discorsi che furono poi _hinc et inde_ alternati non importa riferire; tanto ne avanzi che Francesco si portò seco il manoscritto, il quale adesso stampato voi leggerete, se vorrete leggere. Forse non vi dorrà avere gittati via il tempo e i danari: ad ogni modo vi consoli il pensiero che il danaro non avrete gittato via di certo, perchè tapperà qualche buco fatto a cagione di debito palese o di miseria segreta. — FINE DEL PROLOGO. CAPITOLO PRIMO Nel quale s'impara come Betta facesse il Thè, e il signor Orazio la lasciasse stare. Il signor Orazio se n'era tornato a casa lieto più del solito: giù per le scale lo avevano sentito cantare un'aria degli _Arabi nelle Gallie_, cosa che gli tolse l'incomodo di sonare il campanello, imperciocchè Betta lì pronta gli avesse fatta trovare l'uscio aperto: entrato in camera e sovvenuto da Betta, spogliò le vesti cittadine, scalzò le scarpe, depose la parrucca, ed in vece di tutte coteste robe e' si mise addosso una guarnacca di casa di dobletto bianco stampato a mele, carciofi e non so nemmeno io con quanti altri frutti e legumi, propriamente da disgradarne le sottane di Pomona; il capo cacciò dentro un beretto di cotone candidissimo, che pareva crema sbattuta, e i piedi dentro un paio di pantofole di marocchino giallo, fatte venire a bella posta da Tangeri. Dopo avere dato sesto ad ogni cosa, seguito sempre da Betta, come il _pio_ Enea dal _fido_ Acate, scese a vedere come stessero i famigli, e a dare e a ricevere la buona sera; poi visitò Lilla la gatta, che appunto in quel giorno si era sgravata felicemente di mezza serqua di gattini; per ultimo volle governare di propria mano, secondo l'usanza vecchia, Rebecca e Tobia, cagna e cane per bontà esemplare, castità, discretezza e parecchie altre virtù cardinali (teologali non si era mai accorto che ne avessero) degne in tutto di figurare (se posso dirlo senza tema di sbalestrare a parole) nella santa scrittura a canto le altre bestie famose, che ci hanno preso stanza. Terminato il giro, Orazio tornò in cucina dove prese un lume, che i famigli avevano intanto preparato, Betta ne tolse un altro, e così si avviarono entrambi verso lo studio; qui Orazio si assettò, si rincalzò e dopo essersi stabilito fermamente sopra il suo seggiolone a bracciuoli, domandò: — Betta! si è visto nessuno? — Visite ne anco una, di fogliacci un diluvio: ecco lì, stanno davanti a lei. — O bene! esclamò Orazio fregandosi le mani alla vista di cotesto mucchio di carte, ecco di che passare senza ozio la serata. — Ed anche la massima parte della notte, e forse tutta senza chiudere un occhio: ma, caro signore Orazio, mi dica in grazia, o che ci guadagna ella a stillarsi il cervello a quel modo? Di quattrini, la Dio mercede, non ne abbiamo più bisogno; la scienza, mi ha detto gente che la conosce, è una torta tanto grande, che un uomo, il quale vivesse quanto Noè, se arrivi mai a mangiarne una fetta ed anco piccina, è bazza; e poi ella ne deve possedere tanta da caricarne un mulo e forse due; dunque quando, caro signore Orazio, vorrà riposarsi una volta? — Avremo tanto tempo da riposare al campo santo, Betta mia; ma addesso va a farmi... o piuttosto va' ad ordinare che mi facciano il thè. — Betta andò, fece e tornò col thè: interrogato Orazio se avesse a mescerglielo, quegli col cenno della mano rispose affermativamente, e Bella lo versò secondo il consueto in due tazze, una per lui l'altra per lei; ma siccome nè egli beveva, nè la invitava a bere, così ella si ritrasse da parte pure aspettando. Con le braccia pendenti, le mani una dentro l'altra intrecciate, Betta si mise ad agguardare Orazio, ma non le veniva fatto di vederlo in viso, perocchè egli lo tenesse nascosto dietro un foglio, che pareva leggere con molta attenzione: tuttavolta riusciva difficile a credere ch'egli leggesse, tremandogli le mani per modo, che il foglio andava su e giù come il pettine del telaio. Betta si peritava a dirgli qualche cosa, e per altra parte si sentiva rifinire dentro; col naso al vento, gli occhi fissi, il volto sporto a mo' di bracco da punta intorno al cespuglio dove ha sentito stormire la lepre, ella ogni atto spiava, ogni moto di Orazio, i quali le porgessero così un po' di addentellato per iscalzarlo intorno alle cause di codesto subito affanno, quando ecco di botto a Orazio si prosciolsero le braccia, e il foglio gli cascò di mano; senonchè per virtù di volontà si riebbe tosto, e a prevenire qualunque domanda molesta disse con voce avventata: — Betta! il thè... va farmi il thè.... — Caro signore Orazio, riprese Betta con un suono di voce che la sola donna possiede, conciossiachè nel sangue delle donne entrasse per eredità di quelle figliuole degli uomini, che si sentirono dire dagli angioli: _vi vogliamo bene_; — caro signor Orazio, la non se la pigli così di petto; ella che la sa lunga, dovrebbe approfittarsi per suo uso del precetto, che vale meglio un asino vivo che un dottore morto. — Tu parli di oro in oro, ma come entri la morte col thè, io non ce lo so vedere. — La morte no, che Dio guardi, bensì il suo affanno; oh! ella non è di quelli che perfidia a negare un po' di cervello a noi altre povere creature, perchè non sappiamo di lettera. No davvero, le si legge in viso, come in un libro da coro, il male che le ha fatto cotesto maledetto fogliaccio; dianzi aveva una cera da Gabriello, adesso poi... sto per dire che quando il re Erode ordinò la strage degl'innocenti, doveva essere come lei, o giù di lì... e poi la vuole vedere chiara che il suo intelletto ha dato nei gerundii? Miri un po': il thè lo ha chiesto da venti minuti in qua, ed io gliel'ho mesciuto per suo comando... e da venti minuti le sta davanti ed ella non se ne accorge. — Ouf! che caldo, proruppe Orazio, e con la mano destra si coperse gli occhi, pure studiando sottrarsi alle investigazioni di Betta; per la quale cosa pigliò il partito d'interrogarla: — Betta, che ora fa adesso? — Era scritto che per cotesta notte ad Orazio non dovesse andarne una a bene, onde Betta, levatesi ambedue le braccia sopra il capo formando come un angolo a sesto acuto, esclamò con voce piagnolosa. — O santa Vergine, proteggetelo voi! Oh non ha sentito il suo orologio lì sul cammino sonare testè le undici ore, e chetarsi giusto nel punto in che mi sono chetata io. — Bè, sta bene; or va, Betta, a dire ai servitori che si mettano a letto, non ho bisogno di loro. — Sì, signore. — E se ti accomoda, ci puoi andare tu stessa. — No, signore. — Come no signore? — _In primis_ perchè lasciandola sola in cotesto stato mi parrebbe commettere peccato mortale, e poi quando verrà Marcellino a casa, o che vuole andare ad aprirgli lei? — Fa come vuoi, sorella mia, fa come vuoi, ma aspettalo fuori, e appena arrivi mandamelo subito, e porta via il thè che è diventato freddo, io non ne ho più voglia. CAPITOLO SECONDO Come a Marcello nello staccarsi da Betta si attaccassero tutti i Santi del Calendario sul capo. Marcello arrivò a casa quando l'ora si accostava più presso al tocco di quello che si discostasse dalla mezza notte; grattò lieve lieve la porta per due ragioni, la prima per amore di non destare lo zio, la seconda per sospetto che lo zio svegliato non conoscesse l'ora tarda del suo tornarsene a casa; però dobbiamo avvertire che nell'animo di Marcello l'ordine delle ragioni non si era presentato per lo appunto quale lo abbiamo scritto noi, anzi capovolto; ad ogni modo l'amore per lo zio, se non precedeva e forse nè anco accompagnava l'amore per sè, sarebbe stato ingiustizia affermare che non lo seguitasse da vicino così che i due amori apparissero uno solo, almeno per quelli che non istavano a squattrinarla tanto pel sottile. Ma era scritto nei fati che per cotesta volta le cautele andassero vuote, però che Betta, fattasegli incontro, gli dicesse lo zio aspettarlo levato. Il giovane stette alquanto sopra di sè sorpreso, e domandò poi: — O che novità sono elleno queste, Betta? Sai tu nulla? — Nulla, Marcellino, ma governati a modo, perchè in fondo alla marina ci è del torbo. — Tempeste di luglio! esclamò il giovane, e senza levarsi nè il cappello di capo, nè il sigaro dalla bocca, in due salti entrava nello studio dello zio. — Lo zio si levò appoggiando una mano sul tavolino, e non mosse passo verso il nipote, quindi volto il capo a Betta rimasta su l'uscio della stanza, le disse: — Sorella, ora puoi andartene a letto; — e poichè Betta, presaga di futuri guai, nicchiava, egli aggiunse: — contentami via; — le parole veramente pregavano, ma la voce sonava imperativa, quale a memoria di Betta non aveva mai adoperato il signore Orazio; ond'ella così non bene sicura rispose: — Senta, signore Orazio, ella chiuda bene l'uscio dello studio, io me ne vado in cucina e mi ci serrerò dentro; se le abbisognasse qualche cosa, non manchi di sonare il campanello... io starò sveglia... e starò sveglia... Signore! — tanto non potrei dormire. — Ormai tu lo hai per còmpito di farmi sempre alla rovescia di quello che desidero... accomodati come ti pare. Rimasti soli, zio e nepote, Orazio con voce sommessa ed anche un tantolino velata incominciò: — Marcello, noi dobbiamo separarci... — Per andare a dormire...? — No; voi per imparare a vivere, io per inverdirmi di non avere saputo insegnarvelo. — E chi può volere questo? E chi anco volendo lo potrà? — Voi lo avete voluto, ed io lo voglio: quanto al potere, basta che vi pigliate la fatica di scendere sedici scalini e tirarvi la porta di casa dopo le spalle, la è cosa fatta. — E lei è rimasto levato per darmi questa bella notizia? Veda, zio, meriterebbe per gastigarlo che io le leggessi tutto intero un fascicolo della _Civiltà Cattolica_, ma questa atrocità non commetterò già io, che non voglio la morte del peccatore, bensì ch'ei viva e si penta. Capitoliamo via: io per ora me ne andrò a dormire, e siccome la notte porge consiglio, le risponderò riposato domani.... — Domani! Domani voi avete a trovarvi di molte miglia lontano da Torino. — Zio, abbia carità di me... casco dal sonno. — Marcello, tu scherzi in mal punto. Rammenti quello che tanto spesso ti andava dicendo e ti ripetei anco ieri l'altro? — Marcello, che dal trapasso del plurale al singolare e dalla voce tornata blanda argomentava prossima a sciogliersi la neve, con crescente arroganza rispondeva: — Ma che le pare? Ci vorrebbe altro per tenere a mente tutto quanto ella mi dice! Bisognerebbe prima di tutto che empissi il mio capo, il quale confesso vuoto, ma non di grande capacità, e poichè questo non basterebbe, avrei a pigliare magazzini a pigione e lì dentro riporre il volume delle sentenze, massime, apotegmi, _eccetera_: ciò, come vede, menerebbe una spesa terribile e spianterebbe le regole della savia economia, ch'ella tanto spesso mi va predicando: sicchè osservi bene ch'egli è proprio per amore di lei, mio caro zio, e delle cose sue se di quanto ella mi dice la mattina procuro che non mi rimanga la sera nè anco una gocciola nel capo. — Allora mi toccherà riprincipiare. — Oh no! zio, in coscienza non me ne importa nulla. — Importa però a me, disgraziato, che tu l'abbi presente. — Zio, noi in virtù dell'autorità nostra la dispensiamo; davvero non ci si sentiamo disposti — e in così dire si alzava per andarsene, quando lo zio lo afferrò per un braccio, e suo malgrado lo costrinse a sedersi. — Abbi pazienza e ascoltami. — Queste parole veramente furono proferite col solito suono di voce, senonchè Marcello levando gli occhi vide balenare dentro a quelli dello zio il lampo, che ricordò avere osservato nei tigri sul punto di avventarsi; allora gli tornò in acconcio il consiglio di Betta, e persuaso alla fine che si faceva davvero, tacque e si propose a modello i piloti, i quali allo avvicinarsi della tempesta si recano in mano il timone e forbiscono il vetro della bussola. — Marcello, allora cominciò lo zio, tu mi cascasti addosso come il tegolo sul capo di Pirro, orfano, lattante, infermo e povero quanto Giobbe: mandai tosto per un medico proprio co' fiocchi amico mio sviscerassimo, il quale dopo averti guardato di sotto e di sopra mi disse così; non te ne avere a male, proprio così: — che cosa volete farvi di questo mostro? Buttatelo nel corbello della spazzatura, tanto ei non può vivere, — Io risposi: — mi sento capace di agguantare la natura pel collo e cavarle i denti, come Sansone costumava ai lioni. — Bò! voi? soggiunse il medico: voi senza Betta non siete capace ad assodare un uovo. — Che Betta non ci abbia a entrare, non perfidio, io ripresi; ma con lei di aiuto io mi vanto preservare da morte questo infante, e ci gioco. — Non ne farete nulla. — Scommettete. — Denari buttati. — Scommettete. — Ve gli mangerei. — Promettete per Dio! urlai fuori dei gangheri: tu scappasti via impaurito strillando ed agitando le braccia, sicchè a somigliarti a un pipistrello si correva rischio che questo se la pigliasse a male: il medico ed io scomettemmo un pane pepato a Ceppo. Ti curai, ti vegliai, Betta sempre diacona e suddiacona; in te schermii con suprema cautela quel tuo filo di vita, quasi lumicino riparato dal vento col cavo della mano: ti fui padre, m'ingegnai esserti madre; se come madre col latte del mio seno non ti ho nudrito, col calore del mio seno ti ho riscaldato: — e a Ceppo vinsi al medico il pane pepato. Tu poi dal giorno della discrezione non cessavi pure un momento di ficcare i denti in questo seno, che non ha palpitato per altri che per te; così è da venti e più anni, tu mi regali ad ogni capo di anno un calendario di morsi nel cuore. Io era bello allora, vedi, e giovane della tua età o poco più, e il sangue mi andava di su e di giù per le vene a modo di cartucce di aghi d'Inghilterra: ogni volta che m'imbatteva in qualche fanciulla che mi andasse a genio, spiccava un salto come un capriolo, e le ficcava gli occhi addosso, e ce li teneva fissi, finchè non mi fosse scomparsa davanti; qualcheduna anco ne ho vista voltarsi e ricambiare meco uno di quegli sguardi, tu mi capisci, che valgono quanto i baci o giù di lì: insomma, guà, io mi sentiva, sto per dire, fatto a posta per gli affetti soavi, pregustava i gaudii, m'inorgogliva nella potenza della famiglia: — Signor no, una voce dentro prese a predicare, signor no, poichè Dio della famiglia le ha dato begli e fatti gli effetti; ciò significa ch'ella deve astenersi dalle cause; lo ringrazii dunque per averlo letiziato di figliuoli senza moglie: se ci pensa su, conoscerà che le toccarono le ostriche quasimente senza i gusci; la si tenga addirittura come nato vestito. — Eh! sarà così, conchiusi fra me, e senza badare ad altro ti murai arpione unico alla parete domestica per attaccarci ogni scopo della mia vita. Quando Betta da una parte ed io dall'altra dondolavamo la tua culla, Betta, diceva: — — Veda signor Orazio, questa creatura ha da essere proprio il bastone della sua vecchiaia. — — Lo credo anch'io, rispondeva, rimane a vedersi però se su le spalle o nelle mani. Ora tu sai, Marcello, che a patirti bastone sopra le spalle quasi quasi mi ci era addattato, ma tu, per Dio, mi hai dato un picchio sul capo; questo non aveva presagito, ed a questo non mi posso adattare. — E qui il povero uomo si asciugava il sudore; quindi riprese: — Ti ho fatto educare in ogni maniera di lettere e di scienze; e mi ci sono adoperato io stesso: dei classici tu mi hai fatto galletti, le grammatiche vendesti per comperarti tanta polvere da botta, la libreria convertisti in campo di battaglia; un giorno e' stette a un pelo che tu non mi mandassi all'aria la casa. Dopo tanto tempo perduto e tanto danaro speso mi fai il piacere di dirmi che cosa tu abbia imparato? Niente, nè meno a conoscerti un solennissimo ciuco ed a vergognartene. Un giorno mi dicesti: — Che vuole ella, zio, io mi sento l'argento vivo nelle ossa; le parole, che leggo, dopo mezza ora mi pare che mi ballino il _valzer_ davanti gli occhi, vorrei movermi. — E così sia, ti risposi: vuoi milizia? — No. — Vuoi marineria? — Nè meno. — L'agricoltura ti garberebbe? — Villano mi sento abbastanza senza bisogno di studio. — Questa risposta fu un lucido intervallo del tuo giudizio: ho capito, replicai, tu se' come Bertoldo, al quale non piaceva verun albero dove lo avevano ad impiccare... — Sicuro! interruppe il giovine, mi gingillai un pezzo perchè una delle sue sentenze, che non mi era voluta uscire di mente, mi diceva, — chi sta bene non si muova, ma poi scelsi... — Lo so pur troppo, scegliesti viaggiare, e in Isvizzera ti recasti a pescare le trote, a Lisbona per bere il vino di Oporto, a Londra per vedere le corse di cavalli, a Palermo per assistere alla festa di santa Rosalia, a Buenos-Ayres per sincerarti come fosse fatta la Manuelita figliuola del Dittatore Rosas; e come la lumaca girando intorno al cavolo cappuccio ci segna una striscia che pare di argento, tu viaggiando pel mondo ti lasciasti dietro una striscia di debiti, che poi è toccato per onore della casa pagare a me, come se fossi andato co' filibustieri ad arraffare danaro in America, o co' banchieri ebrei a risucchiarlo a Parigi. — Il mondo vecchio ti bagnava, il nuovo ti cimava. — È vero — disse Marcello contrito in suono di _confiteor_. — Ti diedi compagnia di gente dabbene, da ventiquattro carati tutta; ti andai ricordando sempre gli esempii onoratissimi di tuo padre, mio degno fratello, e del tuo avo, fiore di galantuomo; nè da me, spero, tu ne imparasti di cattivi. E queste ultime parole Orazio pronunziò abbassando gli occhi, ed arrossendo con tale un senso di pudore, che se l'angiola (io veramente dichiaro di non sapere se tra gli angioli ci sia il maschio e la femmina, ma mi giova credere che ci abbiano ad essere) della verecondia gli fosse in quel momento capitata davanti gli avrebbe detto: — Ave, fratello! — Dopo breve spazio di tempo il signore Orazio continuò: — La notte del giovedì grasso, mentre spegnevi il lume per andartene a letto, io ti ammoniva: O Marcello e fino a quando?... E tu m'interrompesti dicendo: — Zio; piglia un granchio, metta in vece di Marcello, Catilina, s'ella vuol ripetere il famoso esordio _ex abrupto_ di Cicerone: però non ti badai e ripresi: e fino a quando del cuore del tuo povero zio non farai maggior caso di quello che i ragazzi si facciano delle ghiaie, allorchè le tirano a schizzare tre o quattro volte su l'acqua e poi cascano giù in fondo? — — E tu qui, le lo rammenti? M'interrompevi da capo e soggiungevi: quanto a questo poi, caro zio, mi piglio lo impegno di farle saltare cinque volte o sei. Io sempre senza avvertirti continuai: aveva sperato cavare da te un pezzo grosso, e in vece di grosso mi diventi un giorno più dell'altro un pezzo duro; questo veramente non entrava nei miei calcoli, e nondimeno pazienza. Va a letto, figliuol mio, e se non mi è riuscito tirarti su dall'Asino, agguantati con le mani e coi piedi per non dare un tuffo nel birbone. Buona notte! — Per alcuni giorni tu camminasti per la via della virtù da disgradarne Brigliadoro, che come sai fu il cavallo di Orlando; ma ahimè! giunti che fummo a mezza quaresima, io me ne ricordo sempre con raccapriccio, e me ne rammento bene, perchè frastornato dal chiasso mi affacciai alla finestra, dove vidi i monelli, che, dopo avere appiccato la coda a Don Margotto, gli facevano dietro la baiata: ebbi per la prima volta a minacciarti... sì, cattivo soggetto, tu costringesti, me Orazio, a minacciare il figliuolo del suo fratello, che lo avrebbe cacciato di casa se non mutava vita. Gli spessi rimedii, a dose doppia, accusavano il male aggravato. — Marcellino, da capo io li avvertiva, il mio cuore è infermo per te; la ragione gli tasta il polso, e sente diventargli ad ogni tratto più languido: fa attenzione, se un giorno o l'altro gli capitasse morire, guai a me! guai a te! Coi rimpianti non risuscitano i morti. Allora che potremmo fare noi? Uno diviso dall'altro, immemori del passato, irrimediabilmente, c'incontreremmo come estranei intorno al cataletto per cantargli _requiem æternam_. — E a chi, zio, dovremmo io insieme con lei cantare l'uffizio dei morti? — E non hai capito, disgraziato, la metafora? Al mio cuore, al mio cuore morto per te. Ma sta attento qui che adesso viene la stretta; tu, col moto del sasso che accostandosi al centro si moltiplica, hai percorso tutto il campo del vizio a scavezzacollo, e già, mira, tu tocchi... tu hai toccato... già le porte del delitto si spalancano dinanzi a te. — Oh! — mise uno strido il giovane e si cacciò involontariamente la mano sotto la veste come per cercarvi il coltello. — Sta fermo, Marcello, che non ti venisse voglia di ammazzare il tuo zio... protesto in tempo utile che non ci sarebbe il mio consenso. — Ma il giovane strabuzzando gli occhi borbottava: — oh! fosse qui lo scellerato, che mi assassina nel cuore dello zio. — Ecco l'assassino; vien qua oltre e leggi. Lo zio Orazio mise in mano al giovane Marcello il foglio cagione di tanto scompiglio; il giovane gittandovi su gli occhi impallidì, abbrividì, poi di repente diventò pavonazzo, ed abbrancato il foglio lo ridusse in pezzi. — Ecco l'orso, disse il signore Orazio, il quale, ferito, morde lo spiedo e non bada al cacciatore. — Forse sentiamo, via, o non ha a chiamarsi spia costui? — Che rileva questo? Attendi alla fiamma e lascia andare il fumo. — Sì, ma ad ogni modo è spia. — Ti rispondo come il Berni allo Aretino: Il papa è papa e tu sei un furfante. non giace qui il nodo: è vero o no quanto si scrive lì dentro? — Costui non aveva diritto di spiare i miei passi. — È vero o no quanto si scrive lì dentro? — Il giovane getta via il cappello, si tira da parte i capelli scoprendosi la fronte, e dice: — è vero! A Orazio saltarono addosso i brividi: se con quel piglio, se con cotesta risolutezza il giovane avesse affermato: — non è vero. — Orazio lo avrebbe, mi credo io, mangiato per la tenerezza, come le gatte talora costumano co' propri figliuoli; ora per non dare uno stramazzone in terra gli toccò ad agguantarsi con ambedue le mani al tavolino. Così rimasero alquanto, zio e nipote; per ultimo questi in tuono bimolle domandò: — Signore zio, e giudica veramente che questo sdruscio non si possa rammendare. — Vedi se venisse Bastiano stesso a pregarmene, quel Bastiano, Che dell'anima mia tanto è gran parte io gli direi come Carlomagno a Desiderio: . . . . . . . cosa mi chiedi Tal che da me non otterria Bertrada. da ora in poi: Tu vêr Gerusalemme io verso Egitto; perchè la nostra amicizia è arrivata al _laus Deo_. — E questo non fa nè anco una grinza, ma poniamo caso che lo zio Orazio pregasse lo zio Orazio. — Se ciò accadesse e Orazio riuscisse, da ora in poi mentre io radendomi la barba mi guardassi nello specchio, direi: questa è la faccia del primo sciagurato, che Dio abbia messo in questo mondo. Potrebbe accadere che il castigo cascasse addosso a te solo, ma da ora innanzi la colpa sarebbe di tutti e due, e poi si ha da intendere del castigo del mondo, perchè quanto al castigo di Dio a me non potrebbe mancare la sua parte. — Voglia almeno la bontà del mio zio concedermi, che io mi sono trovato a darci dentro col capo senza accorgermene nè manco. — E sia, ma pensi tu che ti giovi cotesto? Anzi ti condanna. Per me giudico la sventatezza più biasimevole della premeditazione assai: invero questa commette il peccato per pensarci troppo, quella per non pensarci punto, onde si ha da credere che chi molto almanacca, non trovando il proprio conto a commettere una mala azione, se ne astenga, mentre il capo sventato la commetterà sempre. — Tanto è, un divario ci corre, e venisse Marco Tullio in persona non saprebbe persuadercelo, perchè gli è il cuore, propriamente il cuore, che lo insegna. — Io tengo fermo, e aggiungo per tuo uso, che se ti capiterà dì sdrucciolare in prigione a vanvera vedrai che ti ci tratteranno come se tu ci fossi entrato a caso pensato. — Dunque veniamo al grano. Che consiglio mi dà, zio? Deh! non me lo neghi; consideri che fuoco per accendere il sigaro e avvertimenti di buona condotta in Italia non si ricusano a nessuno; anzi qui in Piemonte ho sentito dire che non si nega neppure una terza cosa a cui la domanda, ed è la croce dei Santi Maurizio e Lazzaro, sicchè pensi se può onestamente rifiutarmi i suoi savi consigli! — _Osanna in excelsis!_ L'alba del buon senso comincia ad apparire anco pel mio nepote; veramente può chiamarsi l'alba dei tafani, che spuntava a mezzo giorno; ma non fa nulla; porgi gli orecchi e ascolta. — Dacchè tu ti sei fatto canzonare in quattro parti del mondo io non ci vedo altro rimedio, che tu provi la quinta. Va in Australia, immagina che tuo zio sia morto e tu abbia rifinito il suo patrimonio, cose, come vedi, che vanno si può dire pei loro piedi. Tu dimentica me... cioè non mi hai a dimenticare, bensì non fare più capitale di casa tua; io dimenticherò te... o piuttosto addormenterò la mia memoria, e la sveglierò di qui a cinque anni: allora urlerò ai quattro venti della terra: Chi avesse o sapesse chi avesse, come fu la grida per le calze di Messere Andrea, e qui darò i tuoi segnali: naso lungo, pelle filigginosa, gambe storte, mani di falco, una spalla più alta dell'altra quattro dita, occhi colore di sospiro di amante disperato, capelli tinti nella coscienza di un moderato aristocratico: età quella del giudizio, che, bene intesi, ei non ha avuto mai, e come nella grida di Messere Andrea aggiungerò: Chi lo avesse trovato non lo bea, ma lo riporti al curato della Madonna degli Angeli, che gli sarà usata cortesia. Se riportato o venuto da te, ti troverò _quadrato_ nelle massime del ben vivere, allora io ti aprirò la casa mia, e con la casa il mio cuore. Se no, no. — Ora basta; ma, zio, non mi vuole dare altro, mentre sto in procinto di separarmi forse per sempre da lei? Ella pure mi ha detto che mi fu padre e madre; ora che fanno eglino i genitori quando i figliuoli vanno lontano da casa? E tale favellando Marcello s'inginocchiò davanti allo zio; questi con una mano tenendosi sempre forte al tavolino, e l'altra abbassando sul capo di Marcello, disse: — I fabbricanti di drammi pei teatri diurni tanto non hanno potuto sciupare le benedizioni, che non sieno sempre atti solenni; ecco io ti benedico per conto di tuo padre e di tua madre, ed anco per conto mio ricevi questa benedizione con la religione con la quale io te la do; la virtù, mi giova sperarlo, è come una miniera dentro al tuo cuore, scava di notte e di giorno e forse tu la troverai. — Farò quello che potrò, zio: ma mi conservi intiero il suo cuore, me lo difenda, sa, dagli assalti dei miei nemici, che ora sapendomi disgraziato stanno come di regola per moltiplicare. La separazione nuoce sempre, sia che si parta, sia che si rimanga; infatti Agamennone tornando a casa trovò che la moglie, mentr'egli attendeva a coronarsi il capo di allori su lo Scamandro, ella glielo aveva inghirlandato di bene altre frasche in Argo; e per giunta Egisto lo ammazzò; e quella povera fanciulla ebrea, che non si sa nè manco come si chiamasse e fa piangere tanto, per essere corsa verso il padre reduce dalla battaglia, dopo aver pianto la sua verginità su i colli (allora le ragazze piangevano la verginità su i colli, adesso non ci è più pericolo che la piangano nè su i colli nè pei piani), ebbe a sentirsi segata la gola da quel malanno d'Jefte. — O Marcello, tu mi rammenti cose tanto _fuori di squadra_, che io non ho mai saputo accordare con la idea dello eterno _Architetto_. Io non so se veramente Dio ci abbia fatto a similitudine sua; questo altro so bene, che gli uomini hanno fatto Dio a similitudine di loro e lo hanno conciato pel dì delle feste. Quando l'Angiolo scese dalla parte di Dio a comandare ad Abramo di ammazzargli il suo figliuolo Isacco, Abramo doveva mandare pei gendarmi e fare mettere l'Angiolo in prigione; e quando Jefte si presentò al gran sacerdote dicendogli: — ho fatto voto a Dio di segare la gola della mia figliuola, costui doveva rispondergli: — sega la tua, matto da catena; — ma qual sacerdote dissuase mai un galantuomo da commettere qualche bestialità? — Però ora non corre tempo di queste novelle... alzati e pulisciti i ginocchi.... — Il nostro Redentore, continuò Orazio, mandando gli apostoli a bandire la divina parola pel mondo disse loro: — picchiate e vi sarà aperto: oggi bisogna confessare che i tempi sono mutati; perchè se tu andassi a picchiare agli usci altrui, saresti sicuro che non ti sarebbe aperto, bensì ti rovinerebbero addosso cose più o meno solide con pronta tua edificazione; onde io ti munisco del debito viatico — e qui, tratto dalla cantera un portafogli, lo porse al nipote, che voleva schermirsi dall'accettarlo, se non che Orazio insistendo favella: — Piglia, Marcello, e fa conto di vedere redivivo in me uno degli antichi Narbonesi, i quali prestavano il danaro per riaverlo nell'altro mondo; solo procura risparmiarli, perchè questi ti do volentieri, ma ti avviso che quando me ne chiederai degli altri, sarà lo stesso che chiederli al Conte Verde su la piazza del Municipio. E tacquero: da una parte e dall'altra si erano detto tutto quello che avevano voluto dirsi; e pure stavano fermi uno di faccia all'altro senza osare guardarsi; due tazze colme fino all'orlo poste sopra uno zoccolo di granito, per tempo che volga, non traboccheranno mai; ed essi non erano diversi da queste. Marcello si attentò muovere un passo a ritroso. Sperava o no lo richiamasse lo zio? Questo non possiamo dire; certo è però che egli si trattenne alquanto sul primo, più risoluti impresse gli altri, a mezza stanza voltò le spalle e corse via a precipizio. Corse e saltò gli scalini a quattro a quattro, ma giusto nello aprire l'uscio di casa si accorse di due cose, ch'ei giudicò nella diversa loro importanza ugualmente necessarie, pigliare il cappello e dire addio a Betta. Però da storici fedeli qui dobbiamo narrare come innanzi tratto egli pensò a Betta; ond'egli accostossi alla cucina, aperse piano piano l'uscio e sporgendo il capo vide Betta, la quale, malgrado la buona volontà, era stata vinta dal sonno, e con la faccia abbandonata sopra le spalle dormiva. Marcello si peritò svegliarla ed ebbe ragione, perchè sarebbe stato proprio peccato; tanto appariva piena di beatitudine; pareva che, come il patriarca Giacobbe, ella nei suoi sogni contemplasse gli angioli andare su e giù per la scala, che dalla terra arrivava fino alla botola del paradiso, a mo' di guardie del fuoco, che si affrettino a spegnere lo incendio; e se il signor Bersezio criticando osservasse che Betta non poteva rassomigliare il patriarca Giacobbe, perchè questi portava la barba e Betta no, gli risponderei, la si dia pace, caro signor Bersezio, che anche Betta la sua brava barba l'aveva, e se non se la faceva radere, non era certo per obbedire al divieto della legge delle dodici tavole, che probabilmente Betta non aveva letto mai e il signor Bersezio nemmeno[2]. Pertanto Marcello richiuse l'uscio, ed appoggiò il capo al pannello, giusto in mezzo al lunario che Betta ci aveva impastato sopra. In cotesto atto esclamò: — O Betta, a te non correva debito amarmi, e pure mi amasti come madre; tu nel tuo cuore di donna hai trovato sempre una parola di conforto pei miei dolori, e nelle tasche del tuo grembiale uno scudo alle mie matte spese; tu benefica come il sole, senza curarti se ti avessi preso in uggia, tutti i giorni ti sei levata per me, mi hai schiarito e mi hai riscaldato. Quando ti sveglierai e mi saprai partito, tu certo mi accuserai di cuore sconoscente, e pure non è così; non potendoti fare adesso, come non ti ho fatto mai, verun bene, non mi è bastato l'animo di torti la pace del sonno! O Betta, ecco io piango per te, io, che non ho pianto nello staccarmi dallo zio; ma tu queste lacrime non vedi e non le crederai. O Santi, che formate tutto questo lunario su cui appoggio il capo, se durate in paradiso ad essere quei fiori di virtù che già foste in terra, deh! siatemi testimoni voi presso Betta della sincerità delle mie lacrime nel separarmi da lei. E staccò il capo dal lunario, ma il lunario non si staccò da lui: come il Crocifisso, dicesi, si sconficcò dalla croce per istrignere nelle amorose sua braccia (bisogna avvertire per ogni buon rispetto ch'egli rimase sempre inchiodato nei piedi) santa Caterina da Siena, così il lunario si spastò dall'uscio per unirsi a Marcello, il quale lo rimise al posto per benino dicendo: Sta al tuo posto, che dei lunarii da qui innanzi parmi che io ne avrò da rivendere. Essendosi accorto poi di avere lasciato il cappello in camera dello zio, salì nella sua, ne prese un altro, e se ne uscì di casa, abbottonandosi il vestito fino al mento; e proponendosi di non tornarci finchè non avesse messo insieme quattordici milioni. Una voce interna si attentò obbiettargli: — O se fossero dieci non ci torneresti? — No signore, hanno da essere quattordici: cascasse un quattrino, non se ne fa nulla. Betta, svegliatasi di soprassalto, corse nello studio di Orazio, e lo trovò sul pavimento svenuto: non si smarrì di animo la buona femmina, lo fece rinvenire, lo spogliò, lo sovvenne a coricarsi a letto, lo vegliò tutta la notte e per altre sei consecutive, finchè non si fu rimesso in piedi di cotesta batosta. CAPITOLO TERZO Dove si fa conoscere chi fossero Orazio e Betta, non che le gravi considerazioni di Orazio sul consorzio umano in proposito del gatto Maccabruno vestito da Gesuita, e nel cane Tobia vestito da Giandarme. Adesso che Marcello viaggia e Orazio è a letto custodito da Betta, parliamo un po' dei nostri personaggi, e cominciamo da questa, dacchè ultima ella ci cascasse dalla penna. Bella era l'angiolo di Orazio; però voi non vi avete a figurare che Betta fosse buona come le pecore o le vitelle sono, mai no. Betta aveva conquistato valorosamente la sua bontà, aveva combattuto e aveva vinto le male passioni; i travagli della lunga contesa le si leggevano in volto: quantunque queste passioni ormai stessero rassegnate a non levare più il capo, tuttavolta Betta dal piglio risoluto e da una certa tal quale trucezza dello sguardo si mostrava pronta a riappiccare la battaglia dove occorresse. Questo tornava in massima lode di Betta, per mio avviso, imperciocchè che cosa valgano le innocenze o non tentate, o ineccitabili, o fuggitive, io non so vedere. Allora le cause del tenerci ritti paiono, e sono, poste piuttosto fuori che dentro di noi, mentre all'opposto per le virtù battagliere le cause stanno barbicate dentro l'anima nostra. Delle prime, dove il tentatore trovi modo di appoggiare le scale, novantanove su cento puoi giudicare che saranno espugnate, muraglie e cassero tutti di botto, mentre le seconde sono capaci di attendere il nemico ai merli, e, agguantatolo pel collo, scaraventarlo a capo fitto nel fosso. Insomma, quelle ti si mantengono oneste finchè la campana del furfante non le chiami a refettorio; per queste l'ora del ribaldo non viene mai, o l'orologio è scarico; per le prime tu hai il simbolo in Eva, prima che le si faccia davanti il serpente, per le seconde tu l'hai in Ercole bambino, che, trovatisi sotto mano nella culla due serpenti, senza cerimonie gli strozza. Tale è Betta, la quale essendosi condotta dagli anni primi della sua gioventù a vivere in casa del signor Orazio, mostrò possibili a stare insieme due cose dall'universale reputate contrarie, voglio dire reverenza ed affetto tra uomo e donna, e, quello che sembrerà eziandio più difficile, tra padrone e serva, anzi tra intelletto esperto in ogni maniera di sapere ed intelletto che dalla natura in fuori non pigliò mai insegnamento nè ispirazione da nessuno. I lunghi anni vissuti insieme da Betta e dal signor Orazio facevano fede che i cuori non sanno di ragguagli, non conoscono misure; e che quando essi sono coppe di oro il più o meno di oreficeria non cresce nulla al valore intrinseco della materia. Tutto questo quanto allo affetto: circa lo ingegno, Betta era la battuta che rimetteva in chiave i pensieri discordanti di Orazio; il piombino dell'archipendolo, che gli faceva ritrovare la linea retta smarrita per la copia dei pensieri o delle immagini che ribollivano nel cervello di lui: in una parola Betta era il buon senso in gonnella. Di Marcello toccai abbastanza: importerà meglio dire dello zio, uomo proprio nato apposta per essere a suo tempo impagliato e messo nel museo di Storia naturale; egli nasceva di padre generoso, per colpa degli avi ridotto al verde di ogni bene di Dio; tuttavolta questo uomo per virtù di pertinacia trasse la famiglia della miseria con istento ineffabile, talchè il cavare la pietra dal pozzo non gli sembrava paragone bastevole ai travagli sofferti: quando, il forte uomo morì, se avesse lasciato ai suoi figliuoli retaggio così ricco di facultà come di esempii lodevoli, i figliuoli avrieno potuto condurre i Rotscildi per mozzi di stalla; ma dall'accurata educazione e dalla benedizione in fuori, più poco essi poterono raccogliere della eredità del padre, che non per questo venerarono meno come santa memoria. Quando la disdetta piglia a perseguitare vogli popolo, vogli famiglia o individuo, tu ti potrai accorgere ch'ella procede a modo delle tempeste di mare, le quali non cessano mica da un punto all'altro; bensì, calato il vento, continuano a nabissare le onde, che a mano a mano scemano il mareggio e per ultimo quetano: pertanto, giusto a quel modo, la sventura, che infuriò nel padre, rallentava nei figli, ma non troppo, i quali per maggiore stroppio morirono tutti immaturi, eccetto Orazio, e senza lasciare altra discendenza da Marcello in fuori. Orazio, quando accadde l'accidente infelice, contava ventiquattro anni, ed era di corpo ottimamente composto e di aspetto gentile; adesso lo vediamo arrivato a cotesta età, che si può dire che stia a cavallo al fosso della morte e della vita, come sarebbe la cinquantina, con forse qualche altro anno per giunta, e nonostante ciò, a guardarlo bene, si sarebbe giudicato subilo che la bellezza doveva essere passata di costà: ma ciò poco rileva. Orazio, al pari del padre suo, era stato da madre natura scolpito nel porfido; rimasto solo superstite della famiglia, come la colonna del tempio della Concordia in Roma, si ficcò in testa rilevare la sua casa: veramente, pensandoci sopra, parve anco a lui una faccenda seria e difficile a un dipresso quanto pretendere che cotesta colonna unica, ritta, intendesse sollevare su la base le gemelle rovesciate e ricostruir il tempio: tuttavolta avendo sbandito dall'anima sua ogni altra passione ne commise il governo a due amori, o piuttosto ad un amore solo applicato a due cose distinte. Patria e famiglia. Una senza dell'altra egli tenne che non potessero stare; che questa venerò come il tempio, l'altra come la divinità. A che allevare figliuoli, educarli, tirarli su nello esercizio delle buone arti, ammaestrarli negli esempii magnanimi, eccitarli alla pratica della virtù, se poi avessero solo a limitarsi nei traffici o a perigliare sui campi? Ei tornerebbe lo stesso che mandare cappelli nell'isola (alcuni opinano che sia terra ferma e giaccia da queste parti), dove gli uomini per testimonianza di santo Agostino nascono senza testa. E per altra parte qual pro travagliarci nei negozii pubblici, sostenere contese, affrontare odii, patire di ogni ragione disagi, rilevare ferite, dalla stessa morte non rifuggire, se la lode e l'utile di tali fatti noi non potessimo, se superstiti, goderceli in casa co' nostri consanguinei e defunti lasciarli ai posteri pegno perenne di riverenza e di affetto? E' sarebbe lo stesso che sonare il violino dentro un campo santo. Orazio trovò la Patria serva, e più dei tiranni assai gli increbbero i popoli servi della propria viltà; oscuro e solo dapprima, poi con pochi eletti cominciò la terribile iliade di odio, da un lato barattato in tanto odio a misura di carbone; di amore dell'altro non ricambiato da amore se non che tardo e scarso; ond'egli, quando lo assaliva l'umore nero, diceva, ripeteva e tornava a ripetere il verso: — Ho servito a signor crudele e scarso, — ma s'egli apponesse cotesto verso, come fece messere Francesco Petrarca, all'amore, o se piuttosto a qualche altra cosa, _come sarebbe il popolo_, non lo lasciava capire. Pari allo Anteo della favola, quante volte egli picchiò di uno stramazzone in terra, tante si rilevò più gagliardo di prima; e più destro di lui ei procurò di non farsi sollevare per morire soffocato nelle braccia di Ercole. Sembrava fatto dalla natura di panno di lana il quale per mantenersi immune dalle tignuole ha mestiere di essere battuto almeno una volta la settimana: nelle prigioni studiava quanto un benedettino, e ritemprava i ferri ed altri ne fabbricava, per tornare subito più infesto alla guerra sì dell'odio e della pietà; ma di ciò basta, che di Orazio a noi preme discorrere come privato. Fu sempre sua ferma opinione che l'uomo, il quale non si affatichi a uscire di miseria, meriti di essere schiavo; se la ricchezza genera vizii, il bisogno è padre di viltà, onde le moltitudini, anco da cui le ama, chiamansi vili, e meritamente; chi non le ama loro contende persino le nozze e rinfaccia la prole! Certo all'uomo uscito dal bisogno si apre tuttavia immenso innanzi a sè il campo per peccare, chè la cupidità lo tira co' desiderii smodati, e le lusinghe del lusso allettano infinite; ma il bisogno gli è proprio la Cibele dalle cento mammelle, che allatta la infinita famiglia dei delitti: alla più trista esci dal bisogno, e ti scemerai mezze le cagioni della infamia: però chi potendo procurarsi agiata la vita si mantiene indigente, egli reputava che se non era ancora tornato di casa dentro un articolo del Codice penale, e' fosse ito per le chiavi e a fissarne la pigione. Anzi teneva per fermo che il popolo, per provare se quelli che gli si profferivano tutori dicessero davvero, aveva una pietra di paragone infallibile in mano, la quale egli pregava volesse, almanco d'ora in poi, adoperare più spesso, e questa pietra aveva due facce, la prima se i suoi protettori, essendo ricchi oltre i termini del bene ordinato vivere civile, presumessero durare così e peggio se aspirassero a dovizie maggiori; la seconda che, messi da parte statuti, leggi, assemblee, dicerie e franchigie, pensassero a sicurare, migliorare e allargare il pane del povero, redimendolo dalla necessità o dalla tentazione di farsi schiavo ed infame. Se la prova tornava, il popolo si gettasse pure a chiusi occhi in balìa del tutore, chè allora egli lo avrebbe sperimentato Agide, o Cleomene o Gracco; se non tornava, rispondesse al tutore quello che disse la tortora al gatto Mur, quando questi spasimandole al lume di luna sotto le finestre la supplicava di scendere ad aprirgli la porta, tanto ch'egli potesse chiarirla più da vicino del gran bene che le portava. Rispetto a lui, il dì che potè fare incastrare i suoi bisogni dentro la cornice della rendita, chiamò Betta, la invitò a inginocchiarsi insieme con esso e levare le mani al cielo per rendere grazie a Dio proprio col cuore, e questo egli fece perchè in casa sua non permetteva immagini per reverenza al Padre della natura; se non che Betta, a ridosso di queste sublimità, trovandosi in mezzo della stanza con le mani e con gli occhi levati in su vide un ragnatelo, e riavviata com'era, di un tratto rizzassi in piedi, e presa la spazzola lo levò, e poi appoggiata sul manico ammonì Orazio tuttavia genuflesso: — Che sia benedetto, noi abbiamo l'aria di raccontare le nostre ragioni ai travicelli. — — In ginocchio, Betta; di là da cotesti travicelli ci è Dio. — — Badi a quello che dice, signore Orazio; oh, non sente che sopra i travicelli i figliuoli del casigliano fanno il diavolo a quattro? — — Non importa, Betta, giù in ginocchioni; sopra quei ragazzi che fanno il diavolo a quattro ci è Dio. — Orazio un tempo passò per avaro e non lo fu mai; superbo era molto, e soleva dire in proposito che se non ci fosse stato Cristo, il quale gl'insegnò la dignitosa alterezza della natura umana, egli avrebbe acceso le candele al diavolo perchè padre della superbia; ed aggiungeva che in difetto di altro, per salvare l'anima dalle tignuole, egli giudicava la superbia canfora unica al mondo. Per questo egli sovvenne sempre il suo simile in secreto, e studioso della soddisfazione della propria coscienza, la lode altrui non cercava nè curava; le repulse poi erano clamorose, e non contento a negare, voleva con lunga diceria chiarire il postulante che a cagione delle sue pessime qualità avrebbe avuto tutto al più diritto ad una fune che lo impiccasse. Certa volta domandarongli l'elemosina pei bambini chinesi, allegando ch'egli era per riscattarli dai cani; egli si abbattonò precipitosamente fino all'ultimo bottone delle vesti e rispose. — Nè anco un quattrino; la mia carità somiglia ai cerchi cagionati dal sasso che si butta nell'acqua; il primo cerchio comprende me e la mia famiglia, il secondo i parenti e gli amici, il terzo i compatrioti; altri cerchi non sa fare e dentro questi rimango. Ipocriti! siete pieni di carità pei chinesi, e veruna ve ne piglia pei vostri fratelli italiani. Ipocriti! pietosi pei morti, potreste vedere un vivo stramazzare dalla fame senza porgergli un boccone di pane. — L'amore suo per la Patria si mostrava così esclusivo, che durò un pezzo a insegnare la geografia al nipote con la carta d'Italia unicamente ritagliata alle alpi, e così impastata sopra un foglio bianco, e quando Marcello gli veniva domandando: — E di là a sinistra oltramonte che cosa ci si trova, zio? Egli borbottando arruffato rispondeva: — Dicono che ci si trovi un paese, il quale si chiamava la Francia. — Se per disgrazia il fanciullo lo interrogava su i paesi a destra di là dalle alpi, egli si rizzava in piedi co' capelli ritti gridando: — Ci è il diavolo che ti porti. — E per cotesta sera non si faceva più lezione; e' fu pertanto dall'amico Bastiano che il ragazzo seppe coteste contrade essere abitate da una gente perversa, odiatrice nostra, e da noi più che mortalmente odiata, che aveva nome di austriaca; e fu eziandio per intercessione del signore Bastiano che egli pure ottenne dallo zio l'atlante intero e il mappamondo. Orazio non solo non era capace di commettere mala azione per volontà, ma per natura gli sarebbe riuscito impossibile; e tale pretendeva lo estimassero non solo i conoscenti, ma altresì quelli che non lo avevano in pratica; onde riusciva talvolta gioconda la sua meraviglia, se comprando egli qualche cosa per via e non si trovando danaro allato, il venditore non si contentasse delle sue parole: — Galantuomo, vi pagherò domani, — e agguantatolo pel braccio non lo lasciasse andare. In questo fu irremovibile, che non volle mai giuocare, e chiamato un dì per testimone, e negando il giuramento, a cui gli notava ciò imporre la legge, egli rispose: — Ma lo nega Cristo; ora io non conosco legge che vinca il vangelo; — e poichè minacciavanlo restringerlo in carcere, egli crollate le spalle soggiunse: — Mi ci hanno messo tante volte per cause meno sante che adesso mi parrebbe andarmene a nozze. — La ipocrisia aveva virtù non solo di voltarlo sottosopra nel morale, ma gli cagionava le convulsioni: pietoso era e magnanimo, aborrente dal sangue; pure senza tema di aggravarmi la coscienza affermo che se la ipocrisia avesse avuto persona, egli per finirla a un tratto, l'avrebbe appostata al cantone, e quivi ammazzatala di una coltellata nel cuore; ma poichè la ipocrisia non vestiva persona, e di lei solo apparivano i portati, egli sgomento di poterli sperperare si rimaneva; imperciocchè se si fosse trattato unicamente dei tartufi neri, col tempo e la pazienza avrebbe sperato di metterci buon sesto: ora poi che pullulavano su a miriadi anco i tartufi bianchi, che a paragone degli altri pizzicavano due volte tanto, gli erano cascate le braccia e si era dato per vinto. Soleva rammentare sovente come il padre suo gli avesse lasciato per ricordi, primo di non avere che fare con gli _uomini_, co' _cavallini_ e con tutta la robuccia _piccina_; secondo: se hai da comprare, compra giovane; perchè gli anni non fanno cascare solamente i denti e i capelli, bensì ancora le virtù; il diavolo appunto è cattivo perchè vecchio. In obbedienza al primo ricordo fuggiva come peste ogni luogo frequentato da insetti, ed una volta che gli accadde di passare accosto ad una botte di vino guasto, si cavò il cappello salutando rispettosamente i moscerini, e a cui sorridendo lo domandò che cosa intendesse con cotesta burla di significare, egli con volto scuro e vista paurosa rispose: — _Terribile è la potenza del piccino. Fra le fatiche di Ercole tu non ci trovi quella dei moscerini; guai a lui se l'avesse tentata, egli ne sarebbe uscito a capo rotto!_ E fu creduto dai più ch'egli intendesse accennare ai mediocri in lettere, ai moderati in politica, alla turba dei giornalisti ebrei battezzati e cristiani circoncisi, i quali al mestiere antico di tosare le monete avevano aggiunto quello moderno di tosare le reputazioni dei galantuomini. Si dilettava di arti; amò la poesia, ma più d'abaco, per modo ch'ei stava dietro ad una scrittura, con la quale intendeva dimostrare per via di operazioni aritmetiche, piane, facili e da stamparsi nei lunarii a luogo dove mettono i numeri del gioco del lotto, che i delitti rispondevano ad altrettante somme sbagliate. Ma se i modi suoi apparvero bizzarri, bisogna dire che per la favella si era ridotto a tale, che chiamare pane il pane, e sassi i sassi, ormai non sapeva più nè poteva. Cotesto suo spirito, che ritraeva alquanto dello Sterne e moltissimo del Montaigne, un po' per imitazione dei begli umori italiani dei secoli decimoquinto e decimosesto, un po' per naturale propensione, si era fabbricato un linguaggio grottesco, a riboboli, che non immeritamente si potrebbe paragonare a quella maniera di pittura che si chiama _raffaelesca_, e nondimanco è più antica di Raffaelo assai: per essa in cima di uno stelo lunghissimo miri uscire da un fiore leggiadro a mo' di insetto anche più leggiadro una ninfa; più sotto un amorino che avendo alle spalle invece di ale un nicchio di chiocciola striscia su di melo granato e ride; là di mezzo a un canestro di fichi e di mele sbuca la testa barbuta di un filosofo; qui ai manichi di un candelabro stanno appese a guisa di spegnitoi due sfingi con la coda mezzo squame di serpe, mezzo foglie di acanto; in altra si corrono dietro sistri e crotali, lire e nacchere in compagnia di uccelli, di farfalle, di rose, vero stravizio di cervello ebbro di bellezza; ma forse il linguaggio di Orazio talora ritraeva piuttosto la follia del quadro di sant'Antonio dipinto dal Callotta, dove i diavoli fanno da artiglieri e da artiglierie, le quali accese alla bocca sparano tentazioni _da un'altra parte_, che non importa dire quale, contro il povero santo, e più spesso altresì rammentavano i dipinti di cotesta scimmia delle stranezza umane Hogarth: nè basta; vi era dei giorni che Orazio adoperava costantemente per esprimere i suoi concetti immagini e vocaboli desunti dall'architettura: così quella tua proposta gli pareva _fuori di squadra_; — questo discorso _strapiombava_, l'altro era _cubo_ come un _piedistallo_, un ragionamento mancava di _base_, un concetto di _capitello_, qui tu mettevi l'_architrave_ prima del _cornicione_ e via discorrendo; un altro giorno dalla pittura; un terzo dalla chimica: in somma egli era cosa da farne strabiliare i cani, e ciò che riusciva giocondo egli era ch'ei si stizziva co' servi se non lo capivano di colta. Tu puoi ben credere che questo aere di bizzaria, diffondendosi intorno a lui, aveva a lungo andare viziato tutta la famiglia, tranne Betta, puritana settatrice delle cose semplici semplicemente significate; sicchè i suoi domestici si mostravano tutti uomini nuovi favellanti per via di traslati, d'iperboli e di metafore nelle più bizzarre maniere del mondo; le guali cose o per contradizione o per altro avevano abilità di rallegrare mediocremente Orazio, e qualche volta lo affliggevano, come accadde un dì, che uscendo di casa in compagnia del signor Bastiano gli si pararono su l'uscio acculattati il gallo Maccabruno e il cane Tobia, dei quali quello i domestici avevano vestito da _gesuita_, questo da _giandarme_. Orazio si fermò a guardarli tutto arruffato, e al signor Bastiano che ne sghignazzava disse severo: — _I miei servi mi hanno oltraggiato, perchè mi credono capace di aprire canova di civiltà, avendomene messo la insegna su l'uscio. — I poli della civiltà, almeno per ora, sono il gesuita e il giandarme._ Egli aveva composto parecchi libri, e quasi tutti o scritti o meditati in prigione, cui egli levava a cielo e metteva in cima di ogni altro istituto letterario; affermava, che messere Francesco Berni, nel suo capitolo del Debito, non era giunto a dire nè manco mezzo dei mezzi i grandi beni, che ci si trovavano dentro, e questo non per difetto d'ingegno, che il dabbene uomo aveva sortito dalla natura pari al cuore, bensì perchè ai tempi suoi la prigione non era arrivata al perfezionamento che tocca oggi. E poichè la materia lo merita, non fia grave udire come un tratto sponesse questo suo concetto. Accadde un dì che il signor Bastiano gli portasse a casa un diario inglese dove occorreva narrato il fatto seguente: in Londra la pubblica carità aveva istituito certa consorteria, di cui lo scopo consiste sovvenire alle fanciulle traviate; preside di questa una gentildonna, proprio di quelle che hanno la prima tacca sul mille, alla quale certa volta si presentava una meschina che con le lacrime agli occhi e il viso rosso espose: lei e la madre sua trovarsi ridotte a miserie estreme; fin lì essersi schermita lavorando giorno e notte; adesso, mancato il lavoro, non avanzarle altro scampo che accettare il prezzo della vergogna, la quale con insistenza diabolica le veniva offerendo una rea femmina: quanto a sè avrebbe preferito annegarsi nel Tamigi, ma la tratteneva il pensiero della madre inferma e vecchia... deh! per lo amore di Cristo la salvasse dalla disperazione. La gentildonna, continuava il diario, avere ascoltato la desolata con uno stringimento di cuore da non potersi dire, ma osservando le regole dello istituto averle dovuto rispondere: figliuola mia, a me non è concesso soccorrere altro che le pericolate, e tu sei pericolanda; fa una cosa, va prima a pericolare e poi torna, e credi che non ci sarà aiuto, che tu non possa sperare da me; tanto mi hanno tocco la tua modestia, la tua verecondia! — E qui Bastiano non rifiniva di pestare mani e piedi imprecando alla stravaganza inglese, alla pedantesca ipocrisia, alla crudeltà dei cuori saccenti e a un flagello di cose peggiori, se peggiori tu puoi immaginarle. Ora pensa com'egli avesse a rimanere, quando al termine della sua filippica, e giusto nel punto in che si asciugava il sudore, sentì esclamare Orazio: — Grullerie! grullerie! — Come grullerie! urlò il Signor Bastiano fuori dei gangheri. — Ma sicuro, grullerie, perchè, Bastiano mio, se intendi crepare arrabbiato, non hai mestieri di uscire di casa: tu avresti dovuto arrabbiare già da un pezzo e per cose domestiche: questa sarebbe stata almeno rabbia patriotica. Dà retta, che io ti vo' chiarire, a patto che tu cessi di farmi gli occhiacci e ti ponga a sedere. Conosci tu il giardino dove la Filantropia coltiva i suoi fiori con lo studio, che altra volta mettevano gli Olandesi a educare i tulipani? Lo conosci? E siccome Bastiano s'impazientiva, Orazio si affrettò ad aggiungere: — Parlo della prigione in genere e dei penitenziarii in specie. La civiltà gli ha ai giorni nostri ordinati in modo, che il popolo, se vuole essere tenuto per carne battezzata, per creatura di Dio, per fratello degli altri fratelli del genere umano, per anima insomma, bisogna che si risolva ad ammazzare una mezza dozzina dei suoi simili, senza premeditazione s'intende, o per lo meno a sfondare un magazzino. Ecco il figlio del popolo onesto; cammina la notte co' piedi nella neve, e sopra il capo ha neve, nè alcuno lo ricovra sotto il suo tetto; ha le mani crispate dal freddo, i piedi dolorosi dai pedignoni, e non trova chi gli faccia luogo al caldano. Chi lo ricopre ignudo? Chi lo sfama? Chi lo disseta? Chi...? Certo, certo qualche cuore che non sia di pietra il poverino così di tratto in tratto lo trova... Diavolo! non siamo mica tutte bestie. Ma nota la diversità che passa tra il ladro e l'onesto, il ladro, che ignudo e assiderato dal freddo rubò nel bel mezzo di un giorno di gennaio, venuto in mano dei giandarmi, veri angioli custodi della società per evitare scandali si trova prima di tutto ad essere messo in carrozza dandogli il posto di dietro, e questo è già un diletto che in vita sua il meschino non aveva provato mai; condotto al penitenziario, cominciano a ficcarlo nel bagno caldo, ed anco questo gli giunge insolito piacere; poi lo puliscono, e questo pure gli avveniva fare da sè di rado per opera altrui giammai; gli tagliano i capelli; quando era onesto, per non avere di che pagare il barbiere gli toccava andarsene zazzerone; lo rivestono, ed ecco la veste, che non gli avevano mai dato la carità e il lavoro, gliela dà il delitto: ha stanza, ha letto ed oh maraviglia! strapunto ancora e lenzuoli e coperte; all'ora debita pane, minestra, carne e vino. Ch'è questo mai? Pargli sognare, si frega gli occhi, e torna a guardare; sì signore, egli non s'è punto ingannato; cotesti sono veri e vivi, pane, minestra, carne e vino. Allora piglia al cuore del disgraziato un pensiero molesto: che avesse proprio sbagliato a dare retta fin lì ai ricordi di sua madre, ai rimproveri del padre ed agli ammonimenti del parroco? Il cammino del galantuomo fosse quello appunto che menava dritto dritto alla rovina? Sente la contrizione, che gli si abbriva addosso, e cascando giù di sfascio recita il _confiteor_, e al _mea culpa_ si dà botte nel petto da spaccare un muro maestro per avere resistito fin lì alla vocazione che lo tirava al ladro. E dopo il primo giorno le facende vanno di bene in meglio; da un lato pigliano a educarlo nella lettura, nella scrittura, nell'abbaco, e se più ne vuole e più gliene versano; in qualche bella arte l'istruiscono ancora, dandogli agio di perfezionarsi col non curare il guasto che si mena della roba sul principio, però che chi non fa non falla, e dove onesto e libero gli avrebbero rotto il regolo sciupato sul capo, e dato un calcio che lo spingesse a ruzzolare in mezzo alla strada, adesso che è ladro gli mettono in mano un altro scorcio di tavola, e lo correggono con carità. Anche i suoi buoni maestri di morale non mancano, veramente e' stanno lì per rammentare il proverbio: chiudere la stalla quando sono fuggiti i bovi; ma non fa caso, tanto glieli danno; nè basta ancora; letterati di conto, e _insignis pietatis viri_, come sarebbe a dire preti e frati, che incontratolo onesto per la strada lo avrebbero fuggito come il bufalo che cozza, adesso si degnano trattenersi in geniali colloquii con essolui, sostenendo l'assalto così delle cimici come delle pulci annidiate dentro le celle dei ritenuti; quanto granatieri della vecchia guardia la mitraglia di un ridotto; e non si fermano nè anco qui; chè uscito di carcere il nefario è messo sotto la protezione di qualche valent'uomo, il quale lo accomoda presso operai di sua conoscenza, perchè apprenda utili mestieri, e col vigilarlo, ammonirlo, soccorrerlo e persuadere i maestri a tenerlo con garbo, s'industria a farlo diventare persona agiata. Che se i padroni non riescono, non si può dire, senza ingiustizia, che la colpa sia loro. Dunque cessa di arrovellarti, e vedi come la migliore strada anco tra noi per diventare qualche cosa nel _consorzio civile_ (per dirla co' Dottori) sia appunto il passare per la trafila della prigione; di tanto poi mi piacque chiarirti, Bastiano, come per chiosa a quel detto del santo evangelio, che non bisogna montare su i trampoli per isbeffare il fratello che ha il bruscolo nell'occhio, mentre nel suo ci sopporta una trave maestra: il meglio, Bastiano, che possano fare gli uomini consiste nell'adoperare carità gli uni verso gli altri, e pregare Dio che ci renda tutti più buoni, o per lo manco meno tristi. I libri, che Orazio stampò, furono mai sempre volti ad accendere i petti degl'Italiani allo amore della Patria e della Libertà, e in questo meritavano lode non fosse altro per la intenzione; gl'incresceva avere a mescer l'odio nei suoi inchiostri, e più nell'anima sua; ma con Vienna e con Roma e con certi amici suoi peggiori di Vienna e di Roma messi assieme, e fattone tutto un pesto, non sapeva quali spedienti, oltre quelli suggeriti dall'odio, potessero giovare, però picchiava e picchiava forte, quale incudine sul martello, e certo non era stato per lui se, all'ora che faceva, Vienna e Roma non si trovavano ridotte in cenere; quanto ai nemici suoi avrebbe desiderato vivessero e si pentissero, ma non ci vedeva verso; però gli raccomandava a Dio o al Diavolo secondo il merito; comecchè andasse più che persuaso che quanto a raccomandarli a Dio gli era fiato perso. A parte il concetto, furono celebrati sopra modo i suoi libri per la vaghezza dello stile colorito, e per la lingua a quando a quando popolesca e vispa, o curiale e solenne, e anch'egli dalla corrente fu portato al Campidoglio, e salutato anch'egli da plauso infinito, e davvero tanto ei fu sciaguattato, che se non dette la volta e diventò aceto fu miracolo, e fece prova di essere vino di Chianti, ma non di Broglio, chè questo è fumoso e sfonda lo stomaco. — Non si ha però da credere che in questo suo trionfo mancassero le scede i vituperii come nei trionfi romani, ma tanto non sapevano o non potevano dire in biasimo suo, che egli non ne dicesse due volte più da sè. «O povera, povera Patria, egli sclamava talora smorto in viso e con voce piagnolosa, a quali stremi condotta! Ora conosco sì che tu se' prossima al fallimento, e in procinto proprio di dare del sedere sul lastrone, se ti tocca mettere fuori questi fondi di magazzino pel tuo meglio! E dove prima ponevi in mostra nelle tue bacheche broccati d'oro, velluti finissimi o per lo meno damaschi, ora hai di catti e sporci bigelli e frustagni.» Ciò non pertanto aveva in uggia i critici, anco i buoni; perchè aveva visto di rado che non patissero tutti il vizio del mestiere, ch'era la _saccenteria_; o non si poteva capacitare come cervelli, che alla prova del fare riuscivano male e poco, presumessero insegnare altrui le ragioni del far bene. Se poi il critico, oltre al mostrarsi benevolo spettava alla specie di Brunellesco, che, sfidato da Donatello a scolpire meglio il Cristo, glielo lavorò tale da fargli cascare per istupore le uova dal grembiale, allora gli si cavava di berretta e gli baciava la mano. Però, giudiziose o no gli apparissero le censure, benevole o maligne, non se ne tormentava mai: se ci era di cavarne costrutto le notava, se no, lasciava correre tre pani per coppia; quanto poi alle presuntuose, alle gaglioffe o alle maligne, una volta gli vidi pigliare con le molle del caminetto cento fogli della _Gazzetta Piemontese_, e, buttatigli sul fuoco, non disse altro che questo: — Scorpione! — Potrei aggiungere molte cose sul conto del signore Orazio, ma se non giudico male, quelle che ho dette penso le abbiano a parere anche troppe e fo punto. CAPITOLO QUARTO Vita e miracoli del Romanzo: della morte ne parleremo più tardi. Miei amabili lettori — prima di mettere un altro passo protesto che nel nome di lettori intendo e voglio comprese anche, ed anzi principalmente, le leggitrici, tanto più che trattandosi di lettori maschi soltanto non si sarebbe potuto assegnare a tutti l'addiettivo amabili, almeno senza le debite riserve. Perchè poi adoperi così vorrei tacerle, ma sforzato dirò che lo faccio, perchè, secondo lo insegnamento antico, tutto quello che occorre nel mondo di savio e di gagliardo hassi a distinguere con nome _maschile_... — E chi sono questi barbari, i quali si concedono commettere siffatte enormezze? — La non m'interrompa, madama; veda, i romani costumavano così e non erano barbari; questi usavano la parola _auctor_ a modo dello indovino Tiresia, ch'ella come sa, fu maschio e femmina, da bosco e da riviera; e noti ancora, Virgilio, che fu l'elegantissimo dei poeti latini, disse _ducente Deo_, e parlava di Venere; scrisse _Deus impare gaudet_, ed accennava a Proserpina.... — Virgilio non fa testo perchè e' si mostri sempre parziale pel genere mascolino, come ne fa fede la sua egloga di Coridone. — Non mi tagli a mezzo le parole, madamigella; veda anco Macrobio, che per quanto io sappia non consentiva con Coridone, parlando di Venere detta: _pollentemque Deum Venerem_.... — Ad ogni modo furono latini e noi siamo italiani, essi antichi e noi altri moderni. — Anzi, mia gentile marchesina, ella può vantarsi modernissima stando alle fedi del suo battesimo, e meglio alla freschezza del suo amabile volto; ma che però? Gl'italiani le danno torto non meno dei latini; quanto agli etruschi io non saprei; consideri, di grazia: «Madonna Cia degli Ordelaffi (Matteo Villani scrive) che rimase _guidatore_ della guerra»; e altrove — che il re Roberto di Napoli lasciò la giovane reina _governatore_ del suo regno, — nella vita di santa Maria Maddalena si afferma che ella era molto bellissima _parlatore_ — e avverta che gli esempii non finiscono qui.... — Non finiscono qui davvero gli esempii, e tanto è vero, che nelle favelle latina e italiana tutto quanto occorre nel mondo di savio e di gagliardo piglia nome dal maschio, che il Cavalca, parlando di donna, le affibbia la qualità di _peccatore_, così mi salta su a dire una sorella del Sacro Cuore, ed io... — La non si sbracci, mia dilettissima sorella in Cristo, perchè consideri che lo esempio le sia proprio contra; di fatto volendo significare il Cavalca come la donna nel peccato sia piuttosto sghangherata che rotta, la qualificò con l'aggettivo maschile, mentre, trattandosi di doti lodevoli, il femminile come più parco bastava, e ce n'era di avanzo. — Ella è un insolente. — Può darsi, signora contessa, ma la cosa sta com'io gliela conto. — Niente affatto: anzi le cose brutte o fiere o maligne per la massima parte pigliano nome dal maschio; mi dica l'inferno di che genere è? Mascolino o femminino? — Che vuol'ella? anco compare Matteo domandò al sole s'egli si fosse maschio o femmina, ma quei non gli rispose. — La non si sbracci di uscirne pel rotto della cuffia, risponda in chiave: — Lo inferno è maschio, ma la dannazione eterna è femmina. — Il peccato e il vizio portano calzoni o vestono gonnella? mi dica in grazia? — _Fragilità_, il tuo nome è donna, e badi che lo ha scritto quell'omaccione del Shakespeare. — Nell'inferno ha mai letto che ci sieno demoniesse? — No, signora: e la ragione è chiara, perchè elleno stanno tutte in questo mondo. — Chi tentò Eva non fu serpente? lo può negare? — Diamo un taglio al serpente; egli è certo che Eva tentò Adamo. — Qui bisogna finirla: datemi un codice, un codice, dico, criminale; tutte le mie _crinoline_, per un codice criminale; venga qua, legga: il furto è maschio o femmina? Il parricidio, il fratricidio, l'omicidio, l'uxoricidio, maschi tutti; maschio l'assassinio; maschio l'adulterio... — Si fermi lì, chè mi ha convinto, le sue ragioni mi avevano scalzato, ma gli esempii, massime l'ultimo, mi strozzano, e poi considero che le donne con le delicate loro dita talora si dilettano a sfilacciare un uomo come un pezzo di tela, e Orfeo informi; però chiedo a tutti perdono, e mi affretto a fare ammenda del fallo. — Miei lettori dunque e amabili leggitrici, io vi prego a immaginare nello svolgere questa pagina che sieno passati due anni dal punto in che vi lasciai nel mio racconto; vedano non facciano greppo, non aggrinzino il naso; le ho compiaciute qui sopra, ora qui sotto compiacciano di grazia, un po' me: e poi pensino che la eternità di petto alla sua durata pone meno tempo a consumare due secoli, che le signorie vostre di faccia alla loro a fingere passati due anni nel voltare di una pagina. Non mi parlino di unità chè altramente butto via la penna e lascio in tronco la storia. Dove ci ha maggiore inverisimiglianza, di grazia; nello immaginare trascorsi due anni nello svolgere di una pagina, ovvero nel capacitarmi che tante e sì strane vicende sieno accadute nel medesimo giorno, e per lo appunto in un medesimo luogo? A mo' di esempio vi sembra che stia a martello, che l'Oreste del massimo Alfieri, avendo avuto tanto tempo di palesare nella reggia di Strofio allo amico Pilade, dove crebbero insieme, quello che mulinava nella mente; avendolo avuto nella nave mentre veleggiavano; avendolo avuto allorchè dal lido s'incamminavano in Argo; si decida a spifferare il suo proponimento di ammazzare Egisto giusto dentro la usurpata reggia, di cui i muri, a senso del tragedo illustre, vanno intonacati di spie? E poi il romanzo, io ve lo voglio dire dentro un orecchio per la reputazione _del sacro collegio_[3] (e intendete delle Muse, non già di quello dei Cardinali, che reputazione non ha da perdere), è figliuolo illegitissimo di una Musa. Non tentennate il capo; io so quello che mi dico: le Muse in Olimpo, come accade di tante altre, che non sono Muse, in questo mondo, godono riputazione di vergini, e si hanno a predicare tali; quanto allo essere, gli è un altro paio di maniche; però una tradizione credibile racconta come certa Musa, affermano fosse Tersicore la ballerina, sviatasi dalle altre, andasse un dì su l'ora dell'_Angelus Domini_ a visitare Bacco, che trovò assettato a tavola con un branco di Sileni e di Satiri; ci erano anco dei Fauni, ch'è quanto dire tutti elettori, i quali avevano votato per lui per mandarlo deputato al parlamento dei cieli; la Musa a contemplare cotesto spettacolo nuovo per lei, tôrse vereconda il passo e sì fece: Della mano su gli occhi una visiera. Felice lei e noi, se la visiera fosse stata più fitta! ma, no signore, ella si parò gli occhi come la vergognosa del campo santo di Pisa; onde scorgendo due satiretti che pigliavano a saltare, vinta dalla passione dominante pel ballo, ed anco per vanità, rimase. Cessato il ballonzolo, la pregarono di mostrare un po' di che cosa fosse capace, ed ella, che pure aveva voglia che la vedessero dieci volte maggiore di quella ch'eglino avevano di vederla, si fece tanto e poi tanto pregare, che ormai come disperati stavano lì lì per cessare: della quale cosa ella spaventandosi, di sfascio saltò in mezzo alla sala, spanta, e briosa come vino che spilli fuori dalla botte lasciata per negligenza priva di zipolo. E' fu un delirio mirarla; andavano in visibilio Sileni e Satiri; per allegrezza agitavansi, baciavansi, qualcheduno piangeva alla dirotta, i più ridevano ed abbracciandosi co' nappi pieni in mano, venivano col barellare a versarseli sul capo, senza avvertire da lunge mille miglia che un giorno le anime si salverebbero dalla eterna dannazione a quel modo, e per di più adoperandoci non mica vino, ma acqua schietta. Quando la Musa fu stanca le porsero a bere; ella se ne schermì dicendo, ch'era solita spegnere la sete sua nell'acqua chiara delle fontane di Parnaso. Bacco le rispose che l'acqua era buona per fare i bucati; gradisse una tazza di nettare, e non credesse che fosse vino del piano di Pisa; e poi soggiunse che per compagnia aveva preso moglie un frate. La Musa bevve e dopo tornò a ballare; ribevve più tardi, e quindi col più snello dei satiri menò un gentile minuetto, e per l'ultimo un ballonchio da casa del diavolo, dove entrarono tutti; così produssero la veglia innanzi della notte un pezzo; e le guardie di sicurezza, che passarono e ripassarono sotto le finestre di casa Bacco, l'avrebbono fatta smettere di prima sera, se non li tratteneva il pensiero che i signori pari a Bacco in prigione non si mettono mai, bensì ci mandano spesso; però crescendo il baccano, e temendo i rapporti di qualche pezzo non meno grosso di Bacco, come sarebbe stata Minerva, la quale desiderava per le sue elucubrazioni la notte tranquilla, o vogli Venere che anch'ella ama quiete le ore notturne per un altro genere di lavori, sforzarono l'uscio ed entrarono in casa. Egli era un mucchio di corna, di code, di orecchie asinine, di zampe di capra, di cosce pelose e di qualche altra cosa ancora; e sotto a quel mucchio (orribile a dirsi!) trovarono la Musa concia. Dio ve lo dica per me. Col favore della notte, la portarono a casa; Apollo, che fu per darsi del capo nel muro, buttò via di capo il berretto di cotone, spezzò le corde alla cetra e cantò un lamento senza accompagnature, che chi lo udì ebbe a dire: Apollo non avere mai fatto di meglio. Il peggio fu, che indi a pochi giorni pigliarono alla povera Musa le nausee, gli stomacucci, i capogirli, _eccetera_; onde ebbe a mettersi in letto; le sue sorelle mandarono per Esculapio, a cui dissero, le ingenue! che temevano forte Tersicore fosse caduta inferma pel male dell'idrope, per colpa di una famosa bevuta fatta a sangue caldo nel fonte di Aganippe. Esculapio visitò la inferma per di sopra e di sotto, e poi sentenziò che la Musa idropica veramente era; però di quella certa idropizia, che così in cielo come in terra guarisce nello spazio di nove mesi: non sbigottissero, non correre la sorella pericolo di sorta alcuna; però medico più adattato di lui per questa specie di malattia essere una donna: facessero capo a lei: egli _designava_ loro _madama Reale_, la più famosa levatrice di Torino, donna capace e sopratutto segreta; ma se conoscessero di meglio, quella adoperassero. Tersicore, ahi! Tersicore in capo a nove mesi partorì un fanciullo più bello del giorno, almeno Tersicore diceva così; e a questo fanciullo fu imposto il nome di Romanzo. S'egli, appena messa la testa fuori dal materno alvo, non chiese da bere come Pantagruello, secondo che ci racconta il _Rabelais_, storico veridico quanto il signor Ranalti e il signor Gualterio, marchese e intendente, che piglia possesso di Orvieto _sotto il fuoco_ (stile di gala dei giornali _moderati_) gli è un fatto che a lui appena nato spuntarono le ali e si mise a volare; e vola e vola, ora si posò sul naso a Giove, che credendolo una zanzara, ci diede un picchio di ammazzare un cavallo, ma non lo colse, ora su la lancia a Marte, un dì stette con Ercole, un altro con Amore, ond'egli incominciò a raccontare le guerre dei Titani, le galanterie di Venere, le fatiche del figliuolo di Alcmena e le vicende di Psiche gentile; finchè aveva dei fatti veri si serviva di quelli, quando gli mancavano egli ce ne annestava di suo; diventato più adulto, derise li Dei, prese a bazzicare gente perduta, scrisse coi Greci le favole _milesie_, a Roma strinse amicizia con Apuleio, anco a Tito Petronio Arbitro resse la penna; insomma una ne faceva e un'altra ne pensava; per ultimo, tante commise scapestratezze, e tanti dolori arrecò a quella povera donna di Tersicore, che sovente tutta in lacrime, la meschina, ebbe a dire che ben per lei se dava retta a Momo, il quale, quando gli nacque il figliuolo, la consigliò a muso duro di metterlo nella ruota dei Trovatelli. Il peggio poi fu, allorchè il Romanzo si fece cristiano, e un dì scappando di casa alle muse portò via a Melpomene i coturni, a Talia la maschera, a Clio lo stile, ad Urania il compasso. Tersicore andò a Roma alla cerca del figliuolo, e da quella via, per fare un viaggio e due servizi, baciare il piede al Papa, dacchè ella, come ballerina, una grande devozione pei piedi se la sentiva; però non se gli faceva baciare; ma a Roma le dissero che il Romanzo si era fatto turco; allora corse affannosa a Costantinopoli, e costà seppe come da parecchio tempo, ridottosi nella China, seguitava la credenza di Budda: non lo trovò neppure a Canton, perchè ito in America a farsi mormone; gli corse dietro invano per le terre degl'idolatri, a Londra, a Madrid, a Ginevra, alla fine lo trovò a Parigi, dove aveva aperto bottega di rigattiere di tutte le religioni del mondo. Magazzino sterminato di Numi smessi e da smettere, presso cui l'antico Panteon di Roma appariva un vero guscio di noce! Quindi vago ei si mostrò mai sempre di mescere il sacro col profano, il serio col faceto, le lancie confondere con le mannaie; protervo e insolente, talvolta gli piacque, mutato in paggio, sostenere lo strascico dei manti regi o insinuarsi nei penetrali delle regine a rovistare nei e pomate, ed anco, ahimè! veleni; ardì anche ficcarsi dentro le alcove delle marchese e vedere e udire cose, che non si devono vedere nè udire, molto meno ridire; e non per tanto, non solo volle vederle e volle udirle, ma altresì, lo svergognato, volle stamparle, con tale una strage di anime, che Dio ve lo dica per me; poi mettendosi un perruccone in _folio_ sul capo, assistè ai Consigli dei Principi e ci volle dire la sua; nè valse chiudergli le porte in faccia o tirare le cortine; chè quanto si covò là dentro di arcano, tanto lessero poi, pieni di spavento, spifferato pel mondo vecchio e pel nuovo. Conobbe i disegni delle battaglie del principe di Condè e delle fortificazioni del maresciallo Vauban, anche prima che questi gli avesse concepiti. Un bel giorno montò sopra una seggiola nel palazzo reale a declamare con Camillo Dumoulin, muggì col Danton alla Convenzione, miagolò col Robespierre ai Giacobini, schiattì col Marat nello _Amico del popolo_; poi stette a vedere il ballo di tondo di tutta questa gente e dei reali di Francia, che stringendosi per la mano sparivano uno dopo l'altro nel regno della morte, come gli anni si dileguano nella eternità; e la mannaia batteva la musica per tutti. Quinci si tolse e lavò col sangue glorioso delle battaglie il sangue scellerato delle proscrizioni civili; gli piacquero il fuoco, il ferro, lo stridore e il fumo, esultò nei gaudii della strage; con la spada nella destra e la bandiera della Libertà nella manca si fece a urtare di corsa il ridotto, che lo aspettava con bocca aperta de' suoi cannoni, quasi tigri in atto di sbranarlo; tutte codeste bocche balenarono, tonarono, e intorno si diffuse una procella di morte; ogni vista disparve così dalla terra come dal cielo, e Tersicore dal Parnaso non sapeva nè manco lei a qual santo raccomandarlo, tanta era la confusione degli Dei che le mulinava per la testa... quando di un tratto, sgombrato l'aere, ella lo rivide in cima al parapetto drappellare la bandiera della Libertà, col piè calcante un uomo ucciso, più radioso per avventura che non fu Dio quando soffiò la vita nell'uomo. In seguito avendo meditato i cari versi di Tommaso Grossi intorno alla gloria, si fa pacifico, E vede come alfine ella le incresce Se una imagin di amor non vi si mesce. Però ridottosi a vivere in città, si rese frate: se i monasteri fossero di maschi o di femmine non distinse, o piuttosto non volle distinguere; entrò in tutti; e quivi egli legò amicizia con Abelardo ed Eloisa, eterno sospiro dei veraci amanti; anzi fu proprio lui il primo che vide il sepolto amante levare le braccia, quando gli scoperchiavano il sepolcro per mettergli a riposare allato la sua Eloisa. Uscendo di lì col cuore chiuso, occorse nella Teologia, e per sollevarsi, le trasse la parrucca di capo e gliela buttò nella Dora; capitatagli fra i piedi la Politica, la ghermì per la coda, e mulinatala un pezzo, la frombolò come un gatto morto in piazza Castello; allo svoltare dal canto della Università, trovatasi innanzi la Metafisica che s'incamminava co' suoi arnesi a mettere al tormento i cervelli dei poveri giovani, non potè resistere alla tentazione di darle a mano aperta un solennissimo picchio sul berettone e ingozzarglielo fino al mento: la Metafisica poi non fece sembianza di accorgersene, anzi non tentò nè anco di tirarselo in su, nè parve che col berettone sugli occhi vedesse meno; al contrario taluni avvisarono ch'ella a quel modo vedesse di più e più chiaro, ed anco a lei parve così; rallegratosi il cuore, il Romanzo fu preso da immenso affetto del popolo, e di botto lo andò a visitare nelle soffitte dei palazzi, dov'egli abita forse per trovarsi sottomano il paradiso, a cui lo accostano ogni giorno più i patimenti che dura. Colà pose amore alla fanciulla di _madre sempre viva_ e di _padre sempre morto_ in battaglia o sul mare, la incoraggì, la sostenne, le cinse il capo di una ghirlanda di fiori immortali, colti nei giardini dello amore e dell'allegria; egli le ornò la stanza, egli insegnò al suo canarino i bei versi che chiamarono sul tetto uno stormo di pennuti amatori a plaudirgli col canto, egli gli mutò l'acqua, gli riempì la cassetta di pannico e lo ricompensò della dolce canzone col pinolo; ma soprattutto fu pei conforti del Romanzo; che la fanciulla si sentì rafforzata le dita al lavoro, e diventò _zuava_ del cucito; egli la fece valorosa da tenere sempre fuori della porta la miseria, la quale di ora in ora si provava stendere la minaccia trista per arraffarle la mamma, e portargliela all'ospedale. La fanciulla, sovvenuta dal Romanzo, sostenne le querimonie della vecchia, le durezze, le male parole, i rinfacci; studiò le mancasse mai nulla; ella talora digiunò un giorno, affinchè nella scatola della madre non mancasse tabacco, e avesse a masticare il suo bravo zucchero candito; ringraziata, ne rimase lieta, pagata d'ingratitudine pianse, ma raddoppiò le sue cure; quando per ultimo la vecchia venne a morte, il Romanzo andò pei casigliani perchè salissero su, o scendessero a vestirla e vegliarla, andò a trovare il falegname, il quale per carità fece la cassa, ed egli ce la ripose dentro, e ci dipinse sopra la sua brava croce col pennello imprestatogli dal pittore accanto, e con la filiggine stemperata nell'acqua: chiamò eziandio quattro giovanotti della contrada, ognuno dei quali si mise in ispalla una stanga della barella, ed egli precedendo con la croce, portarono il cadavere al camposanto, dove lo sepellirono implorando alla defunta, che Dio nel giudicarla guardasse meno ai suoi peccati, che alle angoscie patite nei suoi giorni brevi ed infelici. Tornato a casa per consolare la ragazza, si accorse com'ella il consolatore se lo fosse bello e trovato nel giovane pittore, che andato per ripigliare il suo pennello e' ci era rimasto a piangere; e poichè piangere non si può sempre, i giovani si misero a leggere, e il Romanzo, niente impermalito, stette lì aperto in mezzo a loro per dilettarli, ed anco un pocolino per istruirli, ma leggi, leggi, anche questo viene a noia, onde un bel giorno chiusero il Romanzo, ed egli non vide più nulla; quando ei rimase chiuso, il Romanzo non sa, chè gli avevano rubato l'orologio alla fiera di Novara, ma ci deve essere stato un pezzo, perchè ruzzolando certa volta per terra, si aperse e vide... che vide? La povera fanciulla con gli occhi gonfi, le chiome sciolte, dimagrata da per tutto, meno nei fianchi, affaticarsi a soffiare dentro un caldano pieno di carboni. Il Romanzo innanzi tutto spalancò la finestra, che non si sentiva punto voglia di rimanere soffocato per compagnia, poi si accostò alla fanciulla e pianamente le disse: «Matta, che fai? Ci capita così presto addosso la morte, che a fè di Dio non vale il pregio affrettarla con le nostre mani; ti par'egli colpa di morte dare la vita ad un'altra creatura? Matta; e non vedi che questo egli è come un rubare il mestiere al Creatore? Quanto ai rispetti umani, pensi che sarà lodato dagli uomini chi si va a rimpiattare col suo errore dentro una fossa, o non piuttosto chi resta valorosamente ad espiarlo? Il fallo cara mia, è un debito come gli altri, che va saldato, e la morte rassomiglia alla bancarotta; la virtù poi di madre la è spugna, che basta a cancellare qualunque trascorso di donzella; rimanti, rimanti, e ti conforta col pensiero, che dove voce di femmina non arriva più, aggiuntata con la voce del pargolo, arriva sempre o quasi: io poi che mi trovai pei mezzi, ed ho bisogno di rimettermi in credito, veglierò per te.» E il buon Romanzo attenne la promessa, poichè entrò in casa al pittore diventato famoso, e chiappatolo a frutto, gli narrò un giorno la sua storia, con tinte messe a chiaroscuro così a pennello, che il pittore si sentì tutto scombussolato dentro; e poichè conduceva allora su la tela il quadro dell'Assunta, ed aveva lasciato in bianco il capo di un angiolino, non gli essendo occorso modello capace di stare a confronto co' tanti che ci aveva di già disegnato, gli parve la provvidenza lo avesse fatto a posta, perch'ei ci mettesse la immagine del suo figliuolino, che doveva nascere bellissimo, perchè la mamma sua era molto arcibellissima, ed egli non si poteva chiamare brutto — qui si guardò allo specchio lisciandosi i baffi; — onde di punto in bianco scese tre piani, ne salì sette, entrò nella soffitta della desolata, chiese perdono, e, figurarsi! l'ebbe; abbracciò, fu abbracciato, _eccetera_... Correva appunto un giovedì quando tutte queste cose accadevano, e nella domenica prossima in casa al pittore cascò, stò per dire, un diavolìo di sacramenti, perchè la donna fu confessata, l'uomo comunicato, ed amendue congiunti in matrimonio: nè basta; che usciti appena di chiesa la sposa, a cui per allegrezza si erano commosse le viscere, partorì; però ebbero a tornare in chiesa da capo, affinchè battezzassero il bambino, e il prete lo battezzò; se non che, mentre si metteva gli occhiali sul naso per registrarlo sul libro delle anime, ammonì lo sposo che non pigliasse di coteste rincorse, altramente egli si esponeva a rischio di condurre ai fonti battesimali la sua discendenza in gregge, come il profeta Giacobbe spingeva le sue pecore a pascere nel paese di Canaan. È fama che il Romanzo in cotesto giorno, entrando e uscendo di chiesa, correndo pel parrucchiare, per la balia, pei convitati, per le provviste _et reliqua_, tutto rosso in viso ed affannoso, mentre si asciugava il sudore, esclamasse: «Quando faceva il Figaro _figuro_ era un mestiere cane, ma fare il Figaro _galantuomo_ è un cane mestiere.» Avendo preso amore pei luoghi alti come il Dio Moloc, il Romanzo quinci spiccando un salto si recò sul campanile della Madonna di Parigi, e colà assistè allo amore del prete che piglia il filo su la pietra stessa dove arrotano i rasoi, conobbe i baci sacrileghi, i quali dove toccano lasciano il livido, descrisse gli abbracciamenti satanici, che stringono una creatura vivente, e la lasciano cadavere, ed un bel giorno consigliò _Quasimodo_ e lo sovvenne a scaraventare _Claudio Frollo_ di sotto al campanile. Poi per ricrearsi venne in Italia, e si aggirò pei colli della Brianza, dove conobbe Renzo e Lucia, e prese tabacco nella scatola di padre Cristoforo; un degno frate in verità, ma il Romanzo dentro un orecchio ai suoi amici sussurrava sommesso, che tre quarti delle virtù del frate Cristoforo Alessandro Manzoni le aveva tolte a nolo da lui Romanzo, con promessa di riportargliele finito il lavoro, e poi gliele aveva negate; egli avere taciuto e tacere per non fare scandalo, ma, conte o non conte, questo cavargli di sotto tante virtù per regalarle altrui... e poi a chi? a un frate! sembrargli solenne bindoleria. Basta! contentarsi per ora, che i _Promessi sposi_ si chiamassero romanzo: caso mai si attentassero battezzarli storia, egli era capitale da citare il signor conte davanti il giudice civile, ed a un bisogno anche criminale. A Livorno ci si condusse per amore dei bagni di mare, e stretta amicizia con un popolano, gli mostrò con certa sua lanterna magica le virtù e le colpe di un popolo caduto, e l'anima grande del Ferruccio, che ad ogni secolo (e n'erano già passati tre) si affacciava sdegnosa fuori del sepolcro per domandare se l'ora della vendetta era venuta; e il popolano accelerò la vendetta con arte, che di leggieri avrebbe potuta essere superata da ogni uomo; nessuno avrebbe potuto superarne il coraggio, l'impeto e l'odio contro la tirannide. In somma, chi può adesso tenere fermo il Romanzo o circoscriverlo dentro certi confini? Taluno lo ha visto attraversare il deserto accoccolato sul cammello dell'arabo; chi lo trovò a Siviglia a cantare per la notte stellata una canzone del _romancero_ sotto la finestra della più bella _senora_ del paese; lo incontrarono nella baia dell'Udson col Parry e col Franklin; si trattenne con gli Esquimesi, bazzicò coi Camsciadali; incammuffato di pelle di vitello marino, sostenne l'aere pingue dei loro antri, schiariti dall'olio di vitello marino; partecipò alle mense di vitello marino; assistè alle caccie armato di ossi di vitello marino e tutto questo per raccogliere la storia delle loro passioni e raccontarcela; passò in China, scavalcando di un salto la muraglia, fu in India, entrò in Jeddo, malgrado il divieto dello imperatore del Giappone, e per l'America corre e ricorre costante e benefico a mo' di vento etesio. Ora dunque consentitegli ch'ei vaghi a suo senno, non gli chiedete forme antiche, nè osservanza a regole vetuste, imperciocchè egli si rinnova sempre, Proteo inesauribile della letteratura moderna. Un giorno forse anch'egli verrà meno, e si troverà attaccato al palco, come una giubba vecchia in bottega dell'ebreo in compagnia dei poemi epici, dei trattati di metafisica, di storie contemporanee, ma per ora egli palpita, egli regna; non gli perfidiate pertanto vivere a modo suo, dacchè egli vi lascia vivere al vostro; per le quali ragioni che a me paiono tutte buone, vi prego immaginare che voltando una pagina sieno discorsi due anni; e chi lo vuol fare, sì il faccia, chi no, mi rincari il fitto e ripiglio la storia. — Sono discorsi due anni, e niente sembra mutato in casa Orazio; forse, guardandoci sottilmente, negli angoli degli occhi e sopra la fronte di lui il tempo ha terminato il solco della ruga principiata da un anno fa, e ora torna indietro per mettere mano a condurne un'altra accanto; e sopra la faccia di Betta si legge pur troppo la medesima storia: ma queste sono cose, che non giova avvertire mai, massime nelle donne, di cui capitale se non unico, almanco più chiaro consiste nella bellezza vera o presunta. Tutto uguale dunque, perfino la tazza del thè fumante dinanzi ad Orazio, il quale, seduto co' gomiti appoggiati ai bracciuoli del seggiolone, le dita intrecciate, con la persona china in avanti, stava fisso fisso guardando, non mica gli oggetti sensibili parati dinanzi a lui, bensì le visioni del proprio spirito; e su questo punto non cadeva pericolo di sbagliare, imperciocchè le sue pupille sbalestrassero una a ponente, l'altra a levante. La Betta, che da un pezzo mirava cotesto divagamento dello intelletto di Orazio, e n'era inquieta, onde trarnelo fuora prese a tossire, e smovere i mobili, e ad agitargli la mano sugli occhi, nella guisa che costumavano i santi quando cacciavano via da loro le tentazioni e le mosche, nè tutto questo bastando, postergato ogni rispetto, gli si accostò, con ambedue le mani gli cinse il capo, e con divina audacia se lo fece posare sul seno. Orazio tremò, e tornato in sè, non volle e non seppe liberare il capo dalla benevola stretta, bensì le lacrime gli spuntarono negli occhi, le quali si sparpagliarono per le palpebre, e quivi rimasero appese come stille di rugiada su l'orlo delle foglie, pure aspettando le consumi il sole. — Io pensava, alfine disse Orazio con un gemito. — E troppo spesso, e troppo lungamente, perchè il suo cervello non abbia a patirne; si rammenti che ci abbiamo avuto due o tre picchi, caro signore Orazio. — Ma il trapassare d'idea in idea non affatica come credi, Betta: quello che fa male davvero è il pensiero fisso, questo poi trapana il cervello; io lo sento qui doloroso come un bottone di ferro infocato. — E glielo credo; dunque perchè la si vuole limare sempre dentro cotesto pensiero solo? — E che sai tu dei pensieri che mi galoppano per la mente? La Dio grazia, le ossa e la carne tappano meglio il cuore del pastrano abbottonato fino al mento. — Oh! non tappano nulla, ed io glielo miro sopra la fronte, come se ce lo avesse scolpito il signor Bastiano. — Sì eh, o indovina, via... — Marcello!... Marcello! bisbigliò sommesso Betta, curvandosi sopra Orazio. Mirabile contradizione umana! Orazio aveva provocato la risposta di Betta; dirò di più; egli l'aveva presagita, se fosse stata diversa l'avrebbe afflitto, ed ora invece di rallegrarsene se ne adontò, sottrasse il capo dalle mani di Betta, levossi in piedi respingendo il seggiolone con ira, e si mise a passeggiare per la stanza stizzito così, che peggio non appare un poeta ruggente, in cerca della chiusa del suo sonetto, e smanioso diceva: — Ecco gli avanzi che l'uomo fa, quando si addomestica troppo i suoi servitori: questi finiscono con lo stimarlo meno di un truciuolo; io le aveva detto e ripetuto non so quante volte, che al mio nepote io non voleva pensarci più; epperò non ci pensava mai; ora se Betta avesse saputo l'obbligo suo, doveva credere alle mie parole, e non levarmi il rispetto, dandomi una mentita sopra la faccia, e venirmi a sostenere così di punto in bianco che io penso sempre a cui io ordino che si creda che non penso mai. Betta non rispose nulla, se non che alla sesta giravolta agguantò Orazio per un braccio, e lo ricondusse soavemente a sedere: allora Orazio, quasi in tacito pegno di pace, mise la sua dentro la mano di Betta, la quale, sentendola madida di sudore e tremante, fu commossa da un struggimento interno da non potersi dire, e gli occhi le si gonfiarono di lacrime: provò a trattenerle, ma e' non fu nulla, che le stavano lì lì per uscire fuora, e dall'altro canto non le volea piangere; imperciocchè se con le sue lacrime fosse venuta a crescere il fascio dell'afflizione di Orazio, povera a lei! che le sarebbe parso di commettere un peccato, e grosso. Di botto die' in uno strido, ed esclamò subito: — Il mio occhio! Mi è entrato un bruscolo dentro l'occhio. Signore Orazio, per carità, mi soffi dentro l'occhio. E Orazio subito rizzato in piedi, intanto che Betta, tirando in su in giù la pelle delle palpebre, scopriva quanto più poteva della congiuntiva dell'occhio, ci soffiava dentro come un mantice, di ora in ora osservando: — Misericordia! Quante lagrime! ti deve angosciare davvero questo maledetto bruscolo? Affermano tutti quelli che lo ponno sapere, come in paradiso ci abbiano non un angiolo (diavolo! un solo non potrebbe bastare), bensì parecchi angioli scribi a cui fu commesso la cura di registrare sur un libro i peccati che gli uomini vanno commettendo in giornata, da una parte; e dall'altra, come di ragione, i meriti loro; il che si chiama tenere i conti a partita doppia, per compilarne il bilancio al termine di ogni vita, e saldare poi in tanta moneta di paradiso, cosa che accade di raro, ovvero in tante tratte su lo inferno, e questo è caso ordinarissimo; dicono ancora che ogni peccato ha il suo prezzo fisso, e però eziandio le menzogne, le quali si scontano in ragione di sette anni di Purgatorio per ognuna. Io, che per odio di stare a tu per tu, credo tutto quello che si degnano darmi ad intendere, protesto che questa poi non la posso ingollare: tra menzogna e menzogna una differenza ha da correre, e sostengo che la bugia di Betta invece di passarsegliela a debito, l'angiolo scrivano deve avergliela registrata a credito, defalcandone sette anni di purgatorio per qualche altra bugia meno innocente; quanto a me? tengo qualunque scommessa, e vedremo a suo tempo se io ho colto nel segno. — Grazie, signore Orazio, grazie, disse Betta, asciugandosi gli occhi, col grembiule; adesso che il bruscolo è uscito dal mio occhio, miriamo un po' se ci ha verso di cavargli quella tribolazione di Marcello dal cuore. — Sì, proviamo Betta, proviamo; ormai corre il quarto mese ch'io non ho lettere di Marcello, nè so che cosa ne sia accaduto... — Ed è questo motivo perchè la si addolori poi tanto? Non voleva ella mandarlo in Australia? Io giudico, che dopo avere finito i quattrini si è imbarcato per costà... — Dio lo guardi! Dio ci liberi tutti! Senza quattrini in terre d'Inglesi? Ma tu non sai, o Betta, che forse in tutto il mondo non ci ha che Londra dove l'uomo senza quattrini muoia proprio di fame: non mica che la carità manchi a Londra: al contrario ella ci è bene e meglio; ma il fumo del carbon fossile l'accieca, o se ci vede, affaccendata per andare alla borsa, non può trattenersi a soccorrere chi muore di fame sopra la pubblica strada. Gl'Inglesi hanno per costume di dire, e lo scrivono eziandio nei fondachi loro: _il tempo è moneta_; sarebbe più corto e più sincero ad un punto, se affermassero a dirittura tutto è _moneta_; così di sopra come di sotto, e tanto dentro quanto fuori. Se questo accade a Londra, pensa se a Melbourne dove non vanno di certo i galantuomini in villeggiatura — perchè, Betta mia, l'uomo fuori di casa sta spontaneo come i nostri primi padri stavano costretti fuori del paradiso terrestre... per via del peccato... Qui Orazio si rizzò da capo, e prese come la prima volta a passeggiare, però con ragione diversa; chè per la prima volta dall'èmpito scese alla quiete, mentre adesso di mano in mano accendevasi: — O Betta? Che hai tu fatto? Io vedo... io vedo quel povero ragazzo salito per disperazione sopra una barcaccia sdruscita; lo vedo perduto in mezzo ad un mare di cui i cavalloni s'incalzano mostruosi, come le alpi che abbiamo davanti; — lo vedo in cima di un maroso bianco, e arruffato pari al capo di Caronte, il vecchio demonio, stendermi la mano e dirmi: «Buona notte, signore zio!» e poi sparisce... o Dio! per non comparire più a galla... — Lei dice santamente, sa, signore Orazio, la grulla sono io. Marcello non può essere andato senza quattrini in Australia... questa è chiara come il sole: sa ella dove sarà andato di certo? — Dove, Betta? Dove credi sia andato Marcello? — In Crimea, alla guerra... — Peggio, Betta, peggio. Avrebbe Marcello potuto avere così poco cuore e punto giudizio da mettersi a simili sbaragli senza farmene motto? Gli basterebbe l'animo di lasciarsi ammazzare per assassinare il suo zio? Che gli ho fatto io perchè egli voglia morire prima di me? Il figlio unico non può nè deve andare alla guerra. Napoleone, vedi, che mise in pratica moderna la favola antica di Saturno, che divorava i proprii figliuoli, Napoleone stesso consentì che i figli unici rimanessero a casa: anco a lui parve che pel figliuolo unico corressero maggiori obblighi per istare, che per andare, non fosse altro per ammannirli altri figliuoli come legna da ardere nella fornace della sua ambizione. E poi si trattasse di guerra patria, li dia la peste! non lo vorrei trattenere, no, quanto è vero Dio che ci deve giudicare; senonchè mi farei allestire la cassa, e ma' mai ci arrivasse la notizia: Marcello è morto; io ti direi: «Betta, buttiamovici dentro, e finiamo questa burla sguaiata che si chiama vita!» — Oh! che cosa mi dice, signor Orazio? Ed io aveva sentito leggere su la _Opinione_, che cotesta guerra ce l'eravamo recata sopra le spalle per amore di patria, ed io ci aveva creduto. — Che vuoi tu, Betta? Iddio essendosi per la centesima volta pentito di avere creato questa razzaccia umana, voleva distruggerla, ma si trovò legate le mani per virtù dello antico contratto, che, come sai, stipulò con Noè, quando egli uscì dall'arca; pure volendola punire con qualche cosa, che equivalesse al diluvio, rovesciò sopra la terra i giornali. Se n'eccettui taluno, ma raro, tutti gli altri dêtta la ignoranza, la presunzione scrive, la fame compone, la calunnia ne rivede le bozze, l'ambizione stende lo inchiostro su le pagine, la cupidità stringe il torchio, la infamia vende. — Il giornalista è il _sicario_ dei tempi detti civili; _come il sicario_ di notte opera stampando e scrivendo; _come il sicario_ ti aspetta larvato al canto per colpirti alla sprovvista; _come il sicario_ perdutissimo e bestiale può con un colpo di stiletto ammazzare un eroe Ravaillac che passa il cuore a Enrico IV. Però la Provvidenza, che presto si placa, se non potè distruggere il fatto ci porse il suo rimedio, affinchè gli uomini avvertiti se ne preservassero; e però come al serpente a sonagli assegnava il fruscio della coda, ella impartiva ai giornali un odore nauseante, e questo per l'odorato; inoltre li condannava a rimanersi sempre fradici, affinchè insozzandoti le mani, ti facessero fede che la è roba sempre sudicia. I giornali pertanto il più delle volte sono pagati per istrozzare la coscienza pubblica; però tutti, o quasi, hanno sonato le campane a festa per questa benedetta guerra di Crimea, e il popolo n'è rimasto intronato: ma qui che le campane non si fanno sentire, ti dico aperto che la guerra di Crimea è mossa da causa fin qui nuova negli annali della follia, voglio dire per l'adulazione. Nella speranza remota di un benefizio ci arrechiamo un danno certo; nel presagio di acquistare un amico andiamo a provocarci un nemico sicuro, e poi tu hai, o Betta, a ficcarti ben dentro la mente una cosa, anzi due, che un popolo non acquista la sua libertà esterna querelandosi per le reggie dei potentati stranieri a mo' dello accattone alla porta del convento: a questo modo buscherai una ramaiolata di broda, non la libertà; e quanto alla libertà interna, Dio volesse che ai popoli la offerisse Igea dentro una tazza colma di salute, ma non è così; questa pure noi non possiamo acquistare, eccettochè con la ricetta, che adoperò Ercole contro l'idra Lernea; voglio dire, botte da ciechi: e per compendiare tutto in poche parole, così dentro come di fuori libertà non si ottiene con la destra stesa, bensì stretta; quella si addice al mendico che supplica la elemosina, questa al guerriero che minaccia il nemico con la spada. — Dunque concludo, riprese Betta, che se Marcello non se n'è andato lontano per mare nè per terra, senza fatto deve trovarsi vicino. — Ma! neanche con la riga in mano si argomenterebbe così diritto. — E se si trova prossimo tanto più avrà ad essere facile rinvenirlo: per la quale cosa io giudico, innanzi tratto, che ella farà benissimo a pigliarne lingua scrivendo a qualche suo amico di Milano, a mo' d'esempio al signor Tondi, quel mercante suo amico. — Tu parli santamente: ma cotesti poveri Lombardi tanto sono trassinati da quelle bestiacce di tedeschi, che tengono sempre le orecchie ritte come lupo che aombri; se avessi potuto concertare col Tondi una maniera d'intenderci, fingendo favellare di zuccaro o d'indaco, io credo che mi servirebbe volentieri; diversamente temerà di guastare i fatti suoi sul dubbio che qualche lettera gli sia soppressa, e la _polizia_ vada a pescare nella ricerca di Marcello qualche insidia al paterno reggimento di S. M. Apostolica. — Aspetti! Allora scriva a Don Placidi, quel dabbene canonico che ride tanto, che mangia tanto, che beve tanto, che... — Certo il canonico, per quello che fa la piazza, gli è proprio fiore di galantuomo, ma tu capisci bene che mi si professa amico dalla mano sinistra, come i principi di corona, sposano le vassalle, e ma' ma l'Arcivescovo sospettasse che mantiene meco pratica, s'egli stesse contento a sospenderlo a _divinis_ sarebbe bazza. Ora i preti, e sopra tutti gli altri cristiani i preti, dei precetti di Gesù tengano a memoria ottimamente quello, che la carità, affinchè possa chiamarsi perfetta, deve incominciare da sè medesimo; anzi molti opinano che Don _Mestesso_ fosse prete, e affermano che il papa lo avrebbe fatto senz'altro cardinale se non moriva d'indigestione cappellano. — Dunque faccia una cosa, scriva al conte Scotti; questi mi pare che non lo abbiano a tenere tanti rispetti. — Per questo poi tu ti sei apposta, egli è una perla, ma che vuoi tu? La stagione mi corre nemica: ogni anno di carnovale il conte perde la testa a cagione dei piedi di qualche ballerina. — Dunque ci mandi un uomo a posta che frughi, e rovisti per ogni angolo tanto che le riporti notizia di Marcello. — Tu l'hai detto! Per poco che il mio messaggiero si mostrasse curioso o impacciato, correrebbe rischio di essere spedito in Moravia per sospetto di spia, e forse dietro a lui Marcello a fargli riscontro; perchè gli Austriaci hanno in corpo il diavolo della simmetria; tanto è vero questo, che qui in Italia non impiccano mai un Italiano solo. Queste sono faccende delicate, Betta mia, adagio ai ma' passi. Se vuoi vai, e se non vuoi manda, egli è un proverbio d'oro... e bisogna finirla. Questo dicendo, Orazio prese un candelliere e se n'entrò in camera, dove Betta non lo seguitò, pensando che andasse per qualche suo agio, ma ella ebbe a restare trasecolata quando lo vide comparire indi a poco vestito di tutto punto abbottonato fino al mento, il fascettone di lana intorno al collo, guanti e bastone. — E ora in cotesto arnese dove va, che sia benedetto? — Vado a Milano. — A Milano! esclamò Betta spaventata; e subito dopo, quasi per mettere un travicello in mezzo alle gambe della costanza di Orazio, e farlo stramazzare alla traditora, soggiunse: il passaporto? — Da parecchi giorni io l'ho in tasca. — Col visto del console austriaco? soggiunse Betta pallida in faccia pel presagio della disfatta. — Col visto del console austriaco. — E il signor Orazio me lo ha taciuto? In queste semplici parole ci era tanto peso di rimprovero, che il signor Orazio abbassò il capo, senza potere formare una parola, ed anche Betta se ne stava alquanto sopra di sè, ma subito dopo, come chi razzola da un balzo si attacca ad ogni tignamica, ella insistendo soggiunse: — A quest'ora? — Basta che mi affretti sarò a tempo all'ultima partenza della strada ferrata — e così parlando Orazio additava l'orologio posto sul caminetto. — Ma la notte, il freddo, l'umido, la tosse, il reuma, l'emorroidi, l'ernia, il mal del fegato!... Signore! Oh! se si inferma chi lo custodirà? — Mi sono coperto bene, ho meco il mio fascettone di lana, e questo pel freddo, l'umido e gli altri malanni; pel rimanente la ferma fiducia nello aiuto di Dio. — E se lei casca in sospetto di cotesti scellerati di austriaci? Signore! mi viene la pelle di pollo a pensarci soltanto. — Betta, di grazia, sgombrami la via; vedi, tu non potresti trattenermi nè manco se tu fossi Andromaca, e mi porgessi su le braccia Astianatte. — Qui non ci hanno che fare le natte; bensì tedeschi... La supplico non si esponga, signor Orazio... non metta a cimento la sua vita... abbia carità di lei... ed anco un poco di me! — Duro fatto di noi altri meschini! esclamò Orazio dandosi un picchio sulla fronte così marchiano che si fece saltare a un punto cappello, occhiali e parrucca, non però mosse atto di correre loro dietro per raccattarli, tanto la passione in cotesto punto lo vinse; — duro fato! Lo italiano per condursi in terra italiana... qui presso a cinque ore di cammino... in cerca del propria sangue, corre maggiore pericolo di quello, onde i cristiani erano minacciati una volta nei paesi di Algeri o di Salè. E intanto che Betta raccoglieva occhiali, cappello e parrucca, Orazio soggiunse: — senti, Betta, non impedire il mio fatale andare, perchè sappi una cosa, che ti ho tenuta nascosta; se io passassi una notte come la trascorsa, tu correresti rischio di trovarmi morto nel letto.... In questa fu sentita una scampanellata da buttare giù la porta; e Orazio e Betta avevano appena avuto il tempo di domandarsi: chi mai sarà? che Orsola, Lorenzo, Antonio, irruppero nella stanza gridando: eccolo! e' viene! e' viene! — Chi viene? urlò Orazio. — Chi viene? — urlò con voce rinforzata Betta. E gli altri: — eccolo! e' viene! — Ma chi? — Ma chi?... Betta e Orazio in coro. — Viene Marcello, gli rispose di su la porta in atto tragico quel capo ameno di suo nipote. CAPITOLO QUINTO Betta riportami il thè. Il giovane con impetuosi passi si fece verso lo zio, e giuntogli appresso gli si genuflesse davanti, prese a lui male repugnante, la destra, gliela baciò, e bagnò di pianto. Il signore Orazio non sapeva in che mondo si fosse; capiva che il suo dovere era mostrarsi, non pure sdegnato, ma acerbo; si sforzava ricondurre sotto la bandiera l'ira con gli occhi insanguinati, la contumelia con le labbra gonfie, e il terrore co' capelli ritti a mo' d'istrice che abbia visto i cani, ma l'erano novelle; tutte queste cose scappavano quanto più le chiamava, e ormai si sentiva disposto chinarsi alla capitolazione, ed abbracciato il capo al nipote, sfogarsi in lacrime sopra di esso, quando per ventura venne a posare la manca su l'orlo del vasoio dove stavano tazze, zuccheriera e bricco del thè ormai freddo da un pezzo; il vasoio messo a leva rovesciò bricco, tazze e zuccheriera; ogni cosa a rifascio sul capo al figliuolo prodigo; e' fu un battesimo di thè, di latte e di zucchero. Allora Orazio, rompendo in uno scoppio di risa, si mise in ginocchio: ridendo dopo di lui s'inginocchiarono Bella, Orsola, Lorenzo ed Antonio, e tutti insieme presero chi ad asciugare il pavimento, e chi a raccogliere i frantumi delle tazze, sovente toccandosi con le mani, e qualche volta cozzandosi con la testa. Intanto Orazio prolungando ad arte cotesta faccenda andava mulinando tra sè: che dirgli? come parlargli? lo respingerò? lo abbraccerò io? cuore di pasta frolla, non sapevi essere ardui i doveri paterni? perchè ti recasti sulle spalle la dignità di padre? perchè la tieni se te ne senti indegno? Non capisci che dalla costanza tua, o dalla tua debolezza può dipendere la sventura, o la onorata vita di questo giovane? Fa di cuore rocca e rimandalo là donde è venuto... Sicuro, è detta! dopo il Fiscale della coscienza, entrava a dire l'avvocato. — E poi dopo avere riso, dopo averne toccate le mani, dopo averlo ribattezzato col thè, col latte e con lo zucchero? O il battesimo non lava tutte le colpe? _Asperge me hysopo et mundabor_; e se David ci mise l'isopo e non il thè, ciò accadde perchè il thè ai suoi tempi non usava. E Orazio, giù carpone per terra, chi sa quante belle cose avrebbe discorso su questo gusto, se ormai diligentemente rasciutto il tappeto, raccolta ogni scheggia, comecchè minutissima, non si vedeva tolto ogni onesto motivo di rimanersi giù per terra, mentre si erano rilevati tutti; si drizzò pertanto senza neppure avere deciso, se nel volgere il discorso al nepote avrebbe adoperalo il _lei_, o il _tu_, o il _voi_. Qui gli occorse nuovo ostacolo alla politica bellicosa, dacchè vide Betta, che preso con ambedue le mani il capo di Marcello ci teneva su fitte le labbra come se volesse bevergli il cervello. Ecco lì, egli pensò, costui mi ha sciupato ogni cosa.... e non gli pareva vero che fosse ita a finire a quel modo; però cotesto toccare terra gli aveva fatto bene; gli aveva dato forza per perdere, come successe ad Anteo di mitologica memoria, onde con voce tra fosca e chiara disse: — Marcello, voi avete sbagliato, il numero tre dista due unità dal numero cinque... — Zio ella ha dieci volte ragione: ma ecco ciò che mi ha persuaso a tornare; si compiaccia seguitarmi nel mio ragionamento.... — Tira innanzi a ragionare.... _arri_! e ringrazia Dio che non ci ho la frusta. — Io mi sono fatto a dire: lo zio Orazio accoppia a cuore amante ingegno eletto; quindi non è da supporsi nè manco per ombra ch'egli siasi innamorato del numero cinque; no davvero. Parve a lui che non ci avesse mestiero di minore spazio di tempo per raddrizzare le gambe ai cani, voglio dire il cervello di suo nipote; ma se questo nipote gli tornerà in casa innanzi cotesto termine e gli mostrerà buttando carte in tavola, che senza pretendere di essere esposto alla venerazione dei fedeli come uno stinco di santo, può stare come un altro nell'arciconfraternita dei galantuomini secondo la stagione che corre, lo riceverà a braccia quadre, e gli dirà: tu sia benedetto! — Eh! Eh! e durò un pezzo a tossire Orazio prima di rispondere; ma chi avesse potuto vedere in viso cotesti eh! gli avrebbe scorti rossi per la vergogna, essendo altrettante bugie della gola adoperate da Orazio per pigliare tempo; all'ultimo disse: eh! cotesto tuo discorso starebbe in isquadra, ma io non so sopra quale fondamento riposi; chi mi malleva che non mi torni a casa furfante come prima, più la sfrontatezza per giunta? — Io vi mallevo. — Tu ti presenti a me come nel Metastasio Ezio all'imperatore Valentiniano, quando gli dice cantando: «Signor, vincemmo ai gelidi trioni.» Ed ora mi rispondi come Medea, quando nella tragedia sentenzia: «Or che resta a Medea? — Medea.» Tutto ciò mi chiarisce che hai letto Metastasio, e il duca di Ventignano, non già che tu sii migliorato! «Non son chi fui (rispose Marcello declamando sempre a mo' d'istrione) morì di me gran parte, Se quel che avanza è roba dozzinale, Un po' di studio ci adoprando e di arte, Spero direte: e' non ci è ben nè male.» Questo in rima; in prosa le ripeto, che tengo carte in mano.... — Ora dimmi via, qual fu il santo, che operò su te un miracolo tanto miracoloso? Nominalo tosto, — che io gli mandi ad accendere i moccoli ai piedi. — E' non fu un santo... — Dunque? — E' fu un buco. Il signor Orazio spiccò un salto come un rannocchio di legno, lieto trastullo dei bambini, e sentì la bile tornare a gonfiargli i precordii, nel sospetto di essere cuculiato dal protervo nepote; ma guardatolo così a squarciasacco, gli apparve tanto ingenuo e rispettoso in vista, che subito cadde in apprensione gli si fossero spigionate le soffitte; onde è che percosso da questo pensiero proruppe in un grido chiamando: — Betta! Betta! Betta rimescolata gridò: — Ch'è accaduto, signore? Orazio, additando Marcello, con faccia sgomenta continuava: — O Betta! Ecco là Marcello, che pretende di essere guarito dagli antichi vizi, meglio del lebbroso che si tuffò nella piscina, — ma non in virtù della piscina, bensì.... o Dio... Dio... in virtù di.... di un buco. E qui il degno gentiluomo coprendosi con ambedue le mani il volto singhiozzava.... Ma Betta lì pronta prese a dire: — in verità io non vedo in questa faccenda motivo di maravigliarci e molto meno di sgomento; un buco può fare molto bene e molto male; venga qui, signore Orazio, sia benedetto; la si figuri la buca delle lettere, e consideri quante cose buone e quante cattive la può portare; una sfida al duello, una carta d'ingiurie, l'avviso di un incendio, di una seduta accademica, di un accidente e via discorrendo; per altra parte una rimessa di quattrini, il saluto di un amico, l'avviso di un matrimonio, un decreto di assemblea che ti dichiari benemerito della patria, quando vostra signoria era giovane un invito... lei mi capisce — e se più ne ha, più ce ne metta: però mi sembra dicevole alla sua prudenza ascoltare con pacatezza il giovane, e poi, secondo ciò che egli le verrà esponendo, governarsi secondo il suo buon giudizio. — Ah! tu sei la linea retta del buon senso, o Betta. — Marcello — poi disse Orazio agguantando il nepote pel braccio — tu m'hai a promettere una cosa sul tuo capo. — Che cosa, zio? — Quando Betta morirà, che intendo e voglio sia dopo di me, tu me la impaglierai, e riporrai nello studio... Per questa volta era Marcello che dubitò che lo zio avesse dato nei gerundii, onde non senza esitazione domandò: — Impagliare Betta! e perchè? — Perchè in Arquata sopra la soglia della casa, che fu del Petrarca, mostrano la sua gatta impagliata come il genio del luogo; questa non mi sembra, e non è da filosofi; mentre tu mostrando ai curiosi Betta impagliata nel mio studio potrai dire — vedano, signori, cotesta donna quando viveva ebbe giudizio per dodici gatte, e per ventiquattro donne, — e, se ti parrà — potrai aggiungere — e di uomini, sì in verità di uomini, compresi tu ed io. — Poi ridivenuto blando Orazio riprese: — Marcello, tu non t'impermalirai se non pago la cambiale, che tu hai tratto a vista sopra la mia fiducia; io non ho assegnamenti di tuo in mano, lo sai? — Lo so; così intendeva farle pagare lo _assegno_ solo dopo ricevuta la mercè, ma e' non mi ha dato tempo di sbarcarla nè anco; — si compiaccia rammentarselo. Dunque ella prima mi ascolti, e poi mi condanni. — È giusto! disse Betta. — È giusto! soggiunse Orazio, anzi per udirlo a bello agio, Betta, non ti sia per comando, riportami il thè. E il thè fu portato e versato fumante nelle tazze, ma prima che Orazio e Betta se lo accostassero alle labbra, Marcello incominciò: — Arrivai a Milano, dove non mi presi briga alcuna di informarmi quante miglia distasse da noi l'Australia, contentandomi sapere che l'erano troppe più di quelle, che io volessi fare; e poichè mi paragonava ad una nave lanciata seguitai lo impulso, che mi pareva avere ricevuto, non ismettendo punto, anzi crescendo le spese: se però mi venisse attorno quella specie di farfalle, che invece di consumarsi le ali passando di mezzo al fuoco lo consumano, pensatelo voi; ce ne fu di ogni maniera antica; se qualcheduna nuova, tra queste principale il perseguitato politico; io ebbi modo di cavarne per mio uso il ritratto, e glielo mostro. Stia attento. Il perseguitato politico per ordinario porta i capelli corti alla soldatesca, i baffi _idem_; gli uni e gli altri lustri di grasso, profumato o no, non importa; ma per lo più sa di sego; in guisa che per questo la sua età non apparisce giusta; vero cannocchiale per gli anni ora li sfodera a cinquanta, e, se gli torna, anco a sessanta; se no gli tira fino a trentacinque, ed anco a trenta; e se una donna cinquantenne gli osserva: — come siete giù! vi avrei giudicato più attempato; egli sospirando risponde: — Ah! madama, per le angoscie del cuore l'uomo invecchia presto; possa non provarle ella mai, madama, le pene del cuore. — Allora madama _trova_ che egli può benissimo avere trent'anni soli, ed anco meno. Egli veste un abito abbottonato fino al sommo del petto, e talora ci si vede una cima di nastro; e se gli venga domandato a quale ordine cavalleresco appartenga, ne dirà uno di Portogallo, o turco, o tunisino; anche la persona egli tiene su rigida come uomo avvezzo agli esercizi militari: quanto al fumo, sembra perpetuamente in gara con la cappa del cammino di una vaporiera; adopera il sigaro; più sovente la pipa; anche sembra nato gemello con lo stipite del caffè, donde si muove solo per accompagnare i suoi conoscenti al tavolino per bere con esso loro di tutto e sempre; poi torna al posto: egli entra in tutte le liti, di tutti i duelli è il padrino; se riesce a comporre in pace i duellanti è bene; se non riesce è meglio: solo questa giustizia bisogna rendergliela; procura che non seguano mai morti; e se prima dello scontro non era amico di veruno dei litiganti, lo diventa senza fallo dopo di tutti e due; quando si viene a discorrere di casi successi, egli è tomo di dire come il conte di San Germano, allorchè presero a contrastare in sua presenza di un fatto accaduto alla corte di Luigi XIV cento anni innanzi: — no signori, non andò così, e lo so perchè mi ci trovava, o, anzi, stava allato di lui col candelliere in mano. Difatti egli era a Saragozza quando la presero di assalto i Francesi, e vide proprio co' suoi occhi veggenti scrivere al Palafox il famoso biglietto: _guerra a coltellate_! — Mina, il Pastor, il curato Merino gli ha tutti su le dita. In Grecia si trovò a sostenere cadente il povero Santorre Santarosa a Sfatteria, e fu per lui se si conservò il ritratto dei suoi cari, ch'egli a furia di baci stinse mezzo la vigilia della battaglia;[4] e chi tenne per le falde il vescovo Germanos mentre si buttò di sotto dalla torre di Missolungi se non egli? E lo salvava se la tonaca di quel degno sacerdote non era troppo logora, sicchè sul più bello gli si strappò in mano. Egli a Marco Botzaris suggerì un'insidia, a Miauli un colpaccio disperato, con Canari entrò nei brulotti co' quali andarono a bruciare i vascelli turchi, ambedue spensierati e alla carlona come quando si accende il sigaro. Quanto più ci accostavamo alle nostre parti, tanto più si mostrava discreto: si era però trovato co' fratelli Bandiera, ma per amore di Dio non lo dicessero; nelle cinque giornate di Milano egli fu la mano destra di Carlo Cattaneo; ma avendo preso cura d'imbrattarsi il viso, non era stato riconosciuto da nessuno. Si afferma viscerato di Kossuth; fratello di Mazzini; di quei di Francia non si discorre nè manco. — Donde viene egli? Secondo i paesi dove si trova muta polo. In Ispagna fu italiano, in Italia spagnuolo, ma a volta a volta ora esce di Sassonia, ora di Moldavia, ora di Vallachia; e non lo tradiscono i costumi, nè la favella, perchè fantino fu tratto di casa, e i genitori lo lasciarono presto orfano, e poi la lingua francese è lì per torre via ogni originalità, come il bianco di calce per imbiancare qualunque segno sopra le parete. Per quale diavoleria con tutte queste cose, che io dico, e molto più, con quelle che io taccio, egli sia stato e si rimanga a Milano, pare proprio un miracolo, e miracolo maggiore che la polizia non abbia preso lingua delle sue parole, ch'ei studia moderare, ma che pure basterebbero, anzi ne avanzerebbero mezze per condurlo diritto come un fuso allo Spilbergo, o in qualche altra villeggiatura di S. M. Apostolica. Siccome il proscritto politico fa professione di comunismo pratico, non teoretico, ed afferma di più avere versata in altri tempi la sua messa nella borsa comune con tanta generosità, che nè anch'egli, pensandoci sopra un giorno, saprebbe dire a quanto mai ascenderebbe, e ciò credo ancora io; basti questo che a lui non rimase più nulla; e che non possieda più nulla è verissimo, ed io lo so ch'egli prese a esercitare sopra le mie povere robe un saccheggio regolare quotidiano, con tutte le regole dell'arte. La mia guardaroba non si trovava tanto fornita, che potesse resistere a simili assalti; ma lo fosse stata il doppio e il quadruplo, in capo ad una settimana avrebbe dovuto votarsi; inasprito un dì, che io lo vedeva mettersi in tasca il mio penultimo paio di calze, gli dissi corna; ma egli mi volse uno sguardo di pietà, e avvoltosi superbamente nelle pieghe del mantello, che mi aveva preso, rispose: — pur troppo prima d'ora mi sono accorto, Marcello, che da te non ci sarebbe stato modo di cavarci niente di buono: le vie della perfezione stanno chiuse irrevocabilmente dinanzi ai tuoi passi: — tu porti il nome del nipote di Augusto, primo tiranno di Roma; tu non potrai essere buon repubblicano mai. — Così favellando usciva, e indi in poi mi fu facile levargli di sotto qualche cosa di mio come pelare i capponi, che Lorenzo ci mette in tavola lessati. Però devo confessare, e veda, zio, lo faccio senza corda, non fu il solo genere mascolino che provai infesto; io ebbe a sostenere la guerra contro tutti i generi della grammatica; il femminino quanto il mascolino, ed anco il neutro mi volle dare la sua zampata; chè certo prete mi portò via venti svanziche per non so qual messa pei morti di Curtatone e di Montanara. Io, deve sapere, signore zio, ebbi mai sempre trasporto alla dinamica; onde mi posi a considerare con l'attenzione, che per me si poteva maggiore, lo strano perturbamento che giusto adesso si operava nelle sue leggi; per ordinario se piglia una tavola e la mette in bilico, quanto più aggraverà di peso una delle cime tanto più si leverà l'altra; ora della dinamica dei quattrini conobbi che la facenda cammina non solo diversa, ma contraria; difatti in proporzione che il peso dei marenghi scemava da un lato, il giudizio saliva dall'altro: tanto e' si era levato in alto che fin là credo ei non vi sia giunto prima, nè giungerà poi; anzi mi parve miracolo che non gli pigliasse il capogiro. Il giudizio dal sublime soglio, dove lo aveva sospinto la imminente miseria, schierò dinanzi a sè i miei marenghi, come si dice che costumasse Serse i suoi soldati prima di entrare in Grecia, e conobbe che bisognava affrettarsi a ingaggiare la battaglia, se non voleva rilevarne una batosta irreparabile quanto vergognosa. Dato il segnale, ecco comparire sul campo _in acie ordinata_ il locandiere, la lavandaia, il sarto, il caffettiere, il calzolaio, _eccetera_, armati fino ai denti dei loro conti, e fulminarmi col fuoco di fila delle somme finali; combattei al pari di Leonida, giacqui, risorsi, e grondante sangue per mille ferite rimasi vivo, e vittorioso pagando, come talvolta anco nei tempi moderni è accaduto a qualcheduno.[5] Rassegnando i miei dopo la battaglia, vidi che mi erano rimasti giusto otto marenghi, e per istrano caso un Napoleone I, un Luigi XVIII, un Carlo X, un Luigi Filippo, una Repubblica, un Carlo Alberto, un Vittorio Emanuele, un Napoleone III. Due imperatori, cinque re e una repubblica per 160 franchi non era caro. Però essendomi agguantato il capo con le mani per bene contemplarli, e cavarne i responsi, mi parve che Napoleone I prendesse a movere le labbra, e subito dopo un suono metallico mi percosse le orecchia, il quale diceva: «nè senno, nè fortuna, scompagnati dalla giustizia, fondano cosa durevole, ed io fui ingiusto, vinsi battaglie inani, feci del papa una statua di marmo, che poi cascatami addosso mi schiacciò i calli; il trono, comecchè coperto di velluto rosso andava composto di ossa umane slegate, onde mi scrollò sotto, e battei del postione su la terra; infelicissimi casi! Ma di tutti più infelice l'ultimo, quando dal pulpito di Santa Elena mi strinse il bisogno di predicare alla terra, affinchè mi amasse, mi ammirasse o almeno compiangesse; predicai al deserto, e il deserto delle acque provai più desolato del deserto di arena; imperciocchè questo taccia sepolto in silenzio di morte, mentre l'altro rompendosi nelle roccie col suo perpetuo fiotto parve irridermi dicendo: _bugiardo! bugiardo!_» Io stava per blandire cotesto marengo afflitto, quando entrò in quel punto un ultimo avversario a darmi di uno stocco nel petto. Ma sopra ogni altro feritore infesto Sopraggiunge Tancredi e lui percote. Però non era Tancredi, bensì il lustratore di stivali... allora il fiero capitano s'involò nelle ombre delle tasche del lustratore in compagnia di una _svanzica_, di una _mutta_, e di tre _centesimi_ parmensi, che gli tennero dietro come le tre furie a Oreste parricida. _Tantæ molis erat_ saldare il conto del lustratore degli stivali. Mi volsi per consolarmi a contemplare la faccia Canonicale dì Luigi XVIII, che ammiccatomi alquanto degli occhi con un risolino susurrò: «e' si danno tempi, figlio mio, in cui salutare gli uomini col nome di bovi sarebbe dargli metà meno del loro avere; così vero, che i bovi bisogna strascinare al macello, mentre che gli uomini si arrabattano a darti carne, ossa, pelle e corna; e se tu non gli pigli, si arrapinano; tu bada di accettare dall'uomo dopo cena quello che ei non ti avrebbe donato prima di colazione; non mica perchè egli non ti abbia a ridomandare anco questo un giorno o l'altro, ma sì perchè tu glielo potrai restituire senza incomodo anco co' frutti; mentre se pigli troppo, ti fia grave renderlo con gl'interessi o senza; ed egli spogliato di tutto vorrà troppo più, e con modi più acerbi, che se in parte tu lo avessi lasciato vestito; di questo ti faccia testimonianza il gramo marengo del mio successore, il quale in fede di gentiluomo non so come la gente duri a barattare per venti franchi come il mio; tu però non gli domandare niente; tanto lo ingrullirono le donne e i preti, che se tu lo interroghi intorno ai negozii di Stato, egli è capace di risponderti: _ite, missa est_». E continuando il suo risolino concluse recitando i versi di Orazio sua delizia: Nos ubi decidimus Quo pater Eneas, quo dives Tullus, et Ancus Pulvis et umbra sumus. Luigi Filippo mi disse pensoso: «giovane impara; io ho creduto che se fossi giunto a ridurre il mio regno nella formula: ecco io sono il vostro pane e il vostro vino, la umanità mi avrebbe battuto le mani per _omnia sæcula sæculorum_; ho sbagliato, l'uomo non è materia affatto, nè affatto spirito, nè in qualsivoglia condizione il consorzio umano fu così tristo, che tanto o quanto non si dovesse attendere a soddisfare lo spirito, o così sublime che ci assolvesse da qualunque cura della materia. Tu stima gli averi al pari di tutte le cose che possono dirittamente procacciarti; non gli stimare sopra, nè di più di quelle cose, che non valgano a procurarti. I quattrini ti compreranno un buon desinare e un letto soffice, non ti compreranno la buona reputazione, e la coscienza incolpevole madre dei sonni tranquilli.» Il marengo della repubblica rappresentava tre figure un po' logore, due di femmina, forse la libertà e la uguaglianza, sposate da una terza in sembiante di uomo incamuffato con la pelle di lione, la coda del quale gli spenzolava giù per le gambe: ahimè! già a vederlo solo questo simbolo mi dava il mal di mare. La figura di mezzo mi parlò in questa sentenza: «a volere fondare una repubblica che duri, bisogna che la libertà e la uguaglianza sieno coniate _nel cuore_ dei cittadini, non già _su le monete di argento_ e molto meno sopra _quelle d'oro_; e perchè appunto l'erano coniate _su le monete_ non albergavano _nei cuori_, onde qui non fummo mai, e di costà cominciamo a sparire.» Difatti risposi io, la cosa, che adesso mi apparisca più chiara di questa impronta, è la coda che pende di fra le gambe a te. «La logica, soggiunse la figura, è l'aritmetica delle azioni umane; ognuno presume sapere che l'undici viene dopo il dieci, e pure pochissimi al cimento dimostrano saperlo; tu procura principiare sempre dal principio, e quando ti affermano che due e due fanno quattro, prima conta due volte su le dita toccandoti una volta le labbra e l'altra il naso.» — Sarà servita, risposi io. Carlo Alberto passò senza far molto; solo pareva tentasse voltarsi addietro per vedere, ma il collo di metallo non gli consentì il moto; allora mi parve che spirasse, ma non lo posso assicurare; venne la volta di Vittorio Emanuele. Signore che conio! Chi scolpì la effigie di questo re sopra le monete può vantarsi essere maestro e donno di quanti mangiano a tradimento il pane dello Stato; certo è che il re non potrebbe dire a questo operaio quello che disse Carlo V quando raccolse il pennello a Tizio: «maestro, voi mi avete dipinto un ritratto da amico; le donne che s'innamorassero di me sopra la vostra effigie corrono rischio di disamorarsi sul mio originale.» Il marengo di Vittorio Emanuele anch'egli, acqua in bocca; solo mentre io lo considerava udii come se una voce mi sussurrasse nell'orecchio destro: Lunga promessa. . . Mi voltai per vedere chi fosse quegli, che mi era venuto dopo le spalle, e non iscorsi persona; ma intanto che piegava il collo per mirare Napoleone III, dal quale mi riprometteva udire _mirabilia_, ecco la voce bisbigliarmi nell'orecchio sinistro da capo: . . . coll'attender corto. Da capo mi voltai e rivoltai, e persi a un punto la vista dell'ente arcano, che recitò in due parti il verso di Dante e le parole del marengo rappresentante Napoleone III, il quale colto il destro si era messo in mucchio con gli altri, allegro in vista come uomo che sia passato dalla porta senza pagare la gabella della carne macellata che ha sotto. Questo mi dissero i nette marenghi; dopo ciò statuii tenermeli cari come i sette sapienti della Grecia, e poichè pur troppo prevedeva che avremmo dovuto separarci, volli ordinare le cose in maniera, che questo accadesse più tardi, che fosse possibile. In tale intento licenziai la stanza all'albergo, e mi posi in cerca di un ricovero, il quale trovai tosto intorno al Duomo al primo piano cominciando a contare dal tetto; e mi piacque per tre cose; la prima fu un abbaino nella sala, dove affacciandoti montato sopra una sedia tu potevi fare all'amore con le tante piramidi del Duomo; la seconda, ch'era imbiancato di fresco, e così immacolato per virtù del pennello dello imbianchino, quanto la nostra Donna lo fu in grazia del sommo Pontefice Pio IX; la terza una finestra nella cucina, donde in venticinque minuti facendo forza di braccia si poteva attingere un litro di acqua nel pozzo sottoposto; ebbi letto, ebbi una seggiola con tre piedi, e non mi dolse, rammentandomi che anco la Sibilla quando dava i responsi si metteva a sedere sul tripode, una catinella incrinata, una mezzina senza manico; mancavano i candelieri, ma ciò non fece ostacolo; praticando il mondo, aveva visto come le boccie servano a illuminare le genti piene e vuote, vive e morte, e ciò a differenza dei cinque quarti e nove decimi della umanità che viva non fa lume, e morta anche meno: però, sebbene io stessi unicamente, non potei dissimulare a me medesimo che pure qualche coserella mancava... — Marcello, sono dieci minuti, che io ti ascolto mentre il pensiero mi ondeggia tra il bevere questa tazza di thè, e lo scaraventartela nella testa. — Dacchè ella ha avuto la bontà di consultarmi prima, il mio parere sarebbe che se la bevesse... — E il buco com'entra in tutto questo? — Come! ci siamo vicini, e non se n'era accorto? — Sospendo fino al buco; poi, uomo avvisato mezzo salvato. — Dunque precipito il racconto, e taccio come ruzzolassi le quattordici scale del mio nuovo domicilio; sceso al piano comprai fiammiferi, comprai stovigli, e siccome passando di su una piazza vidi che un mercante vendeva stampe all'aria aperta per venti centesimi il pezzo, mi prese vaghezza di decorarne con qualcheduna, che più mi andasse a genio, la stanza; mentre io vagava coll'occhio tra un vero giardino di apostoli, martiri e confessori, ecco percotermi il volto della immagine della Madonna uguale, a mo' che gocciola somiglia a gocciola, al ritratto della povera madre mia... Qui il giovane sostò alquanto con la voce, chè la commozione gli strinse la gola, e gli occhi si empirono di lacrime. Orazio, che teneva sempre in mano la tazza, corse furiosamente a cercare il moccichino, e si soffiò a più riprese il naso o finse. Marcello rimessosi in sella continuò... — Sì, signore, tale e quale la madre mia, e terminate le spese, tornai a casa col fattorino, che mi portava la valigia. In dieci minuti e sedici secondi aveva dato sesto ai miei appartamenti; restava a collocarsi la immagine: mi pareva peccato esporla alle ingiurie dell'aria e degl'insetti; rammentava come la chiesa, solenne trovatrice di cerimonie, abbia in costume celare le cose sante allo sguardo continuo dei fedeli, affinchè per troppa dimestichezza non inviliscano, e di un tratto mi occorse modo d'imitarla: nella prima stanza trovai un armadio ricavato dallo spessore del muro chiuso co' suoi sportelli per dinanzi. Questo è ciò che mi ci voleva. Sarà l'armadio sacro quanto il ciborio, e consacrato intero al culto materno senza metterci altro, e ciò per infinite ragioni: principalmente per quella che io non ce l'aveva; presi pertanto un chiodo e un sasso di cui mi era provvisto in luogo di martello, e cominciai a picchiare. La parete divisoria nel fondo dell'armadio avevano tirato su di mattone per taglio, e la punta del chiodo si era ficcata tra una commessura e l'altra dei mattoni, onde la calce cesse altramente, che se fosse stata ricotta, e feci un buco. — Vede, signor zio, se parlava da senno quando le dissi che eravamo prossimi a questo benedetto buco... — Tira innanzi... — Cavai il chiodo maravigliando dell'arrendevolezza del muro, e nel cavarlo ne usciva un raggio di luce, sendochè la mia sala per avere l'unica finestra dello abbaino stava piuttosto al buio. La luce mi persuase a guardare che mondo si agitasse di là dal buco; però ci applicai l'occhio, e vidi... potenza del cielo e della terra, che vidi io mai? — Che cosa, di'? interruppe Betta, la quale, comecchè alla lontana, quanto a curiosità si vantava discendere da Eva. — Un angiolo... — Non mi fa specie, osservò Orazio, stando di casa tante vicino al paradiso, per ogni lieve stincatura, che si facessero gli angioli, ti avevano a cascare proprio sul tetto, e aveva l'ale, di', cotesto angiolo? — Non l'ale, bensì la cuffia. — Però senz'ale anche le tazze volano, e in questo dire levò la tazza del thè come per accompagnare la dimostrazione coll'esempio, ma Betta pronta gli tenne la mano, dicendo: — _Priore, udite l'altra parte._ Marcello, che non aveva visto cotesto atto o non lo aveva voluto vedere, riprese esaltato: — Un Angiolo, un Cherubino e un Serafino; io l'ho decomposta dalle ossa fino alla lievissima caluggine del labbro superiore; ad uno ad uno esaminai i capelli, i vasi linfatici, le palpebre, le tinte, le mezze tinte, e le sfumature; ella stessa ne giudicherà, signore zio, se vorrà giudicarne; solo lo avverto, che a descriverle le bellezze della donna mia mi ci bisogna tempo almeno almeno fino a domani a questa ora, e poi per quanto dicessi, io non aggiungerei alla quinta parte della metà del vero. — Guardati dal farlo; se l'uomo prima d'innamorarsi non perdesse il giudizio, si tratterrebbe da lodare smaniosamente la sua donna, contento col dire: _La mi piace_. Lascia all'oste lodare il vino, che vende. Chi imbianca la facciata di casa è segno che la vuole appigionare. — Così è; la mia donna buona per tutti deve comparire bella unicamente per me. Però zitti a bellezze; e favelliamo dell'altre cose che vidi traverso il buco; procediamo dunque con ordine, e che io parli delle stupende virtù dell'_ordine_ non mi pare spediente, dacchè tutte le ranocchie di tutti i pantani del mondo da un pezzo in qua non sanno cantare altra canzone eccettochè questa; ogni scrittore parte il suo lavoro in canti, libri e capitoli; io lo dividerò in _vedute_, perchè quello che esporrò lo vidi a guisa di mondo nuovo. Dunque, signore e signori, attenti alla prima _veduta_. Una cucina nuda, tersa un po' meno di Venere quando uscì dalle acque; alcuni carboni vermigli quasi dalla vergogna di spandere così piccolo fuoco, e un pentolino, che pareva chiedesse scusa di accostarsi presso loro con tanta confidenza; allato alla finestra un telaietto e una scranna. La cucina aveva due porte; una a giudicarne dalle ferramenta metteva fuori di casa; l'altra nella stanza da dormire; di vero dal buio io vidi la metà di un letto dal capezzale in giù, e su cotesto capezzale, ohimè! la faccia di un giovane disfatto dalla etisia. Era egli stato bello? Chi può giudicarlo dalle tempie cave, dalle guancie infossate, dal naso emunto, dalla orrenda strage, che mena questa infame malattia sul corpo umano? Solo adesso mostrava la chioma e la barba lucidissime, nere, ed ottimamente disposte, come costuma il parrucchiere prima di tagliare i capelli che ha comprato; gli occhi limpidi, aperti, e fondi così, che giù giù ci avresti potuto scorgere la morte appiattata a mo' d'iena dentro la fossa dov'ella va a cercare i cadaveri. Su la parete accanto il letto mirai attaccate parecchie tele dipinte, più o meno condotte innanzi col lavoro, nessuna finita; onde sembrava che a reputarlo pittore di professione si sarebbe colto nel segno. La donna faceva un continuo andare dal camino al letto, dal letto al telaio, per modo che la spola nelle mani alla tessitrice non va sì spesso nè veloce, ed ora porgeva allo infermo un po' di brodo, ora una cucchiaiata di pozione calmante, ora una cosa, ora l'altra secondo i bisogni del morbo; lo rincalzava dolcemente, di tratto in tratto gli accomodava i lenzuoli sul letto, o gli asciugava il sudore, e tutto questo con una carità, con tale ineffabile dolcezza che metteva nell'anima un senso: Che intender non lo può chi non lo prova. — Punto e virgola; mi occorre interromperti per due ragioni; la prima è di farti pagare la gabella pel verso di Dante, che vorresti insinuare di contrabbando nel tuo racconto, e la seconda è quest'altra che tu hai promesso infastidirmi in prosa; però se manchi al patto, io mi dichiaro da parte mia sciolto dall'obbligo di ascoltarti, e me ne vado difilato a letto. — _Mea culpa_, ma ella lo sa, quando l'uomo si esalta diventa poeta; tanto vero, che la poesia sta di casa appresso a Dio; e non avendone in pronto de' miei, mi valgo de' carmi altrui, alla rovescia dello Zappi, che in fondo del sonetto: Il gondolier mentre la notte imbruna, disse: Invece degli altrui canto i miei carmi. Però se la mia umile preghiera può trovare grazia presso di lei, io la supplico, mio caro zio, a non mi tagliare la parola a mezzo; veda, ella scombussola tutta la estetica del mio racconto; ella butta un ramino di acqua fredda nella pentola sul punto che sta per ispiccare il bollore; ella dà di gambetto al corridore mentre sta per vincere il palio: questo non va bene; mi lasci andare senza scavalcarmi. Dove siamo rimasti? Alla carità della donna; va bene; però; però l'uomo non sembrava rassegnato; e lo compatisco, perchè quanto alla vita non gliene aveva a premere più di un luppino, almanco io me lo figuro; ma avere a lasciare così cara, così soave, così bella donna, oh! doveva essergli affanno da passargli il cuore: per la quale cosa egli di nulla nulla si arrapinava, accusandola di poco amore, nè ella rispondeva parola; solo alzava gli occhi al soffitto; e poi gli richinava al solaio in guisa da strascinare in terra angioli, arcangioli, troni e dominazioni, insomma da rendere il cielo vuoto come una casa spigionata; in cotesto sguardo non entrava querela, e nè anco preghiera, che di lassù la provvedessero di pazienza, come donna sicura di trovarla inesausta nei tesori dell'anima sua: bensì ci si vedeva uno scongiuro d'ineffabile istanza, perchè consolassero lui nei suoi dolori, e lo sovvenissero almeno a soffrire, poichè non gli avevano consentito di godere. Per quel giorno n'ebbi abbastanza, e turai il buco con la immagine della madonna, che somigliava la mia madre defunta. — E non gittasti via il tuo danaro, perchè andando innanzi di questo passo tu devi essere arrivato presto a comporre il dizionario della lingua degli occhi.... — Attenti alla seconda bellissima veduta. Già ella, zio, bisognerà che si rassegni alla scena fissa, perchè comprende bene che non le posso mutare a vista una casa di materiale con la facilità con la quale gliela cambierei dipinta. Apro l'Armadio, e scopro il sacro buco: la bella donna non è più sola; io vedo seco un'altra femmina attempata, a cui la prima fa cenno di parlare sommesso; pure accostandosi alla parete bucata avviene che io le possa udire perfettamente. — Se me ne pianga il cuore Dio lo sa, diceva la vecchia, di doverle dare così trista notizia, ma così è; il merciaio ha ricusato comprare il colletto e i manichini. Supponendo ch'ei lo facesse per assottigliare il prezzo, io gli ho proposto darglieli per due svanziche di meno, ma egli mi ha risposto: «No, Teresa, io non lo faccio per questo... voi lo sapete, le signore non vengono a provvedersi in bottega mia, e le povere a questi lumi di luna hanno altro pel capo che comperare colletti; mirate, io ne ho qui due invenduti, pei quali vi ho pagato venti svanziche; però comprenderete di posta che non posso tenere tanto capitale morto. Se potessi esitarli anche senza guadagno, magari! perchè voi non mi avete confessato nulla, ma so bene io chi gli fa, e a cui servono. Quando la croce è posta sopra le spalle di una povera e degna giovane come la signora Isabella, quale uomo potria ricusare di servirle di Cireneo? Non posso proprio; ancora io ho famiglia, e i Tedeschi ci mangiano il cuore.» Non seppi che cosa rispondere, mi sono stretta nelle spalle augurandogli: Dio vi aiuti, Ambrogio! Dallo accertarvi che voi siete amata da tutti nella contrada in fuori io non saprei darvi altra consolazione. — E Dio aiuterà, Teresa, riprese Isabella; intanto pigliate questi pendenti, e in così dire se gli staccò dagli orecchi, portategli al presto, e poi compratemi la solita carne, il pan buffetto, la gelatina di lichene, la pozione di laudano sciolto nella mucilagine di gomma arabica... basterà a tanto il danaro, Teresa? — Spero di sì. — Teresa, io ho rossore di dovere sempre restare in debito con voi... ma!... — Oh! sì, scialo anche io ad allegrezze perchè mi abbiate a tribolare con queste grullerie. — Buona Teresa! Ora dunque sbrigatevi, chè da un punto all'altro Roberto potrebbe domandare qualche cosa, e il poverino patire per non averla lì pronta. — Cotesti pendenti non capiteranno al Monte di pietà, deliberai tra me, e ricontati i marenghi superstiti nella borsa, ci trovai quello con la effigie di Vittorio Emanuele, lo trassi fuori, e mi parve, che per fare una buona azione non poteva sciegliere meglio della moneta con la effigie di un galantuomo. Ci si trova tanto di rado! Con questo alla mano mi cacciai giù per le scale, e con tale e siffatto impeto entrai nel portone accanto, che dato di cozzo nella Teresa per poco non la mandai a gambe levate per aria. — Misericordia! esclamò la povera portinaia; gli asini hanno più creanza di voi. Io cominciava con maligni auspicii; aveva tonato a destra; pure con buono studio mi provai a vincere la rea fortuna. — Mille scuse; merito quello che dite e peggio, ma parte della colpa ce l'avete voi, signora Teresa. — Io? rispose la femmina maravigliata del sentirsi chiamata a nome, e lusingata del titolo di signora, proseguì. Com'entro io nei fatti vostri? Chi siete? Da poi che vi ho dato a balia io vi riveggo adesso. Poteva risponderle per le rime, e già la risposta aveva preso l'abbrivo su la lingua come il giocatore sul trappolino per battere il pallone, ma io strinsi il cancello dei denti e la tenni prigioniera. Quindi con la mia voce più melodiosa, quella stessa, o Betta, che adopero con te quando ti asciugo le tasche, dissi: — La immensa cupidità che ho di vedervi, signora Teresa, ha partorito la spinta; pensate se avrei voluto farvi ingiuria, mentre io vi cerco come la mia santa avvocata. La povera donna arruffava gli occhi come un gatto spaventato; ond'io reputando utile venire a mezzo ferro, aggiunsi: — Voi avete a sapere ch'io sono di professione marruffino; ma poi m'ingegno, entro nelle case delle donne, vendo a respiro; ricompro a contanti, baratto con la signora moglie in pizzi e trine gli ultimi cucchiai di argento del signor marito e... insomma m'ingegno. Ora avendo saputo che voi tenete fabbrica di merletti, mi sono fatto lecito di venirvi a proporre qualche affaruccio, il quale potremo allargare a traffici maggiori quante volte ci possiamo trovare la nostra reciproca convenienza. La portinaia non seppe rispondermi altro: — Merletti! comprarli! sì signore! E lasciatomi in asso, ricorse su per le scale e tornò giù con un palmo di lingua fuori, intanto che io contemplando una stampa lacera impastata nel pannello del casotto della portinaia, rappresentante il ratto di Europa dipinto dal Veronese, diceva: O amore, mirabil cosa non mi sarà mai se cavando Giove dall'Olimpo lo conducesti in terra a convertirsi in bue, mentre io.... — Ecco i merletti — e Teresa me gli spiegò davanti gli occhi. — O zio, quanto è vero che io mi chiamo Marcello, più sottile, più leggiadro lavoro non si vide mai al mondo. Raffaello (io le regalo gli altri), Raffaello col suo pennello non avrebbe saputo condurre tanto gentili arabeschi, com'ella trapunse col suo ago divino, ed in fede di ciò, eccogliene la mostra... E qui Marcello, tratta fuori di tasca una scatola di cartone, l'aperse ed espose in vista una collezione intera di colletti e di manichini. Lo zio col pelo irto come un istrice, che veda venirgli addosso un cane, con un colpo di mano li gittò lontano da sè, ma pronta gli raccolse Betta, ed esaminatili con argutezza, disse: — In verità sono lavorati eccellentemente. — Va, te li dono, le Muse sole hanno intelletto per capire le Muse — esclamò quel mascagno di Marcello, mentre pensava tra sè: — Mi faccio l'onore del sole di luglio; tanto varrebbe provarmi a cavare il sorcio fra le granfie al gatto, che rivendicare quel ricami dalle mani di Betta; _amare, pigliare_, verbi principalissimi della lingua che favellava Eva, trasmessi per opera naturale nel sangue delle sue figliuole fino alla consumazione dei secoli, non ostante quello che dice in contrario delle idee innate la logica del padre Soave. — E pure, vedi Betta, io ebbi il coraggio di criticarli per darmi sembianza di mercante, essendo stato informato da persone, che se ne intendono, che la bugia serve come di colla per tenere insieme tutti i pezzi che compongono il vero mercante. Per questo peccato io temo forte che nello inferno non mi abbiano ad arrotare come il Damiens, imperciocchè tu hai da sapere, o Betta, che il padre Segneri nelle sue prediche ci assicura, come s'ei ci fosse stato e gli avesse co' proprii occhi veduti, giù nello inferno ci si trovano tutti i supplizii praticati dagli uomini nel mondo, e pende incerto tuttavia tra gli uomini e i demonii chi di loro abbia il vanto della invenzione[6]. Breve; spesi Vittorio Emanuele nello acquisto di due colletti e due paia di manichini; e stabilii che ogni settimana per uguale prezzo mi sarebbe stata fornita la medesima quantità di mercanzia, stantechè la _fabbrica_ della signora Teresa non poteva sul momento accettare ordinazioni maggiori. Tutto questo mi era andato a capello; adesso restava qualche cos'altro da farsi; bisognava procurarmi il marengo la settimana e per questa volta dissi davvero: — voglio — prese le buone mosse, incominciai a trottare per la città come un fattorino della posta, di ora in ora interrogandomi: Che debbo far, che mi consigli Amore? Amore fece il sordo, bensì rispose un'altra cosa, che io non aveva chiamato e non cercava, e fu la fame; onde le mie considerazioni terminarono col mettere capo alla Osteria della Corona di Ferro; entrai, mi cibai, e giusto nel punto in che io mi forbiva la bocca con la salvietta, il _Buon consiglio_, dal quale nascono i consiglieri, quasi a mostrare la sua dignità veniva ora spontaneo, mentre io per lo innanzi lo aveva chiamato tanto tempo invano, ed egli da pari suo mi ammoniva, come con tutta la mia scienza abbottinata nelle rade scorrerie da me fatte su i poderi delle Muse io non avessi messo insieme tanto da dare la profenda al Pegaseo un giorno solo. — E sia così, purchè mi frutti pane, e tale favellando mi calcai il cappello in capo ed usciva dimenticandomi cosa di cui però non si era dimenticalo l'oste, intendo dire il conto. Rammento che quando io esclamai ingenuo: — per Bacco! Me n'era scordato — l'oste, più ingenuo di me almeno due volte rispose: — non fa caso, basta che di due se ne ricordi uno. — Tornai a scorrere la città, sicchè in breve mi occorse la bottega dello stampatore Tappati; io stava per mettere mano su la stanghetta dell'uscio ed entrare, quando il _Buon Consiglio_, tiratomi per la manica del vestito, mi disse: — chiarisciti prima; allora gittai gli occhi sopra le bacheche e lessi: _Dizionario apostolico._ — _Teologia del cardinale Pietrone._ — _Opere del Domenicano Lacordaire. Manuale dei preti._ — _Atlante dei predicatori_, ecc., ecc., ecc., e via discorrendo; opere, che promovessero il senno civile, nemmeno una. Come dal sole emana la copia dei raggi, che spandesi a illuminare la terra, da codesta maluriosa officina diffondevansi tenebre di beghineria a rendere più gravi le miserie della patria. Però lì ritto davanti la bottega dello stampatore Tappati pensai: — Lo stampatore sovente merita quattro volte o sei abborrimenti più del tiranno, imperciocchè, mentre questi è padrone del corpo soltanto, quegli vilissimo schiavo si affatica a imbestialire le anime, e lo intento a cui mira il primo, comecchè nè buono nè grande possa essere mai, pure talvolta gli avviene apparire non turpe mentre turpissimo e meschino fu sempre quello del secondo; chè consiste unicamente nello intascare poca moneta, prezzo d'infamia. Gli stampatori, invocati chirurghi ostetrici ai parti letterarii, non vanno, o su cento volte vanno una, e allora per mal talento senza la operazione non se la sanno cavare mai; se salvano il parto, ammazzano il padre. Come il padre? Interrogai me stesso, offeso del paragone. Sì signore, risposi, perchè nel paese delle Muse a ingravidare tocca agli uomini e non alle donne, o almeno queste di libri impregnano di rado. Gli stampatori arieno a pigliare la torcia e far lume per le scale agli uomini magri sortiti all'onore di avere udienza da Apollo su in cima al Parnaso; ma essi, maligni o avari, per avanzarsi la cera a mezze scale spengono la torcia esponendo gli scrittori a rompersi il collo dove mettano un piede in fallo. Gli stampatori preposti all'uffizio di mostrare ai giovani ingenui i monumenti antichi e moderni, onde ne viene alla città decoro immortale, sapete voi dove me gli menano spesso? Lo volete sapere? In bordello. Gli stampatori cui si commette il carico di nutrire chi nutrisce ed arrichisce loro, altro non sanno, o non vogliono fare, che menarli diritto allo spedale, e quivi gli lasciano mostrando meno previdenza del contadino (di umanità non si parla), il quale innanzi di mangiarsi il porco almanco lo ingrassa. Schiavi vilissimi un giorno di quale o la coscienza o l'imbroglio o l'errore misero a splendere sul candeliere, tiranni sempre del merito modesto. Con la medesima coscienza, o piuttosto con la stessa sfrontatezza, l'editore ti stamperà l'Aretino e San Tommaso, la Imitazione di Cristo e le Novelle dell'abate Casti, l'avviso dello stato d'assedio bandito dai Tedeschi su la Lombardia, una sentenza del consiglio di guerra, un invito sacro, un sonetto per ballerina; in una parola, prima ti stampano opere, che servono come d'introduzione al delitto, e poi per riscontro ti stampano il codice penale che lo punisce. Di libertà trafficano e di tirannide a mo' che i pollaioli fanno delle galline, e l'una e l'altra serbano nella medesima stia, per tirare loro il collo, e pelarle secondo l'avventore. Se Cristo cacciò via dal tempio i pubblicani a suono di frustate, i quali a fine di conto ci vendevano robe innocenti e necessarie al vivere del corpo, in qual modo e con quali argomenti ne avreste ad essere cacciati voi altri, che con lascivie, beghinerie e dottrine simili contaminate i sacri studii e le nobil scuole? Per le quali considerazioni, e per altre che le somigliano, buttatomi su le spalle il lembo del pastrano per atteggiarmi a profeta Natan, levata la destra e agitatala per l'aere, vibrai contro la bottega del Tappati queste maledizioni. Ascolti Dio i carichi che ti mando, e li compia a danno tuo e di coloro che ti rassomigliano, o libraio Tappati. Possa in capo alla settimana entrarti in bottega un solo chierico di campagna per comprarti un fascicolo della _Civiltà Cattolica_; — possa in capo al mese entrarci una femmina di partito, e richiesto il libro della Meretrice inglese, offrirti la metà del prezzo che costa a te; — possa un commissario di polizia in riposo entrarci in capo a un anno, e dopo domandato le opere del padre Tapparelli gesuita lasciartele sul banco perchè troppo care. — Ti falliscano i corrispondenti, e dopo averli spremuti sotto il torchio della prigione, non ti offrano più del venti per cento in quattro rate annuali di cinque per cento l'una. Capiti il conto di ritorno in mano ad Aronne giudeo, che te lo tenga rasente alla gola come il carnefice il filo del coltello. Rifiutino i bottegai i tuoi libri, come quelli che essendo in troppo piccolo _sesto_ e di carta troppo sottile non servono a veruna della moltitudine infinita delle involture. Ti corrano tutti i mesi corti quanto il febbraio, perchè il padrone ti stringa frequente a pagargli la pigione del magazzino ingombrato indarno. Escano di sotto terra, scendano da' tetti topi e ratti a migliaia per rodere prima i tuoi libri, poi te e chi ti rassomiglia. _Amen._[7] CAPITOLO SESTO Dove s'impara come le donne non sieno libri turchi, che si leggono alla rovescia; e si tocca dei pericoli di prestare le carrozze. Tutto questo mi parve, e bisogna convenire che era magnifico, però nulla confacente al caso nostro, anzi micidiale, onde noi ripigliammo il cammino, nè stetti guari ch'io m'imbattei nella officina del signor Lupato, mi segnai come quando giovanetto mi tuffava nel Po, e passai le soglie. E' pare che i letterati, e chi gli bazzica, emanino un odore affatto speciale, imperciocchè il Signore Lupato, quantunque non mi venisse precisamente a fiutare sotto la coda a mo' dei cani, tuttavolta mi riconobbe per servitore delle Muse; la quale riputazione crebbe due cotanti quando gli confidai che era nipote del signor zio, e senza avvertire al rischio di mandare su le secche la sua reputazione, gli dissi che da lei in fuori non aveva avuto altro precettore nel mondo: composi di botto certa favola sopra le cause della mia assenza da casa, la quale egli bevve, o, come credo piuttosto, egli finse di bevere, e per ultimo conchiuse: — desiderare con tutto il cuore sovvenirmi in cotesta necessità; però lì su due piedi non potermi esibire altro che la revisione delle bozze di stampe; pagare ordinariamente una svanzica per foglio di sedici pagine; a me come principiante avrebbe dovuto offrire meno: non volerlo fare; vedrebbe subito se gli avessi mangiato il pane a tradimento. A questo modo e sotto sì felici auspici: Venni fatto aguzzino ed Amostante nel regno delle Muse. Con le largizioni sbraciate del buon Lupato io cavai tanto da non cascare morto di fame sopra _l'eterne pagine_, che mi dava a correggere: ma occorrono certi quarti d'ora così per gli uomini come pei popoli, nei quali gli è un gran fatto vivere; testimone quel tanto che su questo proposito predicò dalla bigoncia cotesto cervello magno del nostro Massimo Azeglio, che maneggia spada, pennelli, penne e timoni (di Stato già s'intende) con la medesima agilità onde un giocoliere di fiera si remolina fra le mani quattro mele cotogne. Vissi, e subito dopo, assicuratomi alquanto su le ale, mi commisi a volo maggiore; dettai manifesti; mi arrischiai a qualche prefazioncella; e rotti gli argini, proruppi fino alle traduzioni; l'esito superò l'aspettativa altrui e le mie speranze, perchè rispetto a revisione di stampe sopra ventiquattro svarioni ebbi la coscienza di non farne passare che 20 soli, e allo editore milanese parvi sofistico; per le traduzioni dal francese mi regolai col mettere sempre la vocale in fondo alle parole del testo, cosa che i miei colleghi _traditori-traduttori_ spesso dimenticavano; epperò corsi pericolo di diventare testo di lingua _a Milano_. Nè qui mi arresto; aveva detto, bugiardo, a Teresa di professione essere marruffino; questa parola parve smovesse la fortuna a farmi un po' di bene; mi capitò pertanto un buon Toscano, che viaggiava per vendere semenza di bachi di seta, e mi pose a parte della opera e del guadagno. Ella sa, mio caro zio, come i gentiluomini toscani in questo traffico delle sete si esercitassero sempre con alacrità tale, che a taluni storici parve soverchia, e tali altri misero in canzone; sicchè Niccolò Capponi, assunto al sommo maestrato della repubblica, non rifuggiva uscire di celato dal palagio, in onta al divieto, per dare un'occhiata ai suoi opificii di sete: a giorni nostri cotesto studio assieme ad ogni altro spettante alle industrie agricole crebbe così fra quella nobil gente, che all'ora che fa non si potrebbe senza invidia contrastarle di essere diventata perfettamente villana: anzi siccome ella fa eziandio professione di amare la patria nei giornali, così io credo che se potesse allevare alla milizia questi bachi per venderli con profitto, noi avremmo di già il fatto nostro; e senza bisogno di soccorso straniero potremmo a quest'ora esclamare con Eustachio Manfredi: Italia, Italia, il tuo soccorso è nato. Non temeremmo più della concorrenza della Svizzera; anzi mentre questa dolorosa repubblica manda, o consente che vadano anime cristiane a puntellare la tirannide, i gentiluomini toscani da paese monarchico spedirebbero schiere di bachi eroi a difesa della libertà. Ma negli estri della narrazione io ho fatto un salto fuori dell'ordine cronologico degli eventi: niente di male; con la penna il tempo lascia ricondursi indietro: chiedo perdono e continuo. Era già trascorso un mese, quando certo dì appressatomi al buco contemplai la terza veduta, che io sto per raccontarle. Ecco mi apparisce di primo acchito dinanzi gli occhi una bellissima creatura, ma ahimè! di genere mascolino; giovane di sembianze miti, a tutto punto aggiustato nei capelli, nei baffi, nelle vesti, come in ogni altra cosa, si teneva piuttosto appoggiato, che seduto su la tavola di cucina con una gamba soprammessa all'altra, un piede piantato, mentre con la punta dell'altro toccava appena la terra, ed erano entrambi perfetti di forma, ambedue lucidi per la calzatura, così che pareano fatti con due pezzi di bitume giudaico; il braccio destro teneva a squadra levato in alto, e fra l'indice e il medio della mano, paglierina a cagione del guanto gentilmente stretto, il sigaro condotto a traverso molto oceano di fumo a deliziare gli ozii della gente dabbene. Ahi! zio, zio, se in quel punto io non cascai morto è segno che il mio petto fu fabbricato a prova di caldaia a vapore; sentii di un tratto nel cuore il diaccio, il morso dei centomila serpenti di cui va armata la invidia, e preso da ira, da rabbia, da una catasta insomma di passioni, corsi per uno specchio, dove, mirandomi, potere giudicare da me stesso se avessi potuto reggere il paragone con cotesto splendido giovanotto. Pare impossibile! E pure pieno dell'amore mio io non aveva nè anco pensato a provvedermi uno specchio; non importa niente, dissi fra me, che mi sovvenni di Narciso, e sperimentai a prova la bontà del suo metodo di educazione, mio signore zio, quando mi diceva essere di suprema necessità tirare su i figliuoli nella conoscenza di ogni mitologia così antica come moderna, perchè gli Dei importa riverire tutti. Andai pertanto in cucina e mi specchiai dentro il catino pieno di acqua; ahimè! non avendo atteso che l'acqua quietasse, immagini lei quale strazio fu fatto delle sembianze del suo povero nipote; tre nasi, occhi strabuzzati, bocca da servire di modello alla buca dove si buttano le lettere... fui per dare della testa nella muraglia e lo faceva se non avessi saputo di trovarla dura... — Ringrazia Dio, che se l'acqua stava tranquilla tu correvi rischio d'innamorarti come Narciso del tuo volto, e rimanerti perpetuamente attaccato al catino in cucina. — Dunque, poichè fu pel mio meglio, non dico altro su questo particolare e tiro innanzi. Betta levò gli occhi al cielo, e certo in cotesto muto linguaggio disse una di queste due cose: — Possibile che con tanto giudizio sieno così matti! Ovvero: possibile, che con tanta pazzia sieno così savii! E Marcello proseguiva. — Col cuore, che mi picchiava mille battute per minuto, come bue tratto al macello, io mi condussi da capo al buco per mirare la strage dei miei amori. — Oh! troni. Oh! dominazioni. Il giovane non aveva mutato, si può dire, atteggiamento, se non che il sigaro cessava di fumare, e nel suo volto traspariva un non so che di acerbo; appunto nella guisa che notai in te, Betta, quando mangi le fette di limone (gusti fradici) e che guastano i denti, come ti potrà chiarire il mio signore zio. Il giovane discorreva, tra bene e male raccapezzai queste parole: — Isabella, tu puoi credere se io mi affatichi ogni dì per mettere buone parole onde placare l'animo esacerbato di tuo padre: ma io ne cavo piccolo frutto; egli non si può dare pace che tu ti sia maritata col figliuolo del suo calzolaio. — Senti, Felice, rispondeva la giovane, se io non sentissi avere verso babbo peggiore torto di questo, davvero io non mi giudicherei dannata. Per avventura, Felice, la nostra famiglia deriva dai Lombardi, che andarono alla prima crociata? — Nostra famiglia! pensai io; dunque sono parenti? Un cielo negro allorchè spunta il sole, Parve _l'anima mia_ a tai parole, per dirlo in rima parodiando i versi del nostro sempre dolce e soave Tommaso Grossi, ed appuntai le orecchie per sentire meglio: — La nostra famiglia non si vanta seme di cavalieri crociati, e non gliene importa, ma tuo padre e il mio scesero dai colli di Bergamo a Milano non senza il fatto loro, che moltiplicarono con industrie onorate; sicchè dopo essere saliti, tornare a scendere non garba: ad eccezione di tutte le altre scale, per quella della fortuna si va volentieri in su, e con immenso affanno all'ingiù. — Averi! Ricchezze! Che sono mai? Vele e non altro, con le quali navighiamo per la vita: forse con poche non si fa cammino come con le molte? Anzi, quando il tempo seconda, con una sola ti approfitti meglio che con tutte. — Tu parli d'oro, ma nel viaggio della vita gli averi non provvedono le vele soltanto, bensì le paghe e le panatiche pei marinari, la cappa e il primaggio al capitano, i noli agli armatori: insomma, cara mia, egli è più facile disprezzare i quattrini a parole che passarsene co' fatti. — Bravo giovane! esclamò lo zio Orazio, certamente quando lo battezzarono in Duomo, il buon senso gli fece da compare. — E' pare che la giovane, la quale con licenza vostra d'ora in poi io chiamerò signora Isabella, non si sentisse gagliarda in questa disputa, onde data una giravolta maestra al timone, soggiunse: — E poi Roberto ormai può stare a paragone con chiunque, avendogli l'arciduca governatore fregiato il petto con la croce della corona di ferro. — Creusa non deveva mai accettare doni da Medea, riprese il giovane con faccia turbata; di fatti queste croci sbraciate dall'arciduca sono meno testimonianza del merito di cui riceve, che della smania di gratificarsi la pubblica benevolenza in cui le dà. Che se tu miri diritto, vedrai come per uso il tuo Roberto ne ha scapitato moltissimo nella riputazione e diventò esoso all'universale; non mica perchè o mutasse di animo o altri stimasse che lo avesse mutato, mai no; bensì perchè è danno grave lasciare credere ai nostri oppressori che con una pensione od una croce possano corrompere i nostri cuori italiani, immortali odiatori di chi ci tiene schiavi, come immortali amatori di qualunque promova la nostra libertà. La signora Isabella, a quanto parve, non sapeva che pesce pigliare, dacchè teneva la testa bassa sul telaio, e senza rispondere verbo menava l'ago alla disperata. Il giovane intanto avea riacceso il sigaro a un gramo tizzo di fuoco che aveva l'aria di una lucciola smarrita nel fornello, e tra un buffo e l'altro di fumo continuò: — Nè questo fu la sola maledizione che uscì dalla maluriosa croce pel tuo Roberto, chè inoltre gli versò nell'animo la vanità, per la quale ei tenne avere messo il tetto, quando non aveva condotto la fabbrica nè manco al primo piano; disprezzò i consigli, neglesse i maestri, con gli amici si ruppe, e con modi o superbi o villani provocò la tempesta, all'impeto della quale volarono via peggio che foglie secche la sua fama di artista, ogni speranza di riuscita, la quiete dell'animo, la salute del corpo, e in breve, pur troppo volerà eziandio la sua vita. Io però non gli voglio male, e dove anco glielo avessi voluto, basterebbe vederlo infelice, perchè io mi rimanessi; ma per altra parte, intendiamoci chiaro, bene non glie ne voglio, perchè io non mi dimenticherò mai che in grazia sua tu mi fosti infedele. Io che fisso al buco stava uditore e spettatore di cotesto assalto di parole, ebbi ad accorgermi che il signor Felice aveva perso la scherma, imperciocchè la signora Isabella, sagacissima, colto il destro per rifarsi, accorse pronta alle offese esclamando: — Infedele! E come? Forse ti promisi amore? Impegnai mai teco la mia fede? Quando mai dissi parola, o feci cosa che a te mi legasse? Ah! zio, a coteste parole, preso da immensa tenerezza apersi le braccia per abbracciare, qualche cosa abbracciai, il muro, e mi scorticai le dita. — Non importa: udiamo; sta per rispondere il cugino. — Noi fummo allevati assieme, egli disse: i padri nostri l'uno di noi destinò all'altro; noi lo sapevamo; sempre io mi stava teco: non movevi piede senza che io ti accompagnassi. — Questo è vero, ma ciò non è amore... «Benedetta quella bocca!» Ed egli soggiunse: — E nelle danze tu sceglievi sempre me per compagno e quando cantavi io ti accompagnava col suono, in chiesa andavamo di conserva davanti al medesimo altare c'inginocchiavamo, e se la gente diceva dintorno: «che gentile coppia di sposi!» tu ti facevi rossa in viso; tu sapevi pure che tali dovevamo essere un dì, nè te ne mostravi scontenta. La signora Isabella lievemente impallidì, si mise il dito su i labbri, e dopo essere stata alquanto pensosa disse: — Anche questo è vero, ma ciò non è amore. — Da me accettasti doni, che parlano chiaro di amore, un coricino di rubini, due bottoni di smeraldo; e il verde palesa la speranza, il vermiglio la passione, e sorridendo accettasti; una sera sotto i cipressi della villa ti presi la mano, te la strinsi, e poi te la riposi in libertà, ma tu nella dolce prigione la lasciasti; e non lo posso assicurare pure mi parve che tu sospirassi — un'altra volta, seduti sul margine della vasca nel giardino, mi attentai baciarti le spalle, e tu non fuggisti. Qui poi Isabella si fece in volto vermiglia, e presto presto, come chi ha fretta, rispose: È vero anco questo altro, ma ciò non è amore... — E che cosa dunque si chiama amore a casa tua? L'amore! I trenta volumi della storia della Chiesa del Fleury, che lo zio canonico ha nella sua libreria, non basterebbero a dirti che cosa sia amore, e di un motto, uno sguardo, un sorriso ne avanzi a significarlo: tanto ti basti, chè se amore fosse stato il mio, non avrei, io fanciulla timida e vereconda, lasciato la mia dentro la tua mano, nè mi sarei rimasta dopo che tu baciasti le spalle. — Come no? O che siete voi altre donne come i libri turchi, che si leggono alla rovescia? — No, bisogna leggerci alla diritta col nostro alfabeto. Ad ogni modo, se non pel tuo amore, almeno pel mio che tu sapevi, e che non mi fu disdetto, io credo poterti chiamare infedele. Però quanto a tuo padre gli è un altro paio di maniche; egli gli vuole un male di morte; dove intenda a caso profferire il suo nome, egli esce di sentimento, la faccia gli si fa pavonazza, e dalle labbra manda spuma; egli non gli può perdonare di essersi insinuato in casa sua come un serpente... — Egli ci entrò per la porta salendo le scale, come fanno tutti gli altri cristiani. — Egli lo trasse dalla miseria, egli lo confortò allo studio della pittura, gli dette asilo, gli dette soccorso, ed in mercede di tutto questo gli rapì la figliuola. — Non è così, la figliuola prestava liberissima il consenso di recarsi con esso lui alla parrocchia per esservi sposata. — Nè basta, chè il fraudolente, mostrandosi in vista a tuo padre disperato un giorno peggio dell'altro, lo condusse a domandargli la cagione del suo segreto affanno, e quegli gli disse essere colpa l'amore di egregia donzella; anch'ella amantissima e disperata perchè i suoi parenti superbi di nuova fortuna a patto alcuno non consentivano le nozze; e via via mettendogli in tanta mala vista il divieto paterno che tuo padre irretito nella insidia lo persuase egli stesso a menarsela via di casa per condurla a sposa, e lo provvide di danari, e gl'imprestò fino la sua carrozza per fuggire. — Salvo il rispetto paterno, ed ora che nessun ci sente, vorrei tu mi dicessi, Felice, chi operò peggio dei due, o Roberto col pigliargli la carrozza per portargli via la figliuola di casa, o mio padre che gli dava il consiglio di adoperarla in questa faccenda? Non ci sono due pesi, nè due misure; non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te, cose vecchie, eppure ignorate o non praticate come se fossero novissime. — Diamo un taglio a cotesto. Tuo padre, puoi crederlo, non è manco infellonito teco; però non si possono mica dare alla lavandaia le viscere di padre, e giudico che remossa la causa non dovrebbe riuscire difficile farne cessare l'effetto; molto più che standogli accanto io correi ogni occasione a volo per raumigliarlo, e per così dire sfruconargli l'amore paterno nel cuore. — Tu ti mantieni quale sempre ti conobbi, Felice, un ottimo giovane. — Eh! per quello che fa la piazza ci posso stare ancora io. Ma senti quello che dobbiamo fare, Roberto ormai, povero disgraziato, non ne può uscire.., non voglio affligerti, Isabella, ma lo vedi da per te stessa, i suoi giorni sopra questa terra sono contati. Ora per quando Dio lo chiamerà a sè tu mi hai a promettere chiaro e lampante, per non correre pericolo la seconda volta di leggere alla rovescia, che ci sposeremo di amore e di accordo col consenso di mio padre e del tuo. E tacque; nè Isabella rispose sul momento. Quale angoscia fosse la mia figuratela, Betta, la se la figuri, signore zio, Dio non lo mandi a provare ai cani; se vi dicessi che il mio cuore stava stretto come una mandorla dolce dentro il torchio dello speziale quando ne spreme l'olio, non direi mezzo del vero; chiusi gli occhi e apersi le braccia mormorando: _in manus tuas_... Quando gli riapersi crebbe la paura, dacchè la signora Isabella si fosse levata, e accostatasi allato del signor Felice, gli avesse posto domesticamente la mano sopra la spalla, e lo guardasse in faccia: dopo alcuno spazio di tempo prese a dire: — Felice; tu sei quel giovane di garbo, che sempre ti ho conosciuto. Felice, tu sei nato sotto la stella della geometria, della idraulica, dell'algebra, di tutto quello che vuoi. Tu riuscirai un ottimo direttore di bigatterie, impresario di strade ferrate, ed anco eccellente marito; tu acquisterai fama di educatore bravo di bestie e di figliuoli; ma tanto di amore non capirai mai nulla, perchè il cuore della donna è una lira che va tocca con la più tenera delle penne levata al sommolo delle ale di amore. Ora senti, Felice, la tua proposta mi suona ferocemonte magnanima e generosamente spietata; parti egli che tu potessi sperare, che fosse accolta da me fattami in questa stanza, presentata come capitolazione a donna vinta dallo stento, esposta a modo di contratto sopra la coltre del letto dove si spegne uomo, che amai di amore una volta, ed ora amo per dovere e per pietà? Senza volerlo mi trovai a battere le mani una contro l'altra, e stette un attimo ch'io non urlassi: — brava! — I giovani rimasero sconcertati dallo strepito improvviso, per la quale cosa rivolsero la faccia al palco, e al pavimento, non si potendo capacitare da che cosa movesse; però scappai dal buco per allontanare il sospetto, e perchè quel brava rientrato mi sfondava la gola; onde per isfogarmi, recatomi nell'angolo più lontano della stanza, cacciai dentro il cappello la faccia e ci feci una scorpacciata di _brava! brava! bravissima!_ Quando sfogato, con piede cauto quasi pauroso d'inciampare su le uova, mi accostai da capo al buco, il signor Felice se n'era andato (Dio lo accompagni) e la signora Isabella, come se nulla fosse accaduto, menava tranquilla il suo ago. Ah! mi parve che mi levassero di sul petto il Monte-Bianco, o per lo meno il piccolo San Bernardo; il collarino, intorno al quale la signora Isabella lavorava in cotesta congiuntura, manca alla collezione dei colletti e ci mancherà sempre, Betta... perchè... perchè... io lo porto qui tra la camicia e la carne.. sul cuore... — E presso a morte, interruppe beffando lo zio, non ti dimenticare di avvertire l'assistente: Mi metterai quel collarino bianco, Ch'ella di propria mano ha trapuntito. — Attenti! Attenti, signori, a quest'altra bellissima veduta, gridò il giovane con lieta voce e con gioconda faccia; ma chi avesse potuto mirarlo dentro gli sarebbe comparso tutt'altra cosa, imperciocchè egli avesse sperato di far breccia nello animo dello zio, e l'attenzione silenziosa di lui glie ne porgesse fin lì credibile argomento; ora poi per cotesta berta cascava dalle nuvole per dare un picchio sul lastrone; però maliziato per arte e per ingegno, che in simili occasioni soccorre sempre naturalmente i giovani, capì che qualche senso il suo racconto doveva pure avere operato; onde studioso di non lasciarlo raffreddare, ecco, rincalzava più forte: — Eravamo di notte, in mezzo dello inverno, correva una freddissima stagione, quando mi percosse dalla strada uno strepito del diavolo: — agguanta! dalli! ammazza! e un fuggire e un inseguire da mettere i brividi addosso. Di un tratto mi parve che picchiassero a colpi concitati nella porta di casa della vicina, e tanto bastò perchè di un salto io fossi al buco, e vidi... chi vidi? il signor Felice stravolto così che stentai su le prime a ravvisarlo; figuratevi, era senza cappello, aveva le vesti lacerate, ansava come un mantice, e da più parti grondava sangue: — Salvatemi! supplicava, se non volete che questi scellerati tedeschi _trovino in via di grazia_[8] ad avermi a fucilare, o almanco mandarmi allo Spilbergo nel carcere duro a vita. — Come volete che vi aiuti io? Fra un nodo di tosse ed un altro singhiozzava lo infermo: — nelle prosperità non vi siamo passati pel capo nè manco per ombra... adesso nel pericolo, salvatemi! salvatemi! — Io non vo' impicci, io — L'Arciduca ha promesso allogarmi un quadro storico e non vorrei che per cagione vostra mi venisse a mancare... l'Arciduca... La signora Isabella si approfittò del crescente singulto dello infermo per porgergli da bere, e troncare il corso delle sconce parole; poi tratto il giovane in cucina, gli disse: — O come è andata? Che ti successe? — Isabella, tu sai quanto ami la Patria; se questa avesse quella tua lingua affilata, forse mi direbbe che io l'amo da geometra, da architetto, da direttore di bigattiere, da educatore di bestie e di figliuoli... va bene così? Ma la Patria non ha lingua, e avendola io confido ch'ella si contenterebbe, che l'amassi come so e come posso senza tante storie. Fatto sta che stasera io assieme a parecchi giovani eravamo convenuti qui oltre in una casa per disegnare tra noi circa ai partiti più opportuni per liberarci da questi cani di tedeschi, quando o perchè ci sia stato il Giuda di mezzo, o per proprio sospetto, i _poliziotti_ l'hanno circondata in guisa da torre ogni speranza di uscita. Vista ogni resistenza inutile, ci siamo lasciati pigliare, ma tratti per via, io a poco a poco ho rallentato il passo, e trovatomi solo con due poliziotti al fianco mi sono abbaruffato con loro, ne ho date e ne ho ricevute ma, come vedi, eccetto qualche ammaccatura, mi è riuscito svignarmela; ora sentendomi la canetteria dei poliziotti dietro, che urlava: agguanta! agguanta! ho temuto svoltando il canto, di trovarmi preso come dentro una morsa, caso mai mi fossi imbattuto in qualche altra pattuglia; fermatomi a riprendere fiato, mi sono visto dinanzi alla tua casa; guardando dentro il portone ho mirato il casotto vuoto della portinaia, onde mi sono infilato su per le scale, ed eccomi qui da te. Quel cosaccio di Roberto mi ha fatto quasi pentire di essermi appigliato a questo spediente, ma tu, cugina, non mi respingerai! — Così si fossero potuti salvare teco i tuoi compagni, poveri loro! Però il signor Felice aveva fatto i conti senza l'oste, dacchè io, costituendomi di propria autorità provvidenza di questi due fiduciosi a torto, me ne era ito sul tetto, e quivi tenendomi al muro dello abbaino, sporto il capo giù per la via mirai un nugolo di poliziotti brulicanti intorno alla porta della signora Isabella; eranci altresì parecchi giandarmi con le carabine armate di baionette, e farabutti con lampioni e torcie di resina; le baionette e le arme brunite riverberando la fiamma dalle torce mandavano baleni di sangue: questo mi strinse il cuore così che mi sentii inondare la faccia di sudore freddo, saltai nella stanza e appressate le labbra al buco, risolutamente urlai: — Presto! alla finestra del pozzo. — Poi mirai se obbedivano, ma i giovani stavano a mo' di trasognati, cercando come e donde così distinta la voce avesse risonato nella cucina, ed io considerando quanto lo indugio pigliasse vizio, da capo urlai per di dentro al buco: — Presto! alla finestra del pozzo, o siete perduti. — Allora ci corsero essi, ci corsi anche io, e c'incontrammo nel medesimo punto: la mia finestra distava dalla finestra accanto un paio di braccia e più; quella della signora Isabella non era sormontata dalla squadra di ferro per sostenere la carrucola del pozzo; bensì l'aveva la mia, con la sua brava fune, catena e secchia: io stesso attingeva l'acqua dal pozzo, e intanto che la tirava su, per nobilitare agli occhi miei l'atto, ora ricordava l'esempio di Nausicaa figlia di Alcinoo, che va a lavare i panni alla fontana, ora che i costumi greci e romani vollero la ginnastica componesse parte distintissima della educazione civile. Ma adesso non corre temperie per queste novelle; urge che io vi dica come spenzolatomi dalla finestra con voce sommessa, pure capace a farmi capire, favellai: — La polizia ha invaso questa casa, e già fruga i piani di sotto a voi. Signor Felice, non vi rimane altro scampo che questo; vi tirerò in là la fune con la secchia; la signora Isabella terrà ferma la fune, intanto ch'ella, signor Felice, salirà sul davanzale della finestra; salito lì, agguanterà la fune quanto potrà più stretto con ambedue le mani, avvertendo di fasciarsele con un fazzoletto per non segarsele; poi metta dentro la secchia il piede destro, e ci si assicuri bene, per ultimo avvisi che si trova solidamente collocato dicendo: — _giù!_ — Allora la signora Isabella a sua volta annunzi trovarsi in punto di lasciare ire la corda dicendo anch'essa: _giù!_ — ed apra la mano; io reggerò più che posso, perchè non succeda troppo dondolio: ed una volta il signor Felice qui in casa, nè manco il diavolo lo troverà. — Dio mio! ma se la fune si rompe, — ma se il ferro cede... — Sta salda, Isabella, tanto, peggio di cascare in mano ai tedeschi non mi può succedere. — Non dubitate di niente, la squadra e la fune sono tali da reggere un paio di bovi non che il signor Felice, ch'è meno d'un bove... — Grazie, disse il signor Felice, ora verrò ad attestarvi la mia gratitudine in casa vostra, e ridendo mise il piè nella secchia per fare il passo pericoloso. — Riuscì ogni cosa a pennello; appena entrato in casa mia il signor Felice, volto alla signora Isabella io l'ammonii: — Ora chiuda, signora mia, la sua finestra per bene, e si metta a ricamare al telaio senza che paia fatto suo. Al signor Roberto raccomandi tacere... — Ma scusi, interruppe la signora Isabella, avrei il piacere di favellare col diavolo o con un mago? — Nè coll'uno, nè coll'altro, e col tempo le farò toccare con mano che non ho coda, nè corna: buona notte. Accostatomi in fretta al signor Felice, gli dico: — Vostra signoria si spoglierà, e alla parola unendo l'atto gli piglio una manica del vestito per levarglielo di dosso. — O perchè mi ho da spogliare? rispose il giovine tirandosi indietro. — Perchè bisogna fare così, si lasci salvare; — lo spogliai di tutti i panni, anco della camicia, perchè lacera e insanguinata; se togli le calze e gli stivali, rimase come egli una volta uscì dal grembo della madre sua; io, fatto dei panni fagotto, mi avviai verso la finestra, ma egli corsomi dietro mi afferrò pel braccio ricercando con premura: — Ed ora dove portale cotesti panni? — Li butto nel pozzo. — Fermo per Dio! che ci ho in tasca tra fogli e danari il valsente di 4000 lire. — Levatene la borsa, e il portafoglio e lasciate servirvi. Salii sul davanzale della finestra, staccai la carruccola di ferro, la misi dentro la secchia, con alcuni pezzi di mattone, ci legai d'intorno i panni, e poi sospeso l'involto a perpendicolo dove giudicai avesse a trovarsi la bocca del pozzo, lo piombai giù; — il tonfo che fece rompendo l'acqua, mi chiarì che io aveva mirato giusto. Me ne dolse, e dio che mi vede il cuore sa se dopo l'angoscia di lasciare lo zio io ne soffrissi altra pari nel mondo, ma così persuadeva il dovere; — dopo avere fatto fare il tuffo ai panni, apersi l'armario, remossi la cortina doppiamente cara per reverenza religiosa e per amore filiale, e svelai agli occhi di quel più che profano del signor Felice il sacro buco, dove apposte le labbra chiamai: — Signora Isabella, venga qua — Più in qua.... più accosto ancora; io prima di tutto pieno di confusione e di rimorso la scongiuro di perdonarmi se le ho fatto, senza ch'ella se ne accorgesse, un buco nel muro.... — Ah! ora capisco... — Sì, signora, ha capito benissimo, ma a suo tempo e luogo le spiegherò come non sia indegno della sua pietà non che del perdono: intanto mi faccia la carità di tappare il buco dalla parte sua. — E perchè ho io da tappare il buco? — Veda, signora Isabella, perchè caso mai venissero, come verranno di certo, i poliziotti a frugare fino quassù non ci mettessero l'occhio... con costoro ogni pelo serve di bandolo a dipanare le matasse, che fanno le funi al boia. — Ma con che ho io da tappare questo buco? — Diamine! o che non trova in casa arnese da tappare un buco? — Aspetti, ecco qui un tegame. — Un tegame! E tegame vada, esclamai, guardando il cielo con ambe le mani congiunto; ci ficchi sopra un chiodo, poi ci appenda il legame. — Ecco fatto pel chiodo; ora il tegame. E ahimè! il tegame si frappose fra il mio dolce desire e me. O buco! certo io sperava averti un giorno o l'altro a turare — ma però come Figaro spegne la sua lanterna; — io voglio dire, quando non ce ne fosse stato più bisogno. O buco! io presagiva ottimamente che ti avrei chiuso un dì, ma disegnava farlo con un mazzo di penne strappato all'ale dell'amore; ed ora mi tocca vederti tappato da un tegame!... Angioli avvocati miei, abbiate cura di farmi segnare su i libri di ragione del paradiso questa partita di virtù a caratteri maiuscoli. — Si sa fare la barba? domandai al signor Felice, che buttatosi sul letto sonnacchiava. — Che ci entra qui la barba? — Si lasci servire, e risponda: se la sa fare, sì o no? — Non me la so fare. — In questo caso gliela farò io; e versata acqua nel bacile, ci sbattei il sapone e a lui sbigottito e repugnante invano insaponai la barba. Mentre dava la striscia al rasoio, io diceva: — Possibile, signor Felice, che un giovanotto elegante, quale ella dimostra essere, possibile, io dico, che abbia la testa così dura? Potrebbe darsi che la polizia nel dubbio di avere sbagliato uscio venga a rovistare anco qui, e allora importa moltissimo per lei, ed un poco anche per me che la signoria vostra non sia riconosciuta. Allora si lasciò fare, ed io gli buttai giù baffi e capelli conciandolo che Dio ve lo dica per me. Io giuro tutte le antiche divinità, compreso il Dio Ridicolo[9], che in ciò non misi una malizia al mondo, ma come lo aveva ridotto era impossibile vederlo e non ridergli in faccia; avrei pagato un Perù a metterlo davanti agli occhi della cugina Isabella in cotesto arnese; e bene mi riprometteva cavarmene la voglia il giorno appresso, ma egli non vi si lasciò prendere come udirete. Sbarbato e raspato, lo rimisi a letto; di poi presi i miei vestiti delle feste, gli sgualcii alquanto perchè paressero portati, e glieli posi sulla seggiola accanto al letto. Per buona sorte la polizia non venne, chè forse tutte queste cautele non sarebbero bastate; bensì per quanto fu lunga la notte noi la udimmo tafanare nel casamento allato, nella casa della signora Isabella e per la strada, ma sul far del giorno tutto tornò alla quiete ordinaria: allora la signora Isabella dato un picchietto nel muro rimosse il tegame dal buco e chiamò; ed io lì pronto di un salto a udirla, il cugino no, che dormiva peggio di un ghiro; colà ella mi fece sapere che le faccende erano procedute bene, non avendo la polizia preso sospetto di nulla, quantunque fosse ita a rovistare fin dentro al camino, e avesse aperto tutte le finestre per chiarirsi se alcuno poteva svignarsela da cotesta parte: raccomandarmi il cugino, e addio. Qui lo abborrito tegame mi rapiva la vista delle mie contentezze. Destatosi il signor Felice, lo confortai a rimanersene a letto; sarei uscito io a pigliare lingua delle cose e a tastare il terreno; desse retta a me, non si movesse da giacere e soprattutto badasse vè!... non gli saltasse il ticchio di parlare alla cugina, chè i casigliani potrebbero pigliare sospetto dello insolito rumore, e contarne novelle, come si costuma tra i vicini, con molto pericolo mio, della signora Isabella e di lui; e misi in fondo _lui_ per non parere, ma ci calcai su perchè capisse che il primo prossimo è sè stesso. — Voi dite giustamente, ed io mi adatterò appuntino alle vostre prescrizioni, come fa lo infermo agli ordini del medico; solo vi prego di tornare con qualche cosa da mangiare, e tornare presto, perchè se mai avvisaste ricondurvi quassù a mani vuote, non ve la cavereste con una spalla di meno. — Buona natura quella del signor Felice, eccellente natura lombarda, generosa, amorosa e sopratutto appetitosa. Non so quanto io restassi fuori di casa, ma quando tornai pieno le tasche e il petto di bene altro che di estri febei per sopperire ai bisogni del signor Felice, il signor Felice era sparito. Fui sul punto di svenirmi, ma molto opportunamente mi ricorse agli occhi un biglietto sopra la tavola: ci stesi la mano ratto, lo apersi e lessi: «Amico carissimo. Due bisogni del pari potenti, comechè di natura diversa, mi sfrattano di casa sua; il primo tutto corporale, ed è la fame; vostra signoria tarda, ed io non mi vo' ridurre a fare davvero la fine del conte Ugolino; l'altro tutto spirituale, ed è la libertà. Chiuso qui dentro e solo, mi pare proprio di essere già in prigione; ho preso un libro, ma che vuol ella? In ogni T maiuscolo mi ci pare vedere una forca; i puntolini sull'i mi hanno sembianza di palle tedesche; lo Z mi mette i brividi addosso, che arieggia il giudice processante; che più? Il B, perfino l'onesto B con le due pance mi richiama alla mente qualche canonico confortatore, il quale mi dica senza ridere che tra la scala della forca e quella di Giacobbe non ci corre divario alcuno, perchè menano tutte e due in paradiso. Essendomi pertanto provato i suoi vestiti ho veduto che mi stavano a pennello, epperò mi decido a portarglieli via; punto e virgola: non vada però a immaginarmi un seguace della nequissima setta dei Comunisti, e per convincerla di un tratto sappia che io mi trovo venticinque mila lire ben contate di rendita, senza fare capitale su le sperabili eredità di uno zio e di un cugino; vero è bene che il cugino, noverando un anno meno di me, nutrisce sopra la mia eredità la medesima speranza che io ho sopra la sua. Gli è come un palio fra noi; staremo a vedere chi lo vincerà. La morte tiene in mano la scommessa. In sequela di quanto ho esposto qui sopra, ella troverà qui dentro tanti biglietti per lire cinquecento, che mi paiono bastevoli per ricomperarsi altri panni, e se non arrivano, se la pigli in pace fino a quando ci rivedremo. Dovrei anche ricompensarla dei servizi di barbiere ch'ella mi ha prestato, ma essendomi mirato allo specchio.... Devo avvertire che dopo l'avventura del catino io mi ero provvisto di specchio... »essendomi mirato nello specchio ho dovuto persuadermi che questi non si possono pagare eccetto che in due modi; il primo dei quali consisterebbe nello accomodarla per tosatore _in capite_ con qualche proprietario di pecore; il secondo non glielo voglio dire; quando ci rivedremo potrebbe darsi che glielo facessi provare. In grazia sua mi toccherà a stare sei mesi in casa, come si narra costumasse Demostene, ovvero adattarmi a venticinque anni a mettere su parrucca. Siccome io penso svignarmela in Piemonte, così a cominciare da domani vada alla posta, e chieda lettere per Prospero Castoldi, che io le scriverò sotto questo nome. A Isabella che dirò? Dirò quello che vostra signoria giudicherà ch'ella sappia, conciossiacosachè, come diceva padre e maestro Volpacchiotti della compagnia di Gesù, che m'insegnò la rettorica, io non sia di testa così dura secondo che parve avere la degnazione di credere vostra signoria, da non conoscere che l'ago calamitato del cuore della mia cugina passo passo si vada accostando al suo polo magnetico. Pazienza. _Quand on n'est pas content il faut être philosophe;_ ed io sarò contento di saperla in buone mani. Quantunque non ci sia mestieri, io le raccomando questa cara, degna e buona creatura; creda che la è una coppa di oro, ed è più savia che ella stessa per avventura non s'immagina. Certo, quel matrimonio con cotesto orso di pittore guasta un po' la perfezione del quadro, ma poichè io le cedo ogni mia ragione sopra la cugina, intendo d'insegnarle un mio segreto, col quale io mi consolava tutte le volte che mi angustiava quel pensiero molesto, il quale di per sè è semplicissimo. Ricorra al lunario. Sì, signore, al lunario, e quivi consideri come i luminari del cielo, donde noi ricaviamo calore e luce, in capo all'anno due o tre volte almanco si ecclissano. Il matrimonio dunque della cugina Isabella col pittore Roberto su in cielo si chiamerebbe ecclissi del sole o della luna; in terra ella lo dica una frittata di donna innamorata, e si consoli. Spero in Dio che ci rivedremo nella patria liberata dallo abborrito tedesco; ad ogni modo in qualunque luogo, in qualunque tempo amico per la vita. — Felice. — » Senza stare a inquisire sottilmente se avessi o non guadagnato nella partenza del signor Felice, e così all'ingrosso ammonito che il vantaggio superava lo scapito, io mi appressai al buco per darne avviso alla signora Isabella, che pronta alla chiamata, rimosso il tegame, ansiosamente domandò: — Che ci è egli di nuovo? — E ci è che il signor Felice non si trova più.... — O Dio! O Dio! esclamò la signora Isabella recandosi le mani al petto, quasi si sentisse ferita nel cuore, e per tema di cascare si appoggiò al muro. Io allora provai un ghiaccio sopra la fronte come se ci avesse strisciato una tarantola, e subito dopo mi si empì il capo di tanta malignità da disgradarne quattro giornalisti moderati, esclusa la _Perseveranza_, ch'è la colomba del mestiere. Si narra come il cardinale di Richelieu costumasse dire, che se gli mettevano in mano quattro dita di scrittura del primo galantuomo del mondo, egli era tomo da farlo sdrucciolare in galera; e cotesto parve iattanza ai suoi tempi; ai nostri non ci ha chiericuzzo che non si reputi, e non sia veramente capace di fare altrettanto se non peggio; però che lo interesse soffiando i suoi consigli nell'orecchio all'uomo ne contamini in un attimo tutto il suo sangue; di questo ebbi prova dentro me stesso; cui con la smania di calunniare vennero addosso di un tratto l'ingegno e il modo della calunnia; onde, attenuata la voce, dissi: — O la non si turbi, cara signora Isabella; qui non ci ha cosa della quale ella si abbia a sbigottire; il signor Felice se n'è andato perchè non ha potuto più reggere alle mosse per via della fame come qualmente si ricava dalla lettera, che ha lasciato sul tavolino. — Oh! che sia benedetto! la me la porga questa lettera; vengo a pigliarla alla finestra del pozzo. Ora essendo questo ciò che appunto mi tornava meno, non mi parve strano di aggiungere un po' di bugia alla calunnia, considerando che le bugie sono come bicchierini di acquavite ministrati alla calunnia, affinchè duri di buona lena al lavoro; però subito pronto risposi: — Me ne rincresce proprio, perchè ho sempre veduto come la più parte dei malanni, che capitano addosso ai liberali, derivino dalla grulleria di tenere ricordi o conservare i fogli: per me uso così, leggo prima due volte o tre la lettera per bene, tanto che nella memoria mi si registra meglio che il bulino non incide sopra l'acciaio, poi accendo un fiammifero e le do fuoco, nè la perdo di occhio, finchè io non l'abbia veduta ridotta in cenere.... — Questo si chiama operare da giovane prudente, e me ne rallegro con lei. Prudente! pensai io; questa è la prima volta che me lo sento dire; quasi stava per voltarmi a vedere se dietro alle spalle ci fosse persona cui potesse applicarsi cotesta lode più direttamente che a me, ma trovandomi solo non ci cascava equivoco; andava proprio a me; e mi ricordo avere pensato non senza amarezza un'altra cosa, che fu questa: mira! da molte buone parole che ho detto, e da qualche buona opera che ho fatto me n'è venuto per consueto ingiuria o danno, mentre adesso che m'inoltro nel mare del furfante, ogni vento comincia a gonfiarmi le vele. — Alla svolta si provano i barberi; mala via non può fare a meno che porti a cattiva osteria. — Tu parli di oro, Betta; ma persuaditi che più spesso che tu possa immaginare non va così, tanto vero, che gli uomini religiosi, trovando in fondo della vita molti conti sbilanciare maledettamente, hanno insegnato a credere che nell'altro mondo gli angeli o i demoni si pigliano la scesa di capo di aggiustarli con tanto inferno o tanto paradiso di giunta, e così credo anch'io. — Giusto come io le diceva, continuai a favellare con la signora Isabella, il signor Felice ha scritto che se n'andava prima perchè non ha potuto sostenere lo stimolo della fame, e poi perchè in questa casa ci si sentiva affogare, e a parere mio ha avuto torto marcio nell'una cosa come nell'altra; nella prima, dacchè io gli aveva promesso di recargli da ristorarsi, e l'ho fatto in copia da bastare a tre pranzi di Polifemo; onde, se non temessi di acquistarmi taccia di severo, vorrei osservare che in giovane bennato non sapere resistere nè manco due ore a questi grossolani appetiti è un gran mancamento, almanco mi pare.... perchè io non vorrei per cosa al mondo pregiudicare la fama di quel caro giovane; nella seconda, più presso al paradiso come in questa casa, o dove mai si vuole egli trovare il sor Felice? — Non si può negare, noi ci troviamo molto presso al paradiso, ma non fa comodo a tutti salire quattordici scale per godere di siffatto benefizio. — Ah! non è a cagione della linea perpendicolare, cara signora Isabella, che io mi reputo vicino alle beate sedi, bensì orizzontalmente. Questa fu la prima parola colorita di amore, che udì dal mio labbro la signora Isabella, e me ne increbbe, perchè non si poteva coniare di peggiore gusto; non se ne sarebbe giovato l'Achillini: ella però come prudentissima la lasciò cascare fingendo di non accorgersene; io per calafatare lo sdrucio aggiunsi: — E badi ad un'altra cosa, signora Isabella; il signor Felice si è vestito dai miei meglio panni, e mi ha lasciato cinquecento lire perchè me gli faccia nuovi.... — Oh! questo poi non è gentile davvero. Se lo Amore si facesse radere la barba, e se fosse ito a farsela radere dalla signora Isabella, io credo, che quel _non è gentile_ se lo sarebbe sentito penetrare dentro la pelle sottile e freddo quanto il filo di un rasoio di rota. Per allora ella chiuse il ragionamento pregandomi a volerla chiamare con tre picchietti nella parete quante volte avessi notizie a parteciparle del cugino, ch'ella si sarebbe affacciata alla finestra del pozzo per ascoltarle. Frattanto reputare onesto che il buco.... Io visto appena il baleno per aria, che minacciava il povero buco.... di scomparire dalla natura delle cose accorsi sollecito alla parata, ed osservai con molta gravità: — Non credere... non parermi _prudente_... e sperare che dopo matura considerazione dovesse parere anco a lei... la chiusura del buco, imperciocchè qualcheduno avrebbe potuto acchiappare per aria le parole dette alla finestra con molto danno del cugino e suo: ad ogni modo se non ci avessero uditi, ci avrebbero visti, ed ella che giudiziosissima ed accortissima (voleva mettere un altro sdrucciolo, ma temei sfondare il foglio) era, doveva conoscere le ciarle infinite delle casigliane, alle quali basta ogni po' di gomitolo per dipanarci sopra una matassa infinita di maldicenza. La signora stette alquanto sopra di sè, poi rispose: — Lasciamo stare dunque il buco: per tapparlo saremo sempre in tempo. — Giusto! Così diceva anch'io — e ricevuta e resale la buona sera, ci separammo. Io chiuso l'armario ebbi a felicitarmi, dirò meglio, ebbi a spaventarmi di avere scoperto ad un tratto in me questo tesoro di arti diplomatiche; pensai farmi annunziare su pei diarii ai potentati del mondo, che abbisognassero di primi ministri; mi volli bene, mi onorai, e rammento che mi presi la soddisfazione di baciarmi, la quale cosa feci accostando le labbra allo specchio; dopo ciò mi assettai disponendo i cibi davanti a me sul tavolino, e poichè allegria mangia per quattro, bevvi per otto: ricordo che quando mi prese voglia di coricarmi, la candela unica mi sembrò moltiplicata fino a sette, quanti sono i sacramenti ed i peccati mortali, e sebbene mi affaticassi a spegnerle, più si ostinavano a rimanere accese; per ultimo feci buio, e andato a letto cotestanotte mi sognai trovarmi nel congresso di Vienna a tu per tu col principe di Metternich, a cui dopo avere detto una carta d'ingiurie lanciai un calamaio nel capo, e glielo ruppi dicendo: to' questa, che me l'ha insegnata un tedesco, — alludendo senz'altro a Lutero, il quale, per quanto si racconta, trattò il diavolo nella medesima maniera: alla mattina trovai che in sogno aveva scaraventato l'orinale nella parete di faccia, e i pezzi ingombravano il pavimento. Le notizie del cugino non si fecero aspettare; le trasmisi a seconda del concertato per traverso al buco, che rimase aperto caso mai ne venissero altre, e vennero, però via via più rare; finalmente cessarono affatto: non per questo turammo il buco, anzi a furia di vagheggiarlo mi parve che dal lato destro il contorno non rotondasse bene; e per quel giorno, dopo che lo ebbi accomodato a modo mio, mi piacque; il giorno di poi guardandolo anco più attentamente vidi che sgarbava a mancina, e lo posi in sesto; nè anche così andava a dovere; presi il compasso per disegnarlo senza errore; ma trovandomi imbarazzato a puntarne un'asta nel centro ch'era vuoto, ci posi su per traverso una sbarretta, la quale naturalmente soprammetteva e non poco agli orli del buco; epperò riuscì disegnato un po' più grande del primo: capiva benissimo che condurlo a cotesta larghezza tutto in un giorno non era aria; ma a poco per volta ci pervenni, nè parve se ne accorgesse la signora Isabella, e non di certo dev'essersene accorta, tanto la cosa venne naturale. Verso le feste di Natale mi prese il _grippe_ con dolore di capo e febbre da cavalli; la povera signora Isabella era sgomenta; chi potesse mandare a curarmi non aveva; quanto a lei, oltrecchè in ogni caso la decenza l'avrebbe trattenuta da visitare un giovanotto, non si trovava libera di movere un passo dal letto del marito, che precipitando al suo fine diventava ogni momento più fisicoso. Teresa, vecchia, se non erano le ale degli angioli, le sue gambe davvero non potevano portarla su per quattordici scale. Allora, e mira intelletto di carità che hanno le donne! ella stessa senza badare da altro allargò il buco tanto che divenne buca, traverso la quale potesse passare una tazza; ancora mi ammonì che toccandomi a scendere da letto per condurmi a pigliare la tisana era più lo scapito del guadagno, e questo era vero; però volle m'ingegnassi trasportarlo rasente alla parete, dov'era il buco, e per lo appunto sotto di quello, affinchè stendendo il braccio senza altro incomodo potessi pigliare la tazza ch'ella mi avrebbe offerto; così la signora Isabella in mezzo a due infermi vegliava alla cura di entrambi, e al tempo stesso alacre e animosa attendeva ai ricami. Un gentile l'avrebbe rassomigliata a Igea; a me cristiano apparve quasi la madonna del popolo in compagnia degli Angioli della Carità e del Lavoro. E qui fo punto, perchè a cagione del tanto favellare sono fatto roco: ella consideri, mio caro zio, che se io non mi sono mostrato pari a Gargantua, il quale uscito mala pena dal materno alvo chiese da _bere_, pure sono uomo anch'io, e mi pare che senza bere non potrei tirare innanzi o male. Orazio senza rispondergli si risovvenne del tè, e fece per recarselo alla bocca, ma lo trovò freddo, onde prese a dire: O sia che tu ti parta, o che ritorni, Sempre ti provo avverso al sericano Dei cor letizia tè. — Per attendere alle tue fandonie ecco ch'è diventato diaccio, però, Betta, in cortesia vogli andare a scaldarlo da capo. CAPITOLO SETTIMO Il quale a senso dello autore è bellissimo, e spera che lo giudicheranno tale tutti quelli che lo vorranno leggere. Come lo scafo mosso su lo scalo per essere varato da argomento umano non potrebbe essere trattenuto nell'impeto precipitoso, così Marcello non attese il ritorno di Betta per continuare il racconto. Il novelliere in molte, in quasi tutte le cose, rassomiglia alla cicala; ad ambedue piacciono gli albori mattutini, le fresche rugiade, e il primo raggio dorato del sole; ad ambedue talentano le fronde degli alberi, il meriggio splendido, l'aere aperto e sereno; entrambi, quegli da mane a sera racconta, questa strilla; se il cielo si turba, l'uno e l'altra tacciono; se la cicala scoppia, e l'altro muore, almeno in Italia, all'ospedale, se pur non lo mandano professore di rettorica in Savoia o in Sardegna, che torna ad un circa lo stesso; in una cosa sola differiscono, ed è che la cicala annoia sempre, e il novelliere qualche volta no. Marcello veramente non era narratore di professione, ma tocca appena con le labbra la coppa incantata, aveva sentito l'ebbrezza brulicargli per le vene, ond'ei continuava e diceva: — Siamo ad un'altra soprabbellissima veduta... attenti.... attenti... signori... domando scusa, dopo la partenza di Betta non posso più adoperare il numero plurale.... attento dunque, signor zio... e ora che storie sono elleno quelle di aggrinzare il naso? Non crede ch'io sia per presentarle una soprabbellissima veduta? Sì... ci crede? O dunque che mai le arreca fastidio? Per avventura la parola soprabbellissima? Ma o non ha letto il _vocabolario di parole e modi errati_ dei signor Filippo Ugolini, il quale ha la carità d'insegnarci che ai grandi ingegni non disdice di due parole formarne una, e non le paia piccolo privilegio; per la quale cosa io, nella fiducia di trovarmi un dì battezzato per ingegno grande, mi approfitto intanto della patente, e poi considero che a questi lumi di luna per significare una cosa un po' mezzana un povero diavolo si trova tirato pei capelli a inventare vocaboli nuovi; tanto logoro hanno fatto gli uomini piccini dei superlativi per onorarsi fra loro. Invero taluno di loro esce fuori di casa salito su i trampoli, e i compari levano le mani al cielo sclamando: ecco il gigante! — O ti additano a sera un'ombra lunga, lunga, che copre una piazza, e dicono: vedi vè, che razza di omaccioni nascono nei nostri paesi! — Malcreati! Appaltoni! Su i trampoli montano i giullari per tenere allegre le brigate, non già per maravigliarle; le ombre dei pigmei diventano ciclopiche quando la luce tramonta. Ma tanto è, la gaglioffaggine ha messo su compagnia di _mutua ammirazione_, ed ha speranza che il carnevale continui per _omnia sæcula sæculorum: amen_. Dunque siamo ad un'altra soprabbellissima veduta. Io dormiva.... — Cosa che stava per accadere a me — se continuavi con quel suono. — Io dormiva e sognavo un angiolo.... — Ma, nipote mio, tu mi fai da un pezzo in qua tal consumo di angioli da rincararli sul mercato dei cieli venti centesimi la dozzina.... — Io mi figuro, signore zio, che durante la sua vita, massime in gioventù, le sarà occorso di ricevere un pugno negli occhi. Si rammenta in cotesta occasione le migliaia di stelle, che le parve vedere per un pezzo, comecchè il sole splendesse luminoso a mezzodì? Or bene, dopo il mio innamoramento a me sembrava vedere comparire angioli da per tutto; e tutta la gente mirava dopo le spalle, nella supposizione che ci avesse l'ale come altra volta ci teneva la coda. Dunque sognava un angiolo, e a che rassomigliasse la sua bella faccia non importa dire; l'angiolo, aperta una finestra del paradiso, con voce e con cenni mi confortava, rotti gl'indugi, a salire. Io turbato gli rispondeva: — signore, come vuol'ella che io voli, se mi mancano le ali? — Ed egli a me: — di poca fede, credi, e l'amore ti farà crescere le ali.... Qui mi venne rotto il sonno nella testa dal picchiare frequente e ognora più strepitoso della vicina nelle pareti. O cieli! o terra! non ci era da prendere equivoco; coteste erano chiamate a fuoco, quando arde lo incendio dello amore. Corsi così che credei mi fossero spuntate le ali davvero... E questo è certo, che l'amore della donna altrui, se non fa nascere l'ali all'amante, qualche cosa fa nascere al marito... — Aspetti a dire... e quasi tratto fuori di me mi accostai al buco, dal quale aperto mi vennero buttate in faccia queste parole: — Signore, per amore di vostra madre venite a soccorrermi; mio marito si muore, ed io sola non lo posso assistere. — Signora, volo — risposi io pensando sempre al sogno, e al come l'amore faccia spuntare l'ali; però non volai, anzi tardai più del solito, come succede, ora non trovando più le calze, ora infilandomi i calzoni alla rovescia: nè lo indugio mi nocque, perchè in proporzione che io vestiva il corpo, l'anima si spogliava dei turpi desiri, onde rimasero a un punto quello compiutamente coperto e questa compiutamente ignuda; in effetto, quando non so nemmeno io e per moto tutto macchinale mi mirai allo specchio, e levai la mano per aggiustarmi i capelli, la coscienza mi brontolò dentro: — pezzo di furfante, se ti bastasse il cuore di ricompensarti giusta i tuoi meriti, tu invece di accarezzarti la chioma avresti a darti tre o quattro schiaffi su cotesto muso svergognato per brutti pensieri, che hai fatto su cotesta santa donna. Signore zio, avviso ai lettori... — M'introdussi per la porta della cucina, e la signora Isabella trovai pallidissima, non però sgomenta; per mani mi prese e disse: aspettate tanto che con qualche pretesto vi metta dentro, perchè l'inferno piglia sospetto di ogni cosa. Entrata in camera del moribondo, questi con voce appannata rimproverava: — Tu mi contrasti in tutto; io voglio uscire, io vo andare domenica co' miei amici in campagna... ti aveva ordinato mi chiamassi il sarto.... con le vesti di un anno fa sembrerò uno dei sette dormienti... — Non ti affaticare il petto, Roberto, non ti arrapinare... il sarto è arrivato... aspetta di là in cucina. — Ma non fa notte ora? — Fa.... ma si avvicina l'alba... e il giovane è garzone, però venne per tempo a fine di non iscioperare; entrate. Nel breve tempo che rimasi in cucina mi percosse la vista di certe cose, che non mi aspettavo davvero trovarci, ed erano pane fresco e formaggio e prosciutto, e simili altri mangiari non senza parecchie bocce di vino. Con tanta parte della mia curiosità nel sangue lascio considerare a lei, signore zio, se mi sentissi struggere, se non fosse stato l'aspetto pauroso del moribondo, io mi sarei avventurato a interrogare _ipso facto_ la signora Isabella. Costui appena mi ebbe scorto prese fra i singulti a favellare di amici, di vesti, di fogge nuove, di scampagnate, alle quali cose tutte risposi a modo suo confortandolo il meglio che sapeva: poi uscendo feci cenno alla signora che mi seguitasse in cucina, e a lei venuta dissi: — Ha ella pensato al prete? — O Dio! non ci ho pensato, e qualora ci avessi pensato, come avrei fatto ad avvisarlo? — Cotesto povero uomo, se passa tre ore, alle quattro non ci arriva: ci andrò io.... — Sola col mio marito che muore... ho paura. — Non stia a confondere, cara signora, io sveglierò Teresa, e m'ingegnerò a farla salire fino quassù. E come dissi feci; così facile non mi riuscì col parroco, però ch'egli dicesse la messa del mattino, e prima di averla celebrata non volle venire; dopo messa e' si fermò a confortarsi lo stomaco, dacchè egli sostenne che diceva messa all'alba appunto per questo, avendo osservato che senza pericolo d'indigestione non poteva rimanersi più di sei ore senza mangiare: ed aggiungeva contrito, capire benissimo cotesta essere infermità, e, per fermo, castigo di Dio, ma come rimediarci altrimenti che sopportarlo in pace mangiando a mezzanotte, alle sei di mattina, a mezzogiorno e alle sei della sera? Intanto toglieva seco la eucaristia, l'olio santo e gli altri arnesi, e accompagnato dal campanaio veniva via. Se va in paradiso, come gli auguro, osservò il parroco fermandosi a piè della tredicesima scala tutto in acqua, non avrà a fare di molto cammino — poi asciugatosi il sudore e ripreso fiato, tornò a salire. Ora con mia somma meraviglia e dolore, mano a mano ch'io mi accostava al quartiere della signora Isabella, udiva sghignazzare, e clamori, che indegni sempre, adesso poi mi parevano scellerati. Quale io mi rimanessi, pensatelo voi quando sospinto l'uscio della cucina mi vidi comparire davanti due uomini di faccia e più di maniere volgari, che assettati mangiavano e bevevano schiamazzando. La signora Isabella non era lì; il prete si mordeva le labbra; io trasecolava: impiccio più grande io non provai al mondo. Pregai il prete per amore di Dio a pigliarsela in pace come il castigo di avere a mangiare ogni sei ore; pregai quei furfanti in nome del diavolo a divorare cheti, e promisi sarei tornato indi a un attimo con la chiave di tutti questi intrighi. La signora Isabella piangendo mi confessò di tutto cotesto disordine colpa il marito, il quale fittosi in capo di essere ormai sano aveva voluto ad ogni patto si invitassero a colazione certi suoi amici vecchi, ch'egli non aveva più visto dacchè si era messo a letto, ed ella per non inacerbirlo averlo contentato: supporre, anzi credere fermamente che già poco di buono prima, in questo intervallo di tempo cotesti uomini fossero diventati pessimi; a mani giunte pregarmi la liberassi da loro. Tornato in cucina, eccotene una nuova di zecca; il parroco, il campanaio avevano stretto co' due compagnoni una maniera di tregua di Dio; anzi a tavola questi avevano ravvisato il parroco per amico loro e maestro, appunto come secondo il vangelo di San Luca i due apostoli che andavano ad Emmaus riconobbero Gesù Cristo alloraquando ei si mise a tavola con loro e tagliò il pane[10]. Sovvenendomi in buon punto che tra l'osso e il dente del cane non bisogna ficcare la mano, attesi che avessero finito, il che avvenne tosto non potendo i cibi comprati durare un pezzo al vecchio assalto ed al nuovo: allora voltomi ai compagni di Roberto dissi loro lui dolentissimo per non avergli accolti come meritavano; colpa la malattia, che gli si era cacciata addosso; per mio mezzo salutarli e ringraziarli; sperare essersi ristabilito in salute alla più lunga domenica: gli tornerebbe grato rivederli quel dì alla osteria del Satiro, dove intendeva pagare il risotto per tutti. Cotesti due ghiottoni fecero un po' di premura di vedere Roberto tanto per non parere, e acceso chi pipa, chi zigaro con mille grazie e saluti se ne andarono. Rimanevano il parroco e il campanaio; il primo, appiccata la sacca contenente la materia di due sacramenti al medesimo chiodo donde pendeva un mazzo di cipolle, trasportando ai pasti terreni la pratica adoperata da ogni buon sacerdote nei celesti, stava intento a rifinire ogni minuzzolo di cibo e di bevanda che rinveniva sopra la mensa; il campanaio per amore di imitazione seguitava lo esempio; per la qual cosa dopo cinque minuti di cotesto lavoro un topo si sarebbe sgomentato a trovare una bricciola sola sopra e sotto la tavola. Il parroco buttando giù il bicchiere disse: — Or bene, quando incominciamo noi, chè si fa tardi e le mie penitenti mi aspettano al confessionale? Risposi avesse pazienza tanto che andassi per disporre lo infermo a riceverlo. — Andate e fate presto, soggiunse il parroco. Di concerto con la signora Isabella allora dissi al moribondo come il parroco essendosi recato a visitare certa inferma nel casamento, udito che anch'egli giacesse in letto, era salito per salutarlo e desiderare vederlo. Il moribondo si arruffò tutto, e con impeto di cui non lo avremmo reputato capace, disse risoluto non volere preti dintorno, non sapere che farsi di loro; caso mai il parroco si attentasse ficcare il muso nella sua stanza ei gli avrebbe scaraventato quanto stava sopra la tavola da notte. Come Argante egli moriva qual visse; bestia fu, bestia rimase: e siccome era ormai troppo tardi a convertirlo, mi strinsi nelle spalle e tornai al parroco dandogli ad intendere che l'infermo caduto in sincope non poteva in cotesto punto ascoltarlo; e il prete di rimando: — Anzi questo è momento opportunissimo, imperciocchè, appena egli torni in sè, la salutare minaccia delle pene dello inferno farà miglior breccia, sbigottito com'ei ha da trovarsi, ed incapace ad opporre i pensieri della carne. Risposi non essere mestieri di simili argomenti collo infermo, che in vita si era mostrato ossequentissimo sempre ai precetti della Chiesa, ed ora avere chiesto i sacramenti da sè. Parve dubitarne il parroco, pure si acchettò; insomma tanto, ora con quel pretesto, lo tenni sopra la corda, o mi parve tenercelo, che il malato passò senza che vedesse il prete. Del suo transito mi accorsi per cagione di uno strido breve e sommesso, che mandò la giovane donna, ed in vero rientrato nella stanza trovai il marito morto e la moglie con la faccia abbandonata sopra le coperte a piè del letto. Invocato allora lo spirito di Sant'Ignazio, che mi desse valore d'imitare il collo torto di San Luigi Gonzaga, mi feci allato al parroco e bisbigliai: _consumatum est_. — Che cosa è consumato? domandò il parroco. — Lo infermo se ne andò con Dio. — Col diavolo, volete dire, col diavolo, mugghiava il parroco insatanassato; io capisco ottimamente i vostri raggiri, non sono mica un baggiano, sapete! Mostrarvi empi alla scoperta non vi attentate, che da una parte vi spaventa la pubblica riprovazione e dall'altra vi mette paura la polizia, perchè ormai è chiarito che quale si mostra cattivo cattolico, troviamo a un punto pessimo suddito e viceversa; e se non temete lo inferno, non vi garba lo Spielberg. Però coi vostri garbugli mettete di mezzo uno specchiato ecclesiastico, che serva di mantello alle vostre abbominazioni, e mentre sembra di fuori che serviate Dio, possiate senza un pericolo al mondo servire a Mammona. Ora io vi dico che questo non sarà, e cavatevi dal capo di potere scarrucolare un par mio: sappiate che 'l vostro morto non sarà sepolto in sagrato, e lo porteremo via senza lume e senza croce come un animalaccio quale ei si fu; sappiate che io bandirò dal pulpito lui morto senza sacramenti un po' per colpa sua e molto più per colpa vostra, e quindi tutti incorsi nella scomunica fulminata dai sacri canoni contro gli eretici _relapsi_, e condannati senza rimedio alle pene eterne dello inferno. — _Amen!_ risposi io senza scompormi — tanti risparmiati. — Come, tanti risparmiati? — Ma sicuro! dacchè persona caritatevole aveva messo da parte con molto stento non so che danari per suffragare l'anima del morto; ma ora che lo sento perduto senza rimedio la consiglierò a tenerseli. — E voi fareste male.... Perchè? Tanto per salvarlo sarebbe tempo perso. — No davvero, e ne adduco ragioni ineluttabili, statemi attento, figliuolo dilettissimo, che ciò non fie senza profitto della vostra coscienza. _In primis et ante omnia_, nonostante le censure ecclesiastiche, può darsi che il defunto innanzi di morire con atto di profondissima attrizione sia salvo, senza l'opera dei sacramenti; in secondo luogo chi può chiudere può eziandio aprire, e questa verità viene espressa con le due chiavi di san Pietro; revera a quale uopo due chiavi, se la Chiesa non avesse dovuto adoperarle con due serrature diverse e a fini contrarii? E la è chiara; una chiave chiude la toppa dello inferno, l'altra apre quella del paradiso; per ultimo voi dovete credere, ed abbiatelo per sicuro che la elemosina equivale ad un battesimo perpetuo, e se non temessi di avventurarmi troppo, direi che la elemosina supera in virtù il battesimo; imperciocchè questo lava una volta sola, e non si può rinnovare, mentre per lo contrario la elemosina, quasi lavandaia di carità, vi viene ogni sabato a casa, e più spesso, se volete, a pigliarvi l'anima sudicia e riportarvela netta di bucato; anzi, mirate efficacia della elemosina! Questa pulisce non pure l'anima, bensì anche il corpo, e chi fa elemosina, per sentenza di San Cipriano[11], può stare senza lavarsi le mani, che tanto gli si manterranno più bianche del latte. Perciocchè cotesto gran santo ammaestra «come essendo tassati i discepoli che mangiassero senza lavarsi le mani, Cristo rispose dicendo: colui che ha fatto quel ch'è di dentro, ha fatto medesimamente quello ch'è di fuori. Ma fate delle elemosine, e con questo vi laverete ogni cosa.» Dunque elemosine, dilettissimo, sempre elemosine, ed abbondanti elemosine, e voi laverete ogni cosa. — Voi parlate da quel dotto uomo che siete, e nondimeno il dubbio che per l'anima una volta dannata cotesti sieno tutti pannicelli caldi mi resta sempre per la gola. — La intercessione dei santi ebbe virtù di cavare i dannati fuori dello inferno.... — Oh! — Si legge, e con argomenti credibili si trova confermato come San Gregorio magno, mercè le sue preghiere, cavasse dallo inferno l'imperatore Traiano, dopo cinquecento anni ch'ei ci stava dentro ad arrostire. — Tanto è, che l'uomo senza fede possa salvarsi non mi quadra. — Questo avviene perchè non avete fede, ed io mosso da pura carità vi vo' chiarire con quattro battute. La fede è dono di Dio; dono, capitemi bene, virtù _gratis data_, che per opere non si acquista, con doni non si merca.... — Oh! guarda, ed io avrei creduto che chi meglio opera più venisse ricompensato. — E voi avreste creduto male, ma vi compatisco, perchè siete un ignorante. — _Mea culpa_, risposi battendomi il petto. — Le faccende di lassù, caro mio, non si governano al medesimo modo di quelle del mondo; Dio manda la fede a cui meglio gli pare e piace; le anime, figuratevi voi, sono come un branco di cacciatori tutti del pari lesti in gamba e del pari valenti al tiro, i quali movono sparsamente per la medesima selva; questi chiapperà una lepre o un daino, quegli non sentirà nè anco cantare uno sgricciolo. — Dunque, se così è, l'uomo per possedere la fede non ha maggiore merito che ad avere sortito dalla natura il naso grosso? — _Circum circa_ si può dire ch'ei sia in questa maniera. Però non mostrerebbe, a mio parere, buon gusto Domeneddio, se si dilettasse mandare alle pene eterne una povera creatura, la quale potesse dire: — ho chiamato, e non mi avete risposto; ho picchiato, e non mi avete aperto; ho cercato, e non vi siete lasciato trovare. — Così la intendo ancora io, e giudicando appunto che Dio non farebbe opera di giustizia a tracollare quel meschino nello inferno per mancanza di fede, risparmieremo i quattrini, e lasceremo la cosa bollire nella sua acqua come gli spinaci. — Voi pigliate un granchio, e grossissimo, fratello mio, perchè tutti i miei ragionamenti non valgono un fico, se l'uomo non si è ingegnato smovere la bontà divina con la preghiera, i digiuni e la elemosina, e non può provare che il difetto di fede in esso non deriva dalla colpa propria, bensì per ostinazione altrui. Quello che vi ho detto è simile ad un cappone messo in pentola col suo bravo sale e sedano e prezzemolo, il quale non cuocerà in eterno se non gli si accenda il fuoco dintorno per farlo bollire, e questo è chiaro. Senza elemosina i miei argomenti rimarranno perpetuamente crudi. E poi lasciamo là il morto, ditemi un po' voi chi salverà i vivi dalla scandalo? chi dal diventare segno di esecrazione dei fedeli? Chi dall'essere presi in sospetto dalla polizia? Chi dalle visite notturne del giandarme? Chi da un viaggetto in Moravia nella bella stagione di dicembre? Chi...? — Questo confesso che gli è un altro paio di maniche, e mi do per chiarito. Torniamo al funerale, e vediamo un po' a quanto batterebbe la spesa. — Oh! lo vedete che aveva proprio ragione io quando vi diceva che vi avrei chiarito: ecco qui, per la messa solenne quattordici lire... gli è come pigliare un pane al forno... s'intende non musicata, bensì con accompagnatura di organo... catafalco lire venti... trentaquattro... consumo di sei ceri intorno e sei all'altare con più sei candele.... diciotto... e non si può fare a meno... trentaquattro e diciotto cinquantadue, logoro di tappeto, quattro, cinquantasei.... cassa otto, che fanno sessantaquattro... pittura di croce una, e sessantacinque... campanaio per sonare l'agonia... — Ma questa spesa si può risparmiare dacchè egli è morto. — Bella ragione! L'agonia bisogna sonarla, perchè va sonata, e poi se la gente non la sentisse sonare, sospetterebbe ch'ei fosse passato senza sacramenti, ed è per lo appunto questo che più preme evitare. E devo pensare propriamente a tutto io? — Certo. — E allora si ha da mettere cinque lire al barbiere per fargli la barba. — Ohimè! lasciamo stare cotesto, che la morte in breve disfarà muscoli e nervi non che barba e capelli — e aggiungete ch'egli in vita sua non costumò mai radersi la barba. — Tanto peggio; tanto peggio; oh! che volete, che si presenti all'altro mondo co' segni della irreligione e del disordine? — Oh! che vengo dalla China io per non sapere che i peli sono rivoluzionarii? — Vada per la barba, ma cinque lire?... mi canzonate? — Mentre in vita per cinque lire ne fanno venti delle barbe ai poveri diavoli come fu il defunto. — Voi parlereste come un libro stampato, ma quando siamo morti diventiamo tutti uguali... — Già.... appunto per questo; nudi uscimmo dal seno materno, e nudi dobbiamo tornare alla terra... uguali nella miseria. — Alla rovescia, dilettissimo mio, alla rovescia, tutti ricchi, imperciocchè prossimi ad essere locupletati della grazia di Dio. Dunque sonata di agonia due, barba, cinque, in tutto settantadue. Per gl'incappati moccoli libbre quattro, a lire due per libbra otto lire, settantadue e otto ottanta, lampioni quattro, ottantaquattro; logoro di tappeto da capo quattro, ottantotto; nolo di crocifisso di argento, due, novanta; nolo di due preti due lire l'uno, e non è caro, novantaquattro; al curato dieci, centoquattro.... mi pare che non ci sia altro? No, aspettate, lo sterro, lire sei centodieci. Guà! dimenticava il meglio, ai portatori della bara lire otto, in tutto centodiciotto... e se casca un _kreutzer_, a monte ogni cosa. Poi se volete dare qualche cosa a Perpetua serva della canonica, sarà vostra carità[12]. — Io tolsi allora il lume, e lo volsi attorno illuminando la cucina priva degli arnesi più necessari, e poi gli dissi: — Prete dabbene, vi par egli questo luogo abitato da gente che abbia facoltà di spendere centodiciotto lire per un morto, senza contare la mancia a Perpetua? — Caschi un quattrino, a monte ogni cosa... — Ma considerate la miseria di questa povera vedova.... — Ma considerate il grandissimo ribasso, che ho fatto; non mai le cose sante calarono a così vil prezzo, talchè me ne piglia ira, vergogna, rimorso e... — Caro mio, non bisogna contare negozio per negozio, bensì instituire il calcolo buona annata, mal'annata. — Magari si potesse fare! ma la crittogama è entrata anco nella vigna del Signore, e di che tinta! — E voi usate la paura della polizia tedesca a guisa di zolfo, eh? Me ne rincresce proprio; vedo che bisognerà raccomandarci alla _Misericordia_, perchè lo porti via per carità. — Non ci pensate nè anco; lo leveranno di casa sua su una scala, come quello che morì impenitente e fuori del grembo della santa Madre Chiesa; e alla vedova e a voi ne verrà infamia e danno. — Quanto alla vedova me ne rincresce, per me me ne impipo. — Non siete voi parente? non siete amico di casa? — Nè parente nè amico, la prima volta è questa che io metto il piede qua dentro; dei vostri buoni offici presso la polizia mi curo anco meno, perchè come fa giorno con la strada ferrata me ne torno a casa mia in Piemonte. — Malannaggio al Piemonte e a chi ci è dentro! Ci sta vicino come la corda al collo del condannato; se lo potessimo spingere mille miglia lontano da noi, non sarebbe perduto nulla, o presto ricuperato... — Reverendo, buona notte, o piuttosto buon giorno; se avete commissioni per Torino, fate capitale di me; perdonate se vi lascio in asso, perchè non vorrei mancare alla prima partenza della ferrata. — Gioventù benedetta! voi prendete fuoco come gli zolfanelli... venite qua... ditemi, ma chi paga? — Chi volete che paghi? Pago io, che pure sono povero giovane, per carità, onde se mi levo io il pane di bocca, che sono laico e non ci ho che fare nulla, mi sembra che potreste levarvici un po' di companatico voi che siete sacerdote, e per di più pastore di anime. — Orsù, voglio farvi vedere se sapiamo anche noi altri ecclesiastici ammollare; voi ci appuntate, lo so, di avarizia; mordetevi la lingua, calunniatori; la carità la intendiamo anco noi altri: orsù, invece di centodiciotto lire faremo ogni cosa, associazione, funerale e sterro per centodieci. — Curato! risposi di sul limitare della porta, avete comandi per Torino... io parto. — Ma sentite, non ve ne andate... in verità non si può fare a meno... — Volete che faccia i vostri convenevoli al signor Bianchi Giovini? — Voi siete un capo ameno; non ci guastiamo, via.... faremo numero tondo... cento lire... O povera chiesa! povera religione, come scadute abbasso!... Però quattrini... subito... quattrini anticipati... — Niente affatto; _fidati_ era un galantuomo, _non fidarti_ era più galantuomo di lui... — Queste cose ad un ecclesiastico? — Non ve ne adontate, anco i santi prevaricarono... — Almeno la caparra... — La caparra, vada... — Sessanta lire? — Venti lire. — No, sessanta... — Tagliamo in mezzo, trenta, ed eccole... ora andate a sonare l'agonia. Il prete uscì, ma indi a poco ritornava sbuffando e diceva: — Mi sono gabbato... non ho messo l'organista e il suddiacono... della Perpetua non se n'è più parlato. Voi che mi parete un giovane timorato di Dio, non permetterete che un povero sacerdote si rovini. — Io, prima di tutto, dovete sapere non temo Dio. — Oh! non temete Dio? — No signore, si dee temere delle cose che hanno potenza di fare il male: Dalle altre no, che non sono paurose. E lo ha detto Dante, che morì frate. Ora io non ho avuto mai paura di Dio, bensì lo amo con tutta l'anima e m'ingegno osservare più che posso i santi precetti ch'egli m'insegna con senso d'amore. — Egli è tutta una, la messa torna a mattutino, anche così la si può rabberciare... ma un _quid_ di più per l'organista, ecco ci vuole; e il diacono e il suddiacono vi sembra giusto che si abbiano a sgolare _gratis et amore Dei_? — Mi pare che se vi piace buttare ogni cosa a monte io vi abbandono la caparra. Il prete se ne andò borbottando non so che parole di peccatore ostinato... luterano... e simili; però quando fu in fondo della scala si volse da capo a gridare: — Oe, quel giovane, almeno rammentatevi di Perpetua... Devo confessare per la verità che il funerale e l'associazione furono piuttosto pomposi che decenti, e che con sommo mio stupore il curato levava a cielo la mia carità, e non so nemmeno io quante altre virtù cardinali e teologali, le quali, con somma mia maraviglia e quasi spavento, mi erano entrate in corpo senza che io me ne accorgessi. Tutto questo s'intende, arti vecchie per mantenersi la bottega avviata: imperciocchè allegando esempi e lodando la pietà altrui, il prete s'industria conservare tepida, almeno per una generazione, la cenere; tocca al prete che verrà dopo a pensare se la si raffredda. Per tutto quel dì stetti in casa la signora Isabella, e del giorno appresso ci passai gran parte, consolandola con quelle parole più convenienti che seppi; affinchè ella delle spese da me fatte non s'inalberasse, le dissi, ed era vero, che aveva preso le cento lire dalle cinquecento del signor Felice, e le proffersi di conservare le rimanenti, ma ella ci si ricusò. La lasciai pertanto rassegnata, e poichè di leggeri noi altri crediamo quello che piace, così nelle calde parole, nello acconsentire degli occhi, nella stretta delle mani io pensai vedere e sentire un sentimento un zinzino più tenero che non è la gratitudine; per la quale cosa ogni sequela d'idee su questo proposito io conchiudeva colla esclamazione: — Noi tapperemo il buco!... E tanto mi dominava questo pensiero, che prima di salire a casa comprai due libbre di gesso da presa per murarlo. Salito in casa rovesciai parte del gesso sur una tavola, in mezzo al quale dopo averlo ammonticchiato feci un vuoto per versarvi dentro l'acqua; in seguito ammannii una maniera di mestola per istemperarlo prima di servirmene; così apparecchiato mi accostava al buco, e non senza commozione gli volgeva queste parole: — O buco, conforto della mia vita e largitore delle gioie più pure che io abbia provato nel mondo; tu mi hai tolto dall'anima quanto la dissipazione ci aveva deposto di vile; tu mi hai insegnato come l'amore preceda sempre i passi dell'uomo, pari alla stella di oriente scorta dei regi in cerca del Redentore; per te ho appreso che dopo la madre un altra donna più cara, sì ma non però più amata, abbia sortito dal cielo potenza di condurre i nostri passi alla perfezione cui fu concesso arrivare al seme di Adamo; tua mercè io sono più che io; meglio di qualunque predicatore, vogli missionario, vogli domenicano, vogli carmelitano scalzo, tu mi hai fatto stimare i miei fratelli, me stesso, la vita, le opere e la giocondità della virtù. Io vorrei avere ricevuto in dono la facondia di Demostene o la fantasia di Pindaro per celebrarti degnamente in prosa e in versi. Io ti vorrei rendere più illustre assai del buco di santo Alò, dov'egli ficcava il suo chiodo ogni qual volta gli occorreva di ficcare il chiodo per non affiggere con troppi fori la parete; onde venne il proverbio di fare come santo Alò, che ficcava il chiodo sempre nel medesimo buco. Se adesso io ti muro, non mi muove ingratitudine; al contrario affetto pari a quello del buon padrone che riposa l'ottimo servo dalle lunghe fatiche: nè per chiuso che tu rimanga io diverrò mai immemore di te, tutto ha fine nel molto: separiamoci dunque a modo di benefattore e di beneficato, perchè tu capisci che potendo sedermi da ora in poi a canto alla signora Isabella e favellarle dappresso, sarebbe strano, per non dire peggio, continuare a parlarle traverso un buco... — Oh! siete voi? — Di un tratto mi parlò la voce soave della donna amata; appunto io voleva dirvi cosa che non so perchè non mi attentai favellarvi qui in casa, ed ora traverso la parete spero mi basterà l'animo di farlo. Signor Marcello, quando si ringrazia, sì presume pagare in parte il debito: ora io non voglio ringraziarvi, perchè amo serbare intero l'obbligo mio verso di voi; io ho provato che in me può venire meno l'amore, la gratitudine non mai, tanto vi basti... — Anzi è troppo, mia riverita signora, e avrò mercede di gran lunga superiore al merito, se mi concederà che io le rinnovi quotidianamente la espressione della mia profonda stima... in casa sua. — Giusto sopra di ciò voleva trattenervi, signor Marcello. La donna povera deve avere cura, non dirò superiore a quella della ricca per la sua onestà, bensì delle apparenze della onestà; in vero non basta alla donna essere, ma deve eziandio parere onesta. Argomentate da ciò a che mi esporrei io, se vedova, povera e sola, accogliessi in casa mia un giovane elegante come voi? Voi siete troppo generoso, signor Marcello, per mettere a duro partito la mia reputazione... io devo credere... io credo che la mia fama ha da essere cara a voi quanto a me, non è egli vero, Marcello? — Eh!... non dico... ma se non isbaglio, mi pare che queste parole significhino, ch'ella non mi vuole più d'intorno? — Oh! no; io voglio vedervi e parlarvi tutti i giorni anzi più volte al giorno, continuiamo a farlo come prima traverso questo buco... — O nato sotto stelle maligne! esclamai dandomi un picchio su la fronte. E il gesso da presa e la mestola ammanniti a che serviranno eglino? E siccome la signora, che cosa ci avessero a fare il gesso e la mestola non capiva, io l'avvertii di quello che stava per condurre a termine, quando sul più bello rimasi interrotto da lei; ond'ella tanto non si potè tenere, che non ridesse, ma io nell'amarezza dell'anima e con riso compunto ripresi: — Poichè questo calice non può rimoversi dalle mie labbra, si faccia la sua volontà, signora Isabella... — Ma guardiamo un po' se la cosa comporti temperamenti tali da renderla tollerabile; in prima io direi di allargare il buco a dimensioni tali che di buco diventasse vera e propria finestra. Oh! sì... larga finestra... grande quanto tutta la parete. — Questo si nega; larga tre quarti di braccio, ed alta cinque soldi. — Talchè se io non divento un gatto non ci potrò passare. — Talchè se voi non diventale un gatto non ci potrete passare. — Almeno sia praticata a tale altezza, che seduti entrambi sopra una sedia possiamo vederci e favellarci. — Questo si concede, anzi ogni sera tornato a casa metteremo, io da una parte, voi dall'altra, il tavolino rasente all'apertura, e mentre io lavoro, voi mi leggerete qualche bel libro di storia o di poesia. — Faremo anco meglio; io congegnerò una lucerna per modo che abbia a illuminare voi e me, e questo gioverà alla economia ch'è la seconda provvidenza della povera gente. Sta bene; e voi invece di andare all'osteria con perdita di tempo non piccola e spesa grandissima, potreste trasportare il vostro pranzo alla sera, e pranzeremmo insieme spartendo le spese; io mi piglierei il pensiero di apparecchiarvelo. — Accettato; accettato. Se venisse Lucullo a propormi adesso il baratto di uno di questi pasti con cento suoi imbanditi in Apolline, io gli darei di un calcio nella pancia. — Siete contento della capitolazione? — Eh! non potendo avere di meglio, adattiamoci; però delle parole io non mi fido. — Oh! che volete, che mandiamo pel notaro, che roghi del contratto? — Dio ne liberi! Se un terzo entrasse fra noi lo strozzerei, ma ogni convenzione costumano gli uomini raccomandare a segni più sensibili che le parole non sono, come sarebbe a dire a segnatura, a croce, a sigillo; io mi contento di una stretta di mano. — E ciò non vi ricuserei davvero, se si potesse... — Non si confonda; in due minuti rimedio a tutto. E anco in meno remossi un mattone dond'ella mi porse la mano che io baciai con fervore due volte, dicendo: la prima per lei, la seconda per la madre mia. Per via di cotesta apertura io mi transumanai, per dirla con Dante, e se avessi dovuto durare un pezzo nell'esercizio di tanta virtù dinanzi a cotesto buco diventato finestra, io credo che a questa ora, signore zio, avrebbe dovuto cercare il suo nepote fra gli angioli, con suo sconcerto forse, e sicuramente col mio; chè fare un altro po' di posata _in hac lacrymarum valle_ non mi scomoda punto. Però tra tanti gaudii mi occorse uno stroppio, e questo fu che dimorando davanti quella apertura mi trovai un giorno cotto per di fuori e per di dentro così, che meglio non arrostisce un quarto di agnello sullo spiedo. Gran giudizio mostrano di avere i Siciliani quando volendo imprecare a taluno qualche grosso malanno gli dicono; tu possa essere innamorato! Di fatti addio sonno, addio talento di cibo o di bevanda, mesto sempre o pensoso senza pensare a nulla; fisso in una immagine, che mi struggeva, uguale in tutto a cotesta povera fanciulla, che innamorata del sole non cessava mai di guardarlo, senza badare che le consumava la vista; e per maggiore rapina quanto più pativa, e meno mi sentiva balìa di palesare i miei spasimi: se accadeva, e accadeva sovente, che la pietosa donna mi domandasse: se mi sentissi male, se qualche pena segreta mi angustiasse, non volessi celarla, a lei, che per me nutriva affetto di sorella e di madre; io stava lì lì per isfogarmi, e voleva e mi sforzava con ogni potere mio a farlo; ma sì, egli era niente, mi si chiudevano i denti e mi saltava addosso il ribrezzo della febbre quartana. Mi pareva di essere diventato un mantice da fabbro, tanto era il mio fiatare da mattina a sera; mi pareva essere una rondine in gabbia; certa volta mi affacciai alla finestra per buttarmici di sotto, e lo faceva, se non fosse stata tanto alta: si trattava di sette piani... capisce? Ieri notte, sul fare del giorno, comecchè il solo coltrone mi coprisse, mi parve avere addosso una lapide; volta di qua, volta di là non trovava posa; nè anco se il diavolo avesse preso possesso del mio corpo, mi sarei dimenato tanto; metteva sospiri da spegnere una torcia a vento: — maledetto l'amore e chi gli vuol bene! esclamai infellonito, e scappato fuori del letto mi posi col lenzuolo avviluppato intorno alla persona a passeggiare di su e di giù per la stanza, come costuma il Modena sul palco scenico quando fa la parte di Oreste. La signora Isabella atterrita da cotesto tramestìo accorse all'apertura, e vistomi mezzo vestito e arruffato a quel modo mi disse: — Signor Marcello, per amore di Dio a che pensate voi? — Io glielo do in mille a indovinare. — Forse a vostro zio infermo? — No, signora. — A vostra madre defunta? — No, signora. — A qualche sfida forse? — Nè meno. — Per sorte a congiurare contro questi cani di Austriaci? — Nè manco per ombra. — E dunque a che pensate, Marcello? Non mi fate più stare in angoscia... — Vuol'ella saperlo? — Sicuramente. — Ma proprio lo vuole? — Sì, sì lo voglio, lo pretendo. — Ebbene allora lo sappia: io pensava a Marco Tullio Cicerone... — Domine, aiutaci! esclamò la signora Isabella levando gli occhi al cielo, come paurosa che mi avesse dato volta il cervello; ed io cui il moto e l'impeto e lo sdrucciolo della favella avevano ormai sciolto lo scilinguagnolo, sempre correndo continuai: — Sì, signora, a Marco Tullio Cicerone; ella saprà, e se non lo sa glielo dirò io, come questo padre della romana eloquenza immaginasse varie maniere di cominciare le sue orazioni; che talora egli esordiva esitando, come se si peritasse a dire, e tale altra alla brava dichiarando che avrebbe esposto questa cosa o quell'altra, epperò gli prestassero udienza che ei la sapeva lunga e la sapeva ben contare; sovente si raggirava per copioso sermone, e spesso eziandio veniva a mezza spada soltanto a piè pari dentro la materia. Ora tocca anco a me recitare un'arringa, un'arringa, ahimè! pur troppo importante, dacchè se mi riesce persuadere e commovere, io salverò un infelice da certissima morte; se all'opposto faccio fiasco, il poverino è ito. In tanta angustia non so nemmeno io che pesci pigliare. Signora Isabella, ha mai studiato la rettorica? — Io? perchè farmene? — È vero, le signore non hanno mestieri d'imparare rettorica, esse nascono tutte col _Decolonia_ in corpo, talune ci hanno anco il _Blair_: dunque senta, signora Isabella, mi consigli per carità. Dovrei essere lungo o corto, girare di largo ai cantoni, ovvero dire breve e schietto? — A me sembra, che senza tanti andirivieni, il meglio stia nel partito ultimo, che dite: il semplice è sempre bello, e nel bello ordinariamente alberga il buono.... — Dio la benedica, signora Isabella: ebbene, signora Isabella, io l'amo.... — e chiusi gli occhi, apersi le braccia come chi aspetta il colpo di grazia. La risposta stette qualche po' di tempo a venire, pur venne con voce tremola e però tanto più soave; velata sì, ma dal velo che adombrò Venere celeste quando prima apparve ad Adone, ad Anchise, eccetera.... in somma un'aura di maggio, che passa su le rose sbocciate, un buffo di armonia delle sfere udito solo da Pitagora e da me, sospinto forse verso la terra dal ventilare dell'ala bianca di un angiolo.... — E dalli con questi angioli.... — Le domando perdono, signore zio, ma creda in verità, che parlare della signora Isabella e non cascare negli angioli gli è come discorrere di pane e non rammentare la farina; pertanto ella mi disse: Marcello, ancora io vi amo; siete un cervello balzano, ma cuore amoroso, e lo starmi sola m'incresce; nè giovane povera, e per avventura non ingrata di forme, potrei frequentare le compagnie senza scapito della mia fama: questo è certo, che non potendo la donna fornire sola il pelligrinaggio della vita io non vorrei scorta diversa dalla vostra; e se la prima volta la sbagliai pur troppo, mi affido che la seconda l'avrei indovinata, non per merito mio, ma per grazia del Cielo. Però due cose, se non si oppongono ricisamente, impediscono almeno che questo desiderio adesso si compia, e sono il consenso del vostro zio e di mio padre. Chi si conduce a questo atto solenne della vita in onta de' suoi maggiori semina di spine il sentiero sul quale ha da camminare, ed io ne ho fatta a mie spese amarissima esperienza. Ratteneva l'alito per paura che meno chiaro mi venisse il suono di quei santi detti, e cessato ch'ella ebbe, non potendo favellare io, la mirava; ella mi diè coraggio, ella ravvivò la mia speranza, ella mi spinse nelle sue braccia, mio padre... mio zio, ed io mi ci abbandono mettendo in sua balìa la mia morte e la mia vita. _Ho detto_. — E non posso rispondere male, come quel bizzarro al predicatore, che fece il panegirico di san Giuseppe per dieci lire... no, in verità non lo posso rispondere. Hai un zigaro? — No. — Ebbene, to' questo e fuma; Betta, tanto che io fumo va a rifarmi il thè, e porta anco una caraffa di rum; sento il bisogno di ravvivare gli spiriti. Il thè fu fatto, il rum portato; lo zio Orazio bevve dell'uno e dell'altro; camminava ora lento, ora concitato per la camera, e Betta lo seguiva col guardo volgendo il capo ora a destra ora a sinistra, quasi fosse stato un pendolo; alla fine Orazio disse, come favellando seco medesimo: — Guà! tutto può darsi; ai tempi miei una donna dopo avere assistito alle missioni di un gesuita ingravidò, e partorì un figliuolo con le orecchie di asino; — poi rivolto al nipote soggiunse: — _suadent cadentia sidera somnos_; vien meco, che ti condurrò io stesso nel quartiere ammannito nel presagio del tuo ritorno. Accompagnando poi col fatto le parole, tolse il candelliere e precede Marcello in certe stanze fatte accomodare per lui al terzo piano della casa; quivi egli lo lasciò dicendo: — Non è terminato, ma non ti faceva così presto di ritorno, però quanto occorre ce lo troverai; poi se alcuna cosa ti abbisognasse suona il campanello. Buona notte. Addio. Il giovane rifinito per la stanchezza, e dalla mansuetudine con la quale lo aveva accolto lo zio ricavando argomento a bene sperare, si gettò sul letto senza nè anco spogliarsi, e presto si fu addormentato. Se anche in cotesta notte sognasse, io non ve lo saprei contare, perchè non me lo disse. Sicuro! voi potreste apporre: questo non fa caso, dacchè voi altri, quando vi piace, entrate nel cervello degli uomini desti o addormentati, e ci vedete, o piuttosto voi ci volete vedere quello che vi pare e piace. Al quale obbietto rispondo che voi avete perfettamente ragione, ma che per ora non mi piace entrare nel cervello, nè in verun altro luogo dei miei personaggi, e chi legge si contenti sapere che il giovane giacque fino a giorno alto, e appena desto si sentì agitato dallo amore e dalla fame; quello era grande, ma questa non canzonava: il primo occupava tutta l'anima, la seconda tutto il corpo, l'uno toglieva refrigerio a mandare fuori sospiri, l'altro s'impazientiva a non mandare giù bocconi. Peccato proprio, che gl'innamorati non diventino sostanze spirituali, o per lo meno cicale, le quali, se la fama porge il vero, si nutrono di rugiada. L'appetito nella lotta con lo amore messo di sotto quattro volte e sei, allo improvviso prese il di sopra, e con tanto impeto, che Marcello si fece a corsa per uscire dal quartiere; la porta della stanza gli si aperse sotto mano e facilmente: non così l'uscio dello appartamento; allora lo scosse, lo spinse, e crescendo l'ira, tentò a calci sfondarlo, ma e' non venne a capo di niente, che l'assito era forte e gli arpioni gagliardi: quando si fu bene riscaldato, ammaccato nelle mani e nei piedi, dette spese al suo cervello, e si ricordò del cordone del campanello pendente in camera sua. Allora chiamandosi cento volte bestia e soffiandosi nelle dita afflitte, tornò lemme lemme in camera per sonare: del qual accidente mi è parso bene avvertire il lettore, non mica ond'ei ne pigli insegnamento, perchè so che quando gli capiterà incollerirsi, lo farà subito senza rispetti, accorgendosi dopo che avrà la spuma alla bocca e sarà andato in acqua per la pena, come con un po' di pazienza avrebbe avuto il fatto suo di quieto e con risparmio di salute e di tempo; onde se mi domanderanno perchè dunque mi è parso bene avvertirlo, dirò che non lo so nemmeno io; si dicono e si fanno e si sopportano tante cose cattive in questo mondo, che non si metteranno mica all'indice se ne ho detta una delle inutili. Sonò pertanto Marcello, e mentre sporgeva la faccia verso la porta per vedere comparire qualche servo, sentì chiamarsi dalla finestra. Ciò gli parve strano, chè tale si è appunto l'indole dei cervelli bizzarri, voglio dire non sapersi capacitare che altri viva nel mondo balzani quanto o più di loro; recatosi pertanto alla finestra, guardò giù e vide Betta la quale seduta tranquillamente all'ombra di un fico, gli domandò perchè menasse tanto rumore. — Perchè voglio scendere e fare... cioè salutare lo zio, e poi fare colazione. — Di tutte queste cose due non si possono fare, ed una la puoi fare costà in camera. — Come? Come? E quali sono le cose che non posso fare? — Per esempio quella di uscire.... — E perchè? — Perchè lo zio è uscito e si è portato seco la chiave. — Ebbene manda pel fabbro che venga su co' grimaldelli ad aprire la porta. — Anco questa non si può fare, perchè lo zio, dopo messa una fettuccia traverso le imposte, ne ha sigillato l'estremità. — O che sono diventato un magazzino di fallito? o un deposito messo nel monte di pietà? Questo è un delitto contemplato nel codice. Ai tempi nostri doveva vedersi rinnovato il carcere domestico! violentare la libertà di un cittadino! E poi da cui? Da un liberale!... da uno zio! Ma diceva bene il consigliere Saureau, chi vuol vedere la schiavitù vada in America. E adesso lo zio dov'è ito? — Te lo dirà quando torna.. — E quando tornerà questo benedetto uomo? — Credo nell'ora in che sarà venuto. — Bada, Betta, non mi mettere al cimento di scaraventarti la brocchina nella testa; e sentiamone un altra: il mio riverito zio e tu avete nella vostra sapienza deliberato farmi morire di fame.... — Dio guardi! fruga nella stanza e troverai una funicella alla quale, calata che tu l'abbia, io legherò un paniere pieno di cose buone così per l'anima come pel corpo. Marcello, considerato come per quel momento non ci era a fare di meglio, rinvenuta la corda, la calò e Betta tosto legatoci il paniere fece cenno che lo tirasse in su. Sentendo lo peso egli diceva tra sè: che diavolo ci avranno messo dentro? Curioso pertanto di esaminare, appena lo ebbe messo sul davanzale, frugando trovò un libro e disse: — Un libro! _Imitazione di Gesù Cristo_; che ci ha da fare cotesto libro? — Ma! lo zio disse ch'è la camicia del galantuomo. — Anco un libro _Erasmo; Elogio della pazzia_; e questo a che buono?... — Ma lo zio ha detto, caso mai tu volessi scrivere, potresti spassarti a farvi i commenti di tuo. — Senti, Betta, quando lo zio tornerà a casa gli dirai per parte mia, che se vuole ristamparlo lo faccia con le sue note soltanto, che sono anco troppe, anzi taluno ha detto che le sue chiose affogano il testo. Ecco un giornale, la Civiltà Cattolica; e di questo che me ne ho a fare? — Ma! lo zio ride tanto quando lo legge, ch'io ce l'ho messo di capo mio per divertirti caso mai ti pigliasse la malinconia.... — _Byron?_ — Per tenerti sveglio. — _Il quaresimale del padre Segneri?_... — Per dormire. — _Magnesia calcinata... Gioco chinese_, ovvero il _rompicapo_?... — Questo per esercitare la pazienza, quella per levarti la bile di corpo. — A quanto pare non ci manca altro che la maschera di ferro.... ecco sigari... pane.... vino.... _et reliqua_. Mangiamo prima e poi il tempo darà consiglio. — Salomone stesso non avrebbe potuto ragionare di meglio... Gol tempo e con la paglia anco a te si maturerà il cervello.... Accadde una tregua alle parole; alla quale pose fine Marcello affacciandosi alla finestra col suo sigaro acceso, dicendo: — Betta? — Che vuoi figliuolo? — Tu sai che subito dopo il pasto il leggere e lo scrivere guastano la salute; però ragionerei teco se non fosse questa vampa di sole che mi brucia la faccia. — Io mi ricordo che su in un canto dell'anticamera del tuo quartiere ci ha da essere un ombrello, piglialo e schermisciti dal sole. Di fatti l'ombrello ci era, Marcello lo sporse fuori della finestra, lo aperse, e tra lui riparato dall'ombrello e Betta al rezzo del fico fu continuato il dialogo seguente: — Betta, lo zio prima di andare a letto ti fece altri discorsi? — Sicuro che me ne fece.... — E che disse? — Disse tante cose, che ci voleva un magazzino a tenercele tutte.... — E non te ne rammenti di alcuna? — Ecco, mi rammento di queste: tu hai da sapere, o Betta, egli mi diceva, che ai tempi antichi ci furono due Dee, una delle quali di manica larga anco troppo, che si dilettò di chiappare uomini e Dei, e tenerseli per amanti contro il precetto del decalogo, perchè la sciagurata aveva marito, un po' zoppo per la verità e di molto sudicio, chè di sua arte egli fu magnano, ma non importa; marito egli era e doveva rispettarsi in lui il sacramento del matrimonio; l'altra all'opposto fu di manica stretta e fuggiva gli uomini come i cani arrabbiati dall'acqua; questa fu abitatrice di selve e cacciatrice solenne; nè fiere nè uccelli la passavano liscia con lei, che o di saetta cadevano o da mille arzigogli insidiati rimanevano presi, ed ella li pelava, arrostiva, mangiava come facciamo noi: in questo, come vedi, valeva meglio l'altra di lei, però che Venere (quella che faceva preda degli uomini si chiamava Venere) la preda fatta non arrostiva e non mangiava, solo le assotigliava le gambe, e le affilava il muso. Un giorno o una notte, salvo il vero, Giove mosso dai giusti lagni degli uccelli superstiti, i quali gli dimostrarono come qualunque tanto valeva non averli creati, che lasciarli in balìa di cotesta sterminatrice, la quale gli uccelli non poteva patire, eccettochè arrostiti, operò in guisa che Diana (quest'altra si chiamava per lo appunto così) s'imbattesse in un giovane tanto ben fatto e bello, sto per dire più del capo tamburo del reggimento delle guardie reali; l'effetto di questo incontro fu che Diana volle diventare amica di Venere; gli uccelli ebbero tregua; ma diceva sempre lo zio, la burrasca si rovesciò addosso agli uomini, perchè Diana insegnò a Venere tutte le insidie con le quali pigliava gli uccelli, e Venere a Diana tutti i tranelli co' quali pigliava gli uomini, e insieme composero un catechismo, che le donne per non istare in ozio imparano nei nove mesi che si trattengono in corpo alle genitrici loro, onde lo zio concludeva che a buttarsi dalla finestra, a torre moglie, insomma a fare tutte quelle cose che si fanno una volta sola, bisogna avvertire almeno due... — Fosse anco san Tommaso in persona, se lo zio vedesse la signora Isabella, rimarrebbe estatico di riverenza e di ammirazione: non mi sembra di essere uccello da cascare sul vergone al primo cocoveggiare della civetta.... — E questo gli diceva ancora io. I giovani, che sia benedetto, la sanno più lunga di noi, io gli diceva; ma egli mi rispose: no signora, tu, Betta, costumi tenere per lo meno tre giorni i granchi teneri in purga prima di friggerli e darmeli a mangiare; ora non vuoi che io provi per altrettanto tempo una donna di prima di consentirla a moglie pel mio nipote? Io opposi che tra i granchi teneri e una moglie ci correva grandissimo divario; ma egli ostinato replicava, che se differenza ci entrava, era a carico della donna, per la quale tre giorni a ripurgarla forse non sarieno bastati. Però stamane è partito per Milano.... — Ah! zio, zio, zio, — esclamò arruffato Marcello e lì fe' punto; se gli frullasse nella mente di aggiungere qualche altra parola e precisamente quale, io non affermo nè nego, certo è che ei non la profferì; però tempestando si tirava indietro dal balcone, e siccome l'ombrello aperto gli faceva contrasto, lo lasciò andare; poi sbattacchiate a furia le finestre, prese a pestare i piedi, e strapparsi i cappelli e a commettere pazzie da disgradarne Orlando matto, meno che non isvelse pini come Orlando, perchè nella stanza non ce ne trovò; per ultimo si mise a letto. CAPITOLO OTTAVO Dove sarà narrato quello che ci si racconterà. — Ci sono lettere? — domandò la signora Isabella a Teresa, che le recò secondo il consueto i pochi alimenti di cui ella abbisognava nella giornata. — Senza lettere. E la signora Isabella rabbrividì e si fece bianca, indi a poco il sangue le si risospinse alla faccia; il di dentro non le si poteva vedere, ma a giudicarne dalla irrequietezza dei moti parve il bel sereno dell'anima le si rannuvolasse; però di lieve tornò tanto tranquilla ch'ebbe balìa di ripigliare il lavoro, e lavorava di lena, senonchè di tratto in tratto levava gli occhi a mirare l'apertura talora di colta, e talora a mo' dell'ago della bussola, che per subita scossa deviato, tremando tremando si accosta al polo, e mi bisogna anco aggiungere come il moto della signora Isabella spesso fosse spontaneo e qualche volta no, perchè le pareva udire rumore da codesta parte, ma levati gli occhi verso l'apertura le compariva fosca come la bocca dell'inferno, onde ella tornava ad abbassarli sopra il telaio irridendo alla speranza, che, Dea mansueta e pia, pure tal fiata ha vaghezza di tormentare come una Furia. E il giorno appresso, vista appena Teresa, la prima domanda che le volse fu: — E lettere ce ne sono? — Senza lettere, rispose Teresa stringendo le labbra, e sollevando entrambe le mani. Per questa volta la signora Isabella portò vivamente la destra al cuore, quasi che le fosse stato ferito, e non potè trattenere le lacrime, le quali però, voltando la faccia verso l'apertura, nascose a Teresa. E l'apertura parve che avesse senso di pietà, imperciocchè, uscita che fu Teresa dalla stanza, ella prese a rischiararsi con luce sempre crescente, quasi alba che ceda luogo al sole. Isabella proruppe in un grido, e s'indirizzò a quella parte come... come... oh! sono pure lo zotico uomo a lambiccarmi il cervello in cerca di una similitudine, quando Dante me ne ha fatta una, che qui s'incastona meglio di gemma dentro l'anello, come colomba vola con ale aperte e ferme al dolce nido. Ma che diavolo vuole egli significare questo? La signora Isabella appena affacciata all'appertura caccia uno strido non già di sorpresa, bensì di spavento, e scappa via coprendosi con le mani la faccia. Subito dopo s'intesero uscire traverso la finestra le parole: — Sono io diventato tale da barattarmi con gli spauracchi, che piantano i contadini in mezzo ai campi di gran turco? E fosse anco così, mi dica, signora mia, sarebbe gentilezza a farmelo sapere? — Ma chi siete voi? — Non lo vedete? Oh! che avete bisogno di consultare il Dizionario della storia naturale per iscoprire chi sono? — Come vi chiamate, via? — Orsù, Curiosità, il tuo nome è donna, mi chiamo Orazio, e sono zio di Marcello, tutto questo non varrà a trovarmi grazia presso di voi? Mi fuggirete sempre peggio di un coccodrillo? — Mi scusi, signore, la sorpresa, la paura... e Marcello dove si trova? — In prigione.... ma Orazio vedendo che Isabella stava per venire meno, maledicendo la sua bizzarìa, si affrettò ad aggiungere — ma in casa sua, per ordine mio, e Betta gli fa da sopprastante. — Ed ella è arrivato stamani? — No, signora, arrivai ieri l'altro.., e non mi sono mosso un momento dall'apertura spiando tutti i vostri moti, ed ascoltando tutti i vostri detti.... — Ma questo, signore... non mi pare.... — Non vi peritate; dite addirittura che non è onesto, ed io vi risponderò che avete centomila ragioni; però se non è onesto io l'ho trovato utilissimo per fare presto e bene. Alla mia età l'uomo pende al sospettoso. Il diavolo, giova rammentarlo, è cattivo perchè vecchio. Adoperando questo spediente non vi recava ingiuria, imperciocchè se vi scopriva lusinghiera, vi avrei barattato i vostri cinque franchi con cento soldi; se all'opposto buona e santa donna, come vi predicava il nipote con fiducia piena e larghezza di cuore, vi avrei abbracciato e detto: — «vieni, cara creatura, a questo seno, che gli uomini non hanno potuto o saputo intristire tanto, ch'ei non sappia o possa amare, vieni; dammi una figliuola, io ti darò un padre». Praticando in diversa maniera ci sarebbero voluti anni, e nè anco sarebbero bastati, perchè, vedi, la esperienza è simile all'avvoltoio di Prometeo; insegna ma divora, e le lezioni ella si fa pagare in moneta di cuore, nè compie mai il suo corso, anzi quanto più ne frequenti la scuola, e più ti erudisce nella maledetta scienza di sospettare e temere. Ma adesso io, senza che tu il sapessi, da due giorni ascolto perfino i tuoi sospiri, speculo il moto e il colore della faccia, seguito con gli occhi il tuo ago, con te m'inginnocchio a Dio, alle tue preghiere m'unisco, poso il mio capo sul tuo guanciale, anzi sul tuo medesimo cuore, e ne sento i palpiti appena nati; — dirò di più... li presento prima che nascano... e da questa intima, indiscreta e disonesta conoscenza di te ne deriva questo, che io ti supplico a darmi una figliuola in te, mentre io ti prometto in me un padre di amore. — Della favella, che Dio padre parlò prima ai nostri genitori, una parola sola rimase fra noi, e questa parola è _perdono_, così almeno cantava in poesia il vescovo Isaia Feignez; lo dice egli, e sarà, ma se dello idioma divino ci avanza tanto scarsa reliquia, bisogna dire che ci lasciasse interi il suono della voce e la benignità dello sguardo, con i quali l'accompagnava, perchè la Isabella si sentì presa da una dolcezza nuova, per cui non poteva fare altro che piangere ed esclamare: — Signore! Signore! — Da poi che morì mamma, io non le aveva provate più... temeva averle perdute... ed ora le ho ritrovate... queste lacrime. E non si perdono, se pria non perdi l'amore. Chi peregrina pel deserto vede talora smarrirsi per la sabbia il rigagnolo che gli dava coraggio; ma se non cessa l'animo, vada innanzi, che anco in mezzo al deserto rinverrà ombre di palmizii ed acque dolci, refrigerio della fatica, premio della perseveranza. Il signore Orazio non piangeva, ma non si attentava a profferire parola, anzi neppure a movere atto, dacchè a mo' di tazza colma fino all'orlo dubitava al minimo urto traboccare ancora egli. Così pertanto, muti muti, durarono un pezzo, e quando si fu sfocato in entrambi l'ardente affetto, la signora Isabella disse: — A fine di conto il torto è mio, che doveva sapere come l'uomo di grande ingegno possieda sempre larghezza di cuore; ed invero se lo intelletto è dono di Dio, deve significarsi per via di benefizii: ora quale maraviglia se io la trovo, caro signore Orazio, qual ella è, e quale a me correva l'obbligo di conoscere ch'ella bisognava che fosse. Questo la giovane disse proprio col cuore, ma bisogna confessare che pensandoci una giornata non avrebbe potuto rinvenire piaggeria più piacente e più fina. Grazia _gratis data_ alle donne gentili la è questa, di esalare quasi un profumo perenne di urbanità sia che favellino, sia che sorridano, o guardino od anco semplicemente si movano. Con le laudi gli uomini vengono propiziandosi le stesse divinità e veramente paiono divine se da un lato profferte da anime sinceramente consapevoli, e meritate dall'altro; e basta per la lode uno sguardo ed anco una stretta di mano. Quelle fra le lodi a cui possiamo fidarci meno, sono composte appunto di parole; tuttavolta anco in questo, chi se ne intende, vede per così dire palpitare il sangue, e del più puro che scorra dal cuore. — Questo è discorsino profumato, rispose Orazio, tratto fuori dalla scatola dove le dame tengono i guanti, vera cambiale, che la vanità pagherebbe a vista, e forse anco la modestia non lascierebbe andare in protesto. Ad ogni modo va bene; dunque, figliuola mia, metti le tue robe nella valigia, chè nella giornata torno a pigliarti per condurti a Torino, dove ti accomoderò pel momento in casa di Orsola mia sorella, una buona donna, che potrebbe essere meglio, ma al punto medesimo centomila volte peggio, e quivi ti starai finchè sposa di Marcello non entri in casa tua. — Signor Orazio.... — E dai con questo signor Orazio; tu devi chiamarmi zio... e se ti riescisse anco babbo, questo mi darebbe più consolazione.. — Dio sa con quanta pienezza di affetto io vorrei fare il piacere suo e compire il mio desiderio ardentissimo, ma ella non ignora che mio padre vive, e crederei che... anzi gli recherei torto di certo se mi passassi del suo consenso... — Mi pare... giurerei quasi che mi fu detto come non sempre tu abbia creduto indispensabile il consenso paterno per andare a marito. — È vero; e di qui la mia colpa e il mio castigo; ma tanto danno mi è venuto dal mal fatto, e così lungo il rimorso e la vergogna incessante, che sarei bene non so se più folle o trista dov'io ci cascassi da capo. Conosco ottimamente che mio padre mi ributterà, e avrà ragione; però se io offesi una volta l'autorità paterna, tanto più ho da guardarmi da offenderla la seconda. — Ed anco questo non fa una grinza, rispose Orazio abbottonandosi il soprabito fino al mento, io vado diffilato a parlare a tuo padre che si chiama? — Omobono... — È nome onesto: insomma, sta lieta, figlia mia, se il tuo padre non vorrà fare torto al nome, e spero non lo farà, avrai due babbi, diversamente uno oggimai non ti può più mancare. Fattosi insegnare dove avesse banco il signore Omobono Garelli, e saputolo, Orazio si condusse in certo vicolo angusto e buio, vicolo da banchieri, vicolo da usurai, dove il sole anco ne' giorni di estate pareva che passasse di rincorsa per paura che lo prendessero e gli tosassero i raggi; entrò dentro un portico umido, umide rinvenne le scale, i muri grondavano: la calce e i sassi tu avresti creduto sudassero dalla pena per gli scannamenti che toccava loro a vedere commettere ogni giorno là dentro. Salito al primo piano, gli occorse una porta con la imposta tinta colore di cenere, e lurida di materia viscosa al punto dove ponevano le mani gli avventori. Pare impossibile! Da cotesta sozzura cavano argomento i banchieri d'inorgoglirsi quasi altrettanto che i soldati si facciano per la bandiera lacera dal tempo e dalle palle. In cotesto momento la porta del banco del signore Omobono compariva aperta come quella dell'inferno; forse così operavano perchè passasse la grave puzza, che esalano per ordinario cotesti scannatoi, ed era tempo perso per due ragioni; primamente l'odore sottile così si è fitto nelle muraglie, che appena ne uscirebbe se da cima a fondo si scanicassero e si rintonacassero poi: in secondo luogo, nè ammonizione di odorato, nè di altro senso, e nè di tutti i sensi messi insieme varrebbe a trattenere l'uomo da penetrare là dentro. Mira il bue quando va al macello: egli nicchia, il poveretto, su la soglia, e punta la zampa, e s'ingegna a dare indietro, ma che gli vale? La corda lo tira, e relutante o no la mazzuola lo aspetta: ora la cupidità e l'interesse tirano gli uomini più e meglio, che la corda non tiri il manzo. Parte della prima stanza del banco del signore Omobono andava divisa al pari di tutti gli altri banchi da un assito, dietro il quale ruggiscono dalla fame, quasi bestie feroci, i commessi registrando i divoramenti nel libro _maestro_ del principale, mentre il diavolo per di sopra le spalle loro ne piglia nota nel suo iscartafaccio per trasportarli a comodo sul gran libro _maestro_ dello inferno. Orazio, alzati gli occhi per mirare che razza di cielo coprisse cosifatte spelonche, incontrò depositate su certe tavole casse colore di cenere col millesimo e la cifra del banchiere tinti in nero, onde non potè astenersi da pensare ai sepolcri dei Parsi, i quali costumano mettere in alto i cadaveri dei defunti; quantunque tra i sepolcri dei Parsi e queste casse mortuarie una grandissima diversità ci corresse, la quale era questa, che i Parsi ci mettevano i cadaveri, affinchè gli avvoltoi ne divorassero le carni, mentre in coteste casse gli avventori ci erano depositati ormai ridotti alle nude ossa. Di un tratto uno dei commessi affacciò il muso fra i colonnini, che incoronavano lo assito dentro il quale egli stava rinchiuso, e aperta la bocca guarnita di denti rari e acuti, vere lesine di osso, disse ad Orazio: — A lei, si diverta. E al punto stesso gli gettò un foglio, sul quale volgendo lo sguardo egli conobbe essere la nota del ragguaglio dei cambii tra piazza e piazza; però la rese subito, onde il commesso gentile, volendo divertirlo ad ogni modo, gli dette il prezzo corrente delle derrate che si vendevano sul mercato. Orazio alzò la mano, e involontario fece l'atto di cui si scaccia una mosca dal naso, ma non gli giovò, chè un sensale accostatoglisi gli disse in aria di mistero: — Se vostra signoria ha da impiegare partite di danari, io posso proporle un negozio _magnifico_; un mio avventore si disfarebbe di dieci ed anche di venti, volendo, ancora di trentamila fiorini di rendita austriaca.... creda, mio signore, che ci è da _realizzare_ alla liquidazione in fine di mese un _brillante_ benefizio... e tanto di colla mi riesce simpatica la sua fisonomia, che renunzio verso di lei alla mia mediazione. — Grazie! non ho moneta a dare. E considerando che costui si accingeva ad insistere, per tagliare corto rispose: — Anzi vengo per prenderne. Allora costui fece greppo come i fanciulli quando vogliono piangere, e senza pure salutare si allontanò. Subentrava un altro mezzano, che trattolo in un canto, gli bisbigliò dentro le orecchie: — Sono _incantato_ di vederlo scapolare dalle mani di cotesto imbroglione giallo di fuori e nero per di dentro; un rinnegato, sa ella?... un vero traditore della Italia: noi intendiamo servirla da patrioti, e _gratis_, ci s'intende, come si usa tra patriotti. Se desidera, noi possiamo provvederla di fondi piemontesi quanti desidera; sta in suo arbitrio scegliere: ce n'è del 1819, del 1831, del 34, del 48, del 49, del 50, del 51, del 60, del 61, ed altri se ne vuole. Negozii _serii_, negozii _solidi_, e per sopra mercato _patriottici_: perchè la patria, veda, mio signore, è tutto. Senta, e qui la voce già sì sommessa affievoliva fino al susurro: ci ho anco un altro negozio meno _serio_, in vero, e più _rischioso_, ma chi non risica non rosica... io non le sto ad accennare nè anco gli utili che ne deriveranno, perchè si sperano superiori ad ogni previsione, e a dirne solo mezzi temerei incorrere nella taccia di _esagerato_... io che ho nome di _positivo_! Bisogna però aspettare che la Italia sia tutta libera... tutta unita... in una parola posso servirla delle cartelle dello imprestito Mazzini... — Mi duole veramente, rispose Orazio, ch'ella abbia preso un granchio che le morderà le mani, perchè ha da sapere che io sono uno ispettore di polizia venuto di fresco da Venezia, onde in nome di sua maestà cattolica.... — In questo caso sono lieto di essere dei primi a fare la conoscenza del mio superiore, poichè mi trovo onorato di servire... — Da spia? E l'altro gli stette davanti nell'atto della parentesi che chiude il periodo; poi fatto un risolino da iena quando ha disotterrato il cadavere, girò sui calcagni, e andossi con Dio, o piuttosto col diavolo. Partito quello, eccotene un altro; e poi gli uomini hanno il coraggio di dire fastidiose alle zanzare; questo si pose innanzi tratto a screditare, secondo vuoi ragione, gli altri due, e i negozii che proponevano; egli si esercitava al collocamento di _azioni industriali_; ne aveva di ogni maniera, strade ferrate di tutto questo mondo, e credo qualcheduna eziandio dell'altro, di ferriere, di cartiere, di gassi, di conce, di saponiere, di bigattiere, di gualchiere, perfino di fabbrica di pallottole di giaggiuolo per mettersi dentro ai cauterii, insomma un diluvio; e se una era buona, l'altra non canzonava. Orazio se lo levò d'intorno confidandogli a muso tosto che anch'egli veniva per proporre al signore Omobono di pigliare parte alla impresa di estrarre l'olio dai gusci delle chiocciole. Rimasto solo, Orazio si volse a considerare il via va e il via vieni dei miseri montoni, che entravano nella spelonca di Polifemo; quinci udivansi belare prima in suono di stizza, poi in suono di pianto; per ultimo tacevano, ed indi a poco si vedevano uscire tosati fino alla pelle; parecchi grondavano sangue, e ad onta di ciò pareva che avessero per bazza di non averci lasciato la carne e l'ossa. Quando venne la volta di Orazio egli entrò, e secondo gli dettava la sua indole già si poneva a inventariare ogni arnese della stanza, ma non gliene concesse balìa il signore Omobono, il quale con voce arrotata gli disse: — Che volete? Orazio allora gli ficcò gli occhi dentro gli occhi, e glieli vide neri e lustri così che parevano fatti davvero di bitume giudaico: giallo nella faccia con la barba verde pari a lucerna di ottone, la quale per difetto di pulitura abbia preso il verderame: altre cose avrebbe egli considerato, ed altre ne riferirei io, se il banchiere insistendo non avesse replicato: — Sbrigatevi, il tempo è moneta; che volete? — Avrei da parlarvi... — Si capisce... e vi ascolto. — Da parlarvi di affari gravi.... — O gravi o leggeri, spero di poterci attendere, se ci troverò il mio utile senza ricorrere ad altri. — Però vi avverto che non spettano al banco, bensì alla famiglia.... — E li chiamate gravi? — Mi pareva che la famiglia dovesse premere.... — Avete creduto pessimamente; prima di tutto bisogna attendere agli affari. Chi prepose agli affari le altre faccende capitò male, e Archia informi, che ne rimase morto. Dunque adesso non posso distrarmi dai miei negozii; stasera alle sette e trentacinque minuti vi attendo a casa; informatevi in banco dove sto di casa, colà udrò quanto avrete a parteciparmi: addio. E mosso due o tre passi di contro al signore Orazio, egli piegò bruscamente il capo a mo' di montone che si apparecchi a cozzare; il signore Orazio per non ricevere la capata nel petto ebbe a indietreggiare; il signore Omobono quanto l'altro cedeva terreno, egli ne acquistava sottentrando veloce, e rinnovando lo inchino minaccioso, sicchè da un lato dando indietro, dall'altro incalzando, il signore Orazio sbalordito, senza quasi accorgersene si trovò spinto fuori della stanza del banchiere. Orazio, comecchè gli paresse duretto, si erpicò per le quattordici scale, che menavano alla casa della signora Isabella, e quivi con esso lei si trattenne consolandola fino a sera. _Monsieur Horace Magni_, gridò un servo vestito di assisa celeste coi calzoni corti e calze di seta, sollevando una portiera di velluto cremisino, e Orazio si trovò petto a petto del signore Omobono: visto appena ch'ei l'ebbe, disse nel suo segreto: _quantum mutatus ab illo_, come Enea quando gli apparve Ettore in sogno; però il signore Omobono era mutato in meglio, il rasoio aveva se non tolto, almanco diminuito l'odiato verde della barba, e la fama dell'uomo che stava per entrare gli aveva sospinto verso le guancie una sfumatura di vermiglio, che gli uomini intendenti delle varie qualità di rosso use a comparire sopra le guance dell'uomo, avrebbero battezzato per un crepuscolo della vergogna: forse di ciò era niente, e lo si doveva attribuire piuttosto all'agitazione che il pasto suole mettere nel sangue; ad ogni modo un po' di rosso su la faccia ei ce lo aveva. La sua fisonomia arieggiava alla lontana quella della sua figliuola, io mi figuro come Lucifero san Michele, però che a fin di conto eglino erano fratelli, e tutti figliuoli del medesimo babbo; e ciò tanto più di sicuro in quanto che il padre gli avesse creati tutti da sè senza lo aiuto di altra creatura, e, tranne i suoi, senza miscuglio di altri ingredienti. Il signore Omobono con perfetta urbanità accogliendo Orazio così favellò: — Mi sento lieto ed onorato di ricevere nelle mie povere case (e qui girò intorno gli occhi come per incombensarli di fare lo ufficio di Cicerone in cotesta sala riboccante di lusso insolente) un uomo, che pel suo ingegno e per le sue virtù empie di giusto orgoglio la Italia. Non si poteva dire cosa più tronfia, e poi venne accompagnata da tal suono di voce, che parve cugino a quello che adoperano i ciarlatani in fiera, quando vendono l'orvietano ai contadini, onde Orazio un po' rotto rispose: — Io non credo, mio signore, io non credo che sieno in me le belle cose, che voi vi compiacete immaginare: ma quando anco per supposto ci fossero, non meriterebbero lo elogio che, mercè vostra, mi compartite; non lo ingegno, perchè viene da Dio ed ei lo impresta agli uomini; non la virtù, perchè è dovere: il galantuomo pare bestia rara soltanto nel paese dei ladri. E di questo discorso la metà era anco troppa per mandare a male un trattato ottimamente imbastito; figuratevi il nostro non anco incominciato. Omobono di subito annuvolatosi, dopo avere accennato a Orazio che sedesse, si assettò pure egli e soggiunse: — Signore, apprenderò volentieri la causa alla quale devo l'onore della vostra visita.... — Voi avete una figliuola.... — Io? No. — Come! non avete una figliuola, se me lo ha detto ella medesima? — In questo caso ella ne sa più di me... e può darsi che i figliuoli in fatto di derivazione conoscano più addentro che i padri possano ragionevolmente affermare. — Questo è un discorso fuori di squadra, sbieco addirittura. Non aveste moglie? — Io l'ebbi. — E non l'amaste viva? — L'amai con tutto il cuore. Orazio all'udire la parola cuore sopra le labbra di Omobono gli vibrò uno sguardo di sotto in su che parve una sassata. — Ed ora morta l'odiate? — Anzi l'amo due cotanti di più. — E perchè, dunque, vi attentate oltraggiarne la memoria? — Signore, voi avete moglie? — Non l'ebbi mai. — Ammogliato capireste a volo quello che scapolo non intenderete nè anco coi commenti. Due sono i giorni dolcissimi della vita maritale; il dì che la sposa entra in casa co' suoi piedi, e l'altro che n'esce portata in quattro. Comprendereste eziandio di un tratto come tre via dodici fa trentasei, che si può nel matrimonio dubitare di parecchie cose senza offendere la fama dei vivi nè la memoria dei morti, e nè anco a scapito dell'affezione che i coniugi hanno a conservare tra loro. Al signore Orazio parve bene affrettarsi a uscire fuori da cotesti ragionamenti come da un sentiero melmoso; epperò ricondusse il discorso sopra la signora Isabella. — Dunque voi avete una figliuola? — Io la ebbi. — La quale per sua somma sciagura provocò il vostro sdegno... — Sdegno! no; vi paio sdegnato, io? Ella tolse marito senza il mio consenso, ed ella se lo tenga. — Il suo marito è morto. — Sì, mi pare che qualche cosa come di morte mi venisse all'orecchio. — Ve lo scrisse ella medesima e ve ne chiese perdono. — Perdono! Col domandare perdono, caro mio, non si salda la offesa meglio che con la volontà di pagare non si saldi il debito. — E la vostra figlia ha bagnato con le lacrime il pane del suo pentimento; ella ha patito la fame, ella per iscaldarsi le dita, per continuare il lavoro notturno non ha avuto altro calore, eccetto quello del proprio fiato... miserie che l'animo viene meno a riferire soltanto... perdonate, signore, al vostro sangue. — Io non perdono mai. — Oh! non lo dite; pensate che guai a me, guai a voi, se un dì fosse risposto a noi altri in quel modo! Che abbiamo noi a offerire a Dio in espiazione delle nostre colpe se non il pentimento? Che può meritarci la salute dell'anima nostra se non il perdono di Dio? — Già! sta in chiave; il diavolo quando invecchia si fa eremita. Voi siete diventato beghino; ho indovinato? — Io mi professai sempre cristiano; ed ho creduto di favellare con cristiano: avrei per avventura sbagliato? — O che vi siate apposto al vero, o immaginato il falso non fa il caso; questo tenete per fermo, che il pentimento di cotesta donna non mi muove; circa al perdono le tornerà più facile ripescare una spilla caduta nel naviglio grande, che recuperare la mia grazia; la miseria è pena condegna alle sue colpe. — Ed anco colui, che avesse consigliato questa colpa a danno degli altri, credete che avrebbe diritto di mostrarsi tanto implacabile? Tu sarai misurato con la tua misura, lo dice il Vangelo. Ogni vermiglio scomparve dalle guancie del signore Omobono, che ridivenne tutto giallo; tacque alquanto; poi con voce repressa riprese a dire: — Signore, posso servirvi in altro? — Io era venuto principalmente per questo, ma non solo per questo. Dovete sapere che io ho un nepote... — Me ne congratulo con voi.... — Questo nepote mi amareggiò co' suoi trascorsi la vita. — Me ne dolgo con voi. E voi lo avrete senza dubbio maledetto? — No signore, l'ho perdonato. — E' sembra che siate di facile contentatura. — Non tanto; io l'ho punito, e nel punirlo ho pensato come del suo fallire parte n'era colpa egli, parte il bollore del sangue giovanile, parte il reo costume e i tempi perversi, e parte io. — Voi? — Sì, signore, per colpa mia, perchè non essendo sortito alla dignità di padre, non ebbi in dono l'arte di prevenire o di provvedere, d'insinuarmi nel cuore e d'ispirare riverenza, insomma o non volli, o non seppi esercitare tutte le qualità di padre: questa, e non altra, è la mia parte di colpa. Però come a parte della colpa io mi offersi a parte della pena; e se abbia sofferto nella trepidazione di morire privo di uno del mio sangue che mi chiudesse gli occhi, Dio, che tutto vede, lo sa. Quanto al nipote, deliberai che se un giorno mi tornasse pentito e corretto, io gli avrei aperto le braccia come se non avesse mai errato; la Provvidenza mi ha benedetto con questa grazia, e la mia anima ne ha sentito un giubilo tanto grande, che pari, io penso, non avrei mai provato se il mio nepote non si fosse mai dipartito dal retto cammino: e qui devo dirvi che rimase piacevolmente umiliata la mia presunzione, perchè io opinava che la parabola del figliuol prodigo andasse un po' carica di colore, parendomi strano che il padre avesse più gioia del figliuolo colpevole e pentito, che dell'altro rimasto perfetto; ma a prova ho conosciuto che Gesù Cristo in questa come in ogni altra cosa ha ragione — sempre ragione. — Tutto ciò è bello, e, se volete, anche sublime; quanto a me, scusate, io l'ho per barocco, che mi sarei aspettato stasera piuttosto farmi frate, che udire discorsi così garbati e religiosi, massime dal signore Orazio, che gode per le cinque parti del mondo riputazione di empio, ed io credeva, vi chiedo scusa da capo, non affatto demeritata. Però come in tutto questo entri io veramente non so vedere. — Eccoci alla stretta; con un po' di pazienza, non dubitate, tutti i nodi arrivano al pettine. — Mio nipote bandito dalla casa paterna venne a Milano, qui conobbe Isabella; in grazia di questa cara creatura io ringrazio il giorno e l'ora, che lo mandai fuori di casa; dacchè, sua mercede, egli ritorni il più degno figliuolo e utile cittadino e perfetto gentiluomo, che si potesse mai desiderare. — Se altri che voi mi venisse a contare di questa sorte novelle, io terrei che si pigliasse gioco dei fatti miei; che Isabella fosse un fiore di virtù me n'era accorto anco troppo, ma che fosse diventata una _via del paradiso_ non me lo sarei a mille miglia aspettato; tanto meglio; pigliatevela per voi, fatela rilegare in marocchino, dorare nelle intestature e tenetevela su lo inginocchiatoio per vostro uso, quando vorrete dare innanzi un passo sul cammino della perfezione. — Il giovane prese ad ammirarla (continuò a dire Orazio, senza badare alle canzonature di Omobono) come cosa santa, e voi sapete, o forse non lo saprete, e ve lo dirò io: nel cuore dei giovani l'ammirazione trapassa presto ad un sentimento più tenero, e mio nepote amò vostra figlia. Ora, ed anco questo è di natura, le donne gentili di leggieri rimangono prese pei loro convertiti, ed anco _Amore a nullo amato amar perdona_ ha detto il massimo dei nostri poeti, che si chiama Dante, come voi avrete qualche volta sentito dire; insomma i giovani si amano e si vorrebbero congiungere in matrimonio; circa al mio consenso io lo do col cuore e con la lingua, e se potessi con tutti i sentimenti dell'anima e del corpo, ma ciò non basta; la figlia vostra per dovere, noi altri per convenienza imploriamo il vostro. Io protesto solennemente di non avere mai visto il diavolo, e ormai vivo sfiduciato di vederlo; però mi immagino che egli avesse a ridere come il signor Omobono rise, alloraquando un santo casca in tentazione; di fatti balenando un lampo di malignità esclamava: — Ella è una dote, mio rispettabile filosofo, che voi siete venuto a uccellare? Che Orazio fosse filosofo lo diceva la gente, quanto a lui non ne sapeva nulla, bensì sapeva che veruno gli aveva detto una ingiuria in faccia impunemente, sapeva che in gioventù aveva avuto le mani più lunghe delle parole, ed anco adesso in età matura non gli erano diventate più corte: sentì pertanto farsi un tuffo il sangue, in volto diventò livido e sbalzò dalla seggiola co' pugni stretti, ma di repente gli si affacciò alla mente la immagine di Isabella, la quale, pari alla stella del mare che al suo apparire abbonaccia la tempesta dei venti, ebbe virtù di placare su lo istante la collera di Orazio; ond'ei tornò a sedersi, e quando gli parve essere abbastanza padrone di sè, si levò da capo e pacatamente disse: — Voi vi siete ingannato, signor Omobono — e la prova è questa. — Qui si trasse dal portafogli due scritture in carta bollata, le quali porgendo al signore Omobono soggiunse: — piacciavi leggerle, e siatemi cortese di serbare l'una e rendermi l'altra firmata da voi. Omobono prese la prima, che gli veniva porgendo Orazio, e lesse: «Io sottoscritto, in contemplazione del consenso, che il signore Omobono Compagni da al matrimonio della sua figliuola signora Isabella col mio nepote Marcello, dichiaro di mia propria volontà di rilevare il prelodato signore Omobono Compagni da qualunque domanda di dote o di alimenti potesse in ogni tempo essergli mossa dalla sua figlia signora Isabella, obbligandomi di certa scienza e libera volontà di costituirle l'una, e provvederla degli altri col mio patrimonio....» — Egregiamente! ci è la sua brava firma, la recognizione del Notaro, il tutto in regola. Signore Orazio, voi siete una perla di uomo. Ma perchè dunque non me ne avete parlato in banco? Questi sono affari, anzi affaroni, così Dio volesse che ogni giorno me ne capitassero dei simili.... — Leggete questo altro. «Io sottoscritto Omobono Compagni, desideroso di annuire alla richiesta che mi muove con rispettosa sommissione la mia figliuola Isabella, presto ad ogni fine ed effetto di ragione il mio consenso, affinchè conduca per suo legittimo sposo il signor Marcello del fu Giandonato Magni possidente domiciliato a Torino; e detto mio consenso accompagno con la mia paterna benedizione, e con gli augurii della loro prosperità.....» — Per eccellenza! augurii e benedizioni a carrate, purchè non si tirino fuori quattrini. Chiamò il servo, e gli ordinava portasse il calamaio; il servo glielo recò sontuosissimo di argento dorato, nè forse da calamaio di argento uscì mai inchiostro per firma così turpemente abbietta e avaramente snaturata. — Resa la carta, il signor Omobono inchinatosi disse ad Orazio: — Posso servirvi in altro, signore? Ciò fu profferito col più bel garbo del mondo e con voce da disgradarne la melodia dell'arpa eolia, e non pertanto tradotto in lingua volgare significava così: — Levatevi dinanzi agli occhi miei, che voi m'avete fradicio; forse anco peggio. Orazio accennò col capo non avere altro, e rizzatosi in piedi, preso il capello, salutava e partiva. Omobono, o sia che l'allegrezza di essere liberato dal fastidio di dotare ed alimentare la figliuola lo levasse di sentimenti, o sia, come credo piuttosto, per istrazio del signore Orazio, recatisi in mano due doppieri, e quelli incrociati, lo precedeva rischiarandogli il cammino fino alle scale. Se fu suo disegno di dare la berta a Orazio, bisogna dire che ne rimase scottato fino all'osso, imperciocchè questi fingendo di stare sopra pensiero non mostrò accorgersi dell'atto servile, glielo lasciò compire fino all'ultimo, e sul punto di congedarsi, tratto fuori la mano di tasca, gli porse uno scudo; senonchè qui facendo le viste di rientrare in sè, disse: — Oh! perdonate, vi aveva scambiato per un servitore. Onde, come vedete, dall'una volta che si erano visti e trattenuti insieme questi due uomini avevano cavato argomento di detestarsi per due vite lunghe come quelle di Matusalemme. E' non ci ha dubbio; quello che era avvenuto fra il signore Orazio e suo padre umiliò profondamente la signora Isabella, l'afflisse, la fece piangere, ma per ultimo tanto più si persuase che sarebbe un mostrarsi ingrata alla Provvidenza, se ostinandosi a proseguire un affetto che la respingeva, non avesse accolto due cuori, ch'ella nella sua misericordia le mandava. Epperò alla dimani Isabella in compagnia di Orazio se ne andò a Torino: colà rompendo gl'indugi, in breve ora venne apparecchiata ogni cosa necessaria a celebrare l'atto del matrimonio. Orazio, secondo lo persuadeva la sua natura bislacca nello accompagnare in chiesa il nipote, gli andava susurrando dentro le orecchie: — E va in regola, ti ho cavato di prigione per menarti al patibolo. Io vorrei porre qui una similitudine, ma pendo in sospeso se la metto o non la metto, però che dubiti forte di sentirmi sgridato dai maestri miei, i quali mi appunteranno di certo che male si accorderebbe con la semplicità dello argomento: ora però che ho pagato la gabella al giudizio dei maestri miei mi avventuro a porla. Come l'ape immersa nel calice dei fiori attende alla dolce fatica, immemore del sole che si leva o che tramonta, così questi miei personaggi, chiusi negli affetti domestici, per un tempo non curarono sapere, anzi non pensarono nè anco se il mondo durasse tuttavia fuori di loro. E' fu una vita tutta baci, tutta risi, e se piansero, ell'erano lacrime di celeste voluttà; rugiada divina, che raddoppia il profumo delle gioie dell'anima! Taluno ripiglia l'uomo felice di avaro perchè nasconde il tesoro della sua contentezza: veramente così l'uomo quando è infelice espone indarno agli sguardi altrui il fascio delle proprie miserie, che non è giusto accusarlo di serbare la sua gioia per sè. E bisogna anco dire che il felice accomunerebbe le più volte invano le caste gioie dell'anima; imperciocchè un cuore non senta dolcezza di altro cuore che sia, se prima di tutto non si disponga alla grazia di Dio, allora egli vi sparge con mano benefica il seme della pace, e ne lascia intera la messe ai suoi figliuoli in caparra di quella infinita che serba loro nei cieli. Due anni trascorsero, e non si vedeva comparire frutto da cotesto matrimonio; per quanto un volto umano può prendere la somiglianza di un punto interrogativo, la faccia di Orazio domandava ora a questo, ora a quell'altro sposo: ed ora che figure sono queste? La faccia sola però interrogava, che quanto a lingua, anzichè farla parlare, se la sarebbe svelta. Ma anco qui vennero consolati, ed un bel giorno Isabella gittandosi in grembo allo zio, e nascondendo la faccia nel seno di lui, gli susurrò sommesso nelle sue viscere agitarsi una creatura. Orazio le cinse con mani tremanti il capo e lo baciò attorno attorno, esclamando: — Fossero stelle io te le darei del pari, e del pari te le meriteresti, figliuola mia. Grazia del cielo e tua mercede, hai messo il colmo alla tua perfezione di donna: perchè che cosa è mai una donna senza prole? Per leggiadra ch'ella sia, e di costumi santi e amorosa, parrà sempre un fiore senza odore. La donna senza prole somiglia alla camelia; questa superbisce nella pompa delle sue foglie bianche, o vermiglie, o incarnate, o variegate; si profferisce a tutt'uomo, bazzica le liete brigate, frequenta i festini, folleggia e muore senza compianto come senza memoria; fiore di baccanale! fiore da femmina senza vergogna come senza figliuoli! Perano le camelie! Ma la donna giocondata di figliuoli è pari alla rosa, che lieta dura su la spina nativa quivi educando i suoi bottoncini, e allorchè il tempo l'avvizzisce, lascia le sue foglie rimedio ai mali, sollievo ai sensi ottusi, sicchè sovente, quanto più il verno si discosta dalla dolce stagione la rosa ti manda all'improvviso un saluto di odore, che ti ricrea il corpo e ravviva l'anima richiamandola ai dì della primavera, a quelli della gioventù, primavera anch'essa, ma che passata una volta, non si rinnova più! Non importa, purchè si rinnovi nei figli o discendenti nostri, ben venga la memoria della irrevocabile primavera. Vi ha chi rinfaccia lo studio di procreare nipoti, e lo calunnia come istinto di animo vanitoso o superbo; le sono grullerie, per non dire peggio, Isabella. Innanzi tratto la creatura umana propagandosi salda il debito di riconoscenza a cui le dette la vita; inoltre esercita a benefizio dei figli le cure di nutrirli e allevarli, che i genitori esercitarono in pro suo, e come chi si versa in cose male diventa iniquo, all'opposto chi si trattiene fra cose buone riesce buono; il cuore nostro, Isabella mia, vedovo di affetti è una lira senza corde, uno anello senza pietre, e comecchè si possa amare scevri del fine di procacciarsi figliuoli, questo amore, come ispirato più dalla Venere terrena che dalla celeste, o dietro sè lascia amaro, o per lo manco passa senza traccia di dolcezza; perchè se amore non si trasforma muore; egli dura immortale, se a mano a mano ch'ei muda le penne terrene si circonda di raggi attinti alla fiamma dell'anima. Tu come donna leggiadra potrai scadere affaticandoti nelle cure materne, nel desiderio del tuo marito; non isgomentarti; per dieci che tu perda a questo modo, acquisterai cento di riverenza e di adorazione come madre. Per ultimo la creatura umana riproducendosi risponde allo scopo della creazione: vuol'egli sedere a mensa e non contribuire alla spesa? Non vanità nè superbia ci hanno a movere nello studio di procreare figliuoli, bensì la idea di non morire intieri. La vita è una battaglia: da secoli e secoli noi combattiamo la tirannide e l'errore; non cessarono i giorni delle prove, succederanno altre contenzioni, altri patimenti; ora se in cotesti tempi che io vedo con gli occhi della mente, il mio nome sarà chiamato come quello di un soldato, che non mancai mai alle battaglie della umanità, e se un uomo uscito dal mio sangue risponderà gridando: presente! scavatemi quanto volete profonda la fossa, copritemi di terra quanto vi piace, io non morirò intero. La vita è un cammino verso la perfezione: ogni nome porta la sua pietra per la fabbrica di questo tempio; certo la opera si conosce lunga; la calce che lo mura spesso è spenta col sangue del popolo; talvolta eziandio la opera rimane interrotta, o pare, ma io credo fermamente che un dì sarà compita, e vedo in cotesto tempio raccolta la umanità a lodare Dio padre: sciolta dalla servitù e dell'errore si riconosceranno intero padre e figliuoli e cuore palpiterà su cuore senza prete fra mezzo. In quel giorno, se una voce che sia del mio sangue si aggiungerà al coro delle laudi dell'Eterno; se un raggio della benedizione celeste si poserà sul capo di uno dei miei discendenti, esulteranno le mie ceneri, e non potendo in altro modo manifestare il proprio compiacimento, io penso che lo faranno rendendo più verde l'erba che le copre. La presenza dei figli rende i buoni migliori, rispettivi i tristi, che anco il demonio si periterebbe a guastare questi fiori d'innocenza. Cristo amò i fanciulli; non senza consiglio i pittori cristiani rappresentano i santi e le sante circondati da pargoletti, poichè come presso i gentili l'olezzo dell'ambrosia dava indizio della presenza del Nume, presso di un nembo di angioletti annunziano prossimo Dio. Grande ed arcana è la gioia di considerare come l'intelletto nei sensi dello infante, massime negli occhi, si riveli a mo' del giorno per il cielo sereno in un mattino di estate; prima da oriente appare un grigio perlato, di subito si muta in bianco, quindi a breve in rosso, in rancio, in croco: all'improvviso spunta il sole e in un attimo la gloria dei suoi raggi si diffonde per lo emisfero, che di lui s'innamora; ma non sono questi unici i diletti che reca un pargolo; ce ne ha altri ancora; che io vo' pur dire, e questi spettano affatto alla materia: io confesso sentirmi gratamente commosso dal lato della seta finissima dei capelli di oro, dal calore pregno di vita di coteste rosse guancie, dalle carezze di quelle manine più morbide della piuma del cigno; renunzio a descrivere la delizia un po' troppo acuta, che suscita il riso del pargolo quando la mamma in un estro di amore materno lo leva in alto come per accostarlo meglio a Dio, o quando il babbo lievemente vellicandolo nel mento, gli procura il piacere, che l'uomo forse unico gusta senza scontarlo in rimorso o in dolore. E questo Orazio disse tutto di un fiato, con tanta efficacia di gesti che Isabella, Marcello e Betta ne rimasero attoniti e commossi; anzi quel benedetto Marcello pure piangendo, per nascondere il pianto, si fece in furia a pigliare il cappello mostrando uscire, e siccome il zio gli corse dietro gridando: — E ora dove vai? — Mi lasci andare, che io vo a pregare l'arcivescovo che non impegni il pulpito della cattedrale per questa quaresima. E Orazio stringendosi nelle spalle soggiunse: — Non date il santo ai cani e le margherite... ecc.: però Isabella, piglia tutto il mio discorso per te. Nè qui solo si restrinsero i benefizii derivati dalla presenza d'Isabella in cotesta casa, chè Orazio, di Marcello non se ne parla nè meno, mano a mano addomesticossi con lei; smise la stramberia del discorso, e qualchevolta degli atti, onde sovente Orazio ebbe a dire: — Dacchè mi si fece ospite Minerva, è mestieri che tutto intorno a lei pigli le forme regolari e severe del Partenone. Faceva ad un punto tenerezza e ilarità come Orazio, messi in un canto i suoi libri di politica, di storia e di poesia, si circondasse di trattati di medicina, e quelli giorno e notte leggesse per attingervi norme a mantenere sana l'amatissima figlia; quanto a tenerla divertita già non aveva bisogno di pensarci, pure ci pensava e molto. La mattina si levava per tempo a remuovere dal viale qualche ghiaia male fra le altre sporgente, perchè quando sul mezzodì ella scendeva a passeggiare, a caso non le offendesse i piedi; egli moderava la luce dei lumi, egli solerte persecutore di ogni effluvio odoroso che pungesse più acuto della violetta o dell'ireos; che più? Prima che sonassero qualche musica in qualche camera a Isabella, egli andava a sentirla provare fuori di casa e là dove gli paresse in qualche punto un po' troppo vibrata, egli per amore dei nervi della figliuola faceva, se potevasi, moderarne i tuoni; diversamente ne sceglieva un'altra; per lo più stava al Bellini, vero Tibullo dell'arte dei suoni. — Povero vecchio! Egli era un miracolo di amore; veruno, e per avventura neppure egli, avrebbe sospettato che la sua anima serbasse tanto tesoro di affetto. Finalmente venne il giorno in cui da un capo all'altro in cotesta casa fu inteso dire: un figliuolo è nato: ridevano i servi, e Betta come gli altri; poi saltavano, e palma battevano a palma. Per istrano caso Orazio e Marcello si abbandonarono l'uno nelle braccia dell'altro, e piansero dirotto così che Isabella con piccola voce domandò: — Signore, questo pianto mi dà cattivo augurio per la mia creaturina.... — Oh! no... no.... rispose Orazio asciugandosi gli occhi, io rido subito.... figliuola mia... io piango... io piango... perchè quando il piacere è troppo, vedi... non si può sopportare... e diventa quasi dolore. — E qui da capo proruppe in pianto. Lacrime dì gioia e pioggie di primavera accrescono la giocondità del volto e dell'erba che bagnano, sicchè sfogato alcun poco cotesto ardente affetto, essi non avrebbero, Dio li perdoni, permutato un'ora della gioia presente con tutte le future del paradiso. Orazio entrava venti volte l'ora nella camera d'Isabella, e se trovava il pargolo sveglio non rifiniva di supplicare la puerpera di posarglielo un po' su le braccia: e quando ce lo aveva, era più contento di uno imperatore che stringa nella mano la palla dello impero. — Babbo, me lo renda, via, ella me lo sciuperà... — Io? — Eh! che ci è da fare le meraviglie? Forse non mi sciupò anche il mio Marcello? — Sì, ma allora non possedeva in casa la _via del paradiso_; ora caso mai si sbagliasse, presto tu ci rimetteresti sopra il buon cammino. — Quando lo battezzeremo noi? — Quando vorrai. Che ne dici Marcello? — Mettetevi d'accordo voi altri; per me quello che volete voi voglio io. — Direi da qui a tre giorni. — E perchè aspettare tanto. Isabella? — Perchè... perchè... io penso... io credo che sarebbe bene avvertire mio padre della nascita del suo nipote... — È giusto, e lo farò subilo, ma come entra lo annunzio collo aspettare tre giorni? — Non so... vorrei m'indovinasse... sono figlia alfine... ed egli padre mio sempre... e il torto è mio. Ho capito; sentite figliuoli; io proporrei di scrivere al signor Omobono annunziandogli che fra tre giorni battezzeremo la creatura; anco, Isabella, se lo vuoi, potremo aggiungere che tu lo preghi a darti la consolazione di venirti a vedere; caso mai dentro cotesto termine non comparisse, senza lui abbiamo fatto il matrimonio, e senza lui battezzeremo il figliuolo. La proposta del signore Orazio venne con gradimento di tutti accettata non solo perchè ottima, ma anco per essere l'unica, che la congiuntura offeriva. Allora nell'animo d'Isabella incominciò a manifestarsi una trepidazione, che non era senza danno della sua salute; ad ogni romore di carrozza che si udisse dalla strada allibiva, voltava sollevata la faccia verso la porta, e poichè quinci non vedeva comparire persona sospirava. — E lettere da Milano, ella interrogava, ne sono venute? — Non se n'è viste ancora. Così passarono tre giorni; cadde la disputa se i tre giorni avessero a decorrere interi, oppure se dovessero reputarsi compiti nella sera del terzo giorno: prevalse la prima opinione, come quella che forse era più giusta, e perchè Orazio, secondochè gli persuase la gentilezza, non ci volle insistere sopra; ma sul termine portato dal quarto giorno non vi era modo da gavillarci sopra. Lieta sì ma pure offuscata da tenue velo di malinconia, Isabella sovvenuta da Betta si accinse a detergere e a vestire la sua creatura; e vi so dire io se fossero sfoggiati a belli i guancialetti cospicui per trine, per ricami e tutti infioccati di nastri di raso; davvero cotesta faccia vermiglia in mezzo a bianchi pizzi se non rassomigliava per lo appunto, ricordava il bottone della rosa brizzolata dalla brina. Vestito che lo ebbe, Isabella baciò il pargolo, lo ribaciò, tornò a baciarlo ancora, e poi lo commise nelle braccia del signor Orazio; sentiva in questo momento la povera donna sorgersi in petto una voglia infinita di sospirare, ch'ella però valse a reprimere fino al punto di convertirla in un lungo respiro. Orazio col pargolo su le braccia disse: — Ed ora qual nome gli daremo noi? — Orazio, disse Marcello. — Orazio, soggiunse Betta. Isabella piegò il capo, e non disse nulla, per la quale cosa Orazio a lei volgendo il discorso riprese: — E la mia figliuola non aprirà bocca in occasione tanto solenne? — Sono una reietta da casa mia; poichè mio padre non vuole accettare me nè il figliuolo mio, è ragione che io ed egli siamo tutti e unicamente vostri. — E noi non ti respingeremo mai, se tu non respingi noi, stanne sicura, Isabella: solo dimmi se ti rincresce o no che il tuo figliuolo porti il mio nome. Su, parla franca... — Come vuole che mi rincresca? Solo avrei desiderato ne portasse un altro, o almeno due... mi compatisca, sa!... ma adesso che mio padre lo rifiuta... lo vedo ancora io... non è possibile... Orazio considerando che il colloquio affliggeva Isabella, reputò opportuno troncarlo, ed uscì per andare in chiesa con la balia, il pargolo e Marcello. Forse potevano avere scorso metà della contrada, quando videro venirsi incontro un'altra carrozza tirata da quattro cavalli stimolati a correre dallo strepito delle fruste dei postiglioni; allora il signore Orazio, divenuto timido peggio di una femminuccia, cavò il capo fuori dello sportello per avvertire il cocchiere di scansarsi, ma il cocchiere non ebbe bisogno di farlo, imperciocchè si udì dall'altra carrozza una voce che disse: — Ferma! E subito dopo si aperse, uscendone a precipizio un gentiluomo vestito di nero. Orazio lo riconobbe, e a posta sua fatta fermare la carrozza, ne scese pure egli. Il sopraggiunto gli mosse incontro dicendo: — Signore Orazio, eccomi presente ad accettare lo invito.... — Signore Omobono, è troppo tardi. Gl'idi di marzo sono venuti.... — Ma non passati. — Anzi venuti e passati. — Signore Grazio, voi che fate professione di cristiano vogliate ricordarvi che Gesù Cristo accolse l'operaio della sera col medesimo viso col quale accolse quello della mattina, e li giudicò meritevoli di mercede pari. — Signore Omobono, io ricordo ogni cosa, ma vedete Gesù Cristo era Gesù Cristo, ed io son Orazio; voi non siete un operaio, bensì il signore Omobono, che non può mutare in buono uomo; e poi, a dirvela all'aperta, quella degli operai era una parabola, nè qui si tratta di piantare vigna, sibbene di battezzare un figliuolo. — Oh! allora esclamò il signore Omobono levando ambedue le mani al cielo, la troppa felicità vi ha indurito il cuore, come a me la troppa ricchezza: perchè respingete l'assetato? Datemi un sorso della vostra felicità... Signore Orazio, signore Orazio, pensate che l'uomo può essere avaro non di danari soltanto. Anco voi come gli altri!.... Vi giudicava diverso. — Tolga Dio, rispose Orazio, che io vi compaia minore della estimazione che voi fate di me; nè questo dico per superbia, no davvero, ma perchè chi tolse il carico di custodire la onestà ha obbligo di operare in guisa che per colpa sua non iscapiti di reputazione, ed io tuttochè indegno, questo carico me lo sono tolto. Venite dunque, voi siete padre d'Isabella, e questo è sangue del vostro sangue: voi siete più prossimo a lei per parentela; io mi contenterò di starle più prossimo per amore... che se vi ci accosterete come me, non io... non io ve ne porterò astio... volendo sperare che Isabella abbia in sè tanto affetto da consolare ambedue. — Ed ella lo possiede in copia da bastare anco a me, mio caro zio. — Sicuramente che lo possiede! E chi si attenterebbe a negarlo? Ah! capisco... ho detto voglio sperare; e' fu un discorso fuori di squadra, ella pena a amare quanto il sole a riscaldare. — Il nome della creatura quale ha da essere? interrogava il prete con voce che sembrava si fosse fatta imprestare da qualche raganella, che suona l'uffizio nella settimana santa, allorchè le campane stanno legate — e avvertano bene a scegliere nomi di santi che si trovano sul calendario romano, perchè questo mal vezzo di pigliare nomi di gentili, i quali per certissimo andarono tutti a casa del diavolo, io non potrei patire... gli avviso che non mi troverebbero arrendevole fino a questo punto. — Ma entrò a dire il signore Orazio, il nome di questa creatura aveva ad essere Orazio... e mi sembra che sia un nome ortodosso come qualunque altro, che gode il benefizio di trovarsi sul calendario romano... — Non dico diversamente... e può benissimo battezzarsi col nome di Orazio. — Però dubito forte ch'ei possa ormai battezzarsi col nome di Orazio. Il curato lo guardò sbieco per di sopra gli occhiali, sospettoso che avesse patito ai mezzanini. — E dunque come si chiamerà egli? — Non costuma che il battezzando pigli nome dal compare? — Giusto; massime poi se il compare sia parente. — Dunque a voi, Omobono, voi siete il compare del vostro nipote; e sì dicendo gli pose fra le mani il bambino che aveva preso egli, intantochè volgeva altrove la faccia per nascondere il suo turbamento. Senza dubbio Omobono non era più quello di prima; se lo aveva punto l'affetto per la figliuola, ciò accadeva in grazia di uno strano sconvolgimento avvenuto in lui; nondimanco rimescolavansi tuttavia nel suo spirito passioni impure come l'orgoglio, la smania che assale i vecchi avari di vedere perpetuato il proprio nome, il tedio delle ricchezze, la vanità di una vita ormai priva di scopo, ed altre parecchie che qui non fa mestieri rammentare; però nel cuore gli era rimasta una tal quale durezza; ma la bontà infinita di Orazio, il dolore immenso che soffriva, la semplice grandezza con la quale lo reprimeva, il sacrifizio che sopportava ebbero virtù di voltarlo sotto sopra, la terra gli mancò sotto le ginocchia, e due rivi di lacrime gli sprillarono fuori dagli occhi quasi vena di acqua che di botto sbocchi dal fesso che si è fatto nella rupe. — Grazie, diceva, grazie, signore Orazio; se avessi un regno ve lo donerei: se non fosse peccato, mi prostrerei dinanzi a voi per adorarvi. Se non lo sdegnaste... e non lo sdegnerete di certo, io proporrei a voi ed anco qui al signor Marcello, che al bambino s'imponessero due nomi: Omobono e Orazio. — Fate voi. Così il figliuolo d'Isabella fu chiamato al fonte battesimale Omobono e Orazio. Orazio e Marcello di ritorno a casa entrarono soli in compagnia del pargolo in camera della Isabella, che rivide loro e il suo figliuoletto con tali dimostrazioni di gioia, che se fossero stati reduci da lunghi viaggi o scampati da pericoli formidabili, ella non avrebbe potuto fare minori. — Ecco qua il tuo bimbo; guarda se te lo rendo come me lo confidasti: guardalo bene, veh! perchè consegnato che io lo abbia, non garantisco più nulla. — È tutto sano, tutto vispo, tutto amoroso il mio Oraziuccio. — Oh! senti, Isabella, ti ho da confessare una cosa.... il tuo bimbo non si chiama Orazio. — Non si chiama Orazio? Oh! allora come si chiama? — Si chiama Omobono. — Signore! e come può essere accaduto questo? — Eh! l'uomo propone e Dio dispone, proverbio vecchio. — Però avverti bene, gli abbiamo messo anco il nome di Orazio; ma siccome quello di Omobono va innanzi, così sarà chiamato ordinariamente con questo, non già con quell'altro. — Dunque prendi, bimbo mio, questo pel nome di Omobono: to' quest'altro pel nome di Orazio. — Bacialo, bacialo, perchè credo che con ogni bacio, cara Isabella, tu imprima una virtù nel tuo figliuoletto. — Cortigiano! Tanto è, ella stette in corte una volta, e il vezzo della piaggeria le si è fitto nell'ossa peggio che l'odore del muschio.... ma ora che mi ribolle... mi conti un po' questa mutazione di nome come la è andata... qui sotto gatta ci cova. — Se bo da dirtela proprio come sta la cosa... ecco... il fattorino della posta mentre stavamo per salire in carrozza ci ha consegnato una lettera di tuo padre, la quale ci scongiurava con tante pietose raccomandazioni a mettere il suo nome al nipote.... — Questo non è possibile.... — Come non è possibile? Marcello, diglielo tu se la faccenda sta appunto come io la ho contata.... — Taci tu... e non dire bugie... se così fosse il padre sarebbe venuto.... — Eccone una nuova di zecca! Chi sa che diluvio di affari saranno piovuti addosso oggi al signor Omobono... sicuro, che ei non sia per venire appena sbrigato, non lo metto in dubbio nemmeno, ma per ora non si è visto.... — Datemi la lettera. — Che lettera? — La lettera dei babbo. — Ah! la lettera, Marcello, dove l'hai messa la lettera? Io l'ho pure consegnata a te la lettera. — Sarà! rispose Marcello frugandosi per le tasche; senza altro la dimenticammo giù nella carrozza. — Non è così, il cuore mi dice che non è così... perchè tacete cosa che può ricrearmi da morte a vita? Da quando in qua diventaste astiosi delle mie contentezze? Io non vi avrei creduto mai tanto cattivi! — Questo, abbi pazienza, Isabella mia, gli è un mettere il capitello sotto zoccolo, tu comprendi quante cure esiga il tuo stato.... può nuocerti la soverchia commozione.... o il moto un po' violento..... tu sai che un odore alquanto acuto.... un niente spesso hanno partorito conseguenze funestissime. Mentre Orazio si sbracciava con queste ed altre parole a blandire l'animo agitato della giovane donna, si accorse che gli avveniva di un buco fare una fossa, perocchè sopra la faccia di lei si alternasse con subita vicenda il pallore e il rossore, indizio certo d'interna procella; non già, come ebbe a dire poi Orazio con le sue immagini sbalestrate, che fossero nuvoloni i quali hanno in corpo grandine e saette; ma sì nuvolette bianche e minute come pezzetti di lettera amorosa gettati fuori della finestra da ragazza impaurita, che la mamma gliela scopra nel seno. Per la qual cosa il dabbene uomo riprese: — Ora, vedi, il fingerti solo che tuo padre sia presente ti commuove tanto; pensa un po' che sarebbe se ci fosse davvero! — Oh! allora mi sentirei tranquilla più del bimbo, che ora mi dorme accanto. — Come così è, signore Omobono, venite a benedire la vostra figliuola. Nonostante i bei propositi Isabella svenne; nè poco ci volle a farla rientrare in sè. Tornata ai lieti uffici della vita, ella ed i suoi goderono un'ora che spesso intere vite si consumano senza provarla, un'ora, per provare la quale ogni creatura umana reputerebbe spesa bene la vita intera. Questa è la storia fedele del Buco nel Muro; come la raccolsi io la contai, a me piacque, perchè se fosse stato diversamente, io non l'avrei scritta; desidero che piaccia anco a cui la leggerà: ad ogni modo se gli parrà bella, la tenga per vera, com'è vero che qui fo punto e me ne vado a dormire. FINE. INDICE PROLOGO, il quale dirà a quelli che lo leggeranno di che cosa ragioni _Pag._ 5 CAPITOLO I. Nel quale s'impara come Betta facesse il thè; e il signor Orazio la lasciasse stare » 17 CAPITOLO II. Come a Marcello nello staccarsi da Betta si attaccassero tutti i Santi del Calendario sul capo » 21 CAPITOLO III. Dove si fa conoscere chi fossero Orazio e Betta, non che le gravi considerazioni di Orazio sul consorzio umano in proposito del gatto Maccabruno vestito da Gesuita, e del cane Tobia vestito da Giandarme » 37 CAPITOLO IV. Vita e miracoli del Romanzo; della morte ne parleremo più tardi » 53 CAPITOLO V. Betta riportami il thè » 78 CAPITOLO VI. Dove s'impara come le donne non sieno libri turchi, che si leggono alla rovescia; e si tocca dei pericoli di prestare le carrozze » 107 CAPITOLO VII. Il quale a senso dell'autore è bellissimo, e spera che lo giudicheranno tale tutti quelli che lo vorranno leggere » 135 CAPITOLO VIII. Dove sarà narrato quello che ci si racconterà » 165 NOTE: [1] Così chiamasi a Livorno la statua marmorea di Ferdinando I dei Medici granduca di Toscana, la quale soprasta a quattro mori giganteschi di bronzo, stupenda opera del Tacca. [2] Plinio L. 11. C. 48. [3] Veramente L'Ariosto chiama il collegio _santo_ non _sacro_; ma gli è tutto uno: anzi _santo_ è più di _sacro_; Apollo, tua mercè, tua mercè, _santo_ _Collegio delle Muse_, io non possiedo Tanto per voi da farmi nuovo un manto. [4] Vedi _Notizie_ di Santorre Santarosa. [5] Volesse alludere con queste parole alla Lombardia prima conquistata, poi pagata? Non sembra possibile, perchè la storia che si racconta accadde prima della pace di Villafranca. [6] Pare impossibile, nè lo crederemmo, se non si leggesse stampato, fin dove arrivasse la terribile pittura dei tormenti dello inferno fatta dai Gesuiti e dai seguaci loro, e ciò non mica perchè ci credessero, chè a simili fandonie non può prestare fede un cervello sano, bensì pensatamente per ingrillare le povere anime e maneggiarle poi a lor senno. — Ecco il passo del Segneri. «Quel che io pretendo, altro non è se non questo: far vedere ai miei uditori quell'orribile luogo acciò che niuno di loro a me sì cari cada colaggiù a popolarlo. Ecco, ecco è già calata la gran chiave: O che strepito di catene! O che strascinamento di catenacci! Già stride la gran porta: si apre! O che fumo, o che caligini, o che puzza, o che strida, o che confusione! Convien stare alla larga; e se nostro pensiero fu di vedere, contentiamoci d'udire. Olà; ascoltatemi voi, anime tormentate; e ditemi qualche certezza del vostro inferno. Ditemi, vi contentereste voi che il vostro inferno fosse quel Toro di Bronzo, dove Falaride Tiranno di Agrigento, racchiuso il Paziente col fuoco acceso sotto il ventre del Toro, godeva sentirlo muggire, mentre il misero nell'interno della bestia infocata si abbruciava? Vi contentereste della fierezza de' Sciti? Questi spaccando per mezzo cavalli, seppellivano nelle loro viscere uomini vivi, sostentandoli con cibo, acciocchè da' vermi che nascevano dalle carni putrefatte del cavallo morto, a poco a poco fossero vivi mangiati? Vi contentereste delle bestialità del Tiranno Mesenzio, che, congiunti a' corpi vivi corpi morti, così gli lasciava, affinchè dal fetore del cadavere ne venisse ucciso il vivo? Che rispondete? Vi contentereste di queste atrocità de' Carnefici e Tiranni più crudeli? Taci, sento che mi dice il Crisostomo, taci, perchè questi son tormenti da burla, rispetto a quelli dell'Inferno. Dunque rispetto all'Inferno sarà una burla quella crudele invenzione praticata nell'Inghilterra, ove s'applica sul nudo ventre del misero Condannato un esercito di rospi, vipere, ed altri simili animali, sopra i quali, coperti con una gran conca di rame, si accende fuoco sì cocente, che quelle bestie inferocite stracciano il corpo del reo per fuggire dal fuoco, e tutto questo sarà una burla, se si paragoni con l'Inferno? _Haec ludibria sunt, et risus ad illa supplicia._ Sarà una burla quel supplicio dato in Francia all'uccisore di Enrico Quarto; supplicio tanto inaudito, perchè il reo fu posto sopra d'un palco nella gran piazza, ed ivi lentamente con forbici roventi attanagliato nelle gambe, coscie, braccia e petto: indi nelle piaghe fatte dalle tenaglie si buttasse olio, piombo e zolfo bollentissimo; la mano poi infame, tenendo il coltello proditorio sopra un fuoco sulfureo, fu fatta lambicare, sino a rimanere le ossa ignude: il corpo poi da quattro cavalli squarciato fu consumato nelle fiamme: e questo pure sarà una burla, o Crisostomo? Sì una burla, se con l'inferno si paragoni: _Haec ludibria sunt, et risus ad illa supplicia._ Burla dunque altresì sarà quel macello, che nell'Olanda fu fatto di chi ferì con archibugiata Guglielmo principe d'Oranges. Vedeasi sospeso il reo da nodi de' pollici delle mani con cento libre di piombo appese a' pollici de' piedi; e con orrore rimiravasi da manigoldi spietatamente flagellato piover sangue. Indi deposto dal doloroso eculeo, sottentrò ad essere martirizzato con acute cannette sotto le ugne; legato poi ad un palo diè la mano tra due lamine di ferro infocate ad arrostire con le ossa medesime, sì che il fetore ammorbava tutta la piazza, e per ultimo squarciatagli a pezzetti la carne con le tenaglie acute, apertogli con un coltello il petto, cavate col cuore le viscere, fu quell'avanzo di cadavere in quattro parti spaccato. Burla sì, mi risponde il Boccadoro, se si ponga a confronto con i tormenti dell'Inferno. _Haec ludibria sunt, et risus ad illa supplicia._» [7] Questa scomunica di Marcello contro i librai farabutti la è molto terribile cosa, e pure non arriva a quella del Papa, la quale investe perfino nei _genitalibus_. Basta, quello che consola si è che l'una non farà maggior danno dell'altra. [8] Fraseologia di S. E. il maresciallo Radetzky mal anima sua. [9] La immagine del Dio Ridicolo fra i bronzi di Ercolano vediamo ridotta in forma di lucerna, ed è un cono con mezza testa sopra e mezze gambe sotto, e il becco del lucignolo a mo' di bracciolo gli sporge fuori dalla metà del corpo. [10] C. 24, n. 30-31. [11] San Cipriano. Orazione sulla elemosina volgarizzata da Annibale Caro. [12] Paiono enormezze queste immaginate dalla sfrenata fantasia del romanziere, ma ahimè! io le ho riscontrate vere pur troppo e più volte. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL BUCO NEL MURO *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. 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The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate. Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our website which has the main PG search facility: www.gutenberg.org. This website includes information about Project Gutenberg™, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.