The Project Gutenberg eBook of Rime di Tullia d'Aragona, cortigiana del secolo XVI

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Title : Rime di Tullia d'Aragona, cortigiana del secolo XVI

Author : Tullia d' Aragona

Editor : Enrico Celani

Release date : November 1, 2004 [eBook #6938]
Most recently updated: November 2, 2014

Language : Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RIME DI TULLIA D'ARAGONA, CORTIGIANA DEL SECOLO XVI ***

  



_corsivo_, =grassetto=




LE RIME DI TULLIA D'ARAGONA

CORTIGIANA DEL SECOLO XVI


EDITE a cura e studio DI ENRICO CELANI


BOLOGNA, 1891



Poichè la carità del natìo loco
mi strinse, raunai le fronde sparte...
(DANTE, _Inf_. XIV).

Uno dei fatti più notevoli al principio del decimosesto secolo è senza dubbio l'apparire della _cortigiana_; figura degna di considerazione e di esame non ebbe pur anco uno storico che di lei si occupasse scrupolosamente e gelosamente, e, diseppellendo dalle biblioteche ed archivii i numerosi documenti che la riguardano, dasse compiuta questa pagina di storia che non è tra le ultime del nostro rinascimento. Il nome di _cortigiana_ si collega certamente alla storia dell'umanesimo, ma quando, dove e come ebbe principio? Tale quesito non ha ancora risposta sicura. Arturo Graf [1], che si occupò ultimo della questione con quell'acume di critica ed abbondanza di erudizione ben note, esita a dare giudizio decisivo, attendendo pur lui che nuovi studî e documenti traccino via più ampia e sicura per definire tale punto.

Lo sviluppo della _cortigiana_ prodotto dalla rivoluzione sociale che si svolgeva nel rinascimento, adattato al nuovo regime di vita che rese allora meno dure e servili le leggi sul costume, viene certamente a smentire l'asserzione che il cinquecento fosse l'età più feconda di turpi vizii, e l'amor patico, nato nelle epoche di maggior coltura e diffuso su larga scala nel medio evo, trova a combatterlo questo sviluppo della cortigianeria e le leggi civili di quasi tutti gli stati italiani, mentre dal pergamo tuona aspra e minacciosa la voce di S.Bernardino [2] e del Savonarola [3]; l'Ariosto stesso che non ne fu immune dichiara che nel 1518 il vizio si restringeva a pochi umanisti. Ed allora si disputa sulla teorica dell'amore che ha forti e strenui campioni; dell'amore libero tra liberi discorre Speron Speroni nel _Dialogo d'amore_ ove introduce a parlare la Tullia d'Aragona e Bernardo Tasso, innamorati, e costretti a separarsi dovendo quest'ultimo andare a Salerno; dell'amor platonico, primi il Bembo e il Castiglione, il Piccolomini poi, che lo definisce "un desiderio di possedere con perfetta unione l'animo bello della cosa amata [4]" contrastando all'amore che anela il solo possesso del corpo. All'amore assolutamente libero, per il quale era inutile insistere dopo il lavorìo dell'Aretino, sono infirmate quasi tutte le liriche di cortigiane del cinquecento; rispecchiano quelle l'ambiente nel quale furono create, queste la cortigianeria nei luoghi ove la coltura era più vasta e diffusa: dalla corte pontificia a quella dei Medici, da Venezia a Siena.

Il rinascimento, rotti gli argini che opponevansi nel medio evo alla coltura della donna, condusse a due estremi sostanzialmente diversi che si disputarono il campo per quasi tutto il secolo decimosesto: la coltura seria e positiva da un lato, la licenza dall'altro: prodotta quest'ultima da male intesa libertà, condusse poi per inevitabile antitesi all'educazione claustrale. Di tale antitesi tramandarono documenti il Castiglione e il Garzoni; il primo, attribuendo al Bembo la dichiarazione poetica dell'amore e trasportando il lettore nella Corte di Urbino, ove le lettere e le arti erano tradizione, appalesa per bocca di Giuliano de' Medici, la cui consorte Filiberta fu cantata modello di femminili virtù, che "la coltura della donna deve rassomigliare a quella dell'uomo, cui ella è pari. Nei diversi rami della scienza e dell'arte essa deve possedere la conoscenza necessaria per parlarne con intelligenza e con senno anche quando queste non sono professate. La donna deve essere versata in letteratura, aver conoscenza di belle arti, essere esperta nella danza e nell'arte del vestire, saper evitare non meno ciò da cui si può supporre vanità e leggerezza, che quanto palesa mancanza di gusto. Il suo conversare, serio e faceto, dev'essere adatto alla convenienza de' casi, essa non deve mai parlare ad alta voce e con iscostumatezza, nè con malizia ed in modo da offendere, deve corrispon[spon]dere alla sua condizione con modestia e con modi convenienti, a cui è obbligata, verso quelli che costituiscono abitualmente la sua compagnia. Nel suo presentarsi e nel contegno sia aggraziata senz'affettazione. Le sue qualità morali, l'onestà e le virtù domestiche devono essere d'accordo con le intellettuali. Debb'esser casta, ma cortese: arguta ma discreta; ad ogni parola libera non dee fare un volto troppo severo. Sappia governar la casa e la sostanza e guidar l'educazione de' figliuoli. Non tenti d'imitar l'uomo negli esercizi del corpo, che a lui sono adatti ed a lui si richieggono. In tutto il suo essere, nel portamento, nell'andare e stare, nel parlare, mostri grazia, dolcezza femminile e non rassomigli all'uomo". E questi ammaestramenti seguirono donne d'illustre casata, quali Eleonora d'Aragona, Isabella d'Este, Ippolita Sforza, Elisabetta Gonzaga, e delle città ove l'elemento borghese ottenne spesso la supremazia ed il potere, resta il ricordo di Antonia Di Pulci e Lorenza Tornabuoni.

L'ambiente elevato e colto nel quale visse la cortigiana nel cinquecento non poteva non influire su di essa e spingerla a gareggiare con le donne oneste, spesso coltissime; troviamo infatti in tutte le nostre storie letterarie, vicino ai nomi di quelle due grandi che furono Vittoria Colonna e Veronica Gambara, due cortigiane: Veronica Franco e Tullia d'Aragona; e se tra loro molto lungi per costumi, non certo per meriti letterarii. Data questa coltura nella donna onesta doveva alla cortigiana richiedersi necessariamente di esserle pari se non superiore, avere vivace ingegno, voce bella e gradita, essere esperta nel suono e nella danza, maestra insomma in tutte quelle arti che, bramate o volute, erano poi, strano a considerarsi, altamente biasimate da uomini come l'Aretino e il Garzoni, che definiscono tali doti atte solo a sedurre ed attrarre. "Onde pensi che nascano i canti, i suoni, i balli, i giuochi, le feste, le vegghie, i concerti, i diporti loro, se non da quell'intento di aver l'applauso, il commercio, il concorso della turba infelice di questi amanti, che rapiti da quelle voci angeliche e soprane, attratte da quei suoni divini di arpicordi e lauti, impazziti in quei moti e in quei giri loro tanto attrattivi, consumati in quei giuochi sfarzevoli, rilegrati in quelle feste giulive, addormentati in quelle vegghie pellegrine, immersi in quei conviti di Venere, di Bacco, morti nel mezzo di quei soavi diporti, restino prigioni e servi del lor fallace ed insidioso amore? [5] "E dacchè siamo col Garzoni, che lasciò della cortigianeria la migliore delle testimonianze, non possiamo esimerci dal citare un altro particolare degno di nota che egli ci offre e riguarda il _mezzano_, che, dovendo esser in tutto degno della cortigiana che l'aveva prescelto, serve a gettare luce in quell'ambiente triste e tuttora oscuro. "Imita il grammatico nel scrivere le lettere amorose tanto ben messe, e tanto ben apuntate che rendono stupore, nel dettar politamente, nel spiegar galantemente, nell'esprimer secretamente il suo pensiero... appare un poeta nel descrivere i casi acerbi con pietà di parole, i fatti allegri con giubilo di cuore... porta seco i sonetti del Petrarca, le rime del Cieco d'Ascoli, l'_Arcadia_ del Sannazaro, i madrigali del Parabosco, il _Furioso_, l'_Amadigi_, l'Anguillara, il Dolce, il Tasso, e sopra tutto i strambotti d'Olimpo da Sassoferrato, come più facili, sono i suoi divoti per ogni occasione... Si reca dietro qualche sonetto in seno, un madrigale in mano, una sestina galante, una canzone polita, con un verso sonoro, con uno stil grave, con parlar fecondo, con tropi eleganti, con figure eloquenti, con parole terse, con un dir limato, che par che il Bembo, o il Caro, o il Veniero, o il Gorellini l'abbiano fatto allora allora; e si mostra alla diva con lettere d'oro, con caratteri preziosi; si legge con dolcezza, si pronunzia con soavità, si dichiara con modo, si scopre l'intenzione, si manifesta il senso, e si palesa il fine del poeta... Con la musica diletta sovente le orecchie delle giovani, mollifica l'animo d'ogni lascivia, ruina i costumi, disperde l'onestà, infiamma l'alma di cocente amore, incende i spiriti di concupiscenza carnale; mentre si cantan lamenti, disperazioni, frottole, stanze e terzetti, canzoni, villanelle, barzellette, e si tocca la cetra, o il lauto, a una battaglia amorosa, a una bergamasca gentile, a una fiorentina garbata, a una gagliarda polita, a una moresca graziosa, e pian piano s'invita ai balli e alle danze, dove i tatti vanno in volta, i baci si fanno avanti le parole scerete... [6] ". Questo procuratore di amore non è egli un tipo abbastanza curioso e interessante?

La _cortigiana_ apparisce in Roma alcuni anni prima del 1500 [7] e come tale è ufficialmente, se così è lecito dire, riconosciuta in documenti autentici della curia papale. In un censimento [8] compilato d'ordine della suprema autorità di Roma, redatto certamente nel settennio corso dal 1511 al 1518, ove trovansi numerate case, botteghe, proprietari ed inquilini, e di tutti o quasi tutti si nota la patria, condizione ed arte, le _cortigiane_ sono notate in numero esorbitante, spagnuole e veneziane in massima parte, e distinte in _cortesane honeste, cortesane putane, cortesane da candella, da lume, e de la minor sorte_. Una sola volta, e forse senza alcuna malizia, il compilatore della statistica dimentica l'aridità del suo lavoro e nota: "La casa di Leonardo Bertini habita Madonna Smeralda cura 3 figlie _piacevoli_ cortegiane".

Il tipo dell'elegante cortigiana, dell'Aspasia del cinquecento, è l'Imperia, morta in Roma nel 1511 a soli ventisei anni, [9] ricordata egualmente con ardore da storici e romanzieri, amata da Angelo del Bufalo e da Agostino Chigi il famoso banchiere [10] celebrata da poeti e letterati, e presso la quale adunavasi il fiore della romana aristocrazia e convenivano uomini quali il Sadoleto, il Campani, il Colocci. Ebbe per maestro Domenico Campana detto Strascino. Di altre citansi le doti singolari: "Lucrezia Porzia, dice l'Aretino, pare un Tullio, e sa tutto il Petrarca e il Boccaccio a memoria ed infiniti e bei versi di Virgilio, d'Orazio e d'Ovidio e di molti altri autori" [11]: la Squarcina conosceva benissimo il greco: la Nicolosa leggeva i salmi in ebraico, e molte ancora che sarebbe ozioso il ricordare.

Malgrado tutto ciò la cortigiana del cinquecento era pur sempre quella del medio evo: tolta dall'ambiente che l'avvinceva, costringendola a piegarsi al rinascimento classico, rimaneva di essa la donna nella quale si alternavano tutti quei bassi sentimenti che erano diretta conseguenza della vita che conduceva. Però qualche barlume di affetto vero, potente, trovasi pur nella storia della cortigianeria: il Molza ed il Bandello non erano alieni dal credere che la cortigiana potesse veramente amare, noi, più scettici, crediamo con riserva a questo amore che poteva esser cagionato da interessi troppo palesi e reali, dubitiamo che la cortigiana avesse il cuore al di sopra della ragione, mentre accettiamo senza dubbio alcuno il fatto che nella prostituta di più bassa specie si rinvenisse l'amore nelle più forti sue manifestazioni. È questo un fatto che si ripete continuamente anche ai nostri giorni, e se discutibile dal lato psicologico, non cessa per questo di essere men vero. Ricordasi l'Aragona innamorata del Varchi e del Manelli: Camilla pisana dello Strozzi; Marietta Mirtilla del Brocardo, ed una certa Medea che in morte di Ludovico dell'Armi veniva consolata per lettera dall'Aretino; ma vogliamo proprio credere sul serio all'amore ispirato alla cortigiana da letterati? Questi erano allora come adesso, e come forse disgraziatamente lo saranno sempre, più ricchi d'ingegno, di madrigali, di epistole che di quattrini, esaltavano le cortigiane, dedicavano loro libri e capitoli e col sacrificio dell'amor proprio ricambiavano i favori lor concessi: Antonio Brocardo scrisse un'orazione in lode loro, il Muzio, il Tasso, il Varchi esaltarono l'Aragona: il Molza, Beatrice spagnola: Michelangelo Buonarroti, Faustina Mancina: Niccolò Martelli l'onorata madonna Salterella; e le cortigiane si abbarbicavano a questi letterati perchè da essi dipendeva in massima parte la rinomanza loro [12]. La Tullia d'Aragona è quella che nelle sue rime lascia maggiormente scorgere l'influenza dei letterati, sino a dubitare che alcune di esse siano opera del Varchi stesso, e dà in pari tempo la figura spiccata della strisciante cortigianeria che avviluppava anche allora i più minuscoli principi. L'antitesi è in Veronica Franco della quale daremo in breve le rime, divenute di meravigliosa rarità, desiderio ardente e inappagato di bibliofili senza numero, orgoglio di alcuni pochissimi più venturati [13]: essa è l'incarnazione della donna libera del cinquecento ed è l'unica che canti liberamente i suoi amori: non s'informa a platonismo o castità irrisori, ama per amare e soddisfare i sensi, e i suoi liberi amplessi, dice il buon P. Giovanni degli Agostini "con tal'arte seppe dipingerli e con tal frase adornarli che servono agl'incauti di vigoroso solletico alla concupiscenza [14] ". Tale non può essere oggi il parere di coloro che si occupano seriamente della nostra letteratura: ogni pagina, bella o brutta, sana o impura, che venga a chiarire la nostra rinascenza, non è che contributo a lavoro maggiore, e come tale spero vorrà essere accolta questa mia debole fatica.


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Della Tullia d'Aragona parecchi si occuparono, in questi ultimi tempi: forse ne parlerà ancora il Bongi nel seguito de' suoi _Annali del Giolito de' Ferrari_, editi dal Ministero della Pubblica Istruzione; certamente poi il Biagi in altra edizione di un suo scritto apparso nella _Nuova Antologia_ del 1886; ma stimo che la biografia della poetessa poco abbia più da offrire a così insistenti e dotti ricercatori, perchè la sua vita è quasi tutta delineata, e molto nettamente per l'epoca nella quale visse e la vita nomade che ebbe a condurre. In ogni modo augurando sempre nuova luce, basta al mio assunto ritrarre in poche linee la vita della Tullia, servendomi anche di documenti finora non messi a profitto dai due egregi scrittori.

Il Crescimbeni [15], il Quadrio [16], il Mazzuchelli [17], il Tafurri [18], e ultimo ancora Pietro Vigo [19] credettero la Tullia napolitana; lo Zilioli [20] seguito dal Canestrini [21] e dal Labruzzi [22] la dissero romana a ciò confortati, prima che altre testimonianze venissero a luce, dalle precise dichiarazioni che Girolamo Muzio fa nell'egloga _Tirrenia_ a lei dedicata [23]. Infatti la Tullia nacque in Roma da Giulia Campana ferrarese [24] e dal cardinale Luigi d'Aragona [25]. L'anno di sua nascita è ignoto: il Labruzzi e poi il Biagi [26] considerando che nel 1519 il padre di lei era già morto e che nel 1527 ella era già nota nel mondo galante, pongono la nascita circa il 1505, basando anche tale congettura sulla novella VII degli _Ecatommiti_ di Giovanni Battista Giraldi. Sta infatti che il Giraldi finge sia raccontata la novella di Nana e Saulo nel 1527 al tempo del sacco di Roma, ma vuolsi proprio accettare quella data senza dubbio alcuno e su di essa basare deduzioni storiche, quando nella stessa opera rinvengonsi altri episodi che forse non reggerebbero ad una severa critica e sono falsati nelle date come quelli di Celio Calcagnini e del Giovio? Non potrebbe il Giraldi aver fatto risalire la partenza della Tullia al 1527 per acconciarvi quella pur strana e sudicia novella, scritta molti e molti anni dopo il sacco di Roma e che vide la luce, se non erriamo, solo nel 1565? A noi il Giraldi non prova nulla; più fiduciosi in un passo dei _Ragionamenti_ dell'Aretino che rivelano come l'anno 1519 la Giulia ferrarese partisse da Roma per Siena con la sua _picciola figliuola_, siamo stimolati a credere essere la Tullia nata sullo scorcio del primo decennio del decimosesto secolo.

Della giovinezza della nostra poetessa poche notizie giunsero sino a noi; forse visse in Firenze circa il 1517 e 1518 [27], indi a Siena, ove "imparò a parlare sanese" poi "vedendo la madre che costei haveva di virtù principio grande considerò che Roma è terra da donne, e massime che ella sapea l'usanza della corte e così l'ha fatta cortigiana [28] ". E questo _principio grande di virtù_ era infatti posseduto dalla Tullia, alla quale gli agî procuratile dal cardinale d'Aragona avevano permesso di addestrarsi in tutte le arti della seduzione, vivendo tra le delizie e le comodità d'una onorata fortuna che l'amorevolezza del padre le aveva lasciata tendendo agli studi nei quali fece tanto profitto che non senza stupore degli uomini dotti fu sentita in età ancor fanciullesca disputare e scrivere nel latino e nell'italiano cose degne di ogni maggior letterato, onde arrivando al fine dell'età e accompagnando alla sapienza e virtù sua un'isquisita delicatezza di maniere e di costumi, si acquistò il nome di compitissima sopra ogni altra donna del tempo suo. Compariva con tanta leggiadria in pubblico e con tanta venustà ed affabilità d'aspetto che aggiungendovisi la pompa e l'adornamento degli abiti lascivi, pareva non potersi ritrovare cosa nè più gentile nè più polita di lei. Toccava gli strumenti musicali con dolcezza tale e maneggiava la voce cantando così soavemente che i primi professori degli esercizi ne restavano meravigliati. Parlava con grazia ed eloquenza rarissime, sì che o scherzando o trattando davvero, allettava e rapiva a sè, come un'altra Cleopatra, gli animi degli ascoltanti e non mancavano sul volto suo sempre vago e sempre giocondo quelle grazie maggiori che in un bel viso per lusingar gli occhi degli uomini sensevoli sogliono essere desiderate [29].

La Tullia tornata in Roma certamente poco dopo la morte del padre vi rimase, secondo ogni probabilità, e magari contro il malevolo Giraldi, sino al 1531, e in questo stesso anno si recò a Ferrara ove conobbe Girolamo Muzio. L'autore degli _Ecatommiti_ dà alla partenza da Roma della Tullia, una ragione abbastanza disonorevole. Egli narra, come convenendo in casa dell'Aragona parecchi giovani romani, uno di questi, che chiama Saulo, invaghitosene al sommo, molto spendesse e si adoperasse perchè a lei nulla venisse a mancare delle agiatezze nelle quali era cresciuta. Dimorava nella stessa epoca in Roma un tedesco, detto Gianni, uomo ricchissimo, ma così sudicio e pieno di lordura che faceva nausea a solo vederlo; costui innamorato della Tullia, tanto insistette che ottenne di essere compiaciuto di lei per una settimana di seguito al prezzo di cento scudi per notte. La Tullia acconsentì; non resse però che una sola notte tanto era il puzzo che esalava quel ricco tedesco. Risaputosi ciò da Saulo e da' suoi amici, ne furono sdegnati, e mai più vollero metter piede in casa dell'Aragona; talchè ella vedendosi disprezzata e sfuggita, se ne partì da Roma. Il Tiraboschi cita una satira di Pasquino contro di lei [30], dalla quale parrebbe che si fosse diretta a Bologna, ma se veramente vi andasse, e certo dopo il 1531, non si conosce, come del pari rimase sinora ignota la satira summentovata.

Che l'Aragona fosse in Roma nell'anno suddetto è chiaramente provato da una lettera che Francesco Vettori scriveva da Firenze a Filippo Strozzi li 14 Febbraio 1531. Questi chiamato in Roma da Clemente VII sotto pretesto di rivedere alcuni conti, ma in realtà per aiutarlo a introdurre in Firenze "un governo o vogliamo chiamarlo stato, nel quale i magistrati della città governino in nome suo, in fatti il Duca governò in tutto, [31]" scriveva al Vettori richiamandolo di aiuto e consiglio; e questi rispondendo conchiudeva: "E perchè mi scrivete con la Tullia accanto, non vorrei la leggessi similmente con essa accanto, perchè amandola voi come femmina che ha spirito, perchè per bellezza non lo merita, non vorrei mi potesse nuocere con qualcuno di quelli ch'io nomino. Io non sono per ammonire Filippo Strozzi, ancorachè, se le ammonizioni ricorregghino, non avete aver per male essere ammonito, ma ho inteso di non so che cartelli e di sfide andate a torno che mi hanno dato fastidio pensando che un par vostro, uomo di 43 anni, voglia combattere per una femmina, e benchè io creda sareste così atto all'arme come siete alle lettere ed a ogni altra cosa dove ponete la fantasia, non vorrei di presente vi metteste a questo pericolo di voler combattere per causa tanto leggiera; e vi ricordo che degli uomini come voi ne nascono pochi per secolo; e questo non dico per adulazione. Assettate le faccende vostre e poi tornate a rivederci". Pare che il consiglio del Vettori riuscisse caro e salutare allo Strozzi: in un cartello di sfida che conservasi in un codice Rinucciniano, ed è di quell'anno stesso in vano si cercherebbe il suo nome tra i sei campioni della Tullia [32].

Partita da Roma, la Tullia si recò certamente a Ferrara, ed ivi reduce di Francia capitava poco dopo il Muzio; nel 1535 era a Venezia ove nacque la sorella Penelope [33], e nel 1537 nuovamente a Ferrara seguendo di pochi giorni l'arrivo in questa città della marchesa di Pescara. Conobbe certamente allora il sanese Bernardo Ochino che appunto nella quaresima avea predicato ivi con mirabile fervore, e gli diresse il sonetto XXXV trattandolo poco cortesemente, e chiamandolo arrogante, perchè avea dal pergamo fulminato "le finte apparenze, e il ballo, e il suono", dono fatto da Dio agli uomini "ne la primiera stanza". Nello stesso anno le accadde una strana avventura, narrata da un Apollo novellista alla marchesa Isabella d'Este con lettera dei 13 giugno [34], e tale avventura servì mirabilmente per porla in buona vista, formare quella reputazione di onesta che la fama e le pasquinate avevano molto deteriorata, radunarle intorno un'eletta schiera di poeti e gentiluomini che adulandola, corteggiandola, facessero dimenticare il suo passato poco onorevole per riconoscere solo in lei la poetessa, la letterata, la discendente di sangue reale: e riuscì in massima parte; il Muzio e il Bentivoglio le profusero lodi e adulazioni in rima e in prosa, e la Tullia era posta al di sopra di Vittoria Colonna. Ancora una volta la cortigiana trionfava.

Da Ferrara la Tullia ritornò forse a Venezia, almeno così il _Dialogo_ dello Speroni fa credere; poi a Siena ove si accasò nel 1543 [35]. I documenti senesi che riguardano la Tullia dànno a conoscere una circostanza abbastanza seria per non essere lasciata senza esame e cioè che ella era, legalmente almeno, figlia di Costanzo Palmieri d'Aragona; ed infatti nell'atto di matrimonio è detta _Tullia Palmeria de Aragonia_, ed in altro documento ancor più chiaramente "_Filia quondam Constantii de Palmeriis de Aragona_". In base a tali documenti, eliminando del tutto l'ipotesi che ella fosse stata adottata da un Palmieri, conviene credere ad un matrimonio della Giulia Ferrarese, al quale non possiamo dare, neppure per approssimazione, una data qualsiasi. L'Aretino, il Domenichi, il Franco che citano la Giulia e ne parlano spesso diffusamente, mentre dànno particolari su altri amanti tacciono affatto di tale matrimonio; neppure un barlume ne apparisce nelle rime della Tullia e nelle lettere che di lei ci pervennero; parlando della propria famiglia dice _mia madre, mia sorella, ed io_; tace il Muzio, che, pur dando la paternità del cardinale d'Aragona alla Tullia, nulla impediva potesse parlarne nell'egloga dedicata alla Penelope nata molti anni dopo; ne tacciono assolutamente tutti i biografi. Ed apparisce del pari per la prima volta, almeno così ci consta, una casata Palmieri che abbia aggiunto il nome d'Aragona al proprio; rimangono tracce dei Piccolomini-Aragona, dei Tagliavia-Aragonia, dei _de Aragonia_, romani, ma nessuna dei Palmieri-Aragona. Questa casata non viene poi più a luce nè sulla tomba della Penelope che porta solo il nome di Aragona, nè nel testamento della Tullia ove non sono più mentovati nè padre, nè madre, nè marito. Una volta ancora, innanzi all'arida autenticità dei documenti, si oppone la tradizione, ferma, costante; essa vuole la Tullia figlia del cardinale d'Aragona e nel fatto nulla varrà a scemarla. Su questo padre più o meno putativo, che apparisce quasi per sua disgrazia, molte sarebbero le supposizioni a farsi; era forse un familiare del cardinale d'Aragona che acconsentì a sposare la Giulia Campana a prezzo d'oro, o qualche vanitoso che a scapito del suo amor proprio con l'acquisto della Tullia aggiunse al suo il casato degli Aragonesi? in ogni modo è assolutamente da escludere che quel _de Aragonia_ stia lì per fissaril luogo natio di quel buon Palmieri. Non ci peritiamo rispondere a quesìti così ardui ed anche inutili; bastano per noi tutte le testimonianze dei contemporanei a stabilite che la poetessa fu, pure illegittimamente, del sangue d'Aragona.

Sembra che in Siena ella fosse perseguita da malevoli che l'accusarono agli Esecutori Generali di Gabella di vestire e portare ornamenti vietati alle meretrici dagli statuti del Comune; fu agitato per ciò un processo nel febbraio del 1544, dal quale constando la vita onesta e morigerata della Tullia, le fu permesso di vestire ed abitare al pari di altre persone nobili ed oneste [36]. Non cessò per questo la malevolenza contro la Tullia e nell'agosto dello stesso anno [37] fu ancora denunciata per aver portato la sbernia il giorno di Pasqua, e tra i denunziatori apparisce Ottaviano Tondi, novesco, causa di torbidi in Siena per avere ucciso uno di parte popolare [38], e che la Tullia pianse morto un anno appresso in un sonetto diretto al fratello Emilio [39]. Certo ella ignorava il servizio che il buon novesco aveva tentato di renderle.

Sullo scorcio del 1545 la Tullia se ne venne a Firenze ove contrasse stretta amicizia col Varchi, col Martelli e parecchi altri, dei quali ci rimasero testimonianze nelle rime e nelle lettere di lui edite dal Biagi e dal Bongi [40]. E qui ancora doveva essere perseguitata dalle severe leggi sui costumi e sugli _ornamenti et habiti degli huomini e delle donne_. Il 19 ottobre 1546 il Duca Cosimo promulgava una di quelle leggi [41], ma la Tullia che credeva oramai per la fama di poetessa di non essere più compresa nel ruolo delle cortigiane, non se ne diè per intesa, sin che nell'aprile dell'anno appresso fu invitata dal Magistrato ad ottemperare alla legge mettendo sul vestito qual cosa di _giallo_ che doveva servire a distinguerla dalle oneste gentildonne. La Tullia ricorse a D. Pietro di Toledo nipote della duchessa Eleonora, che la consigliò presentare alla Duchessa una supplica unita ai sonetti a lei scritti da illustri letterati, a significare l'errore del magistrato di giustizia nell'annoverarla tra le cortigiane. Per correggere la supplica, se non per averla bell'e fatta ricorse la Tullia al Varchi [42], ed il dabben uomo volentieri si prestò a tanto urgente favore, e della Tullia non è forse nel seguente documento che il nome solamente.

"Ill.ma ed Ecc.ma Sig.ra Duchessa,

"Tullia Aragona, umilissima servitrice di V. E. Ill.ma, essendo rifugiata a Firenze per l'ultima mutazione di Siena, e non facendo i
portamenti che l'altre fanno anzi non uscendo quasi mai da una camera non che di casa, per trovarsi male disposta così dell'animo come del corpo, prega V. E. affine che non sia costretta a partirsi, che si degni d'impetrare tanto di grazia dall'Eccell.mo ed Ill.mo S.or Duca suo consorte, che ella possa se non servirsi di quei pochi panni che le sono rimasi per suo uso, come supplica nel suo capitolo, almeno che non sia tenuta all'osservanza del velo giallo. Ed ella, ponendo questo con gli altri obblighi molti e grandissimi che ha con S. E., pregherà Dio che la conservi sana e felice".

La cortigiana ottenne favore presso la duchessa; Cosimo scrisse di suo pugno sull'istanza "_Fasseli gratia per poetessa_"; e queste parole sono autenticate dalla soscrizione di Lelio Torelli, ministro del granduca. I luogotenenti del duca rilasciarono quindi all'Aragona, in data 1 maggio 1547, copia della deliberazione nella quale riconoscendo "la rara scientia di poesia e filosofia che si ritrova con piacere di pregiati ingegni la detta Tullia Aragona venga fatta esente da tutto quello a che ell'è obbligata quanto al suo abito, vestire e portamento [43] ". Un anno appresso, e precisamente nell'ottobre, scriveva al Varchi annunziandogli la sua partenza, gli mandava in dono _un paio di colombi, due fiaschi d'acqua ed uno di malvagia, una saliera di alabastro_, e da lui toglieva commiato per sempre con lettera che il Varchi avrà certamente preso per buona moneta; partiva quindi per Roma, dove il primo di febbraio del 1547 veniva a morte la sorella Penelope, seguita poco appresso dalla madre. La Tullia abitava in Campo Marzio nel palazzo Carpi, e nel libro della _Tassa fatta alle cortigiane per la reparatione del ponte_ (Rotto) [44] consta che ella pagava di pigione 40 scudi (in ragione tassata per scudi quattro) ed è una delle cortigiane che pagava di più; poche giungono ai cinquanta scudi, rare quelle che superano tal somma: evidentemente le condizioni finanziarie della Tullia non erano troppo rilassate, e non crediamo, come dubita il Bongi, che il poco profitto da lei ritratto in Firenze ed il desiderio di far esordire la Penelope nella più vasta e ricca scena di Roma fosse causa della sua dipartita di colà; nulla accenna pertanto avere la Penelope esordito nella triste carriera, anzi l'essere ella morta non ancora quattordicenne fa credere, magari con un poco d'ottimismo, che il desiderio della Giulia Campana forse più che della Tullia, se esistito, non rimase che semplice desiderio.

La Tullia visse certamente in Roma sino all'epoca di sua morte, che avvenne il 12 o 13 marzo del 1556. Era andata ad abitare nel rione Trastevere, in casa dell'oste Matteo Moretti da Parma, ed ivi il 2 marzo dello stesso anno dettava le sue ultime volontà al notaio Virgilio Grandinelli[45] Morta la Tullia ed apertone il testamento alli 14 di marzo, Pietro Ciocca in suo nome e per gli esecutori testamentari mons. Antonio Trivulzio vescovo di Tolone e Mario Frangipane, chiese all'auditore della Camera Apostolica un tutore per il giovinetto Celio. Tale ufficio fu conferito a D. Orazio Marchiani chierico pistoiese. Redatto l'inventario della roba lasciata dalla Tullia si procede alla vendita secondo le sue volontà; gli ori e le gioie furono acquistati dagli orafi Pompeo Fanetti a Santa Lucia della Chiavica, Maurizio Grana piemontese e Francesco Alarçon spagnolo al Pellegrino; la mobilia da Giovanni Battista della Valle fiorentino e Francino Francini d'Arezzo rigattiere a Monte Giordano. A quest'ultimo toccò in un con gli arnesi di cucina "una cassa vecchia nella quale c'erano trentacinque libri tra volgari e latini di più et diverse sorte, et tredici di musica tra usati, vecci, et stracciati et diverse altre carte et libri già stracciati". Ai singoli legati fu adempiuto con rogiti speciali; in uno di questi Celio non solo _herede_ della Tullia ma _figliuolo_ è chiamato. Di questo Celio e del Marchiani nessuna notizia giunse sino a noi; forse lasciarono Roma, ed il tutore, pistoiese, riedendo alla nativa citta, avrà menato seco il fanciullo: è certo che di essi perdesi la traccia dopo la morte della Tullia, nè le carte dell'archivio romano, esaminate dal cav. Corvisieri, ci possono dire quale sia stata la sorte del fanciullo. Che il padre fosse lo stesso Ciocca come altri supposero, non crediamo, parendoci allora superflua la nomina di un tutore, e dovendo in tal caso ammettere che il Celio fosse nato in Roma dopo il 1547, cosa molto improbabile e per le condizioni fisiche della Tullia e per l'appellativo di _giovinetto_ che viene dato al Celio, come ancora non lo supponiamo figliuolo del Guicciardi. L'Aragona conobbe forse il Ciocca in Venezia, essendo questo al servizio del Cornaro, ma a tale epoca non può risalire la nascita di Celio; dubitiamo anzi, sempre però su deduzioni, che la nascita di questo fanciullo fosse causa della dipartita dell'Aragona da Firenze.

La Tullia era di alta statura, non bella ma piacevole [46], gli occhi bellissimi e splendidissimi, e "nei movimenti loro una certa forza vivace che parea gittassero fuoco negli altrui cuori", forza provata dal Muzio che cantava:

.....occhi belli, occhi leggiadri, occhi amorosi e cari,
più che le stelle belli e più che il sole,

i capelli finissimi di un biondo oro, esaltati spesso da' suoi ammiratori, tra i quali il cardinale Ippolito de' Medici, al quale la porpora non impediva di bruciare innanzi alla bella Aragonese il suo granello d'incenso cantando:

se 'l dolce folgorar de i bei crini d'oro,
e 'l fiammeggiar de i begli occhi lucenti,
e 'l far dolce acquetar per l'aria i venti
co 'l riso, ond'io m'incendio e mi scoloro...

Nella pinacoteca Tosio di Brescia è conservato il ritratto della poetessa dipinto da Alessandro Bonvicino detto il _Moretto_, altri due veggonsi nell'edizione delle _Rime_ fatta dal Bolifon e nel vol. XII del _Parnaso italiano_. Di questi ultimi quale sia il valore non possiamo certo dire.

Tra i molti adoratori che ebbe a vantare la Tullia, Girolamo Muzio fu certo uno dei più costanti e veritieri, e benchè quando fu preso d'amore avesse oltrepassati i quarant'anni, si sente dalle sue rime che quell'affetto era serio e sincero, e che i versi esprimevano molto meno di quel che il cuore sentiva; dedica alla Tullia le sue egloghe _Amorose_ che in realtà parlano assolutamente di lei sola, e del suo amore non cela nè gli ardenti desideri nè le bramate conquiste. Con un verismo poco desiato certo da qualsiasi donna, anche abituata alla rilassatezza della vita di Ferrara, egli diceva alla Tullia:

Vien, Ninfa bella, e fra le molli braccia
raccogli quel che con le braccia aperte,
disioso t'aspetta, e nel tuo grembo
ricevi lieta l'infocato amante;
stringi e 'l bramoso amante, e strette aggiungi
le labbra a le sue labbra, e 'l vivo spirto
suggi de l'alma amata, e del tuo spirto
il vivo fiore ispira a le sue brame.
Le belle membra tue, morbide e bianche,
ad Amor le consacra; ed al tuo amante,
qual vite ad olmo avviticchiata e stretta,
con lui cogli d'amore i dolci frutti.

Ma ben presto il Muzio recatosi a Milano in missione per il Duca Ercole d'Este, fu obliato, almeno per del tempo, e sostituito dal Bentivoglio; passata poi la Tullia da Ferrara a Venezia, Bernardo Tasso prese il posto dei precedenti, almeno così ci lascia credere lo Speroni che nel suo _Dialogo_ la introduce "a far l'amore con lui, presenti ed accettanti Nicolò Grazia e un altro spasimante Francesco Maria Molza"; indi a Firenze variò tra il Varchi, Ippolito de' Medici, il Tolomei, il Fracastoro, il Martelli, il Lasca, il Mannelli e lo Strozzi.

Vario e non sempre imparziale fu il giudizio dei contemporanei e dei posteri verso l'Aragona; aspro e satirico spesso sino a dare diritto di vilipenderla all'Aretino [47] e al Razzi [48]; buono e cortese ancora, come le testimonianze del Nardi e del Muzio. Il Nardi, tradotta in lingua toscana un'orazione di M. T. Cicerone (Venezia 1536) ne indirizzava un esemplare a Gian Francesco della Stufa con incarico di presentarlo alla Tullia _che per sè stessa oggi dirittamente da ogni uomo è giudicata unica e vera erede così del nome e di tutta la tulliana eloquenza_; Girolamo Muzio che si consolò del matrimonio della Tullia sposando circa il 1550 una damigella d'onore di Vittoria Farnese duchessa d'Urbino, nella lettera dedicatoria premessa al _Trattato del matrimonio_, scriveva: _Già avviso di vedere in voi quella donna la grazia della cui vergogna, come si legge nell'Ecclesiastico [49], è più che oro preciosa... Tale avviso che dovete esser voi facendo in tal guisa al mondo manifesto che della vostra passata vita ne è stata cagione necessità, et di questa la vostra libera volontà: che nel passato vi ha trasportata fortuna e che hor vi governa la vostra virtù_.

Frutto d'amore, ella visse sacra all'amore e nulla varrebbe a scusarla della poca onestà della sua vita; ma se è pur vero che gli abbietti trionfando della loro caduta trovano i buoni che li ricoprono, concediamo a lei le attenuanti dell'esempio: e di esempio ne ebbe a sufficienza, e per l'ambiente viziato nel quale nacque e visse, e nella stessa madre che allegramente dava alla luce figliuoli sino al 1535 e con la massima indifferenza li intitolava d'Aragona dopo sedici anni che il povero cardinale era andato all'altro mondo.

* * *

Tenuto conto delle condizioni in cui svolgevasi la poesia nel XVI secolo, le rime dell'Aragona non mancano certo di pregio; quantunque ancor essa che "volle avere il suo canzoniere [50]" non eviti quella freddezza che nasce da ogni ripetizione, quella noia che s'ingenera dalla descrizione di una passione misurata su i precetti rettorici e smentita dal fatto e dai costumi. La Tullia fu petrarchista della miglior acqua, e non poteva certo essere altrimenti; il Petrarca era l'idolo al quale si prostesero quasi tutti i rimatori del cinquecento ed il modello su cui si formarono, ricavando stima maggiore chi imitasse più servilmente il cantore di Laura, rubandone al tempo stesso il pensiero e la forma. Tutte le cortigiane letterate del cinquecento furono petrarchiste, se per altri il Petrarca era l'oracolo del purismo, per esse non rappresentava che la teorica dell'amore; quest'amore ideale o platonico, di Venere celeste, era cantato su tutti i toni, salvo poi ad avere, di altro amore, una più ampia e sicura conoscenza, e tale influenza, per donne quali l'Aragona, la Franco, la Stampa è spiegata dalla stessa relazione del petrarchismo con la cortigianeria. Un Petrarchino di piccolo formato, di edizione elegante era indispensabile al cortigiano effeminato e strisciante, i leggiadri cavalieri di Roma mostravansi per via "andando soavi soavi co' loro famigli a la staffa, su la quale tenevano solamente la punta del piede, col Petrarchino in mano, cantando con vezzi [51] ", ed i vagheggini più aridi e stucchevoli, appena ricevuto un sorriso della donna amata correvano "a casa a comporre una sestina, un madrigaletto, dove il cieco d'Adria non s'accorge che la mariuola gli ha furfato in versi, senza essere discoverta da nessuno". Dell'amore teoretico il Petrarca era il gran maestro per pratica e per scienza; il suo canzoniere si allontana da quell'amore pratico del cinquecento che si svolge in brutale sensualità, e in una brama di appetiti animali trascinarono la società nella più completa dissolutezza, nelle forme più sozze delle aberrazioni e del vizio; esso risponde all'amore intellettuale, richiesto dall'umanesimo, che veniva considerato quale anello di congiunzione con l'amore divino, e della cui infinità tratta l'Aragona in un suo dialogo [52]. Al contrario della Franco che canta l'amore dei sensi, l'Aragona è tutto ideale, tutto spiritualismo; i suoi affetti vogliono rasentare il cielo, e solo raramente trovasi qualche accenno alla triste sua vita; è invasa dalla manìa di passare ai posteri insieme ai letterati che ella canta, cerca ogni maniera di ricoprire la cortigiana con la poetessa, ed eleva i suoi canti indistintamente a tutti, principi e cardinali, letterati e soldati, uomini serii e burloni quali il Lasca; per lei l'uomo, essere animato, è nulla: la fama di un uomo, il tutto; il solo affetto per il giovane Mannelli si può credere sincero, tutte le altre proteste che inficiano le rime e quei sonetti che cambiato indirizzo, giravano d'adoratore in adoratore in edizioni stereotipe e consolavano tanto il Muzio che il Martelli [53], fanno a buon diritto dubitare di tutte queste espansioni cantate così altamente e serenamente. E la manìa dell'Aragona è anche spiegabile in altro senso. Cessate le seduzioni della bellezza tentava con l'arte di riunire la compagine di quegli adoratori che si venivano allontanando, e con la musica, il canto, le lettere cercare di sostenere i bisogni della casa: le sue rime sono spesso forzate, e la eco dell'onda classica da Orazio a Virgilio, da Dante a Petrarca viene spesso ad alimentare l'agonia di una vita finita. Delle imitazioni al Petrarca, evidentissime e nel pensiero e nello stile, ne citeremo solo alcune poche a titolo di saggio [54].

Sonetto X, v. 12-15:

E se quassù giungesser gli occhi vostri,
vedendo fatto me novo angeletto
qui bramareste, e non vedermi in terra.
(PETRARCA, Madrigale III, v. 1-2).


Sonetto XXXI, v. 7-9:

E l'alto Iddio lodar ben spesso suole,
dopo l'aspra fortuna,
spaventato nocchiero al porto intorno.
(PETRARCA, Sonetto C, v. 1-2).


Sonetto XXXVIII, v. 12-14:

Non contenda rea sorte il bel desìo,
che pria che l'alma del corporeo velo
si scioglia, sazierò forse mia brama.
(PETRARCA, Sonetto IX, v. 12-14).


Sonetto XLII.

S'io 'l feci unqua, che mai non giunga a riva
l'interno duol, che il cuor lasso sostiene;
s'io 'l feci, che perduta ogni mia spene,
in guerra eterna di vostr'occhi viva.
(PETRARCA, Canzone XV)


Sonetto XLIV, v. 13-14:

...volgendo a Roma 'l viso e a lei le spalle, se vuol l'alma trovar col corpo unita.
(PETRARCA, Sonetto LXXXI, v. 3-4).


Sonetto LI, v. 12-14:

Benchè vostro valor eterna fama
per sè vi acquisti, caro mio signore,
quanto 'l sole gira e Battro abbraccia e Tile.
(PETRARCA, Sonetto XCVI, v. 9-11).

Della Tullia giunsero a noi un _Dialogo dell'infinità di amore_ [55], giudicato "uno dei dialoghi più vivi che noi abbiamo, nell'ordine più basso degli scritti letterari del secolo decimosesto..... per una certa franchezza e disinvoltura, e anche talvolta per una certa saporita fiorentinità ch'ella attinse per avventura dal suo consorzio coi fiorentini e singolarmente col Varchi", ed un poema in ottava rima: _il Meschino e il Guerino_ [56]. Il Crescimbeni fa di questo poema elogi sperticati, dicendo che "nella tessitura può paragonarsi all'Odissea di Omero [57] ", esso però è così inverosimile e contrario tanto alla storia, alla cronologia, alla geografia, e con buona pace dell'ottimo abate, anche al buon senso, che non sappiamo invero trovarvi alcuna analogia con l'opera dell'Omero; lo stile ne è trascurato, e spesso conviene lavorare di serio proposito per raccapezzare il senso di qualche ottava, i canti, trentasei in tutto, appaiono disordinati e spesso senza nesso tra loro. La Tullia avverte che trasse il poema da un vecchio romanzo spagnuolo in prosa, ma certamente ella si servì di una traduzione e non del testo originale che vuolsi scritto in italiano [58]. L'Aragona nella prefazione di questo poema si scaglia contro il Boccaccio, e mentre lo compassiona perchè non seppe eleggere il verso a forma del _Decamerone_, lo accusa che _tante sue scellerate_ novelle scritte con altrettante _scellerate parole_, servendo solo a demoralizzare e rendere ridicoli i più santi vincoli della società, siano impossibili a leggersi, senza frutti nocivi, da maritate e nubili, vedove e monache, e persino cortigiane. Questi scrupoli che parrebbero curiosi nella Tullia, sono da ella medesima spiegati, non essendo cosa nuova che ad una donna per necessità o per altra mala ventura sua sia avvenuto di cadere in errore del corpo suo e tuttavia si disconvenga non men forse a lei che alle altre l'essere disoneste e sconcie nel parlare e nelle altre cose; ed ella, contrariamente al Boccaccio, vuole scrivere per tutti, il suo poema potrà essere dato in mano alla più pudica donzella senza alcun pericolo, volendo con esso porre un debole argine a quell'invadente corruttela che ogni dì spandeasi con maggior forza e brutalità, e pur sempre per opera dei letterati ed anche degli _umanisti_. L'idea della Tullia, se togliesi quella sfuriata contro l'umanismo che proprio non aveva a che fare, non era cattiva e sinceramente credette averla attuata col suo _Guerino_; dichiarandosi di tutto debitrice a Dio solo "dal quale solo viene ogni bene e da cui solo io riconosco questa gran grazia d'avermi in questa mia età non ancor soverchiamente matura, ma giovenile e fresca, dato lume di ridurmi col cuore a lui e di desiderare e operare quanto posso che il medesimo facciano tutti gli altri così uomini e donne". Ma Dio non aveva proprio nulla a che vedere col _Guerino_, ed è proprio il caso di ripetere che quantunque il diavolo si vesta da frate, quattro dita di coda gli spuntano sempre sotto la tonaca; infatti ciò che la Tullia narra del cavaliere di Durazzo, di Brandisio e della figlia dell'albergatore nel canto VIII [59], e di Pacifero innamorato di Guerino nel canto X [60], non è roba atta a far mettere il poema vicino al libro di devozione di una vergine o di una monaca. E pur tale era lo scopo.

In produzioni di uno stesso autore, apparse anche a distanza di molti anni l'una dall'altra, ritrovasi sempre qualche analogia, qualche difetto, alcun che di speciale, quasi direbbesi di proprio, che le riavvicina e riunisce; nulla di ciò tra il _Guerino_ e le _Rime_, anzi una succinta critica forse allontanerebbe molto l'uno dalle altre. Quantunque non sia il caso ora di formare tale confronto ed esaminare a fondo il _Guerino_, non possiamo esimerci dal notare come la prefazione posta innanzi al poema ci abbia fatto triste impressione, fino a crederla apocrifa per ragioni che crediamo buone od almeno meritevoli di esame. Il Ranieri che pubblicò il poema nel 1560 dicendo di averne curato l'edizione sul manoscritto originale _già da parecchi anni da lui posseduto_, non fa parola dell'Aragona che era morta nel 1556, e si profonde solo in ampie ed ampollose proteste cercando di formare una dedica alla quale, per essere di qualche valore, manca solo un poco di senso comune. E quel _parecchi_, posto lì per indicare un lasso di tempo non superiore ai tre anni è per lo meno superfluo: nè più lungo spazio di tempo crederemmo possibile ammettere perchè è abbastanza ragionevole il supporre che l'Aragona avesse sino alla morte conservato presso di sè quel lavoro. Il ricordo ancora che i libri e le carte andarono in mano di un modesto rigattiere, non è privo di valore; se il manoscritto del _Guerino_ era tra la roba acquistata da Francino Francini, uomo probabilmente ignorante e privo di criterio letterario, la sorte del manoscritto era assicurata: finiva in qualche bottega di droghiere o salumaio. Converrebbe adunque credere che o il manoscritto fosse tra le carte devolute a Celio figliuolo dell'Aragona o che la Tullia ne avesse fatto un dono al Ranieri qualche anno prima; ma ancora queste due supposizioni rasentano l'assurdo. Il testamento della Tullia che pure è tanto minuzioso e preciso nei lasciti e legati, non accenna a carte ed altri documenti spettanti al Celio; nè la Tullia poteva donare il manoscritto al Ranieri o ad altri che a lui lo passassero, perchè dal momento che ne aveva condotto a termine anche la prefazione, era certo desiderio suo di darlo alle stampe, e per il nome che godeva e l'appoggio dei letterati che facevanle corona non sarebbe stato difficile trovare un tipografo che ne assumesse l'edizione. Se dobbiamo pur credere alla dichiarazione della Tullia di avere composto il poema "in età ancor giovenile e fresca", quando erasi decisa di darsi a Dio, conviene di necessità ammettere che ella l'avesse scritto in Siena poco appresso il suo matrimonio col Guicciardi, o in Firenze; mai in Roma ove tornando per l'ultima volta nel 1547 non era più in età giovenile e fresca, e l'essere ascritta nel ruolo delle cortigiane pubbliche non era il migliore indizio dell'essersi data a Dio. Anche a questa ipotesi si oppone una seria obbiezione. Era possibile all'Aragona dare ad intendere agli eruditi, massime fiorentini, di aver tratto il _Guerino_ da un romanzo in prosa spagnuolo? Pure ciò afferma nella prefazione, e se il poema non corrisponde esattamente al _Guerino_, in prosa, romanzo cavalieresco del ciclo della Tavola Rotonda, è indiscutibile che da questo ne trasse in massima parte le idee. Nessuno ignora la rinomanza che il _Guerino_ ebbe nei secoli XV e XVI; all'epoca dell'Aragona ne erano già state fatte sei edizioni [61], ed è certo sopra una di queste che fu condotta la riduzione in rima. In conclusione non rifiutiamo al _Guerino_ la maternità dell'Aragona, la sua differenza con le _Rime_ non è prova sufficiente a porre dei dubbi; respingiamo però assolutamente quella prefazione che non è, nè poteva essere della Tullia.

Per la ristampa delle rime abbiamo usato l'edizione prima, Venezia 1547 (A) servendoci per le varianti delle edizioni di Venezia, 1549, (B): ivi, 1560 (C): Napoli, 1593 (D): e delle _Rime_ raccolte dalla Bergalli-Gozzi (E): le abbiamo fedelmente riprodotte, salvo allorchè gli errori erano evidenti, respingendo allora in nota la lezione originale; quando le varianti assumevano importanza assoluta, come per i componimenti tratti dai codici vaticano magliabecchiano, abbiamo stimato necessario riprodurre entrambe le lezioni avvertendo di collocarle l'una a lato dell'altra.



_Dalla R. Biblioteca Vallicelliana

maggio 1891._

ENRICO CELANI


NOTE:

[1] =Graf A.= _Atraverso il cinquecento_. Torino, Loescher, 1888, pag. 215 e seg.--Nell'_Hermaphroditus_ del =Panormitano= (1471) _(Quinque illustrium postarum_, =Antonii Panormitani=, etc. _lusus in Venerem_, Parigi, 1791), la cortigiana non apparisce ancora, come neppure ne è parola in =Giano Pannonio= (1472) _Poemata_, Trajecti ad Rhenum, 1784.

[2] "Avetemi inteso voi donne? Che alla barba di tutti i sodomiti io voglio tenere colle donne, e dico che la donna è più pulita e preziosa della carne sua che non è l'uomo; e dico, che se egli tiene il contrario, egli mente per la gola" (=S. Bernardino=, _Prediche volgari_, ed. =Bongi=, pag. 380).

[3] Le opere fatte da lui circa la osservanza dei buoni costumi furono santissime e mirabili, nè mai in Firenze fu tanta bontà e religione quanta a tempo suo... la sodomia era spenta e mortificata assai; le donne in gran parte lasciati gli abiti disonesti e lascivi; i fanciulli quasi tutti lavati da molte disonestà e ridutti ad uno vivere santo e costumato... portavano i capelli corti e perseguitavano con sassi e villanie gli uomini disonesti e giocatori e le donne di abiti troppo lascivi. (=Guicciardini=, _Storia, fiorentina_, cap. XVII)

[4] =Piccolomini A.= _Istituzione di tutta la vita, dell'uomo nato nobile et in città libera_. Venezia, 1552.

[5] =Garzoni T.= _La piazza universale di tutte le professioni del mondo_. Venezia, 1587, discorso LXXIV, pag. 597.

[6] =Garzoni T.= Op. Cit., discorso LXXV, pag 605.

[7] Giovanni Burchkardt maestro di cerimonie di Alessandro VI narra come l'ultimo d'ottobre 1501 cenarono nel palazzo apostolico, col Valentino, cinquanta cortigiane, le quali dopo cena danzarono ignude e diedero altre prove di valentia in presenza di Alessandro VI e della Lucrezia Borgia. "In sero fecerunt cenam cum duce Valentinense in camera sua, in palatio apostolico, quinquaginta meretrices honeste cortegiane nuncupate, que post cenam coreaverunt cum servitoribus et aliis ibidem existentibus, primo in vestibus suis, denique nude. Post cenam posita fuerunt candelabra communia mense in candelis ardentibus per terram, et projecte ante candelabra per terram castanee quas meretrices ipse super manibus et pedibus; unde, candelabra pertranseuntes, colligebant, Papa, duce et D. Lucretia sorore sua presentibus et aspicientibus. Tandem exposita dona ultima, diploides de serico, paria caligarum; bireta, et alia pro illis qui pluries dictas meretrices carnaliter agnoscerent; que fuerunt ibidem in aula publice carnaliter tractate arbitrio praesentium, dona distributa victoribus". _Diarium sive rerum urbanorum commentarii_, Parisiis, 1883-1885, tom. II, pag. 443, tom. III, pag. 167).

[8] =Armellini M_.= Un censimento della città di Roma sotto il pontificato di Leone X tratto da un codice inedito dell'Archivio Vaticano_. Roma. Befani, 1887.

[9] Cfr. =Bandello=, _Novelle_, parte III, nov. XLII; =Valery=, _Curiosités et anecdotes italiennes_, Paris, 1842; =Giovio P.=, _De piscibus romanis_, cap V; =Forcella V.=, _Iscrizioni delle chiese di Roma_, Roma, 1878. Per l'epitafio che dicesi posto sulla sua tomba crediamo siasi roppo facilmente accettata la tradizione che fosse in S. Gregorio; oltre la stranezza della lapide che certo non faceva bella figura in una chiesa, è oramai accertato che se pure l'epitafio fu composto non fu mai elevato sulla tomba dell'Imperia.

Di lei scrive il Bandello (op. cit, nov. XLIII): "Tra gli altri che quella (Imperia) sommamente amarono fu il signor Angelo del Bufalo, uomo della persona valente, umano, gentile e ricchissimo. Egli molti anni in suo poter la tenne, e fu da lei ferventissimamente amato, come la fine di lei dimostrò. E perciò che egli è molto liberale e cortese, tenne quella in una casa onoratissimamente apparata con molti servidori, uomini e donne, che al servizio di quella continovamente attendevano. Era la casa apparata e in modo del tutto provvista, che qualunque straniero in quella entrava, veduto l'apparato ed ordine de' servidori, credeva che ivi una principessa abitasse. Era tra l'altre cose una sala e una camera sì pomposamente adornate, che altro non v'era che velluti e broccati, e per terra finissimi tappeti. Nel camerino, ov'ella si riduceva, quand'era da qualche gran personaggio visitata, erano i paramenti che le mura coprivano, tutti di drappi d'oro, riccio sovra riccio, con molti belli e vaghi colori. Eravi poi una cornice tutta messa a oro ed azzurro oltremarino, maestrevolmente fatto, sovra la quale erano bellissimi vasi di varie e preziose materie formati, con pietre alabastrine, di porfido, di serpentino e mille altre specie. Vedevansi poi attorno molti cofani e forzieri riccamente intagliati, e tali che tutti erano di grandissimo prezzo. Si vedeva poi nel mezzo un tavolino, il più bello del mondo, coverto di velluto verde. Quivi sempre era o liuto o cetra con libri di musica, ed altri istromenti musici. V'erano poi parecchi libretti volgari e latini riccamente adornati. Ella non mezzanamente si dilettava delle rime volgari, essendole stato in ciò esortatore, e come maestro il nostro piacevolissimo messer Domenico Campana detto _Strascino_; e già tanto di profitto fatto ci aveva che ella non insoavemente componeva qualche sonetto o madrigale". Ed a proposito del celebre camerino seguita narrando come essendo andato a farle visita l'ambasciatore di Spagna, e avendo bisogno di sputare, trovò che il luogo meno improprio a ciò fare era il viso del servitore che gli stava alle spalle.

[10] =Cugnoni G.= _Agostino Chigi il Magnifico_, Livorno, Vigo, 1879.

[11] =Aretino P.= _Ragionamento fra il Zoppino fatto frate e Ludovico puttaniere_, Cosmopoli, 1660, pag. 442.

[12] E poeti e letterati non isdegnavano la compagnia della cortigiana (=Burchkardt=. _Diarium_ etc., ediz. cit. tom. III, pag. 209); Marco Bracci in una lettera ad Ugolino Grifoni segretario di Cosimo I scrive nel novembre 1557 che giunto in Perugia il cardinale Caraffa nipote di Paolo IV e il cardinal Vitelli "dopo cena pubblicamente fece andare in palazo tutte le putane che a quelli tempi se trovavano in Perugia quale furono in tutte quattordici; e presene per sè una e una per el cardinale Vitello el resto acomodoli a la sua famiglia. (=Fabretti=, _La prostituzione in Perugia nei secoli XIV e XV_, Torino, 1885, pag. 46).

[13] =Graf A.= op. cit., pag. 350.

[14] _Theatro delle donne letterate_, pag. 296.

[15] _Istoria della volgar poesia_, vol. IV, pag. 67.

[16] _Storia e ragione d'ogni poesia_, vol. II, pag. 235.

[17] _Gli scrittori d'Italia_, vol. I, par. I.

[18] _Gli scrittori del regno di Napoli_, tomo III, parte I.

[19] Il Vigo pubblicava nel 1885 per nozze Grassi-Rinaldi il sonetto della Tullia all'Ochino (nella nostra edizione a pag. 39), e nella breve prefazione la dice napoletana.

[20] Presso il =Mazzuchelli=, loc. cit.

[21] _Dell'infinità d'amore_di =Tullia Aragona= edito dal =Canestrini=, Milano, 1867.

[22] _Bibliografia romana_, Roma, Botta, 1880, vol. I, pag. 13.

[23] Vedi a pag. 189, versi 27 e seg.

[24] La _Jole_ dell'egloga del Muzio è la Giulia ferrarese, anch'essa etèra famosa e della quale il =Domenichi= (_Facezie, motti e burle_, Venezia, 1558, pag. 28) ricorda un motto arguto e mordace. Papa Leone X aveva fatto aprire una nuova strada in Roma lastricata dai tributi che le puttane pagavano, nella quale scontrando la Giulia ferrarese una gentildonna l'urtò un poco. Allora la gentildonna adirata cominciò a dirle villania. Rispose la Giulia: "Madonna, perdonatemi, ch'io so bene che voi avete più ragione in questa via che non ho io". Nel citato censimento di Roma (pag. 42) ella apparisce come abitante nel rione Campo Marzio, in una casa sotto la parrocchia di S. Trifone di proprietà dell'Ordine Agostiniano.

[25] Lo Zilioli che fu il più diffuso biografo dell'Aragonese le assegna per padre Pietro Tagliavia, di Aragona, arcivescovo di Palermo e cardinale di Santa Chiesa; e tale versione venne accolta dal Mazzuchelli, dal Tiraboschi, dal Cinguenè e dal Camerini. Ora nè quando il Muzio scrisse l'egloga alla Tullia nè quando l'Aretino nel dialogo tra il Zoppino e Ludovico, dialogo scritto certo prima del 1539, dice _cardinale_ l'amante della Giulia ferrarese, il Tagliavia era stato assunto alla porpora. Lo fu solo sotto Giulio III l'anno 1553; in tal guisa viene esonerato di sua paternità poco lodevole. Escluso costui, l'unico cardinale che cronologicamente può dirsi padre della Tullia è Luigi d'Aragona, ascritto al sacro Collegio da Alessandro VI nel 1493, promulgato solo nel 1497. Nato in Napoli nel 1474 morì in Roma l'anno 1519 e fu tumulato nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, ove vedesi tuttora il suo sepolcro con iscrizione fattagli fare dal cardinale Franciotto Orsini suo esecutore testamentario.

[26] =Biagi G.= _Un'etèra romana, Tullia d'Aragona_. (_Nuova Antologia_. Serie III, vol. IV, 16 agosto 1886)

[27] Dice il Muzio:

Visse in tenera etate presso a l'onde del più bel fiume che Toscana onori.

(_Sonetto I_, v. 12-13, pag. 69).

[28] =Aretino P.= _Ragionamenti_. loc. cit.

[29] =Zilioli=, in =Mazzucchelli=, loc. cit. Molto diverso è però il ritratto che ne fa il Giraldi, e dall'odio che palesa parlando della Tullia fa se non credere, almeno dubitare che invano abbia picchiato alla porta della bella cortigiana. "Non è alcuno di voi, per quanto io stimo, _egli dice_, il quale non habbia conosciuto Nana, così detta non perchè ella sia piccola della persona, ma per mostrare la sua sconvenevole et non proportionata grandezza, con voce di contrario sentimento. Questa di casa Aragona si fa chiamare quantunque io intenda che di madre vilissima e di quella medesima vita che ella è in alcune paludi sie nata senza che la madre le habbia mai saputo dire chi suo padre si fosse. Venuta adunque nella nostra città, ove hora le pari a lei, per lo mal costume del nostro secolo, sono in più abondanza che non si converrebbe, si diè a fare guadagno di sè disonestamente, allettando i giovani con quegli adombrati colori di virtù, di che innanzi dicemmo. Et non pure traheva costei a sè i giovani con simili arti, i quali per lo più sono di poca levatura, ma così toglieva ella il senno ad alcuni huomini maturi e scientiati, che col promettere loro di lasciarli godere di lei, qualunque volta danzassero mentre ella toccava il leuto, facevano scalzi la resina, o la pavana, o quale altra sorta di ballo più l'era grato et poscia beffandoli li lasciava del promesso scherniti. (_Ecatommiti_, nov. VII).

[30] _Passione d'amore di mastro Pasquino per la partita della signora Tullia e martello di amore delle povere cortigiane di Roma con le allegrezze delle bolognesi._(=Tiraboschi=, Stor. letter. ital. vol. VII, pag. 1172). Di pasquinate alla Tullia o nelle quali ella sia mentovata non ci consta che il _Trionfo della lussuria di mastro Pasquino_stampato nel 1537, ove però è ricordata la Tullia solo come molto _favorita_. Il Biagi ricorda ancora lo sconcio sonetto: "_Mentre alla Tullia la madre ragiona_" firmato F. C. che conservasi in due codici Magliabecchiani.

[31] =Biagi G.= op. cit.

[32] "Considerando gli infrascritti cavalieri la virtù solamente esser quella che concede immortalità ad ogni animo generoso, liberandolo con la eterna fama da ogni oblivion che ne la labile e caduca memoria de li uomini aver loco possa, e che quella da ciascuno meritamente deve esser amata, reverita ed a quel sommo grado che per le umane forze sia possibile esaltata e tanto più quanto ella in persona si ritruovi di ogni altra grazia, e dono di fortuna e natura dotata; per tanto come veri fautori ed amatori di quella e per la verità della quale ogni nobil core deve sempre prender la protezione, e, quando in parte alcuna celarsi e occulta restarsi la veda, produrla in luce e qual chiaro sole farla a tutti risplendere ed apparire: non da alcuna altra passione o fine mossi ed indotti, si offeriscono non pregiudicando alle onorate leggi de la militar disciplina, a tutto il mondo, per un giorno valorosamente sostenere che la loro signora e padrona la Ill.ma S.ra Tullia de Aragonia per le infinite virtù quali in lei risplendono è quella che più merita che tutte le altre donne de la preterita, presente e futura etate; ed acciò che qualunque, de la sua immortal gloria invidioso, diversamente o parlasse o sentisse, possa presto certificarsi e risolversi; declarono detto sostenimento, doversi intendere totalmente secondo l'ordine de torniamenti de li antiqui e gloriosi cavalieri; e così gli inestimabili meriti de la prefata signora, se pure non fussino a sufficenza noti e chiari, secondo il dovere si manifesteranno a lo ardire e valor de li suoi servitori, similmente per tale occasione più celebri e palesi saranno, onde ciascuno poi non dubitano che confessare sarà costretto, sì come a loro non ritrovarsi cavalier di virtù superiori, così a la prefata signora pari o simile non esser mai stata o potere essere nei secoli futuri". I sostenitori del valore della Tullia erano Paolo Emilio Orsini, Accursio Mattei, Brunoro Neccia, Alberto Rippe, Marco da Urbino, e Bernardo Rinuccini.

[33] Il Muzio nell'egloga VI del IV libro intitolata _Argia_, dice che la Penelope ebbe per patria

l'orribil Adria e que' secreti stagni
che le palustri lor superbe canne
cercan di pareggiar ai nostri allori.
Là per quelle contrade umide e salse
a la dolce e vezzosa fanciulletta
i lascivi delfin festosi giri
tessean saltando intorno; a la sua culla
le Nereidi portavano e i Tritoni
conche da i marin liti e fresche perle.

E più sotto lo stesso Muzio ci fa sapere come da Venezia muovesse con la madre e la Tullia per Ferrara.

Indi pargoleggiar su per le rive
fu vista un tempo del gran re de' fiumi;
poi come la guidava il suo destino
varcati d'Apennino i duri gioghi
tenne lunga stagione adorni e lieti
i poggi d'Arbia e le campagne d'Arno.

La sorella della Tullia morì di 13 anni ed 11 mesi nel febbraio del 1549 e fu sepolta nella chiesa di S. Agostino, innanzi all'altar maggiore. L'iscrizione sepolcrale è riportata dal =Galletti= e dal =Forcella=; in essa è chiamata Penelope =Aragona=, quasi la Giulia ferrarese per essere un tempo stata l'amante di un cardinale di casa Aragona avesse il diritto di chiamare Aragonesi anche i figliuoli nati parecchi lustri dopo che il buon cardinale aveva reso l'anima a Dio.

[34] Riportiamo per brevità solamente il brano della lettera alla Isabella d'Este che più particolarmente riguarda la Tullia. "V. Ecc. intenderà come gli è sorta in questa terra una gentil cortegiana di Roma, nominata la S.ra Tullia la quale è venuta per istare qui qualche mese per quanto s'intende. Questa è molto gentile, discreta, accorta et di ottimi et divini costumi dotata; sa cantare al libro ogni motetto et canzone, per rasone di canto figurato; ne li discorsi del suo parlare è unica, et tanto accomodatamente si porta che non c'è homo nè donna in questa terra che la paregi, anchora che la Ill.ma S.ra Marchesa di Pescara sia ecc.ma, la quale è qui, come sa V. Ecc. Mostra costei sapere de ogni cosa, et parla pur sieco di che materia te aggrada. Sempre ha piena la casa di virtuosi et sempre si puol visitarla, et è riccha de denari, zoie, colanne, anella et altre cose notabile, et in fine è ben accomodata in ogni cosa . . . . . (_Un'avventura di Tullia d'Aragona_, nella _Rivista storica mantovana_, vol. I, fasc. 1-2, 1885)

[35] Anno Domini M.D.XLIII indictione secunda die vero martis VIII mensis Ianuarii Silvester olim . . . . . de Guicciardis ferrariensis contraxit matrimonium cum D. Tullia Palmeria de Aragonia per verba de presenti et anuli dationem et receptionem respective in forma iuris et sacrorum canonum et omni meliori modo, etc. Rogantes, etc. Actum Senis.--Ego Sigismundus Mannius Ugolinius notarius rogatus. (_R. Archivio di Stato in Siena, Scritture concistoriali_, ad annum).

[36] 1544 Die dicto (5 februarii) de sero.

Hieronymus de Ballatis _Prior_
D. Achilles Orlandinus
Conterius de Sansedoniis
Franciscus Arengherius

. . . . . et deliberaverunt declarare et declaraverunt D. Tulliam de Aragona Sen. habitantem, non esse comprehensam in statuto meretricium, dantes licentiam omnibus et quibuscumque personis locandi domos dicte domine Tullie, et absque aliqua pena, et mandaverunt fieri decretum dicte declarationis et licentie in forma. Et fuit factum infrascripti tenoris:

Spectatissimi Domini Executores Generalis Gabelle Magnifici Comunis Sen., convocati et congregati solemniter, etc., audito pluries Domino Aurelio Manno Ugolino procuratore et eo nomine Nobilis domine Tullie filie quondam Constantii de Palmeriis de Aragona et uxoris domini Silvestri de Guicciardis ferrariensis, producente eius mandatum manu Ser Sigismundi Manni notarii, etc., exponente qualiter praefata Domina Tullia ob novam compilationem Statutorum Reipublicae Sen., a nonnullis videlicet indebite et iniuste reputatur et diffamatur, eidem non licuisse nec licere deferre nec portare vestes et alia ornamenta muliebra que licite sunt et conveniunt personis honestis et nobilibus, et commorari et habitare in locis civitatis in quibus licitum est habitare omnibus personis honestis et nobilibus; et quia rei veritas est, quod praefata D. Tullia ducet vitam honestissimam et propterea ea que supradicta sunt sibi non debent quoque modo esse prohibita, producente ad iustificationem predictum processum in Curia Domini Capitanei Iustitie Civitatis Sen., manu ser Lactantii Lucarini notarii publici Sen., nec non decretum magnificorum D. Secretorum Officialium Balie manu Ser Alexandri Boninsegni Notarii publici Sen., et petente in, de ut super predictis de opportuno iuris remedio providero et pro iustitia consulente indemnitati prefate Domine Tullie, servatis servandis, omni meliori modo;

Habita plena notitia et clara informatione de omnibus supra narratis de vita, moribus et honestate et qualitate dicte Domine Tullie, visu processu predicto et summa inde lata, testibus in eo examinatis decreto predicto, et omnibus denique visis, auditis et consideratis que videnda et consideranda erant, vigore auctoritatis eisdem concesse a Statutis Reipublicae Sen., servatis servandis et omni meliori modo, etc., Solemniter deliberaverunt prefatam D. Tulliam minime comprehendi in Statuto de meretricibus et questus sui corporis facentibus desponente, sibique licuisse et licere commorare et habitare in quibuscumque locis civitatis ad suum libitum, et vestes ac habitum deferre prout et sicut et in omnibus et per omnia licuit et licet personis et mulieribus honestis et nobilibus, et ita sibi licentiam et facultatem concesserunt, mandantes de predictis sibi publicum fieri decretum, et illud inviolabiliter osservari a quibuscumque personis tam publicis quam privatis sub pena comminationis arbitri quibuscumque in contrarium non obstantibus, et omni meliori modo, rebus tamen stantibus pro ut stant et non aliter nec alio modo. (_Archivio di Stato in Siena, Buste degli esecutori di Gabella, 1544 gennaio I, 1545 giugno 30, c. 12-13_).

[37] Die 23 augusti (1544).

Operta la cassa fu retrovata una politia et acusa del tenore susseguente, cioè:

_La Signora Tullia de Aragona per la pascha di Spirito Santo portò la sbernia contro li Statuti.

Ottaviano Tondi, Horatio Pecci, Il Signor Gaspare servitore del Signor D. Giovanni._

Vide in filo processum agitatum super vita causa ex quo apparet de sententia per quam fuit declaratum sibi licere portare sberniam istantibus omnibus, etc., (_R. Archivio di Stato in Siena, Decreti, polizze, ecc. del Capitano di Giustizia del 1544, luglio-dicembre, c. 53_).

I documenti da noi riportati a pag. XXXI-XXXVI furono rinvenuti nell'Archivio di Stato di Siena dal compianto Luciano Banchi.

[38] =Pecci G. A.= _Continuazione delle memorie storico-critiche della città di Siena fino all'anno M.D.LII._Siena, Bindi, 1758, vol. III, pag. 143.

[39] Sonetto XXXVI.

[40] =Biagi G.= op. cit.--=Bongi S.= _Il velo giallo di Tullia d'Aragona_. Estratto dalla _Rivista critica della letteratura italiana_, anno III, n. 3, marzo 1886.

[41] "Le meretrici non possino portare vesti di drappo e seta d'alcuna ragione, ma sibbene quante gioie e quanto oro e argento esse vorranno, et sia tenuta portare un velo, o vero sciugatoio o fazzoletto o altra peza in capo che habbi una lista larga un dito d'oro o di seta o d'altra materia gialla e in luogo che ella possa essere veduta da ciascuno; et tal segno debbia portare a fine che elle sien conosciute dalle donne da bene e di honesta vita, sotto pena se la ne mancheranno di scudi dieci in oro di oro di sole per ciascheduna volta che le trasgrediranno e sian sottoposte al Magistrato delli spettabili Otto di Balìa, alli spettabili Conservatori di Legge, et alli Offitiali dell'Honestà intra li quali magistrati habbi luogo la preventione da distribuirsi come l'altre pene che di sotto si dichiareranno. (=Contini=. _Legislazione toscana_, vol. I, pag. 332).

[42] Edita dal =Bongi=, op. cit., ed ancora dal =Biagi=.

[43] Archivio di Stato in Firenze. Luogotenenti e Consiglieri di S. E. il Duca di Firenze. Deliberazioni, _ad annum_.

[44] "La S.ra Tulja d'Araona a fronte alle dette dee dar per sua tassa imposta come di sopra S. 40--4". Archivio di Stato in Roma, _Fabbriche camerali_.

[45] Il testamento fu rinvenuto nell'Archivio di Stato di Roma dall'archivista Cav. Costantino Corvisieri.--"Del 1556 a dì 2 de marzo. Al nome di Dio, &. Io Tullia de aragona sana per gratia di Dio de mente et intelletto benchè inferma del corpo volendo disporre dei miei beni acciò che doppo morte mia non ne nasca ad alcuno lite o scandalo, ordino et faccio il mio ultimo testamento et mia ultima volontà in questo modo che seguita, cioè: In prima racomando l'anima mia all'altissimo Dio et alla sua gloriosa Madre Vergine Maria et a tutta la corte del cielo. Lasso alla Lucretia mia creata moglie di Matteo hoste questo fornimento di camera cioè queste spalliere verde et questo letto ove io ora giaccio con suoi matarazzi, lenzuoli para uno et una coperta, fuorchè lo sparviere, et più una vesta di rascia negra usata aperta denanzi;

Item un roverso rosso nuovo, cioè una sottana de roverso, una saia biancha listata de pagonazo et una lionata, una montatura a la romana, cioè panno listato et lenzolo, dieci scudi d'oro et sia pagata del vino che io ho havuto da lei;

Item lasso alla putta Christofora mia serva sia vestita di panno ordinario negro et datole dieci scudi d'oro; item lasso alle povere orfanelle cinque scudi d'oro; item lasso alle monache convertite quella parte chelli viene in rigore della bolla; item lasso alla compagnia del crocifisso un paramento di taffetà negro leggiero semplice.

Item lasso a Santo Agostino un mezo scudo di cera ogni anno per ardere il dì de' morti a la mia sepoltura la quale se non serrà arsa alla mia sepoltura da i frati non sia obligato l'herede a darla più. Item lasso che ogni anno si dia mezo scudo per far dir la messa di San Gregorio per l'anima mia. Item lasso a mastro Panuntio medico una veste di rascia negra da medico che gli sia fatta nuova.

Item in tutti gli altri miei beni et in tutte le mie ragioni et attioni tanto presenti come d'avenire dovunque siano o saranno io instituisco e faccio e con la mia propria bocca nomino Celio che è in protettione de Messer Pietro Cioccha scalco del cardinale Cornaro, istituisco dicio et faccio detto Celio herede universale al quale lascio tutti i miei beni ragioni et attioni per ragione et causa de universale institutione con patto et conditione che detti miei beni siano venduti et fattone dinari siano posti in luogo chelli fructino nè possi disporre Celio nè altri della principal somma di detti dinari sinchè detto herede non sia all'età di anni venticinque, ma dell'entrata senne nutrisca et serva per impa[ra] re littere et altre virtù. Et se detto herede (che Dio non voglia) mancasse inanzi all'età di venticinque lascio et substituisco herede in vita sua Messer Pietro Chiocca suo protettore con condittione che ogni anno dia dieci scudi a una povera orfana da maritarsi, il restante senne serva messer Pietro per i suoi alimenti et dopo la morte di messer Pietro Chiocca si stribuisca ogni cosa ad opere pie et queste debbiano essere le mie ultime volontà, et mio ultimo testamento li quali voglio che vaglino in virtù et forza di testamento et ultime volontà et se in tal modo per alcun rispetto non potesse valere, voglio che vaglia in virtù et forza di codicillo et di donatione infra vivi o per causa di morte et in quel meglior modo che di ragione può e potrà valere e sostenersi. Et per essere io impedita ho fatto scrivere questo da persona a me fedele et io l'ho sottoscritto di mia propria mano in fede della verità questo dì 2° di marzo 1556.

Item lasso di essere sepelita in Santo Agostino e nella sepoltura di mia madre et mia et alle mie esequie non voglio altro che i frati di Santo Agostino et la compagnia del Crocifisso della quale io sonno, et sia sepulta a ventiquattro hore senza cerimonie, semplicemente.

Et lasso et instituisco con ogni miglior modo et forma che fare et instituire se puote esecutori di questo mio testamento il Reverendo vescovo di Tolone e Messer Mario Fregapane, i quali supplico per l'amor de Dio et per la fede che ho in loro signorie che vogliano doppo la mia morte fare eseguire a puntino queste mie ultime volontà per magior dechiaratione della quale io come di sopra ho detto mi sottoscrivo di mia propia mano.

Io Tullia Aragona affermo quanto sopra et instituisco herede universale Celio come di sopra ho detto. _A tergo autem_, ecc L'entroacluso è il testamento di me Tullia Aragona il quale ho sottoscritto de mia propria mano et ligatolo con el filo et sigillatolo sopra esso filo il quale consegno a M. Virgilio Grandinelli notario pubblico presenti li testimonii sottoscritti da me rogati et non voglio sia aperto se non doppo la morte mia, et in fede di ciò mi sottoscrivo di mia propria mano. Io Tullia Aragona manu propria. _Quorum testium etc. (Archivio di Stato in Roma, Not. A. C. vol. 6298, num. 69)_.

[46] Il malevolo Giraldi scriveva di lei che aveva il viso non bello nè piacevole "il quale oltre la bocca larga et le labbra sottili era disordinato da un naso lungo, gibbuto et nella estrema parte grosso et atto a porre sommo difetto in ogni bella faccia s'egli tra le guancie vi fosse posto. (_Ecatommiti_, loc. cit.)

[47] In una lettera datata di Venezia li 6 giugno 1537 e scritta allo Speroni esaltandogli il suo _Dialogo_egli diceva: La Tullia ha guadagnato un tesoro che per sempre spenderlo mai non iscemerà, e l'impudicitia sua per sì fatto onore può meritamente essere invidiata dalle più pudiche e dalle più fortunate.

[48] Nella commedia del Razzi intitolata la _Balia_(Firenze 1560) in fine della scena VII dell'atto III leggesi:

LIVIO (_padrone_). Io non conobbi mai giovane di più alto animo di lei e di più elevato spirito

BROZZI (_famiglio_). O degli uomini inferma e instabil mente! Pur ora la chiamaste puttana e femmina di mondo, ed ora per contrario dite tanto ben di lei?

LIVIO. Sarebbe forse la prima nobile e d'animo grande che è stata puttana? Che è stata la Tullia d'Aragona, Isabella di Luna e altre?

Anche il Lasca che pure si atteggia, benchè un po' tardi, ad amante della Tullia, nel XXII madrigale lagnandosi che la sua donna, anch'essa cortigiana

lodata ancor non sia
con dolce stile e soave armonia,

dice che

celebrar si sente ognora
con gloria alta e divina
e Tullia e Totta e Fioretta e Nannina
che, bench'elle sieno oggi al mondo rare,
non si ponno agguagliare
alla Cecca gentil che m'innamora.

[49] Noli discedere a muliere sensata et bona, quam sortitus es in timore Domini: gratia enim verecundiae illius super aurum. (_Eccl_. VII, 21).

[50] =Cereseto G. B.= _Storia della poesia in Italia_. Milano, Silvestri, 1857, vol. I.

[51] =Aretino P.= _Ragionamenti_. Cosmopoli, 1660, parte I, giornata III.--=Graf A.= op. cit. pag 19 e seg.

[52] Il Domenichini nelle sue _Facetie, etc._pag. 32, ricorda una disputa che alcuni cortigiani ebbero in casa dell'Aragona sui pregi del Petrarca.

[53] Vedi nota a pag. 29.

[54] Per i riscontri usiamo delle _Rime di _=F. Petrarca=_con l'interpretazione di _=G. Leopardi =_e con note inedite di _=F. Ambrosoli=. Firenze, Barbèra, 1879.

[55] Questo dialogo fu edito in Venezia dal Giolito nel 1547 in-8 e ristampato a Milano nel 1864 dal Daelli nella sua _Biblioteca rara_con prefazione di Eugenio Camerini (Carlo Téoli).

[56] _Il Meschino e il Guerino_. Poema. In Venezia, per Gio. Battista Melchior Sessa, 1560, in-4.

[57] =Crescimbeni=, op. cit., vol. I, c. 341.

[58] =Gordon di Percel.= _Biblioth. des Romans_, tom. II, pag. 193.--=Crescimbeni=, op. cit., vol. I, carte 331.--=Fontanini G.= _Dell'eloquenza italiana_, lib. I, cap. XXVI.--=Zambrini F.= _Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV ecc._Bologna, Zanichelli, 1878.--=Melzi=. _Bibliografia dei romanzi di cavalleria in versi e in prosa italiani_.__Milano, Daelli, 1865.

[59] Produciamo a saggio del nostro asserto due sole ottave:

Ma de l'ostier l'innamorata figlia
non potendo frenar l'accesa voglia,
ch'ognun dorma per casa il tempo piglia
e poi d'ogni timor lieta si spoglia:
disiando il camin di molte miglia,
non pensa che 'l Meschin se ne distoglia:
ponglisi a canto ignuda, e gli si accosta
nè fu pari a la voglia la risposta.

Sveglia messer Brandisio, e fagli offerta
de la da lui già ricusata preda,
de la qual poi che 'l francioso s'accerta
non sa s'ancor ben chiaramente creda
s'ei non esce a battaglia più aperta
dicendo: E basta che mi si conceda,
ridendo seco, e franco s'appresenta
di sorta tal che la mandò contenta.

[60] Mentre il Meschino è condotto alla corte di Pacifero le guide ammirandone il femmineo volto gli chieggono se egli sia uomo o donna: inteso essere uomo gli manifestano l'uso del paese, che ricordava quello di Sodoma. Il Meschino si sdegna, e vorrebbe non entrare in tal corte, ma il re gli fa promettere che sarebbe rispettato, e l'accolse benignamente con ogni onore.

E poi la sera volse ch'egli andasse
a cena seco e fu sopra un tappeto
disteso in terra, e tal fu la sua asse;
ma quel lussurioso ed indiscreto
senza aspettar che più 'l Meschin cenasse,
per mano il piglia e con atto inquieto
lo sfrenato desir gli fa palese
onde 'l Meschin di collera s'accese.

Rinchiuso in prigione per non aver voluto soddisfare Pacifero, vien salvato dalla figliuola del re, che innamoratasi di lui va continuamente a trovarlo ove spesso

. . . . . abbraccia al Meschin suo la gola
ma ben che freddamente fosse centa
da lui nel mezzo con le braccia, fece
quel che stimar si può, ma dir non lece.

E dopo due sole altre ottave l'innamorata donzella apparisce gravida.

[61] Cf. =Rajna P=. _Ricerche intorno ai Reali di Francia_. Bologna, Romagnoli, 1872.--Il Zambrini e il Melzi citano le edizioni del _Guerino_ nell'ordine seguente: Venezia 1473, Bologna 1475, Venezia 1477, ivi 1480, Milano 1480, ivi 1482. L'Aragona ignorava forse l'autore di esso che il Rajna afferma essere Maestro Andrea de' Magnabotti da Barberino di Valdelsa maestro di canto.

RIME DI TULLIA D'ARAGONA

A DONNA ELEONORA DI TOLEDO DUCHESSA DI FIRENZE

***

TULLIA D'ARAGONA

Io so bene nobilissima e virtuosissima Signora Duchessa, che quanto la bassezza della condizion mia è men degna della altezza di quella di V. Eccell. tanto la rozzezza de' componimenti miei è minore dello ingegno e giudicio suo; e per questa cagione, sono stata in dubbio gran tempo se io dovessi indirizzare a così grande e così onorato nome quanto è quello di V. Eccell., così picciola e così ignobile fatica, come è quella de' sonetti composti da me più tosto per fuggir l'ozio molte volte, o per non parer scortese a quelli che i loro mi aveano indirizzati, che per credenza di doverne acquistar fama o pregio alcuno appresso le genti. Ma desiderando io di mostrare in qualche modo qualche parte della devotissima servitù mia verso V. Eccell. per gli obblighi che le ho molti e grandissimi sì a lei, e sì a quella dello invitto e gloriosissimo consorte suo, presi ardimento, e mi risolsi finalmente di non mancare a me medesima, ricordandomi che i componimenti di tutti gli scrittori hanno in tutte le lingue, e massimamente quegli de' poeti, avuto sempre cotal grazia e preminenza, che niuno quantunque grande, non solo non gli ha rifiutati mai, ma sempre tenuti carissimi. Perchè io ancorchè, come ho detto, conosca benissimo così l'altezza dello stato suo, come la bassezza della condizione mia, presento umilmente con devotissimo cuore queste mie poche, basse e picciole fatiche, alle moltissime, grandissime e altissime virtù di lei, pregandola con tutto l'animo non al dono voglia nè a chi dona, ma a sè medesima riguardare.




I. -- Al Duca di Firenze

Se gli antichi pastor di rose e fiori
sparsero i tempii, e vaporar gli altari
d'incenso a Pan, sol perchè dolci e cari
avea fatto a le Ninfe i loro amori:

quai fior degg'io Signor, quai deggio odori,
sparger al nome vostro, che sian pari
a i merti vostri, e tante, e così rari,
ch'ognor spargete in me grazie e favori?

Nessun per certo tempio, altare, o dono
trovar si può di così gran valore,
ch'a vostra alta bontà sia pregio eguale.

Sia dunque il petto vostro, u' tutte sono
le virtù, tempio; altare, il saggio core;
Vittima, l'alma mia, se tanto vale.

[V. 7 B. pari.; D. cari.]



II. -- Allo stesso
_(Cod. Magliabecchiano, II, I, IV)._

Se gli antichi pastor di rose e fiori
sparsero i tempii, e vaporar gl'altari
di maschi incensi a Vener, poichè cari
fece e dolci alle Ninfe i loro amori:

a voi, che sceso dai più nobil cori
degl'angiol sete, e ch'ai desiri miei cari
rendete i favor, quai più rari
fiori offrirò io? quai grati odori?

Veramente non tempio, altare, o dono
trovar si può di tal pregio e valore,
ch'a vostra cortesia sia merto uguale;

fuor che fia 'l petto vostro il tempio, u' sono
alti pensieri; e 'l saggio vostro core
fia altar; vittima, l'alma mia immortale,

[V. 6. Nel mss. leggesi: _miei o cari_.]

III. -- Allo stesso

Signor, pregio e onor di questa etade,
cui tutte le virtù compagne fersi,
che con tante bell'opre e sì diversi
effetti gite al ciel per mille strade:

quai fien, che possan mai tante, e si rade
doti vostre cantar prose, nè versi?
In voi solo (e son parca) può vedersi
giunta a sommo valor, somma bontade.

Voi saggio, voi clemente, voi cortese;
onde nel primo fior de' più verd'anni
vi fu dato da Dio sì grande impero,

per ristorar tutti gli andati danni:
e, con potere eguale al bel pensero,
por sempiterno fine a tante offese.

[V. 7 B. sol, - 13 pensiero.]

IV. -- Allo stesso

Signor d'ogni valor più d'altro adorno:
Duce fra tutti i Duci altero e solo:
Cosmo, di cui dall'uno all'altro polo,
e donde parte, e donde torna il giorno,

non vede pari il sol girando intorno:
me, che quanto più so v'onoro, e colo,
prendete in grado, e scemate il gran duolo
de l'altrui ingiusto oltraggio, e indegno scorno.

Nè vi dispiaccia, ch'el mio oscuro e vile
cantar, cerchi talor d'acquistar fama
a voi più ch'altro chiaro, e più gentile;

non guardate Signor, quanto lo stile
vi toglie (ohimè) ma quel che darvi brama
il cor, ch'a vostra altezza inchina umile.

[V. 9 D. scuro.]

V. -- Allo stesso

Nuovo Numa Toscan, che le chiar'onde
del tuo bel fiume inalzi a quegli onori
ch'ebbe già il Tebro; e le stelle migliori
girano tutte al gran valor seconde;

le tue virtuti a null'altre seconde,
alto suggetto a i più famosi cori,
da l'Arbia, ond'oggi ogni bell'alma è fuori,
mi trasser d'Arno a le felici sponde.

E al primo disio, nuovo disire,
m'accende ognor la tua bontà natìa:
tal che miglior non spero, o bramo albergo.

Così potessi un dì farmi sentire
cortese no, ma grata con la mia
zampogna, ch'a te sol, bench'indegna, ergo.

[V. 1 E. Novo; chiare.]
[2 innalzi a quegl'onori.]
[6 ai.]
[7 Dall'; infiori.]
[9 novo.]
[11 talchè.]
[12 potess'io.]
[14 che a te.]
[È inserito anche nei _Componimenti poetici delle più illustri
rimatrici_ raccolti da LUISA BERGALLI. Parte prima, che contiene le
rimatrici antiche fino all'anno 1573. In Venezia 1726, appresso
Antonio Mora, _con licenza de' superiori e privilegio_, pag. 110.]

VI. -- Allo stesso
_(Cod. Magliabecchiano II, I, IV)._

Almo Pastor, che godi alle chiar'onde
del più bel fiume che Toscana onori,
cui s'aggiran le grazie e i santi amori,
lieti spargendo intorno fiori e fronde:

le tue virtuti a null'altro seconde,
alto soggetto a più gentil pastore,
da i colli ornati già di mille allori,
mi volser con mie gregge a le tue sponde.

E al primo mio disir, nuovo disire,
aggiunto ha dentr'al cor tua cortesia,
che in le tue piagge eterno sia 'l mio albergo;

e vorrei bel almen farmi sentire
grata al tener della zampogna mia,
ma a dir el ver tant'alto el suon non ergo.

VII. -- Allo stesso

Signor, che con pietate alta e consiglio,
(onde tanto più ch'altro al mondo vali)
venisti a medicar gli antichi mali,
del fiorito per te purpureo giglio;

io che scampata da crudele artiglio,
provo gli acerbi e ingiuriosi strali
quanto sian di fortuna aspri e mortali,
a te rifuggo in sì grave periglio;

e solo chieggo umil, che come l'alma
secura vive omai ne la tua corte,
da la vicina e minacciata morte,

così la tua mercè di ben n'apporte
tanto, che l'altra mia povera salma
libera venga per le ricche porte.

[V. 12 B. m'apporte.]
[Questo sonetto leggesi anche nel_: Libro primo delle rime spirituali,
parte nuovamente raccolte da più autori, parte non più date in
luce_. In Venetia, al segno della Speranza, M.D.L. in-12, a carte 40.]

VIII. -- Allo stesso

Dive che dal bel monte d'Elicona
discendete sovente a far soggiorno
fra queste rive, ond'è che d'ogn'intorno
il gran nome Toscan più altero sona:

d'eterni fior tessete una corona
a lui, che di virtù fa 'l mondo adorno,
sceso col fortunato Capricorno,
per cui l'antico vizio n'abbandona.

E per me lodi, e per me grazia a lui
rendete, o Dive, che lingua mortale,
verso immortal virtù s'affanna indarno.

Quest'è valor, quest'è suggetto tale,
che solo è da voi sole, e non d'altrui:
così dicea la Tullia in riva d'Arno.

[V. 4 B. suona.]

IX. -- Allo stesso

Nè vostro impero ancor che bello e raro,
nè d'argento e di gemme ampia ricchezza,
che men da chi più sa si brama e prezza,
vi fanno al mondo sì famoso e chiaro:

quanto l'aver, Signor pregiato e caro,
la ben nata e gentil anima avvezza,
con severa pietate e dolce asprezza
perdonar, e punir, ch'oggi è sì raro.

Queste vi fanno tal, lunge e dappresso,
ch'al grido sol del vostro nome altero
l'alma s'inchina, e come può vi onora.

E se al caldo disìo fia mai concesso
stile al suggetto ugual, ritrarne spero
fama immortal, dopo la morte ancora.

[V. 1 E. degno e raro.]
[10 Che al.]
[11 v'onora.]
[12 desio.]
[13 soggetto.]
[B. egual.]
[_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit., pag. 110.]

X. -- Alla Duchessa di Toscana

Non così d'acqua colmo in mar discende,
nè di tante dorate arene vago
si mostra al suo paese il ricco Tago,
d'onde 'l nome real di voi si prende,

come del valor vostro a noi si stende
di mille opre divine alto ampio lago:
e quante (benchè in dir nulla m'appago)
bellezze scorge in voi chi dritto intende.

Quest'è l'arena d'oro, e queste l'onde
di beltate e virtù, che 'l bello e santo
animo e volto vostro, a l'Arno infonde.

Non più la Spagna omai gioisca tanto,
che s'ella ha 'l Tago con l'aurate sponde,
Leonora avrem noi con maggior vanto.

[V. 14 B. avremo.]

XI. -- Alla stessa

O qual vi debb'io dire o Donna o Diva,
poi che tanta beltà, tanto valore
riluce in voi, che 'l vostro almo splendore
abbaglia qual fu mai fiamma più viva?

Mi dice un bel pensier che di voi scriva,
e renda grazie, e qual si deve onore;
ma dove s'erge l'animoso core,
non giunge penna, o voce umana arriva.

So ch'ogni alto favor da voi mi viene,
come la luce al dì da quella stella,
che surge in oriente innanzi al Sole.

Ma poi che pur al fin mal si conviene
a tanta altezza l'umil mia favella,
v'appaghi il core in vece di parole.

XII. -- Alla stessa

Donna reale, a i cui santi disiri
grazia già fece la bontà superna
di me, ch'or fatto son chiara lucerna
sopra i celesti, ardenti, alti zafiri;

poi che fuor di sospetto e di martiri,
godo del ben che ne l'alme s'interna,
deh! non turbate la mia pace eterna
col pianto vostro, e co' i vostri sospiri.

Qui mi viv'io, dove 'l pensier non erra;
dove luogo non ha terreno affetto;
e co' i piè calco gli stellanti chiostri.

E se quassù giungesser gli occhi vostri,
vedendo fatto me novo angeletto,
qui bramareste, e non vedermi in terra.

[V. 1 B. a cui i.]

XIII. -- Alla stessa

S'a l'alto Creator de gli elementi
sete, Donna Real, cotanto cara,
che de la stirpe vostra altera e rara,
volle ornare i suoi chiostri eterno ardenti;

e s'or, per acquetar vostri lamenti,
vi rende il cambio di quell'alma chiara,
che di voi nata, tutto 'l ciel rischiara,
a Dio lode cantando in dolci accenti;

ragion è ben, che con eterni onori
vi cantin tutti gli spirti più rari,
com'onorata in terra e in ciel gradita.

Arno alzi l'acque al ciel, le rive infiori,
suonino i tempii, e fumino gli altari,
che 'l nuovo parto a festeggiar n'invita.

[V. 3 B. De la stirpe vostra.]
[6 Il principino D. Pietro morì il 10 giugno 1 47, e D. Garzia nacque
il 5 luglio dello stesso anno.]

XIV. -- A Maria Salviati de' Medici

Anima bella che dal padre eterno
creata prima in ciel nuda e immortale,
or vestita di vel caduco e frale,
mostri qua giuso il gran valore interno:

da gli alti chiostri in questo basso inferno
u' si n'aggrava il rio peso mortale,
scendesti a torne noia e a darne l'ale
al sommo bello, al sommo ben superno;

chiunque te pur una volta mira,
sente sgombrar da l'alma ogni vil voglia,
e arder tutta di celeste amore.

Dunque ver me col divin raggio spira
del disiato tuo santo favore,
ch'io voli al Ciel con la terrena spoglia.

[V. 7 E. ne.]
[9 B. sol.]
[11 Ed; tutto. - _Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit., pag. 111.]

XV. -- Alla stessa
_(Cod. Magliabecchiano II, I, IV)._

Anima bella, che dal Padre eterno
pura fosti creata e immortale,
e ingombra di velo oscuro e frale,
pur di fuor mostri il tuo valor interno:

dal ciel scendesti in questo vivo inferno,
u' n'aggrava il terren peso mortale,
per innalzarne dibattendo l'ale
al sommo bello, e sommo ben superno.

Tu di casti pensier, d'onesta voglia
ingombri l'alma a chi tuo esempio mira,
e le fai vaghe del verace amore.

Dunque ver me col vivo raggio spira
del desiato tuo almo favore,
ch'io m'erga, e inalzi al ciel da questa spoglia.

XVI. -- A. D. Luigi di Toledo

Spirto gentil, che dal natìo terreno
la chiarezza del sangue, e dal ciel chiara
anima avesti, e a cui d'ogni più rara
virtù colmar le sante Muse il seno;

poi che 'l cor vostro è d'alto valor pieno,
e real cortesia da voi s'impara,
non mi sia, prego, vostra mente avara
di ciò, ch'altrui donando, non vien meno.

Voi sete quel, ch'avete ambe le chiavi
di quegli eccelsi, e gloriosi cori
che fan più ch'ancor mai felice l'Arno;

or volgetele a me così soavi,
ch'entro raccolta, mai non esca fuori;
e prego umil non sia 'l mio prego indarno.

XVII. -- A D. Pedro di Toledo

Ben si richiede al vostro almo splendore
del chiaro sangue, e a la virtù eccellente,
che si canti Signore eternamente
ne' giochi di Parnaso il vostro onore;

ond'è ch'a dir di voi, dentr'al mio core
s'accende ognor un vivo foco ardente;
ma come a l'alta impresa non si sente
l'anima ugual, si spenge il novo ardore.

Non s'assicura nel profondo seno
di vostre glorie entrar mia navicella
sotto la scorta del mio cieco ingegno.

Solchi 'l gran mar di vostre lodi a pieno
più felice alma, a cui più chiara stella
porga favore in più securo legno.

XVIII. -- A Pietro Bembo

Bembo, io che fino a qui da grave sonno
oppressa vissi, anzi dormii la vita,
or da la luce vostra alma infinita,
o sol d'ogni saper maestro e donno,

desta apro gli occhi, sì ch'aperti ponno
scorger la strada di virtù smarrita;
ond'io lasciato ove 'l pensier m'invita
de la parte miglior per voi m'indonno:

e quanto posso il più mi sforzo anch'io,
scaldarmi al lume di sì chiaro foco,
per lasciar del mio nome eterno segno.

E o non pur da voi si prenda a sdegno
mio folle ardir, che se 'l sapere è poco,
non è poco, Signor, l'alto disìo.

[V. 2 B. dormì; - C. D. dormii.]
[3 E. dalla.]
[12 Ed oh! - _Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag. 111.]

XIX. -- A Ridolfo Baglioni

Signore in cui valore e cortesia
giostrano insieme ognor tanto ugualmente,
che discerner non puote umana mente,
di qual di lor più la vittoria sia;

mia fredda Musa a voi già non s'invia
per celebrar vostra virtute ardente;
ma perch'in voi nomar conosce e sente,
sorger nel vostro onor la gloria mia.

Ben porta nel mio core un caldo affetto
il vivo lume vostro, ch'è sì chiaro,
che risplender si vede in ogni parte.

Ma prenda voi per degno alto suggetto,
chi al quieto Apollo è tanto caro,
quanto voi sete al bellicoso Marte.

[V. 2 B. egualmente;]
[8 C. scorger.]

XX. -- A Francesco Crasso

La nobil valorosa antica gente,
che di novo i fratelli ancisi vede,
e in acerbo esilio a pianger riede,
Signore, a te, s'inchina umilemente.

E potendo vendetta arditamente
gridar da' monti, e piaghe, e mille prede,
mercè sola e pietate a te richiede,
di comune voler, pietosamente.

O sanator de le ferite nostre,
mira la velenosa e cruda rabbia,
che 'l sangue giusto, ingiustamente sugge.

Così tosto avverrà, ch'in te si mostre,
com'a gran torto, tanti danni or abbia
la gente, cui pietate e doglia strugge.

[V. 2 B. D. E. nuovo.]
[6 B. C. D. E. de' morti. _Componimenti poetici_, ecc.,
ediz. cit. pag. 112.]

XXI. -- Al Molza

Poscia (ohimè) che spento ha l'empia morte
l'alma gentil, ch'in sua più verde etade,
a gran passi salìa l'erte contrade
che menan dritto a la superna corte;

chi fia che leggi così crude e torte,
spirti amici d'onor e di bontade,
non pianga meco ognor, ch'a le più rade
virtù die' sempre il ciel vite più corte?

Molza ben pianger dei, poi ch'al camino
ove ti sprona un disusato ardire,
perduta hai meco la più fida scorta.

Io per me dopo sì fero destino
non voglio altro, non deggio che morire
se morir deve e puote, chi è già morta.

[V. 1 B. l'avara; C. D. empia.]

XXII. -- Al Colonnello Luca Antonio

Poi che rea sorte ingiustamente preme
voi, ch'alto albergo sete di valore,
sento, spirto gentil, un tal dolore,
che con voi l'alma mia ne giace insieme.

L'anima mia ne giace, e 'l petto geme,
di non poter mostrar nel riso il core,
a voi, cui bramo con perpetuo onore,
piacer servendo, insino a l'ore estreme

Il disìo d'ora in ora a voi mi porta:
quindi rispetto onesto mi ritiene:
e disvoler conviemmi quel ch'io voglio.

In sì dubbioso stato mi conforta,
che ben v'è noto quel che si conviene,
e questo fa minore il mio cordoglio.

[V. 1 E. Poichè.]
[2 siete.]
[8 all'ore. - _Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag. 112.]

XXIII. -- Ad Ugolino Martelli

Mentre ch'al suon de i dotti ornati versi,
fate d'Arno suonar l'ampie contrade,
cantando insieme a più ch'ad una etade
con le virtù, ch'a voi sì amiche fersi,

a me, caro Martel, sono tanto avversi
i fati, ch'ogni ben dal cor mi cade;
e per occulte, solitarie strade,
vo' lagrimando il dì che gli occhi apersi.

Tal che del pianto mio, del mio languire,
languisce e piagne ogni sterpo e ogni sasso,
e le fiere e gli augelli in ogni parte.

Voi mentre affligge me l'empio martire,
deh! consolate lo mio spirto lasso,
con vostre eterne e onorate carte.

XXIV. -- Allo stesso

Più volte, Ugolin mio, mossi il pensiero
per risonar con la zampogna mia,
vostra rara virtute e cortesia,
poggiando al ciel col bel suggetto altero.

Ma, lassa, invan m'affanno (o destin fero)
che roco è 'l suono, e la mia sorte ria,
sì dietro a i miei dolor tutta m'invia,
che levarmi da terra, unqua non spero.

Cantino altri di voi tanti pastori,
che pascon le lor gregge a l'Arno intorno,
a cui le Muse, a cui fortuna è amica;

io s'unqua al mio felice stato torno,
non pur non tacerò miei santi ardori,
ma voi sarete mia maggior fatica.

[V. 1 E. movo]
[10 greggie.]
[_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag. 115.]

XXV. -- Allo stesso
_(Cod. Vat. Ottob. 1595)._

Ho più volte, Signor, fatto pensiero
di risonar con la zampogna mia,
di te il valor e l'alta cortesia,
salendo al ciel presso al suggetto altiero.

Ma, lassa, invan m'affanno, o destin fiero,
che roco è 'l suono, e mia fortuna rìa,
sì dietro a miei dolor tutta m'invia,
che levarmi di terra indarno spero.

Cantin di te tanti gentil pastori,
che pascon le lor greggie al Po d'intorno,
a cui le Muse, a cui fortuna è amica:

forse il mio Mopso ancor, fatto ritorno,
farà sentir non pur suoi bassi amori,
ma tu sarai la sua maggior fatica.

[Questo sonetto diretto prima al Martelli, appare qui scritto per il
Muzio come chiaramente rilevasi dal nome di _Mopso_.]

XXVI. -- Allo stesso

Ben sono in me d'ogni virtute accese
le voglie tutte, e gli spirti alto intenti;
ma 'l poter e l'oprar sì freddi e spenti,
ch'io mi veggo aver l'ore indarno spese.

Onde non lodi no, ma gravi offese
mi son le rime vostre, e però tenti
vostr'alto stil, fra tante e sì eccellenti,
mille di lui cantar più degne imprese.

Ben può celar il ver finta bugia,
a qualche tempo, o 'n qualche loco, o parte:
ma non sì ch'ei non vinca, e 'n sella stia,

dunque per più secura e corta via,
rivolgete, Ugolin, tanta vostra arte,
ch'in altrui molto, in me poco sarìa.

[Risposta al sonetto, del Martelli: _Se lodando di voi quel che palese._]

XXVII. -- A Benedetto Varchi

Varchi, da cui giammai non si scompagna
il coro de le Muse, e ch'a l'affanno
com'a la gioia, a l'util com'al danno,
sempre avete virtù fida compagna;

qual monte, o valle, o riviera, o campagna,
non sarìa a voi più che dorato scanno:
se come fumo innanzi a lei sen vanno
gli umani affetti, ond'altri più si lagna?

O perchè errar a me così non lice
con voi pe' i boschi, com'ho 'l core acceso,
de l'onorate vostre fide scorte?

Ch'avendo ogni pensiero al cielo inteso,
vivendo viverei vita felice,
e morta sperarei vincer la morte.

XXVIII -- Allo stesso

Varchi, il cui raro e immortal valore,
ogni anima gentil subito invoglia,
deh! perchè non poss'io, com'ho la voglia
del vostro alto saver colmarmi il core?

che con tal guida so ch'uscirei fore,
de la man di fortuna, che mi spoglia
d'ogni usato conforto: e ogni mia doglia
cangerei in dolce canto, e 'n miglior ore.

Ahi! lassa, io veggio ben che la mia sorte
contrasta a così onesto e bel desire,
sol perchè manch'io sotto l'aspre some.

Ma s'i me pur così convien finire,
la penna vostra almen, levi il mio nome
fuor degli artigli d'importuna morte.

[V. 4 E. saper.]
[5 fuore.]
[6 Delle.]
[11 Sol perch'io manchi.]
[_Componimenti poetici_, ecc. ediz. cit. pag. 113.]

XXIX. -- Allo stesso

Quel che 'l mondo d'invidia empie e di duolo,
quel che sol di virtute è ricco e adorno,
quel che col suo splendor un lieto giorno
chiaro ne mostra a l'uno e all'altro polo:

quel sete Varchi voi, quel voi che solo,
fate col valor vostro oltraggio e scorno
a i più lontan, non ch'ai vicin d'intorno;
ond'io v'ammiro, riverisco e colo.

E di voi canterei mentre ch'io vivo,
s'al gran suggetto il mio debile stile,
giunger potesse di gran spazio almeno.

O pur non fosse a voi noioso e schivo
questo mio dire, scemo e troppo umile:
che per voi renderassi altero e pieno.

XXX. -- Allo stesso

Se 'l ciel sempre sereno e verdi i prati,
sieno al bel gregge tuo, dolce pastore
vero d'Arcadia e di Toscana onore,
più chiaro fra i più chiari e più pregiati:

se tanto in tuo favor girino i fati,
che mai tor non ti possa il dato core
Filli, nè tu a lei tuo santo amore,
onde vi gridi ogni uom saggi e beati:

dinne, caro Damon, s'alma sì vile
e sì cruda esser può, ch'essendo amata
renda invece d'amor tormenti e morte.

Ch'io temo (lassa) se 'l tuo dotto stile
non mi leva il dubbiar, d'esser pagata
di tal mercede, sì dura è mia sorte.

[V. 7 E. casto.]
[_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag. 114.]

XXXI. -- Allo stesso

Dopo importuna pioggia
s'allegrano i pastor, quando 'l sereno
ciel si discopre lor di stelle pieno;

e dopo 'l corso de l'instabil luna,
ne l'apparir del sole,
gioisce ogni animal che brama il giorno;

e l'alto Dio lodar ben spesso suole,
dopo l'aspra fortuna,
spaventato nocchier al porto intorno;

e 'l Varchi è al suo ritorno
seren, sol, porto: e chi ha d'onor disìo,
si rallegra, gioisce e loda Iddio.

[V. 10 B. Varchi al; C. D. Varchi è al.]

XXXII. -- A Girolamo Muzio

Voi ch'avete fortuna sì nimica,
com'animo, valor e cortesia,
qual benigno destino oggi v'invia
a riveder la vostra fiamma antica?

Muzio gentile, un'alma così amica
è soave valore a l'alma mia,
ben duolmi de la dura e alpestra via
con tanta non di voi degna fatica.

Visse gran tempo l'onorato amore
ch'al Po già per me v'arse. E non cred'io
che sia sì chiara fiamma in tutto spenta.

E se nel volto altrui si legge il core,
spero ch'in riva d'Arno il nome mio
alto sonar ancor per voi si senta.

[V. 1 E. nemica.]
[13 all'Arno.]
[14 Alto per voi suonare ancor si senta.]
[_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag. 113.]

XXXIII. -- Allo stesso

Fiamma gentil che da gl'interni lumi
con dolce folgorar in me discendi,
mio intenso affetto lietamente prendi,
com'è usanza a tuoi santi costumi;

poi che con l'alta tua luce m'allumi
e sì soavemente il cor m'accendi,
ch'ardendo lieto vive e lo difendi,
che forza di vil foco nol consumi.

E con la lingua fai che 'l rozo ingegno,
caldo dal caldo tuo, cerchi inalzarsi
per cantar tue virtuti in mille parti;

io spero ancor a l'età tarda farsi
noto che fosti tal, che stil più degno
uopo era, e che mi fu gloria l'amarti.

[V. 5 E. coll'alta.]
[8 foco lo consumi.]
[14 d'amarti.]
[_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag. 114.]

XXXIV. -- Allo stesso

Spirto gentil, che vero e raro oggetto
se' di quel bel, che più l'alma disìa,
e di cui brama ognor la mente mia
essere al tuo cantar caro suggetto;

se di pari n'andasse in me l'effetto
con le tue lode, onor render potrìa
mia penna a te; ma poi mia sorte rìa
m'ha sì bramato onor tutto interdetto.

Sol dirò, che seguendo la sua stella,
l'anima tua da te fece partita,
venendo in me, com'in sua propria cella;

e la mia, ch'ora è teco insieme unita,
ten può far chiara fede, come quella,
che con la tua si mosse a cangiar vita.

[V. 2 D. Sei; E. desia.]
[5 si andasse.]
[_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit. pag, 116. - Risposta al
sonetto del Muzio: _Donna, il cui grazioso e altero aspetto_.]

XXXV. -- A Bernardo Ochino

Bernardo, ben potea bastarvi averne
co 'l dolce dir, ch'a voi natura infonde,
qui dove 'l re de fiumi ha più chiare onde,
acceso i cuori a le sante opre eterne;

che se pur sono in voi pure l'interne
voglie, e la vita al vestir corrisponde,
non uom di frale carne e d'ossa immonde,
ma sete un voi de le schiere superne.

Or le finte apparenze, e 'l ballo, e 'l suono,
chiesti dal tempo e da l'antica usanza,
a che così da voi vietati sono?

Non fora santità, fora arroganza
torre il libero arbitrio, il maggior dono
che Dio ne diè ne la primiera stanza.

XXXVI. -- Ad Emilio Tondi

Siena dolente i suoi migliori invita
a lagrimar intorno al suo gran Tondi,
al cui valor ben furo i cieli secondi,
poscia invidiaro l'onorata vita.

Marte il pianger di lei col pianto aita,
morto 'l campion, cui fur gli altri secondi;
io prego i miei sospir caldi e profondi,
ch'a sfogar sì gran duol porgano aita.

So che non pon recar miei tristi accenti,
a voi, messer Emilio, alcun conforto,
che fra tanti dolori il primo è 'l vostro.

Ma 'l duol si tempri; il suo mortale è morto;
vive 'l suo nome eterno fra le genti:
l'alma trionfa nel superno chiostro.

XXXVII. -- A Tiberio Nari

Se veston sol d'eterna gloria il manto
quei che l'onor più che la vita amaro,
perchè volete voi, gentil mio Naro,
render men bella con acerbo pianto

quella lode immortale e chiara tanto,
di cui mai non sarà chi giunga al paro
del valoroso vostro fratel caro,
che morendo portò di morte 'l vanto?

Scacciate 'l duol è rasserenate il volto;
e le unite da lui nemiche spoglie
sacrate a lui, che già trionfa in cielo.

E da questo mortal caduco velo
più che mai vivo, ormi libero e sciolto,
par ch'a seguirlo ogni bell'alma invoglie.

XXXVIII. -- A Piero Manelli

Poi che mi diè natura a voi simile
forma e materia, o fosse il gran Fattore,
non pensate ch'ancor disìo d'onore
mi desse, e bei pensier, Manel gentile?

Dunque credete me cotanto vile,
ch'io non osi mostrar cantando, fore,
quel che dentro n'ancide altero ardore,
se bene a voi non ho pari lo stile?

Non lo crediate, no, Piero, ch'anch'io
fatico ognor per appressarmi al cielo,
e lasciar del mio nome in terra fama.

Non contenda rea sorte il bel desìo,
che pria che l'alma dal corporeo velo
si scioglia, sazierò forse mia brama.

[V. 7 D. m'ancide.]

XXXIX. -- Allo stesso

Amore un tempo in così lento foco
arse mia vita, e sì colmo di doglia
struggeasi 'l cor, che quale altro si voglia
martir, fora ver lei dolcezza e gioco.

Poscia sdegno e pietate a poco a poco
spenser la fiamma, ond'io più ch'altra soglia
libera da sì lunga e fera voglia,
giva lieta cantando in ciascun loco.

Ma 'l ciel nè sazio ancor (lassa) nè stanco
de' danni miei, perchè sempre sospiri,
mi riconduce a la mia antica sorte;

e con sì acuto spron mi punge il fianco,
ch'io temo sotto i primi empii martiri
cader, e per men mal bramar la morte.

[_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit., pag. 115.]
[_Parnaso italiano ovvero raccolta di poeti classici italiani_,
Venezia 1787, presso Antonio Zatta, vol. XXX, pag. 240.]
[_Scelta di sonetti e canzoni dei più celebri rimatori d'ogni
secolo_. Quarta edizione con nuova aggiunta. Parte seconda che
contiene i rimatori dal 1550 sino al 1600 e del 1600. In Venezia,
presso Lorenzo Baseggio, 1784 in-12, a carte 532.]

XL. -- Allo stesso

Qual vaga Filomela, che fuggita
è da l'odiata gabbia, e in superba
vista sen va tra gli arboscelli e l'erba,
tornata in libertate e in lieta vita;

er'io da gli amorosi lacci uscita,
schernendo ogni martìre e pena acerba
de l'incredibil duol, ch'in sè riserba
qual ha per troppo amar l'alma smarrita.

Ben avev'io ritolte (ahi stella fera!)
dal tempio di Ciprigna le mie spoglie,
e di lor pregio me n'andava altera;

quand'a me Amor: le tue ritrose voglie,
muterò, disse; e femmi prigioniera
di tua virtù, per rinovar mie doglie.

XLI. -- Allo stesso

Felice speme, ch'a tant'alta impresa
ergi la mente mia, che ad or ad ora
dietro al santo pensier che la innamora,
sen vola al Ciel per contemplare intesa.

De bei disir in gentil foco accesa,
miro ivi lui, ch'ogni bell'alma onora,
e quel ch'è dentro, e quanto appar di fora,
versa in me gioia senz'alcuna offesa.

Dolce, che mi feristi, aurato strale,
dolce, ch'inacerbir mai non potranno
quante amarezze dar puote aspra sorte;

pro mi sia grande ogni più grave danno,
che del mio ardir per aver merto uguale
più degno guiderdon non è che morte.

[CRESCIMBENI: _Istoria della volgar poesia_, Venezia, presso Lorenzo
Baseggio, 1730, vol. IV, pag. 68.]

XLII. -- Allo stesso

S'io 'l feci unqua che mai non giunga a riva
l'interno duol, che 'l cuor lasso sostiene;
s'io 'l feci, che perduta ogni mia spene
in guerra eterna de vostr'occhi viva;

s'io 'l feci, ch'ogni dì resti più priva
de la grazia, onde nasce ogni mio bene;
s'io 'l feci, che di tante e cotai pene,
non m'apporti alcun mai tranquilla oliva;

s'io 'l feci, ch'in voi manchi ogni pietade,
e cresca doglia in me, pianto e martìre
distruggendomi pur come far soglio;

ma s'io no 'l feci, il duro vostro orgoglio
in amor si converta: e lunga etade
sia dolce il frutto del mio bel disire.

XLIII. -- Allo stesso

Se ben pietosa madre unico figlio
perde talora, e nuovo, alto dolore
le preme il tristo e suspiroso core,
spera conforto almen, spera consiglio.

Se scaltro capitano in gran periglio,
mostrando alteramente il suo valore,
resta vinto e prigion, spera uscir fuore
quando che sia con baldanzoso ciglio.

S'in tempestoso mar giunto si duole
spaventato nocchier già presso a morte
ha speme ancor di rivedersi in porto.

Ma io, s'avvien che perda il mio bel sole,
o per mia colpa, o per malvagia sorte,
non spero aver, nè voglio, alcun conforto.

XLIV. -- Allo stesso

Se forse per pietà del mio languire
al suon del tristo pianto in questo loco
ten vieni a me, che tutta fiamma e foco
ardomi, e struggo colma di disire,

vago augellino, e meco il mio martìre
ch'in pena volge ogni passato gioco,
piangi cantando in suon dolente e roco,
veggendomi del duol quasi perire;

pregoti per l'ardor che sì m'addoglia,
ne voli in quella amena e cruda valle
ov'è chi sol può darmi e morte e vita;

e cantando gli di' che cangi voglia,
volgendo a Roma 'l viso, e a lei le spalle,
se vuol l'alma trovar col corpo unita.

XLV. -- Allo stesso

Ov'è (misera me) quell'aureo crine
di cui fe' rete per pigliarmi Amore
ov'è (lassa) il bel viso, onde l'ardore
nasce, che mena la mia vita al fine?

Ove son quelle luci alte e divine
in cui dolce si vive e insieme more?
ov'è la bianca man, che lo mio core
stringendo punse con acute spine?

Ove suonan l'angeliche parole,
ch'in un momento mi dan morte e vita?
u' i cari sguardi, u' le maniere belle?

Ove luce ora il vivo almo mio sole,
con cui dolce destin mi venne in sorte
quanto mai piovve da benigne stelle?

XLVI. -- Ad Alessandro Arrighi

Spirto gentil, s'al giusto voler mio
non è cortese il cielo e amico tanto,
ch'io possa con ragion lodarvi quanto
me fate, e io far voi spero e desio;

dolgomi del mio fato acerbo e rio,
che ciò mi niega, rivolgendo in pianto
il mio già lieto e dilettoso canto,
per cui fan gli occhi miei si largo riso.

Ma se fortuna mai si mostra amica
a le mie voglie, non dubito ancora
poter cantarvi tal qual mio cor brama,

e far sentir per questa piaggia aprìca
quant'è 'l valor, ch'in voi mio core onora,
piacciavi s'or lo riverisce e ama.

[Risposta al sonetto dell'ARRIGHI: _S'un medesimo stral duo petti
aprìo_.]

XLVII. -- A Lattanzio de' Benucci

Io ch'a ragion tengo me stessa a vile,
nè scorgo parte in me che non m'annoi,
bramando tormi a morte e viver poi
ne le carte d'un qualche a voi simile,

cercando vo per questo lieto aprile
d'ingegni mille, non pur uno o doi
suggetti degni de i più alti eroi,
e d'inchiostro al mio tutto dissimile.

Però dovunque avvien, che mai si nome
alteramente alcuno, indi m'ingegno
trar rime, onde s'eterni il nome nostro.

E spero ancor, se 'l mio cangiar di chiome
non rende pigro questo ardito ingegno,
d'Elicona salire al sacro chiostro.

[Risposta al sonetto del BENUCCI: _Deh, non volgete altrove il dotto stile_.]

XLVIII. -- Ad Antonio Grazzini _(Lasca)_

Io che fin qui quasi alga ingrata e vile
sprezzava in me così l'interna parte,
come u' di fuor, che tosto invecchia e parte
da noi ben spesso nel più bello aprile,

oggi, Lasca gentil, non pur a vile
non mi tengo (mercè de le tue carte)
ma movo ancor la penna ad onorarte,
fatta in tutto a me stessa dissimile.

E come pianta che suggendo piglia
novo licor da l'umido terreno
manda fuor frutti e fior, benchè s'attempi:

tal'io potrei, sì nuovo mi bisbiglia
pensier nel cor di non venir mai meno,
dar forse ancor di me non bassi esempi.

[V. 3 B. un; C. D. u']
[Risposta al sonetto del LASCA: _Se 'l vostro alto valor, Donna gentile_.]

XLIX. -- A Nicolò Martelli

Ben fu felice vostro alto destino,
poi che vena vi die' tanto feconda,
che 'l santo Apollo il vostro dir seconda
più ch'ei non fece al suo diletto Lino.

Il coro de le Muse a capo chino
lieto v'onora, e 'l bel crin vi circonda
di vaghi fiori e d'odorata fronda:
perchè ragion è ben s'a voi m'inchino.

Il cantar vostro l'anime innamora,
e le fa da se stesse pellegrine,
che celeste virtù può ciò che vuole.

E 'n voi mirando grazie sì divine
chi ha più gentil spirto più v'onora,
altri d'invidia si lamenta e dole.

[V. 7 adorata; C. D. odorata.]
[8 E. Quindi.]
[11 fa.]
[14 duole.]
[_Componimenti poetici_, ecc., ediz. cit., pag. 116. - Risposta al
sonetto del MARTELLI: _Se 'l mondo diede allor la gloria a Arpino._]

L. -- A Simone Porzio

Porzio gentile, a cui l'alma natura
e i sacri studi han posto dentro 'l core
virtù, ch'esser vi fa primo cultore
di lei, cui 'l cieco mondo oggi non cura;

poi che rendete a feconda coltura
sue alpestre piaggie, onde d'eterno onore
semi spargete, e d'immortal valore
cogliete frutti che 'l tempo non fura;

piacciavi, prego, che vostra alta mente
a l'umil pianta mia volga il pensieio,
s'ella forse non n'è del tutto indegna,

che di quel che per me poter non spero,
col favor vostro a la futura gente
di maraviglia ancor si farà degna.

LI. -- A Giordano Orsini

Alma gentil, in cui l'eterna mente,
per farvi sovra ogni alma, bella e chiara,
pose ogni studio; onde per voi s'impara
la via di gir al ciel sicuramente;

sì come il mondo della più eccellente
cosa di voi non ha, nè tanto cara;
e come sola sete e non pur rara
d'ogni virtute ornata interamente;

potess'io dirne appien quanto 'l cor brama,
che d'invidia empirei e di dolore
ogni spirto più saggio e più gentile,

benchè vostro valor eterna fama
per se vi acquisti, caro mio signore,
quanto 'l sol gira e Battro abbraccia e Tile.

LII. -- Al Card. di Tournon

Sacro pastor, che la tua greggia umile,
di caritade acceso e d'Amor pieno,
guidi fuor del mortal camin terreno,
per ricondurla al suo celeste ovile;

se 'l ben'oprar ti rende a Dio simile,
or che raggio divin le scalda il seno,
ricevi o Santo nel tuo pasco ameno
questa tua pecorella errante e vile;

sì che possa ridotta in piagge apriche,
ove nocer non può contraria sorte,
nè fiere stelle al nostro danno intente;

poste in oblìo l'acerbe sue fatiche
fuggir le pompe, e disprezzar la morte,
tenendo sempre in Dio ferma la mente.

[Sta nel: _Sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori,
nuovamente raccolte et mandate in luce con un discorso di GIROLAMO
RUSCELLI, al molto Reverendo et honoratiss. Monsignor Girolamo
Artusio. Con gratia et privilegio_. In Vinegia, al _Segno del Pozzo_,
M.D.LIII, a carte 182.]

LIII. -- Allo stesso

Signor nel cui divino alto valore
tanto si gloria l'una Gallia altera,
e l'altra tutta mesta e afflitta spera
por fin a l'aspro suo grave dolore,
poscia che voi tornando, il suo splendore
torna e fa bella Roma:
ecco la sparsa chioma,
ella v'accoglie lieta, e manda fore,
voci gioconde a asciuga gli occhi molli,
e Tornon grida 'l Tebro e i sette colli.

La pace, la letizia, a la sublime
schiera de le virtù sacre, ch'a noi
spariro al partir vostro, ora con voi
riedono, e fan contesa al tornar prime
le Muse a celebrarvi in versi e in rime;
destano i chiari spirti,
ond'or s'ergano i mirti,
e i lauri spargon l'onorate cime,
e prima de l'usato il mondo infiora,
e l'aria empie d'odor Favonio e Flora.

Fra tanto almo gioir, fra tanta festa,
ch'oggi al vostro tornar si mostra e sente,
anch'io la speme, e la letizia spente
poter nudrir ne l'alma dubbia e mesta,
se mirate, Signor, quel che m'infesta
noioso e aspro duolo
che voi potete solo
ridurmi in porto da crudel tempesta,
e volgendo ver me pietoso il ciglio
trar mia vita di doglia e di periglio.

Canzon, se innanzi a lui per grazia arrivi,
che dee chiuder di Giano il tempio aperto,
benchè nulla è 'l mio merto,
pregal, che sola non mi lasci in guerra
poi che per lui si spera pace in terra.

[_Sesto libro delle Rime_ raccolte dal RUSCELLI, Venezia 1553, c. 183.]

LIV.

Se materna pietate afflige il core
onde cercando in questa parte e in quella
il caro figlio tuo, Lilla mia bella,
piangi, e cresci piangendo il tuo dolore:

a te, ch'animal se' di ragion fore,
e non intendi (ohimè) quanto rubella
sia stata ad ambe noi sorte empia e fella,
togliendo a te 'l tuo figlio, a me 'l mio amore;

che far (lassa) degg'io? Qual degno pianto
verseran gli occhi miei dal cor mai sempre,
che conosco il tuo male, e 'l mio gran danno?

Chi potrà di Psichi con alto canto
cantar l'altere lodi: o con quai tempre
temprar quel, che mi da sua morte affanno?

[V. 3 Lilia; C. D. Lilla.]
[5 C. D. sei.]
[12 C. D. Chi di Psichi potrà.]

LV.

Ben mi credea fuggendo il mio bel sole
scemar (misera me) l'ardente foco
con cercar chiari rivi, e starne a l'ombra
ne i più fronzuti e solitarii boschi;
ma quanto più lontan luce il suo raggio
tanto più d'or in or cresce 'l mio vampo.

Chi crederebbe mai che questo vampo
crescesse quanto è più lontan dal sole?
E pur il provo, che quel divin raggio
quant'è più lunge più raddoppia il foco:
nè mi giova abitar fontane o boschi,
ch'al mio mal nulla val, fresco, onda od ombra.

Ma non cercherò più fresco, onda od ombra,
che 'l mio così cocente e fero vampo
non ponno ammorzar punto fonti o boschi;
ma ben seguirò sempre il mio bel sole,
poscia che nuova salamandra in foco
vivo lieta, mercè del divo raggio.

[V. 10 B. longe; C. D. lunge.]

[LV.]
_(Codice Vat. Ottob. 1595, c 118-119)_

Ben mi credea fuggendo il mio bel sole
scemar misera a me l'estremo fuoco,
con cercar chiari rivi e stare all'ombra
dei verdi faggi ed abitar fra boschi;
ma quanto più lontano è il suo bel volto
tanto più d'or in or cresce 'l mio vampo.

Chi crederebbe mai che questo vampo
crescesse quanto è più lontan dal sole?
Io pur il provo, che quel divin volto
accresce e 'n me raddoppia ognor il fuoco,
nè mi giova cercar fontane o boschi,
che questo sol non cuopre e frondi ed ombra.

Non cercarò vie più posare all'ombra
per minuire il mio cocente vampo,
nè, lassa, errando, gir tra folti boschi;
ma ben seguirò io sempre quel sole
per cui sì lieta mi nutrico in fuoco,
che a ciò mi sforza il cielo col suo bel volto.

Deh! perchè non m'alluma il vivo raggio
ovunqu' io vado, o per sole o per ombra,
che lieta soffrirei sì dolce foco,
e contenta morrei del suo gran vampo?
Ma non spero giammai, lassa, che 'l sole
scopra giorno sì chiaro in questi boschi.

Ond'avrò sempre in odio i monti e i boschi
che m'ascondon la luce di quel raggio,
che splende e scalda più de l'altro sole;
biasmi chi vuole e fugga i raggi a l'ombra,
ch'io per me cerco sempre e lodo il vampo
che m'arde e strugge in sì possente foco.

Quanto dunque mi fora grato il foco,
ingrati i monti, e le fontane, e i boschi,
u' non veggo il mio sole e sento il vampo
s'io potessi appressar l'amato raggio
e del mio stesso corpo a lui far ombra,
e quando parte e quando torna il sole.

Prima sia oscuro il sole e freddo il foco,
nè faranno ombra in nessun tempo i boschi,
che del bel raggio in me non arda il vampo.

[V. 11 B. certo.]

Deh! perchè non è meco il sacro volto
dovunque io vadi, o per sole o per ombra,
ch'avria forse men forza al cuore il fuoco
e soffrirei più lieta ogni mio vampo;
ma puote solo un raggio del mio sole
farmi beata ne gli ombrosi boschi.

E perciò in odio avrò sempre quei boschi
che torrammi il veder del sacro volto,
e i chiari raggi dell'almo mio sole
che fean sgombrar le nube e fuggir l'ombra,
e me sola gioir nel chiaro vampo
qual salamandra nel più ardente fuoco.

Quanto mi fora dilettoso il fuoco,
noiosi i fonti e via men grati i boschi,
men cari i faggi e men noioso il vampo,
s'unir potessi il mio volto al bel volto
e col mio stesso corpo al suo far ombre,
ben d'arder godrei toccando il sole.

Deh, dicesse il mio sole: anch'io sto in foco
però non cercar più ombra ne' boschi,
che vo' che 'l volto mio tempri il tuo vampo.

[Questo componimento fu probabilmente diretto al MANELLI, quantunque
il _sacro volto_ lasci credere trattarsi di qualche porporato.]

LVI.

Alma del vero bel chiara sembianza,
a cui non può far schermo nè riparo
così gentil e cristallina stanza
che non mostri di fuor l'altero e raro
splender, che sol ne da ferma speranza
del ben, ch'unqua non fura il tempo avaro:
deh! fa, se morta m'hai, ch'in te rinnovi
acciò di doppia morte il viver pruovi.

[CRESCIMBENI. _Istoria della volgar poesia_, ecc., ediz. cit., vol. I,
pag. 36.]

LVII.
_(cod. Vat. Ottob. 1595, c. 119)_

Lieto viss'io sotto un bianco lauro
e vivrò fin che 'l bianco amor m'infondi
non per ornar le tempie d'ostro e d'auro
ma sol delle tue sacre altiere frondi;
ma poi che più e più volte il sole in Tauro
tornato fa che i suoi bei crini ascondi
se s'affredda stagion mutarà il corso,
i frutti seccarà, le frondi e il dorso.

[Questa stanza è attribuita all'Aragona e diretta a _Madonna Laura
Spinelli_, alias _Ninì_. Nell'edizione prima delle _Rime_ posseduta
dalla Biblioteca Vittorio Emanuele il sonetto n. XXX porta scritto
sopra a penna: alla _S. Philomena Ninì_.]

RIME A TULLIA D'ARAGONA

1. -- Di Girolamo Muzio

Amor nel cor mi siede e vuoi ch'io dica
di qual esca racceso a l'alma mia
sia 'l novo ardor, qual il soggetto sia
ch'è de l'animo mio dolce fatica.

Alma gentil d'alti pensieri amica,
lumi amorosi, angelica armonia,
fan ch'ogni mio disir lieto s'invia
per le vestigia de la fiamma antica.

Colei ch'io canto, nacque in su le sponde
del chiaro fiume che d'eterni allori
ben mille volte ornò le verdi chiome;

visse in tenera etate presso a l'onde
del più bel fonte che Toscana onori:
la sua stirpe è Aragon: Tullia il suo nome.

2. -- Dello stesso

Donna che sete in terra il primo oggetto
a l'anime amorose e ai gentil cori,
e i cui gloriosi e alteri onori
sono al mio stile altissimo soggetto;

in voi stessa si volga il chiaro aspetto
de l'alma vostra, in cui degli alti cori
risplende il bel, e 'n tutti i vostri ardori
fiammeggiar si vedrà celeste affetto.

Vedrete in voi mirando l'alma mia,
ch'in voi sempre si specchia e si fa bella,
per infiammarvi in me del vostro lume.

E 'l farà sì, per quel che mi favella
nel petto amor, se rio mortal costume
dietro a bassi pensier non vi disvia.

3. -- Dello stesso

Anima bella, che da gli alti chiostri
fosti mandata in questo cieco inferno
a consumar nel suggetto ampio e eterno,
i più famosi e più purgati inchiostri;

mentre s'affannan gl'intelletti nostri
a contemplar il tuo valore interno,
con la voce e con gli occhi al ben superno
gl'inalzi, e d'ire al ciel la via ne mostri.

Quinci è che quale ha in terra alma più rara,
infiammata dal sol, ch'in te riluce,
più lieta a te rivolge ogni pensero.

Ed io, poi che tua fiamma in me traluce,
forse più ch'in altri soave e chiara,
e porto 'l cor d'eterna gloria altero.

4. -- Dello stesso

Quando 'l raggio del bel, ch'in voi risplende,
per l'orecchie e per gli occhi al mio mortale
trapassa, o Donna, un chiaro ardor m'assale,
che d'eterno disio tutto m'incende.

L'anima allor, che 'l novo affetto intende
mover d'alta cagione, ogni mortale
piacer schernendo, e al ciel battendo l'ale,
verso l'amato lume il camin prende:

e com'aquila al sol drizzando gli occhi
al foco vostro s'erge a la salita,
dove alfin pace le promette amore.

Deh! siate larga a lei del bel splendore,
e porgete al suo volo pronta aita,
acciocchè inferma e cieca non trabocchi.

5. -- Dello stesso

Mentre le fiamme più che 'l sol lucenti,
onde amor m'arde e già gran tempo m'arse,
vaghi occhi miei non vi si mostran scarse,
mandate nel mio core i raggi ardenti;

orecchi miei, mentre bramosi e intenti
notate 'l suon, che di su in terra apparse,
e ne van le sue voci all'aura sparse,
inviate a la mente i sacri accenti;

anima mia, mentre in mortale oggetto
scorgi ch'eterno è quel che dentro avampa,
allarga il seno al sempiterno zelo:

e vi rimembri che sì chiara lampa,
sì soave tenor, spirto sì chiaro,
sono a voi scala da salire al cielo.

6. -- Dello stesso

Amore ad ora ad or battendo l'ale
dal grave incarco leva il mio pensero,
e nel conduce per erto sentero
a gir in parte, ove uom per sè non sale.

E quivi ne l'oggetto alto e immortale
gli dimostra l'esempio vivo e vero,
onde discese il nostro spirto altero
a dover informar cosa mortale.

L'anima accesa a l'eterna vaghezza,
tutta s'accende a far novo disegno
del bel, ch'entro dipinge il divo aspetto.

Ma come poi si move il basso ingegno,
donna mia, per salire a tanta altezza,
cade lo stile, e manca l'intelletto.

7. -- Dello stesso

Superbo Po, ch'a la tua manca riva
tutto lieto ti volgi d'ora in ora,
per mirar lei, che le tue piaggie infiora,
e ti fa in mezzo l'onde fiamma viva;

che fa la nostra, ho da dir Donna, o Diva,
lei, che del ben del ciel l'alme innamora?
Oh fosse lunga a lei la mia dimora!
Pensa ella almen ch'io di lei pensi o scriva?

Deh! com'io dico ognor: foss'io con lei
così fosse talora il suo pensiero,
or che dee far di me privo il meschino;

oh vedesse ella aperti i dolor miei,
ch'io so che di pietà quel spirto altero
porteria gli occhi molli, e 'l viso chino.

8. -- Dello stesso

Or di là se ne vien questa dolce ora,
ov'è colei che col suo divo aspetto,
mette dentro al mio cor l'ardente affetto;
ond'ancor la sua vista mi ristora.

Oh se così potesse a ciascun ora
essere a lei presente il mio imperfetto,
come sempre la scorge il mio intelletto
io sarei pur d'ogni tormento fora.

Che se dal mover di quest'aura io sento
per sua virtù conforto a i miei martìri,
ben dovrei seco sempre esser contento.

Battete l'ale o vaghi miei sospiri,
e colà andando onde si parte il vento,
a lei portate i miei caldi disiri.

9. -- Dello stesso

Lasso, onde avvien che qui non fa ritorno
il chiaro dì, sì come altrove sole?
Non ci risplende il lume di quel sole
che solo suole a gli occhi tuoi far giorno.

In questo altrui sì placido soggiorno,
perchè son le campagne ignude e sole?
Non ci spira il favor de le parole
che fanno a sè fiorir le piaggie intorno.

Poi ch'a te chiuse sono ambe le porte
de gli occhi e de l'orecchie, anima mia,
ond'esser può che più letizia speri?

Pensa misero a te, chi ti conforte
che me al mio bene ad ora ad or n'invia
il santo amor con l'ale de i pensieri.

10. -- Dello stesso

Oh se tra queste ombrose e fresche rive,
ch'or cercan solitarii i passi miei,
meco ne fosse e con amor con lei,
di cui 'l cor sempre parla e la man scrive;

ella a seder qui presso a l'acque vive
si porria in grembo a l'erba, io in grembo a lei,
e da i boschi trarriano i semidei
al sacro aspetto e le silvestre dive.

Io lei mirando, a dir del suo valore
snoderei la mia lingua, e alcun di loro
segneria per li tronchi il chiaro nome;

ella gioiosa e umile in tanto onore
forse di varii fior, forse d'alloro,
tesseria una ghirlanda a le mia chiome.

11. -- Dello stesso

Spirto gentile in cui sì chiaramente
e ne la mortal parte e ne l'eterna,
fiammeggia il sol de la bontà superna,
ch'altro non è fra noi lume sì ardente;

mentre io con gli occhi e con l'orecchie intente
raccolgo il doppio bel, che mi governa,
sì vivo foco in me da voi s'interna
che tutta illuminar l'alma si sente;

poi, non capendo in me l'immensa fiamma,
convien ch'in alcun modo esca di fore,
mostrando i raggi de la vostra luce.

Così da voi ne vien lo mio splendore,
ch'ogni mio bel disio da voi s'infiamma,
come 'l lume de' lumi in voi traluce.

12. -- Dello stesso

Fiamma che chiaramente il mio cor ardi:
aura che dolcemente mi ristori:
spirto che alteramente m'innamori
col valor, con la voce, con gli sguardi;

quante volte avvien ch'in voi riguardi,
ch'io v'ascolti e ch'io pensi i vostri onori,
tante mi sforzo a i sempiterni cori;
ma 'l mio mortal fa poi che 'l gir ritardi.

O beata alma, angelica armonia,
o vivo lume, che degli alti chiostri
mostrate esempio a l'anime terrene,

poi ch'a i sensi e nel cor m'avete mostri
la bellezza e 'l piacer del sommo bene,
aiutatemi ancor a l'alta via.

13. -- Dello stesso

Spirto felice, in cui sì rare e tante
grazie e virtuti il ciel largo comparte,
che non so se si trovi in altra parte
che d'andar teco a paro alma si vante:

s'a me facesser le sorelle sante
del bramato lor don così gran parte,
ch'io fossi degno di ritrarre in carte
de la tua chiara effigie il bel sembiante:

so ch'io fare' un disegno sì perfetto,
che saria specchio a la futura gente
di quanto ben di su tra noi discende.

Ma, lasso, a tanto onor non mi consente
il sacro coro: e da sè il mio intelletto
sopra i fuochi celesti non ascende.

14. -- Dello stesso

Donna se mai vedeste in verde prato
surger felicemente un aureo fiore,
cui porge nutrimento dolce umore,
e vivace calor dal ciel gli è dato;

non altramente lieto e consolato
fiorir si vede un'amoroso core,
perchè 'l suo sole è 'l grazioso ardore,
e la fonte è 'l favor del viso amato.

E come quel, se manca la rugiada,
perduto il bel de le purpuree fronde
convien ch'in breve spazio a terra cada:

così se rio voler o caso indegno,
i suoi disiri altrui fura e nasconde,
seccasi il fior d'ogni felice ingegno.

15. -- Dello stesso

Il valor vostro, Donna, il cor m'incende,
lega ogni mio disir, m'impiaga il petto;
e l'alma del suo mal sente diletto,
dal ben ch'ella in voi vede, ode e intende.

M'infiamma il divo raggio onde risplende
il chiaro vostro angelico intelletto;
da i novi accenti è avvinto ogni mio affetto,
e da' begli occhi il colpo al cor discende.

E non ha Amor in tutta la sua corte,
m'oda chi vol, sì graziosi sguardi,
sì chiara voce, o sì vivace lume.

Perch'io pur prego lui, ch'ognor più forte
con tal foco, in tai lacci e con tai dardi
mi trafigga, m'annodi e mi consume.

16. -- Dello stesso

O novo esempio de l'eterna luce,
alma gentile, ond'ogni alma più rara
mirando la beltà ch'in te riluce,
del vero amore i veri effetti impara;

se del lume ch'in te dal ciel traluce,
a l'alma mia non sarai punto avara,
spero col raggio di sì altera duce
farmi fiamma di fama al mondo chiara.

Te canteran mie rime in ogni parte
e diran que' ch'avran più vivo ingegno:
qual fu quel foco onde tal lampo uscìo?

Amor promette a te ne le mie carte
nome immortale. O così fosse degno
ne le tue d'aver vita il nome mio!

17. -- Dello stesso

In su le rive del superbo fiume
ch'altrui già die' sepolcro in mezzo l'onde:
ond'altri mutò il crine in verdi fronde,
e altri si vestì di bianche piume;

invaghito del dolce altero lume,
lo qual di cielo in cielo in voi s'infonde,
e con sua luce ogni altra luce asconde,
arse 'l mio cor oltra mortal costume;

poi sendo privo de gli amati rai,
non so dove si chiuse il grande ardore,
come fuoco ch'in cener si ricopra.

Or rivedendo il vostro almo splendore,
l'antica fiamma, chiara più che mai,
convien ch'in riva d'Arno si discopra.

18. -- Dello stesso

Sogni chi vuol di riportar corona
da gli alti gioghi del sacrato monte;
altri s'attuffi nel famoso fonte
che fa più chiaro 'l nome d'Elicona;

sia gloria altrui se la sua lira suona
aver le sacre Muse al cantar pronte;
cinga altrui Febo la felice fronte
de la fronde, che mai non l'abbandona;

altri si vanti che benigna e lieta
stella, a lui rivolgendo il suo splendore,
a questa luce il fece uscir poeta;

il mio Parnaso, il mio perpetuo umore,
le mie Dive, il mio Apollo e 'l mio pianeta,
è 'l valor vostro impresso nel mio core.

19. -- Dello stesso

Donna gentile, i cui beati ardori
del celeste splendore e del mortale,
spargon virtù che mentre i cori assale,
ne l'alme accende mille eterni amori;

se 'l vostro sole interno e 'l bel di fuori,
a voi da me n'han tratto il mio immortale:
e se Amore al mio stile impenna l'ale
da gir portando al Cielo i vostri onori;

se cara sete a me più di me stesso;
s'a voi ne volar tutti i miei sospiri;
se con voi vivo e senza voi son morto;

se mi vedete 'l cor ne gli occhi espresso,
e le mie pene, e i miei caldi disiri,
ben dovreste pensare al mio conforto.

20. -- Dello stesso

Quando, com'Amor vuol, la donna mia,
tra soavi sospiri e dolci accenti,
move la lingua a angelici concenti,
e l'aura del bel petto a l'aere invia;

al suon de la dolcissima armonia
ferman le penne i tempestosi venti;
stanno i giri del ciel taciti e intenti;
e non ch'altri, ma Febo il corso oblìa.

E qual alma mortal la mira e ascolta,
ad ogni uman disìo tutta si toglie
e con tutti i pensieri al cielo aspira.

La mia, che mai da lei non si discioglie,
col vago spirto suo da Amore accolta
a quel si stringe, e 'ntorno a lei s'aggira.

21. -- Dello stesso

Ebbe la favolosa antica etade
chi co 'l tenor di feri e dolci canti
e con novo splender di rea beltade,
allettando affogava i naviganti:

e or donata ci ha l'alta bontade
donna, che con l'ardor de gli occhi santi
e con note d'amor e di pietade,
rende porto e salute a l'alme erranti.

Voi, Donna mia, voi sete alma sirena
voi, voi Tullia gentil, che fido lume
nel mar d'amor porgete e placid'aura.

La vista vostra angelica, serena,
fa ch'in voi l'altrui vita ognor s'allume,
e 'l cantar d'ogni affanno ci restaura.

22. -- Dello stesso

Già vide alle sue sponde il gelid'Ebro
Orfeo cantare, e tacite ascoltarlo
varie fere e augelli, e seguitarlo
quercia, popolo, abete, olmo e ginebro.

Vista ha 'l gran Po, veduta ha 'l chiaro Tebro,
vede 'l bel Arno, a cui sovente parlo
quel che mi detta l'amoroso tarlo
cantar la donna, ch'io sempre celebro;

ma se colui seguiano e sassi e sterpi,
questa ogni alma più dura e più silvestra
trae dal grave suo incarco, e al ciel la scorge.

Beata voce, che dal cor mi sterpi
ogni vil cura, onde per te s'addestra
l'alma a salir ove per sè non sorge.

23. -- Dello stesso

Donna, a cui 'l santo coro ognor s'aggira
de l'alme Muse e la cui chiara fronte
verdeggia de l'onor del sacro Monte,
ove chi s'erge eterna vita spira:

qual anima gentil v'ascolta e mira
brama far vostre grazie al mondo conte;
poi non trovando rime al cantar pronte
com'è la voglia, duolsi e ne sospira.

Di così bello, raro e alto suggetto,
dal vostro infuori, ogni altro stile è indegno;
quel sol n'è degno e altro non v'arriva.

Io per molto provar, vero disegno
di voi non feci mai; ma dentro 'l petto
ben vi porto scolpita, bella e viva.

24. -- Dello stesso

La sembianza di Dio che 'n noi risplende
di cielo in cielo e c'ha nome beltade
e move Amor, per perigliose strade
de l'orecchie e de gli occhi al cor discende;

perchè dal senso il senso il bello apprende,
e 'n la natura nostra è qualitade
ch'in mortal disiderio il mortal cade,
e così bassa voglia il senso accende.

Ond'è ch'ingombro di piacer terreno
entrando il mal fidato messaggero
fa ne l'alma sentir del suo veleno.

Quinci è che talor cade il mio pensero:
ma voi, ch'avete in man la verga e 'l freno,
ne 'l ridrizzate per erto sentero.

25. -- Dello stesso

Dal mio mortal co 'l mio immortal m'involo
sovente o Donna, e da me stesso sciolto,
al bel vostro splendor tutto rivolto,
l'ali battendo al ciel mi levo a volo.

E lontanato dal terrestre suolo
giungo a l'esempio de l'amato volto,
donde è tutto quel bello in voi raccolto,
che fa 'l mio amor fra gli altri in terra solo.

Deh! vi priegh'io per le bellezze vostre,
Tullia, ch'al bel camin compagna eterna
mi siate, senza mai voltarvi a dietro.

Ch'amor, s'ancor da voi tal grazia impetro,
promette a noi tranquilla pace interna,
e certa gloria a i nomi e a l'alme nostre.

26. -- Dello stesso

Donna, più volte m'ha già detto Amore
che nell'anima vostra i miei pensieri
son tutti espressi così vivi e veri
com'io voi, viva, ho impressa in mezzo 'l core;

e ch'accesi del vostro alto splendore
ne van vostri disir cotanto alteri,
ch'a mortal non convien che da voi speri
altra mercede ch'immortal dolore.

Così dice egli, e io per prova il sento,
che quant'uom più vi serve e più v'adora,
voi del suo mal più vi mostrate vaga;

per tutto ciò d'amarvi io non mi pento:
anzi bramo ch'in me più d'ora in ora
veder possiate quel che più v'appaga.

27. -- Dello stesso

Se ben gli occhi e l'orecchie alcuna volta
vi mostran tale a i miei bassi disiri,
che surgon dal mio core agri sospiri
ond'è ch'al lamentar la lingua è sciolta;

tosto che l'alma in sè stessa raccolta,
a l'alma vostra avvien che si raggiri,
in diletto si cangiano i martiri
e la mia lingua a ringraziar si volta.

Che la pena, che par che sì mi prema
non passa oltra 'l mortal; ma la dolcezza
acqueta i sensi e pasce lo intelletto.

Donna sia benedetta quella asprezza,
ch'anzi 'l chiuder de gli occhi all'ora estrema,
morire insegna al mio terreno affetto.

28. -- Dello stesso

Donna, l'onor de' i cui be' raggi ardenti
m'infiamma 'l core e a ragionar m'invita,
perchè sia nostra penna mal gradita,
l'alto nostro sperar non si sgomenti.

Rabbiosa invidia i velenosi denti
adopra in noi mentre 'l mortal è in vita;
ma sentirem sanarsi ogni ferita
come diam luogo a le future genti.

Vedransi allor questi intelletti foschi
in tenebre sepolti, e 'l nostro onore
viverà chiaro e eterno in ogni parte.

E si vedrà che non i fiumi Toschi,
ma 'l ciel, l'arte, lo studio e 'l santo amore,
dan spirto e vita ai nomi e a le carte.

29. -- Dello stesso

Donna, il cui grazioso e altero aspetto
e 'l parlar pien d'angelica armonia,
scorgon qual alma presso a lor s'invia
a contemplar il ben de l'intelletto;

deh, così amor non mai m'ingombri 'l petto
d'umil disir, nè mai di gelosia
gustiate 'l tosco: e sempre intenta sia
a l'interna beltate il vostro affetto.

Date, vi prego a me vera novella
de l'alma mia che del mio cor uscita,
voi seguendo, è venuta a farsi bella:

che se da voi la misera è sbandita,
ella senza voi stando e io senz'ella,
non ritrovo al mio scampo alcuna aita.

30. -- Dello stesso

Quai d'eloquenza fien sì chiari fiumi
luce che d'alto ardor mio core incendi,
ch'aguagli tua virtù? Se la 've splendi
a superno desio l'anime impiumi?

Come dinanzi a Borea nebbie e fumi,
così di là, dove tu i raggi stendi,
fugge ogni vil pensier, sì ch'a noi rendi
a vita in terra de i celesti numi.

E poi ch'a me non son tuoi lumi scarsi
di quel splendor, che da l'eterno regno
in te disceso, tu fra noi comparti;

di quel ch'ho dentro e fuor non può mostrarsi,
faranno al mondo manifesto segno
l'amarti, il celebrarti e l'onorarti.

[Risposta al sonetto della TULLIA: _Fiamma gentil che da gl'interni lumi_.]

31. -- Di Benedetto Varchi

Quando doveva, ohimè, l'arco e la face,
l'una spenta del tutto e l'altro stanco,
a questo ardito e tormentoso fianco
per suo gran danno e mio, troppo vivace,

non breve tregua pur, ma eterna pace
donar, poi che nel lato destro e manco
per le nevi del capo omai vien bianco
il crin fatto d'argento, che sì spiace;

più che mai fresco e più che mai cocente,
mi saetta lo stral, m'accende il foco
di tal ferite e così caldo ardore,

ch'ogni salute a mio soccorso è poco:
anzi cresce la piaga e fa maggiore
incendio, ch'al suo mal l'alma consente.

32. -- Dello stesso

Donna, che di bellezza e di virtude
e d'ogni alto valor gran tempo in cima,
sola fra tutte l'altre non che prima,
piovete ne' miglior senno e salute;

ben so ch'a dir di voi sarebber mute
le lingue tutte: e qual prosa nè rima
poria cose aguagliar, che poscia o prima
non furon mai, nè saran mai vedute?

Tacciomi dunque fuor gelato e fioco,
per tema di scemar sì chiare lodi,
ma dentro infino al ciel notte e dì grido:

ringraziando le stelle, il tempo e 'l loco,
gli sguardi, gli atti, le parole e i modi,
che mi donaro a cor gentile e fido.

33. -- Dello stesso

Io non miro giammai cosa nessuna,
o in terra, o in ciel, ov'io non veggia quella,
ch'amor in sorte e mia benigna stella,
da le fasce mi diero e da la cuna.

Ogni nube m'assembra e sole e luna
la mia donna gentil più d'altra bella;
monte o valle non veggio, o poggio, ov'ella
per lo mio ben non sia, ch'è nel mondo una.

L'erbe, gli alberi, i fior, le frondi, i sassi,
mi rappresentan sempre, e l'onde, e l'ora,
quel viso dopo il qual nulla mi piacque.

U' gli occhi giro, ovunque movo i passi,
nulla non scorgo, o penso, o sento fuora
di lei, che per bearmi in terra nacque.

34. -- Dello stesso

Se di così selvaggio e così duro
legno sì aspro frutto, ohimè, v'aggrada:
chi fia ch'unqua vi miri e poscia vada
di non sempre penar, Donna, securo?

Bench'io, poi ch'ognor più m'inaspro e induro
del duol, cui lungo a voi fo larga strada
de la mia pena sola, non pur rada
fra quante sono al mondo e quante furo,

dovrei trovar pietà, ch'asprezza eguale
o più selvaggia e solitaria vita,
non sentì mai e visse alcun mortale.

Fera legge d'amor, sperar aita
del dolor che n'ancide, e del suo male
pascer l'alma, via più che saggia, ardita.

35. -- Dello stesso

Pur non sentir la turba iniqua e fella
così larga al mal dir, come al ben parca,
da lei, che nel mio cuor siede monarca,
non men cortese che leggiadra e bella;

non mio voler seguendo ma mia stella,
parto col corpo sol, che l'alma scarca
de la soma mortal meco non varca,
ma riman seco obediente ancella.

E se quel, che fra me tacito e solo
cantando vo' con più di mille insieme,
per la Garza, e Forcella, e Tavaiano,

udisse pur un dì l'invido stuolo
ben morria di dolor veggendo vano
tornar l'empio ardir suo, ch'indarno freme.

36. -- Dello stesso

Se da i bassi pensier talor m'involo
e me medesmo in me stesso ritorno;
s'al ciel, lasciato ogni terren soggiorno,
sopra l'ali d'amor poggiando volo:

quest'è sol don di voi, Tullia, al cui solo
lume mi specchio e quanto posso adorno
la 've sempre con voi lieto soggiorno,
da santo e bel disio levato a volo.

E se quel che entro 'l cor ragiono e scrivo,
del vostro alto valor Donna gentile,
ch'avete quanto può bramarsi a pieno

ridir potessi, o beato, anzi Divo
me, per me proprio tutto oscuro e vile
se non quant'ho da voi pregio e sereno.

[Risposta al sonetto della TULLIA: _Quel che mondo d'invidia empie e
di duolo_.]

37. -- Dello stesso

Ninfa, di cui per boschi, o fonti, o prati,
non vide mai più bella alcun pastore
ver di Diana e de le Muse onore,
cui più inchinano sempre i più pregiati:

così siano a Damon men feri i fati
nè gli renda mai Filli il dato core;
e ella arda per lui di santo amore
più ch'altri fosser mai lieti e beati:

com'alma esser non può sì cruda e vile,
la quale essendo veramente amata
non ami un cor gentil già presso a morte.

Dunque s'a dotto no, ma fido stile
credi, ama e non dubbiar, che ben pagata
sarà d'alta mercè tua dolce sorte.

[Risposta al sonetto della TULLIA: _Se 'l ciel sempre sereno e verdi i
prati_.]

38. -- Di Giulio Camillo

Tullia gentile, a le cui tempie intorno
verdeggia avvolta l'onorata fronde,
e la cui voce a l'armonia risponde
di chi fa in Elicon dolce soggiorno;

qualora a voi fo col pensier ritorno
e ritrovo sentenze sì profonde
in sì leggiadro stil, sì mi confonde
novello orror, ch'in me più non soggiorno.

Vostra Musa di me cantando canta
d'uno sterpo silvestro, a cui nemica
stata è natura e 'l ciel, e io no 'l celo.

Ben è la vostra fortunata pianta,
che lieto il Re de' fiumi la nutrica,
e la rinforza il gran Signor di Delo.

39. -- Dello stesso

Poi ch'a la vostra tanto alma beltade,
onde pregiata d'onorate e rare
spoglie di tante elette anime chiare
n'andate altero specchio ad ogni etade;

piace ch'io ancor per le medesme strade
seguir vostre amorose insegne impare;
non siano almen vostre alme luci avare
di quel raggio, ond'io scorgo ogni bontade.

E nel bel petto vostro Amor ispiri
pietà e mercede al mio dolore eguale,
e a gli ardenti intensi miei disiri;

poi se le aggrada il mio destin fatale,
versi in me pur ognor doglie e martiri,
che dolce mi fia sempre ogni altro male.

40. -- Dello stesso

Ben fu tra gli altri avventuroso il giorno,
quando l'eterno e gran re de le stelle
fece, per fare il fior de l'altre belle,
di voi, Tullia divina, il mondo adorno.

Le grazie tutte e le virtuti intorno
vi fur quasi devote e fide ancelle,
e 'l ciel lasciaro per seguitarvi quelle
in questo nostro umil, basso soggiorno;

però ripiena di celeste ardore,
di gloria accesa e colma di mercede;
vaga di bello e di perpetuo amore:

di grazia albergo e di bellezza erede,
sola fra noi vivete in dolce amore,
del ben del Ciel facendo in terra fede.

41. -- Del Cardinale Ippolito De' Medici

Anima bella, che nel bel tuo lume
divino interno ti rivolgi e giri,
e indi in voce dolcemente spiri
il suon ch'avanza ogni mortal costume;

onde la mia poi d'amorose piume
coverta avien che al ciel volando aspiri,
e nel tuo chiaro raggio aperto miri
com'amor sani, ancida, arda e consume;

deh! se l'alta bellezza e 'l dolce canto
ond'in te stessa sol beata sei:
e s'amor punto mai ti piacque o piace:

prego volgendo in me 'l bel viso santo,
al lungo penar mio dia qualche pace,
e qualche tregua a gli aspri dolor miei

42. -- Dello stesso

Se 'l dolce folgorar de i bei crini d'oro,
e 'l fiammeggiar de i begli occhi lucenti,
e 'l far dolce acquetar per l'aria i venti
co 'l riso, ond'io m'incendo e mi scoloro,

son le cagion che per voi vivo e moro,
piango e m'adiro e fo restar contenti
gli spirti afflitti in mezzo i miei lamenti,
e mi par dolce il grave aspro martoro;

non voi sì bella, io non così bramoso;
voi non sì dura, io non sì frale almeno
fossi; non voi d'amor rubella, io servo;

ch'io sperarei nel stato mio gioioso
goder un giorno almen lieto e sereno,
piegando alquanto il core empio e protervo.

43. -- Di Bernardo Molza

Spirto gentil, che riccamente adorno
de i più pregiati e cari don del cielo,
cortesemente nel corporeo velo
con tue virtuti fai lieto soggiorno;

deh! s'amor sempre a te faccia ritorno,
di nove spoglie ornando, al caldo e al gelo,
d'uomini e Dei il tuo onorato stelo,
e cresca il valor tuo di giorno in giorno;

fa che 'l nobile tuo chiaro intelletto,
sempre guardando a la più bella parte
di sè, giammai non si rivolga a terra.

Ch'allor vedrai come natura ed arte,
soavemente in te rinchiude e serra
d'ogni bell'opra il seme e 'l bel perfetto.

44. -- Dello stesso

Se 'l pensier mio, ov'altamente amore,
Tullia gentil, vostra sembianza impresse,
tutto altamente in sè voi tutta espresse
dal piacer vinto, che mi strinse il core;

e tutta or vi risembra e a tutte l'ore,
trasformando pur sempre in quelle stesse
virtù, grazia e beltà, che vi concesse
Dio, ch'in voi tutto intese a farsi onore:

non dovete voi dir ch'io sia deforme,
ch'io son quello che son fatto voi
bello, e non questa rozza e fragil scorza.

E spero ancor, seguendo ognor vostr'orme,
essere appresso Dio 'l secondo poi,
se 'l bello a trarre il bello sempre ha forza.

45. -- Di Ercole Bentivoglio

Poi che lasciando i sette colli e l'acque
del Tebro oscure e le campagne meste,
d'illustrar queste piagge e premer queste
rive del Po col piè Tullia vi piacque;

ogni basso pensier spento in noi giacque,
e un dolce foco, e un bel disio celeste,
quel primo dì ch'a noi gli occhi volgeste,
ne le nostre alme alteramente nacque.

Fortunate sorelle di Fetonte,
ch'udir potranno a le lor ombre liete,
i dotti accenti che vi ispira Euterpe!

Potess'io pur con rime ornate e pronte
com'è 'l disio, dir le virtù ch'avete!
Ma troppo a terra il mio stil basso serpe.

46. -- Dello stesso

Vaghe sorelle, che di treccie bionde
ornò natura e di fattezze conte;
poi la pietà del misero Fetonte
vi volse in duri tronchi e 'n verdi fronde;

or sotto l'ombre tremule e gioconde
vostre sedendo, fo palesi e conte
le gran beltà de la celeste fronte
di Tullia mia, cantando a l'aure e a l'onde.

Così già sotto i vostri ombrosi rami
cantò d'Onfale sua gli occhi e le chiome
il vincitor de' più superbi mostri.

'priego il ciel, che sì v'esalti e v'ami,
ch'eterno sia con voi sempre il bel nome
di Tullia scritto in tutti i tronchi vostri.

47. -- Di Filippo Strozzi

Alma gentile, ove ogni studio pose
natura in darvi a pieno ogni eccellenza,
e fece il ciel quasi restarne senza
per dar a voi quel bel, ch'a ogni altra ascose;

voi fra leggiadre donne e gloriose
elesse sola; e per esperienza
si vede altera andarne oggi Fiorenza
de le belle opre vostre alte e famose.

Ma non solo Arno oggi vi loda e canta,
ma dove ancora l'inesperto auriga
cadde, di voi terrà memoria eterna.

Il Tever lascio, che tenera pianta
vi nutrì, dolce essendo ogni fatiga
a chi co 'l spirto e 'l core in voi s'interna

48. -- Dello stesso

Uscendo 'l spirto mio per seguir voi,
Donna gentile, in voi vera pietade
spinse l'anima vostra a le contrade
ond'egli uscìo, con che vivessi io poi;

tal che 'l splendor, che dite uscir tra noi
di me, è propria vostra qualitade,
concessavi da l'alta e gran bontade,
per sembianza de i chiari raggi suoi.

Dove scorger si puote un dolce inganno
veggendovi in me vaga di voi stessa,
nè v'accorgete ch'io v'appago a punto

Che se mi vi toglieste allora il danno
mortal mio vedreste, e fora espressa
la colpa vostra, send'io a morte giunto.

49. -- Di Alessandro Arrighi

L'aspetto sacro e la bellezza rara,
eguale a cui non ebbe il mondo ancora;
il folgorar de gli occhi ch'innamora
il mondo tutto, e quasi sol lo schiara;

il parlar saggio, onde la via s'impara
di gir al chiaro e uscir dal fosco fora;
e l'alto sangue, lo cui ammira e onora
chiunque adorno è più di stirpe chiara;

i bei costumi, e 'l portamento adorno;
e col dolce cantare il dolce suono
che fan di marmo una persona viva,

fur le cagioni o donna, ch'in quel giorno
stetti a mirare il bello, a udire il buono,
in guisa d'uom che pensi, parli e scriva.

50. -- Dello stesso

Come di dolce più che d'agro parte,
Donna mi feste il dì, ch 'l colpo caro
di voi impiagommi, onde sì ardente e chiaro
foco poscia avampommi a parte a parte,

così men d'agro, che di dolce parte
da me per guiderdon del dono raro;
e giunge a voi per addolcir l'amaro
vostro languir del tutto non che 'n parte;

il foco ch'io dovrei mandarvi ancora
per render merce pari al degno merlo,
meco si sta, nè vuol partirsi un'ora.

Selva chiusa non è, nè campo aperto,
nè giardin culto, o poggio aspro o deserto,
che non sappian com'ei m'arde e divora.

51. -- Dello stesso

S'il dissi mai ch'io venga in odio a voi,
Donna, ch'io tanto pregio, ed è ben degno;
s'il dissi che mai sempre ira e disdegno
portiate in seno, e sol me stesso annoi;

s'il dissi che 'l mortale eterno muoi
di me non mai giungendo al santo regno;
s'il dissi sia d'amor prigione e segno
de l'acuto suo strale, e preda, poi.

Ma s'io nol dissi chi si dolce aprìo
a me lo cor chiudendovi entro i raggi,
non mai rivolga altronde il lume chiaro.

Io no 'l dissi giammai, nè dir disìo:
vinca 'l ver dunque, e 'l falso a terra caggi,
e 'n dolce amor ritorni l'odio amaro.

52. -- Dello stesso

S'un medesimo stral duo petti aprìo:
s'arse due cor d'amor un foco santo:
se nascendo 'l piacer morì cotanto
martir, che l'uno e l'altro già sentìo,

Donna, e s'insomma nudrì ambo un disio,
ond'è ch'in me del dir vostro altrettanto
non rivolgete sì, ch'io mi dia vanto
d'esser d'uom fatto un'immortale Dio?

Forse sì come sempre ebbi nimica
la stella a i miei disir, così avien ora
ch'io non goda e non sorti una tale brama.

O pur ch'ad alma sì saggia e pudica
parlar di me basso suggetto fora:
come che sia il bel vostro a sè mi chiama.

53. -- Di Benedetto Arrighi

Voi che volgete il vostro alto disio
a la chiara virtù, donde si coglie
quelle onorate, sacre, sante spoglie,
di che va altera e Calliope e Clio;

voi che schernite al tempo quell'oblio,
che la fama immortale al nome toglie,
colpa e vergogna de l'umane voglie,
che non son come voi rivolte a Dio;

voi sol vi sete fabricato un tempio
di glorie tal, che gli onori e trofei
non pon lasciar di lui più chiaro esempio;

deh! così potess'io com'io vorrei
le virtuti cantar, ch'in voi contemplo
memoria eterna a gli uomini e a li Dei.

54. -- Dello stesso

Alma gentile che già foste al paro
de l'alta e gran colonna, oggi si mostra
in voi tutto l'onor de l'età nostra;
in voi lo stil più che 'l suo dolce e caro;

al vostro stil, dov'io ch'al mondo imparo
a riverir la chiara virtù vostra,
ch'oggi solinga l'universo giostra
non trovando di lei pregio più chiaro;

sì come un picciol lume alta chiarezza
vince, così con vostre lodi sole
lei vincete in virtute e in bellezza;

l'alto motor come 'l ciel ornar vole
la terra, piacque a sua reale altezza
far Vittoria una Luna e Tullia un Sole.

[V. 14 Vittoria Colonna.]

55. -- Di Lattanzio De' Benucci

Se per lodarvi e dir quanto s'onora
di voi natura e 'l ciel, Tullia gentile,
fosse eguale al soggetto in me lo stile,
e 'l saper pari a l'alta voglia ancora;

forse non tanto il secol nostro indora
vostra virtute, e non dal Gange al Tile
fate voi co' i begli occhi eterno aprile,
quant'io n'avrei grazie e favori ognora.

Non può ingegno mortal tante divine
virtù ritrar; nè può basso disìo
scolpir parti sì eccelse e pellegrine,

che 'n voi il valor del vago petto e pio
avanza ogni pensier, passa ogni fine,
non che l'aguagli altrui parlare, o mio.

56. -- Dello stesso

O fiumicel se 'l più cocente ardore
estivo il lento tuo correr affrena,
e la tua profonda umile arena
incende e fa restar priva d'umore;

ecco a le rive tue novo splendore
che l'aer d'ogni intorno rasserena:
di colei, che cantando in dolce vena
a le nove sorelle aggiunge onore.

Onde il vecchio Arno ormai d'invidia pieno
lascia l'usato corso e a te rivolto,
quivi perde le chiare e lucid'onde;

godi, or che vedi entro il tuo ricco seno
la imagin bella del leggiadro volto:
e Tullia odi sonar ambe le sponde.

57. -- Dello stesso

Deh, non volgete altrove il dotto stile
altera donna, ch'a voi stessa, poi
che scorge il mondo esser accolto in voi
quant'ha del pellegrino e del gentile.

Appo questo suggetto incolto e vile
divien qual più pregiato oggi è tra noi;
e co 'l splender de' vivi raggi suoi
chiaro si mostra ognor da Battro a Tile.

Voi dunque di voi sola alzare il nome
dovete, poi ch'a sì pregiato segno
giunger non puote il più purgato inchiostro.

Quindi vedrassi apertamente come
non è di lode altri di voi più degno,
nè stil che giunga al dolce cantar vostro.

58. -- Di Latino Giovenale

Vide già la famosa antica etade
nel palazzo reale alto di Roma
donna empia sì, che fe' del carro soma
al padre anciso, e spense ogni pietade.

Vede or donna real di tal beltade
la nostra, e Roma, e da colei si noma;
che chi mira i begli occhi e l'aurea chioma
di piacer, d'amor empie e d'umiltade.

Questa sol per mio ben, per mio sostegno
al mio imperfetto, a la fortuna avversa
diede natura, e 'l ciel cortese e largo.

O gloria de le donne, o ricco pegno
d'onor, d'ogni virtù ch'oggi è dispersa:
deh! perchè non ho io gli occhi ch'ebbe Argo?

59. -- Di Ludovico Martelli

Voi, che lieti pascete ad Arno intorno
il vostro gregge fra leggiadri fiori,
godete, poi che da i superni cori
discesa è Tullia a far con voi soggiorno

sforzisi ognun co 'l crin d'alloro adorno
gli altari empir de i più soavi odori;
che per costei vostri tanti alti onori
faranno ancor a voi degno ritorno.

Quest'è la vaga pastorella, ch'ebbe
fra i più degni pastor del Tebro il vanto;
del cui partir restar sì afflitti e mesti;

e poi che per voi sol non le rincrebbe
lasciar le rive ove fu in pregio tanto,
siate a cantarla e a riverirla presti.

60. -- Di Simone Dalla Volta

Tullia, mostrò (?), miracolo, Sibilla,
di cui si maraviglia il mondo e gode:
mar di saver, che non ha fondo o prode,
e mena l'onda sua lieta e tranquilla.

Da cui sì dolce umor, sì chiaro stilla
di virtù vera ch'oggi rado s'ode:
cui non guasta fortuna, o 'l tempo rode;
men che quelle di Saffo e di Camilla.

Ma che dico io? Il vostro alto valore
non si può comparare a cosa alcuna:
perchè non che 'l poter, passa il disio.

Chi vuol vivo vedere in terra amore,
divin, pien di virtù, miri quest'una,
vera amica de gli angioli e di Dio.

61. -- Di Camillo Da Monte Varchi

Mosso da l'alta vostra chiara fama,
di cui per tutto il mondo il grido suona,
vengo cantarvi anch'io Tullia Aragona,
cui chi più sa, più sempre ammira e ama.

E s'adempir potessi ardente brama
di salir l'alto monte d'Elicona,
qual voi n'arrecherei degna corona,
ch'al ciel vi porta, che vi aspetta e chiama.

Or voi più d'altra saggia e più gentile,
degnate di pigliar quanto vi porge
un ch'a voi consacrato ha ingegno e stile.

Ben so, vostra mercè, ch'altera e vile
alma tanto non è, che quando scorge
d'essere amata non divenga umile.

62. -- Di Claudio Tolomei

Quando la Tullia mia che vien dal cielo,
che d'altronde non può sì bella cosa,
umilemente altera e disdegnosa,
toglie al mondo 'l suo sol con un bel velo;

allora agghiaccia 'l fuoco ed arde 'l gelo,
e Amor tremando l'armi in terra posa,
vertù si fugge e cortesia sta ascosa,
e spegnesi ogni ardente onesto zelo.

Ma s'avvien poi che a le tranquille ciglia
ridendo levi il velo, allor più incende
il foco e 'l ghiaccio è freddo in ogni parte;

virtù ritorna e Amor l'armi riprende
ch'ella governa, e non è meraviglia
ciò che può far 'l ciel, natura ed arte.

[Sta nel: _Libro quarto delle rime di diversi eccellentissimi autori
nella lingua volgare nuovamente raccolte_. In Bologna, presso
A. Ciccarelli 1551, pag. 217.]

63. -- Di Antonio Grazzini (_Lasca_)

Se 'l vostro alto valor, Donna gentile,
esser lodato pur dovesse in parte,
uopo sarebbe al fin vergar le carte
col vostro altero e glorioso stile.

Dunque voi sola a voi stessa simile,
a cui s'inchina la natura e l'arte,
fate di voi cantando in ogni parte
Tullia, Tullia, suonar da Gange a Tile.

Si vedrem poi di gioia e maraviglia
e di gloria e d'onore il mondo pieno,
drizzare al vostro nome altare e tempï;

cosa che mai con l'ardenti sue ciglia
non vide il sol rotando il ciel sereno,
o ne' gli antichi o ne' moderni tempi.

64. -- Di Nicolò Martelli

Se 'l mondo diede allor la gloria a Arpino
d'eloquenza immortale alta e profonda,
la vostra al nome egual gli vien seconda
Tullia di sangue illustre e pellegrino;

il cui spirto reale almo e divino,
sovra l'uso mortal di grazie abonda,
in guisa tal che l'onorata sponda
De l'Arbia, infino al ciel tocca il confino.

E 'l bel chiaro Arno ora di voi s'onora,
l'antico fuor traendo umido crine,
forma con l'acque in suon cotai parole:

qual luce e questa o beltà senza fine,
che col sommo valor le rive infiora
al gel, come d'april nel mezzo il sole?

65. -- Di Ugolino Martelli

Se bella voi così le Grazie fero,
che pari al mondo non fu mai nè fia;
e se le muse con pietà natìa
il dolcissimo latte ancor vi diero:

qual piena voce e qual giudicio intero,
il valor giunto a somma leggiadria,
e scorgere e cantar sì ben potria,
ch'almen di lungo ne apparisse il vero?

Questi che vostri sono alteri onori,
e fanno altrui veracemente adorno,
scemar non può fortuna aspra e nimica.

E questa spero che di giorno in giorno
averete con doti assai maggiori,
di fosca e trista, omai lieta e aprica.

[Risposta al sonetto della TULLIA: _Più volte, Ugolin mio, mossi il
pensiero _.]

66. -- Dello stesso

Se lodando di voi quel che palese
di fuor si mostra a le più strane genti,
rare bellezze e disusati accenti,
degne parole a ciò mi son contese:

com' esser vi potrà larga e cortese
la lingua a dir, che non tema o paventi
di tante ascoste in voi virtuti ardenti,
Tullia, ch'amor divino al cor v'accese?

Bontà, senno, valor e cortesia,
con l'altre mille insieme in voi cosparte,
rozzamente contar forse potria;

ma come rara e eccellente sia
ciascuna d'esse in voi, con mille carte
Mantova e Smirna a dir non basteria.

[V. 11. _Rozzamente cantar forse patria_.]

67. -- Di Simone Porzio

Or qual penna d'ingegno m'assecura
di poter appressarmi al gran valore
di quella che di pregio alto e d'onore,
ornarmi con sue rime ha tanta cura?

La debil pianta, mia da sè non dura,
e se prende crescendo alcun vigore,
nutrita è dal fecondo vostro umore,
che tal frutto non vien d'altra coltura.

Ma se di quella vostra le semente
sempre mi trovo al petto, nè più spero
sentir d'essa giammai cosa più degna,

scorgete adunque col giudicio interno
che tutte l'altre voghe in me son spente,
e vive quel ch'amor di voi m'insegna.

[Risposta al sonetto della TULLIA: _Porzio gentile a cui l'alma natura_.]

LE AMOROSE EGLOGHE DEL MUZIO GIUSTINOPOLITANO
ALLA SIGNORA TULLIA D'ARAGONA

I.
MOPSO

Mopso, _solo_.

Canti chi vuol le sanguinose imprese
del fiero Marte, e d'onorati allori
cinto le tempie a suon di chiara tromba
desti i bianchi destrier, ch'in Campidoglio
han da condur i purpurei trionfi;
a me, cui 'l ciel non diè sì altero spirto,
basta parlar tra le fontane e i boschi
de gli onori di Pan; e che la fronte
m'ornin le Ninfe d'edere e di mirti,
mentre ch'al suon de le incerate canne
fo risonar quella virtù che move
dal vivo ardor de i lor splendenti lumi.

E or darà al mio dir ampio suggetto
l'amor del pastor Mopso; di quel Mopso
lo qual sacrato ha infin da i teneri anni
i sensi e l'alma al tempio di Parnaso.

Il buon pastor, cercando le pendici
de i santi gioghi, ha con novella cura
novo oggetto trovato ai suoi pensieri;
nova materia ha data a le sue rime:
che l'interno splendore e 'l chiaro viso
de la bella Tirrenia il petto ingombro
gli ha sì del suo piacer, che la sua lingua
d'altro non sa parlar, nè può, nè vuole
che di lei, ch'or gli siede in mezzo l'alma.
Ei non potendo un di 'l soverchio ardore
chiuder dentro al suo cor, in tali accenti
la strada aperse a la vivace fiamma.

MOPSO. Bella Tirrenia mia, che di bellezza
avanzi i più bei fior di primavera,
morbida più che tenera vitella,
ch'ancor non ha gustato erba nè fonte;
e delicata più ch'i bianchi velli
di non tonduto pargoletto agnello;
e più schiva d'amor e più fugace
ch'innanzi a cacciator timida cerva:
odi, bella Tirrenia: a queste ombrette
meco t'assidi, e i miei sospiri ascolta.

Era ne la stagion ch'i verdi prati
d'ogni intorno fiorian; fiorian le rose,
e cantavan gli augei tra i novi fiori,
quando prima ti vidi; e come prima
ti vidi, così ratto al cor mi corse,
mosso da la virtù de' tuoi bei lumi,
con gelato timor caldo disio.
Da quel dí innanzi entro 'l mio petto chiuso
ho continuo portato il foco e 'l ghiaccio.
E già due volte le campagne aperte
visto han d'intorno biondeggiar le spighe:
e due volte han veduto i salci e gli olmi
le non lor uve su per li lor rami
quai d'oro divenir, e quai vermiglie:
e tu nel duro cor, ghiaccio nè foco
crudel non senti, e non senti pietade.

Sappi, ninfa gentil, che dal suo giro
Venere bella per ciascuna parte
rimira aperte l'opre de' mortali;
e qual pastor, qual satiro e qual ninfa,
contra chi l'ama è disdegnosa e schiva,
la santa Dea ne sente altero sdegno,
e dimostrar ne suole agre vendette,
arder facendo i lor gelati cori
d'amor di tal, che gli disprezza e fugge.
Che doglia, che tormento, alma mia cara,
credi che sia l'amar chi te non prezza?
O tolga Dio, ch'in così amaro stato
i' ti vegga giammai; Tirrenia intendi:
non voler contra te l'ira de' Dei
mover sì leggiermente: ama chi t'ama.
Ama il tuo Mopso, il quale lode immortali
va cantando di te mattina e sera;
e va segnando intorno i sassi e i tronchi
del nome tuo per farti eterna e chiara.
Ama 'l tuo Mopso, il qual e giorno e notte,
o vegghi, o dorma, di te pensa e sogna:
te rimira, te cerca e te disia.
Braman le pecchie gli odorati fiori:
le molli gregge i rugiadosi paschi;
brama 'l cervo assetato i chiari fonti;
e te, Tirrenia, l'infiammato Mopso.

Mostra, ninfa gentil, il bel sereno
de la lucida tua tranquilla fronte;
de la cui vista l'aere e 'l ciel d'intorno
d'ogni parte s'allegra e si rischiara.

Rivolgi a me i begli occhi: o occhi belli,
occhi leggiadri, occhi amorosi e cari;
più che le stelle belli e più che 'l sole:
e a me cari più che armenti e gregge:
più che la vita cari e più che l'alma.
Occhi miei belli e cari, il chiaro lume
volgete a me benigni: e non vi annoi,
ch'arda del vostro ardor: e non v'incresca
mirar talor com'io mi struggo e ardo.
Oh ti fosse, Tirrenia, un giorno a grado
di fermar così presso e così fisso
que' tuoi begli occhi dentr'a gli occhi miei,
ch'ogniun di noi facendo a l'altro specchio,
con gli occhi suoi vedesse ne gli altri occhi
il suo stesso ritratto e l'alma altrui.

Volgi a me gli occhi: volgi gli occhi e volgi
il chiaro viso e le polite guance,
le molli guance ad ogni aura tremanti,
che fan tremar in me l'anima e i sensi
di diletto, di voglia e di dolcezza.

Ma qual'è quel diletto e quella voglia?
Qual la dolcezza che sentir mi face
il veder e l'udir le dolci labbra?
Quelle labbra amorose, dolci e care,
or dolcemente chiuse, or dolce aperte,
spirar per gli occhi e per l'orecchie mie
a l'alma mia dolcissimo veleno?
O misti insieme fior vermigli e bianchi:
o sparso tra be' fior soave odore:
o bramose mie labbra: o spirto ardente:
o anima mia accesa: e qual desire
tutto m'infiamma? E qual'è quel conforto
che mi promette il bel, che s'ode e vede?
Apri, Tirrenia, le rosate porte:
mostra, Tirrenia, i candidi ligustri:
spargi, Tirrenia, in graziosi accenti
l'ambrosia e 'l mel de l'amorosa lingua.
Di', Tirrenia, una volta: te solo amo,
al fedel Mopso tuo, che te sola ama.
Dillo, Tirrenia, e scopri il caro seno,
apri 'l giardin d'amor, dimostra al sole
i dolci pomi e gli odorati gigli.
Leva, Tirrenia, l'inimico velo
ch'a te'l tuo bel, a me 'l mio ben nasconde.
Invido avaro velo: avara mano,
crudo velo; man cruda e crudo core,
che tanto bene a gli occhi miei contendi.

Ninfa crudele, e perché con tant'arte
sì fieramente a' miei desir contrasti?
Ninfa crudele infin a gli occhi miei,
a gli occhi miei, crudele, hai posto 'l freno.
Deh, leva 'l velo omai, levane i nodi;
leva la crudeltà del natio petto:
lascia andar gli occhi vaghi al lor diporto
tra i diletti di Flora e di Pomona,
là ve vaga beltà, bella vaghezza
movon d'intorno le purpuree penne,
e fan festa ad Amor, che la sua fede
ha locata tra 'l bel de i cari pomi.
Man bella, cara man disciogli il laccio,
allarga il velo, o mano: a la man mia
sii cortese man cara: a la mia sete
porgi alcun refrigerio poi ch'invano
prego 'l petto crudel, e 'nvano aspiro
a la beltà de le purpuree gote,
invano al bel de le rosate labbra.

Ninfa bella e crudele, in cui combatte
bellezza e crudeltà, come non hai
qualche pietà di me? Le selve e gli antri
piangono al pianto mio; meco si lagna
eco non men del mio che del suo duolo:
e sovente gli augei su per li rami
muti si fanno a le mie doglie intenti:
e le gregge rivolte a i miei sospiri,
i paschi e i fonti mandano in oblio.
E tu sola se' nuda di pietade.

Vien, Ninfa bella, e fra le molli braccia
raccogli quel, che con le braccia aperte
disioso t'aspetta; e nel tuo grembo
ricevi lieta l'infocato amante;
stringi 'l bramoso amante, e strette aggiungi
le labbra a le sue labbra, e 'l vivo spirto
suggi de l'alma amata, e del tuo spirto
il vivo fiore ispira a le sue brame.
Giungansi insieme gli amorosi petti:
premer si sentan le vezzose poppe,
le belle poppe delicate e sode,
dal petto ad amor sacro e sacro a Febo,
non si ritengan più celate o chiuse;
le belle membra tue morbide e bianche
più che 'l cacio novello e più che 'l latte,
ad amor le consacra: e al tuo amante
qual vite ad olmo avviticchiata e stretta,
con lui cogli d'amore i dolci frutti.

II.

IL SOLE

Mopso, solo.

Già fiammeggiava presso a l'aurea Aurora
il pianeta maggior nell'oriente,
inargentando i nuviletti d'oro:
quand'io, ch'avea col fischio e con la verga
scorta mia greggia a i rugiadosi paschi,
posto a seder sott'una antica quercia,
notava intento il dilettevol suono,
che d'intorno facean le pecorelle
tondendo il verde de l'erboso suolo.
Ed ecco l'armonia d'una zampogna
sonar non lunge. Io da le dolci note
tratto, e lasciando il mio maggior pensiero,
in piè risorto, cheto, passo passo,
ver là mi mossi, e vidi a piè d'un faggio
sedersi un solo. E quanto gli occhi miei
scorger potero in quella incerta luce
mi parve Mopso; Mopso a cui le selve
son testimonie quanto a l'alme Muse,
e quanto ei sia ad Amor fedele amico.
E quale in pria mi parve, tal la voce
e 'l chiaro giorno poi mostrolmi aperto.
Quivi vago d'udir suoi dolci accenti
dietro una macchia stretto mi raccolsi.
E egli omai spuntando il primo raggio
del novo giorno, al dir la lingua mosse,
accompagnando il suon con tai parole:

MOPSO. Sorgi omai chiaro sole, e 'l ciel aprendo
l'aer rischiara; e 'l mare intorno imbianca;
la terra alluma; e 'l desiato giorno
riporta a gli animali e ai pastori.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Se non hai sole e se colei non ave
cosa simil, ben posso dir di voi,
che tu se' a lei, ed ella a te simile.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Solo se' sol, ch'in tutti gli alti giri
lume non è ch'al tuo lume s'aguagli,
nè lassù fuoco v'ha che t'assimigli.
E sola è sol in acque, in selve e in monti:
la bella ninfa mia, ch'è così sola,
che beltà non si mira a lei sembiante.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Quando cinto di raggi il capo biondo
a noi ti mostri, fugge d'ogni intorno
la cieca notte da l'ombrosa terra:
e s'allegrano in piani, in poggi e in boschi
le solitarie fiere, i vaghi augelli,
e con gli armenti, pecore e bifolchi.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

E quando 'l lampeggiar del divo lume
a me si scopre, del mio tristo core
si scuote intorno il tenebroso velo:
gioiscon gli occhi miei: l'anima mia
tutta s'allegra e seco i miei pensieri;
e meco gode il mio cornuto armento.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Poi come le montagne d'occidente
ingombran la tua luce, e tu t'invii
al tuo riposo là nei bassi liti,
la fosca notte entro a l'oscuro manto
involve 'l cielo, e involve gli animali,
tenendo il mondo in tenebre sepolto.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

E come del mio sol l'amata vista
da me si parte, al dipartir di lei
a me in un punto ogni mia luce è tolta.
Il giorno mio sen va verso l'occaso
e son sepolti in tenebrosa notte
i miei pensier, il cor, l'animo e l'alma.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Da che tolta è dal ciel tua ardente fiamma,
perché 'l superno chiostro intorno splenda
di mille ardori, non però ritorna
il giorno al mondo infin che non ritorni
tu, la cui luce ogni altra luce asconde.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

E da ch'io de' begli occhi ho gli occhi privi
perché da mille belle e vaghe ninfe
cinto mi vegga, non però s'aggiorna
dentro al mio cor fin che colei non riede,
il cui bel lume ogni altro lume adombra.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Qualor avvien ch'a la tua accesa face
occhio mortal s'arrischi alzar i rai
per ritrar forse l'alma tua figura,
la soverchia virtù del tuo splendore
sì l'abbarbaglia, che smarrito e vinto
ad ogni aspetto uman si trova infermo.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

E io qualor a la mia ardente lampa
mi riprovo d'alzar gli occhi e la mente,
per farne poi ne i tronchi alcun disegno,
il divo onor del rilucente oggetto
sì mi confonde, che perduti i sensi
non sento quel, che di me stesso io senta.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Poi quando più 'l tuo lume s'avvicina
al mondo nostro, occhio del mondo eterno,
e più drizzi i tuoi raggi sopra noi,
arde la terra, e arde ogni vivente;
e de la sete per colli e per piani
mancar si veggon gli alberi e l'erbette.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

E quando a me 'l mio amato sol s'appressa
(il sol ch'è solo il sol de la mia vita)
e fiammeggiando in me 'l suo lampo vibra,
arde in me 'l cor, ardon miei accesi spirti,
e 'n me s'infiamma un sì caldo disire
ch'a me stesso mi sento venir manco.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Tu con la tua virtù non solo allumi,
non solo incendi quel che fuor si scorge,
ma dove umana vista non discende,
dentro passando, fai pregno il terreno
di tal semenza ch'i terrestri germi
producon d'ogni intorno e fronde e fiori,
onde si veston le campagne e i poggi.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

E la virtù di lei non sol rischiara,
non sol infiamma la mortal mia scorza,
ma dove altro non passa che 'l suo sguardo,
in me varcando, in me fa tal radice
che poi germoglia in graziosa pianta,
in cui fiorendo i miei gentil concetti
fanno 'l mio col suo nome eterno adorni.
Sorgi sol del mio sol sola sembianza.

Ma che parl'io? che fo? dormo o vaneggio?
sì son col core al mio bel sole intento
ch'ad alta voce ancor chiamo e richiamo,
e pur or sommi accorto ch'è tant'alto
sorto 'l sol del mio sol sola sembianza.

Oh così fosse ai miei bramosi lumi
sorto il lor sol. Tornato è 'l giorno al mondo
non (lasso) a me, ch'a me non luce il sole,
non s'apre il giorno a me se non si scopre
colei, ch'è sola il sol de l'alma mia.
Oh me infelice sovra ogni vivente!
Sa l'universo, sanno gli elementi,
san le ninfe e i pastor, sanno i bifolchi,
san le fiere e gli augelli, e san le gregge
che da tornare ha il sole e 'l giorno e quando;
e sol io solo senza sole e senza
alcun lume, di giorno in cieca notte
vo brancolando: e non so quando o come
mi ritorni a veder l'amato raggio.
Ahi, lasso me dolente: or fosse almeno
la notte mia tal notte, qual'è quella
ch'al cader del suo sole al mondo sorge,
ch'in quella dolce notte in ogni verso
si posa in pace! Rive, prati e poggi
valli, monti, campagne, selve e fonti
han dolce requie, e i miseri mortali
quetan le stanche membra e ogni affanno,
ogni fatica, mandano in oblio.
Ma non è tal la mia, che cieco e solo
vo intorno errando. E non han pace o tregua
gli occhi miei, non i piedi e non la lingua;
no 'l pensir, no 'l desir, non i sospiri.
E s'alcun è che turbi l'altrui pace,
io son quel desso; che son sol colui
che col continuo suon de' miei lamenti
ho già stancate le campagne e i colli.
Almo mio caro sol, sarà giammai
ch'io ti rivegga un giorno, un giorno intero?
Un giorno che giammai non giunga a sera,
e gli occhi affisi in te quant'io vorrei?

Ahi, lasso me: perché, perché non lice
mostrar aperto il cor? perché disdetto
m'è 'l dir ch'io t'ami, se cotanto t'amo?
Perché disdetto a te l'amar chi t'ama?

Cotai parole, e altre sospirando
e lagrimando, il doloroso Mopso
spargeva a l'aura; e io che senza scorta
lasciata avea la greggia e tuttavia
sentia montando il sol montar il caldo,
lui lasciai pur dolersi: il dolce canto
fra me stesso membrando, e 'l petto pieno
non di minor pietà che di dolcezza.

III

IL FURORE

Mopso, solo.

Dive, ch'al suon de la dorata cetra
dei sacro Apollo, al glorioso fonte
fate dintorno mille dolci giri,
premendo il verde del fiorito suolo
liete alternando le vezzose piante
non senza l'armonia d'eterni versi:
quella, ch'è Donna de le Donne, e Donna
è del mio cor, o sante Donne, o Dive,
vuoi pur ch'io canti: e vuol che 'l canto s'erga
sopra ogni bosco. Adunque perchè 'l canto
sia canto degno di Donna sì cara
movete insieme e con voi mova Apollo:
mova tutto Elicona e si raccolga
tutto lo spirto vostro entro al mio petto.

Oh de la mente mia lucido specchio,
alma gentil fra le belle alme bella,
in cui fiso mirando d'ora in ora,
si fan dentr'al mio cor novi concetti,
da partorir scrivendo in nove carte;
lietamente ricevi il novo frutto,
che prodotto ha 'l germoglìo del tuo seme;
e mentre io fo sonar la mia zampogna
al furor del tuo Mopso porgi orecchie,
e nel furor di Mopso al furor mio.

Salita era la notte al sommo cielo
e rilucea nel mezzo del suo cerchio
la sorella di Febo, il bianco volto
tutta splendente del fraterno lume.
Taceva il mondo, in sè pe' lor vestigi
tacite si volgean l'eterne spere;
taceano i venti e 'l mar; tacea la terra
e con lei piani e colli, e monti, e valli.
Sol nel silenzio d'ogni alma vivente
non tacea Mopso: e non taceva amore
dentro al suo petto. Ei per deserte piagge
da furor trasportato, solo e vago,
errava, intorno pur con gli occhi fissi
ne la cornuta diva. E 'n quello stato
disse de l'amor suo cose sì nove,
che ne suonano ancor le selve e gli antri.

MOPSO. Dove, dicea, mi scorge or la tua luce,
candida luna, per solinghe strade?
Tirar mi sento ove per gli erti gioghi
rara di piede umano orma si scorge.
Qual novo aspetto e qual novo desire
verdeggia nel mio cor? La folta selva
de l'odorate, verdi, ombrose piante,
tutto m'empie d'orror e di diletto.
E quel dolce ruscel, che mormorando
fugge tra l'erbe e i flori, a sè mi chiama.
Ma donde viene il canto? E donde il suono
che sì dolce lusinga l'aere intorno?
E cosi è dolce, che simil dolcezza
non porge a me 'l belar de le mie gregge,
nè sì soave è 'l suon de le mie canne.

Or ecco là che giovinette donne
cinte le terapie di fronduti rami
fan la nova armonia; ina che vegg'io?
Non è tra lor, non è colei ìa mia?
Ahi! m'è tolta la voce. Or chi l'ha scorta
di mezza notte senza fida scorta
da le rive del Po fra questi boschi?
E che fa qui l'altero giovinetto
c'ha la lira dorata e d'or le chiome
e d'ogni vello ancor le guancie ha nude:
misero: adunque? Adunque in cotal guisa?
Or dove sono? E che fo? Vegghio o dormo?
Non so ove sia: non so se vegghi o dorma.
E s'io vegghio, è ella dessa o altra? Ahi, lasso,
non conosco io la ninfa mia? La voce
piena di melodia, gli ardenti lumi,
il vago aspetto, il grazioso viso:
gli atti soavi, i movimenti alteri:
l'andar, lo star: la mano, i piedi, i panni,
far la dovrian pur conta a gli occhi miei.
E s'altro a me non la facesse conta,
si la farìa quell'amoroso orrore
ch'a l'apparir di lei m'ha l'alma ingombra,
e quel desio, che qui condotto m'have,
u' condur non poteami altro desìo.
Ma ch'è quel ch'odo, che da l'altre l'odo
chiamar sorella e nominar Talia?
Questo bosco di lauri e quella fonte:
le donne coronate: il bel concento:
l'aspetto più ch'umano? Or una, e due,
tre, quattro, cinque, sei, sette, otto e nove,
il numero conviensi... questo è 'l giogo
de l'alme Muse: e queste son le Muse.
E una n'è la mia. È la mia ninfa
dunque una Musa, o son le Muse ninfe?
O mia, come dir debbo, alma mia Diva,
con quanto amor, con quanto studio ed arte,
fra mortali discesa dentro a l'alma
m'accendesti l'ardor; presso al cui raggio
movendo i passi, a questo santo giogo
mi trovo aggiunto. O mano, amata mano,
tu mi tien, tu mi guida: o caro dono,
bramato don, così ne foss'io degno.
Tu con la tua sorella le mie terapie
fai verdeggiar de l'onorata fronde
perch'ogni mio pensier tutto verdeggia.

O sacri, vivi e lucidi cristalli,
onde s'inaffian così rare piante,
qual radice ha sentito il vostro umore
c'ha virtù di produr pianta sì ferma
che non le nuoce il più cocente sole:
non la molesta grandine nè pioggia:
non la crolla il furor di Borea o d'Austro,
e non la tocca il folgorar di Giove?
Qual radice ha sentito il vostro umore?
Ne la sua pianta il verde eterno vive;
vivono eterni i fior, vivono i frutti:
nè muta vista per mutar stagione.
Beato, eterno umor che liete e chiare
fai le piante, le fronde, i frutti e i fiori;
i' pur spengo di te mia lunga sete:
e 'n te s'attuffan mie bramose labbra.
O che veggio? O che intendo? Il cieco velo
tolt'è da gli occhi miei: m'è fatto amico
il sacro coro, amico il santo Apollo.
Pur or conosco io te fedel compagna,
fedel mia guida e mia fedel maestra;
Erato bella. Tu fin da la culla
mi fosti a lato; tu la tua sorella
fra le genti mortali in forma umana
mi scorgesti a mirar. Tu mi dimostri
com'io lei segua, cui più sempre amando
l'alma mia più verdeggia e più s'infiora.

Ma che novo desir mi punge il core
di levarmi da terra? Oh, ch'i' mi sento
mutar di fuori e farmi un bianco augello:
le man, gli omeri, il capo, il collo, il petto
tutti si veston di novelle piume;
già comincio a cantar, già batto l'ali....
non mi lasciar Talia, levati a volo;..
Erato spiega al ciel l'aurate penne...
date forza al mio ardir, che senza voi
ogni mio sforzo alfin sarebbe invano.
Già lasciato ho 'l terreno; altero e lieve
sopra i nuvoli m'alzo e sopra i venti:
già mi si fa minor e terra e mare.
Alma sorella del compagno e Dio
de la mia Dea benigna, a te raccogli
colui, cui la tua luce ha mostro il calle
di gir al monte ove la via s'impara,
che l'alme altrui conduce a più bel monte.

I' veggio aperte le dorate porte
del gran gìardin, ch'i muri ha di zaffiro;
qui n'accoglie Diana; e qui n'envia
per la verdura del suo bel verziero;
qui la fiorita e verde primavera
move d'intorno, e va pascendo il verde
del santo umor de la rugiada eterna;
qui l'alma Clori e 'l suo diletto sposo
spargendo a l'aere ognor novelli odori
van dipingendo il variato suolo;
qui non arde la state e qui non sfronda
l'autunno i rami e non gli imbianca il verno;
qui vive il verde eterno; eterni rivi
di liquidi smeraldi i verdi prati
van compartendo; al mormorar de l'acque,
al soave spirar de le dolci aure,
al tremolar de i verdeggianti rami,
suonano in dolci e 'n dilettosi accenti
mille amorosi eterni rosignoli.
Qui s'odon risonar cetre e zampogne;
immortai cetre e immortai zampogne;
oh dolce vista, ed oh soavi note;
oh tra 'l veder e udir dolci pensieri;
qui, santissime Muse: qui Talia,
qui, qui sia, Diva, eterno il nostro albergo.

Così diceva il forsennato Mopso:
e così detto, muto e sbigottito
stette buon spazio; e 'n sé fatto ritorno
e raccolto lo spirto, alti sospiri
dal cor traendo, intorno al molle tronco
d'un tenero olmo tai parole scrisse:

Udite selve, udite Dei silvestri,
odan le ninfe, oda ogni pastore.
Ho veduto Elicona e 'l sacro bosco;
ho veduto 'l licor ch'i nomi avviva;
veduto ho Febo e le dotte sorelle,
e Tirrenia fra loro; una di loro
è la bella Tirrenia: ella m'ha tratto
al sacro bosco, e dal bosco a la fonte,
e da la fonte al cielo: ella è colei
che m'arde 'l cor; ella è colei ch'io canto;
ella è il mio sole; ella è la mia Talia.
Ed io son Mopso. Pianta eterna vivi:
e i nomi nostri eternamente serva.

IV.

TALIA

Mopso, solo.

Già risalito sopra l'orizzonte
il pianeta d'amor dal terzo cielo
fiammeggiando spargea l'aer sereno,
il tempestoso mare, il duro suolo
di chiari raggi e di virtute ardente:
e destando le selve e le campagne,
richiamava pastor, gregge e bifolchi
a le zampogne, a i paschi e a gli aratri.
Quando Mopso d'ardor l'anima acceso,
posto a seder in una erbosa riva,
al dolce mormorio di lucid'onde
in sè raccolto, immobile e pensoso
si stette alquanto; indi a sue dolci note
rispondendo gli augei, le selve e l'acque,
ruppe 'l silenzio in così nuovi accenti,
che n'han fatto conserva i Dei silvestri,
per dar lor vita in più ch'in una etade.

Or qual fosse 'l suo canto, a lei che desta
ti tiene ognor a gli amorosi canti
fa che 'l ritorni a dir rozza zampogna;
e sia tale il tuo suon, che degno sia
de materia maggior che di zampogne.
MOPSO. Alme sorelle, che d'eterno grido
rendete onor a chi col cor v'onora,
se mai liete porgeste alcuna aita
al suon de gli amorosi miei sospiri,
or, che d'amor cantando è 'l mio pensiero
cantar voi insieme (che di voi cantando
canto 'l mio amor) a l'incerate canne
ispirate sì dolce e chiaro suono,
che sia 'l mio amor co'l vostri nomi eterno.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

E tu, mio santo e mio soave ardore,
dotta e bella Talia, mentr'io m'affanno
per voler dir di te, ne l'alta impresa
porgi soccorso a la mia fioca voce:
dammi ardir, dammi forza; alza 'l mio ingegno
e con la cara mano un novo ramo
fresco, verde, odorato, or ora colto
dal sacro monte a la mia fronte avvolgi.
Movi Talia, movete sante Dive.
Movete o sante Dive a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

Sorge in Boezia e non molto lontano
dal gran Parnaso un onorato giogo
che d'altezza e d'onor con lui contende;
quest'è 'l santo Elicona, in cui verdeggia
l'eterna selva sacra al sacro Apollo,
d'uno e d'altro valor degna corona.
Qui si monta per luoghi alpestri ed ermi;
raro sentier v'appar, rari vestigi;
nè v'ascende uom mortal, cui 'l ciel non chiama.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

Quest'è quel poggio, che fra gli altri poggi
è de le Muse il più diletto poggio:
qui 'l grande Apollo ispira entro a' lor petti
quella virtù ch'a lui 'l gran padre ispira;
ed elle l'alme elette a i Dei più care,
chiamano al verde de l'amate piante;
e chiamanle al licor del chiaro fonte;
chiamanle al chiaro fonte d'Ippocrene,
eterno onor del sangue di Medusa.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

Scritto è nel sasso antico, onde si versa
la dolce vena, in ben limati versi,
ch'un giovinetto che di pioggia d'oro
fu conceputo, alzato un giorno a volo
uccise lei, che con l'orribil vista
rivolgea l'uomo in insensibil marmo:
e che del sangue suo, mille veleni
fur sparsi in terra; e fra i diversi mostri
un'alato destrier subito apparve.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

Questi nitrendo e dibattendo l'ale
si levò in aere, e dopo un lungo corso
pervenuto al bel giogo ond'io favello,
volando tuttavia, nel duro masso
percosse un'unghia, e quei ratto s'aperse
larghi versando e liquidi cristalli.
Apollo il vide, e 'l vider seco insieme
tutte le nove Muse, ed egli, ed elle,
fede ne fanno a chi con lor ragiona.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

E quest'è 'l fonte in cui, cui 'l ciel non nega
di poter pur bagnar le somme labbra,
cantar si sente al par de i bianchi cigni.
Qui conducon le Dive a cui interdetto
non è 'l bel monte, e 'ncoronati e molli
del santo rio gli rendono a' mortali,
perchè rendano a ogniun degna mercede
de le fatiche lor, de le bell'opre
qual ornando di lauri e qual di mirti.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

Quinci discesi quegli spirti eletti
sopra tutt'altri, con eterne lode
or del fier Marte, or del soave Amore,
cantano il sudor d'un, d'altro i sospiri.
E per memoria de l'amato albergo
aman le ninfe i poggi, i fonti e i boschi.
Ed è ragion, ch'ancor quelle chiare alme,
in rimembranza del lor nascimento,
godon di luoghi solitarii ed erti.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

Fra le selve Pierie il Dio dei Dei,
quel ch'ad un cenno il ciel move e governa,
d'amor acceso, in forma di pastore
con la bella Nemosine si giacque.
Era costei la più vezzosa ninfa,
ch'in quella o in altra età, ninfe e silvani,
tenesse al suon de le sue dolci note
dolce cantando le memorie antiche,
e gli occhi avea stellanti e d'or le chiome.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

Giacquesi con lei Giove, e tante notti
giacque con lei, quante del santo coro
son le dotte sorelle. E poi che Febo
nove volte ebbe visto l'auree corna
rifarsi al lume suo rotondo specchio,
tante chiamò Lucina al suo soccorso
la bella ninfa, e d'altrettanti parti
madre divenne. O ben felice madre
il mondo adorno ha il tuo fecondo ventre.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

Venute in luce le felici piante,
de' cui be' fiori e de' cui dolci frutti
dovea goder il cielo e 'l nostro mondo,
il sommo padre di sì bella stirpe
tutto gioioso i teneretti germi
degni intendendo di più degno suolo,
che di suolo terren, fece pensiero
di voler trapiantar la nova selva
ne le splendenti sue felici piaggie.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

De' cieli d'uno in uno il re de' cieli
donò loro il governo ad una ad una;
e d'una in una a loro i nomi impose.
Quella cui diede il cerchio in cui si mira
errar d'intorno con cangiati aspetti,
la dea de la cornuta e bianca fronte,
fu la bella Talia, la cui virtute
fa verdeggiando germogliar gl'ingegni
di verdura immortal di fiori eterni.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

Toccò a Mercurio seguitar l'impero
de la placida Euterpe, a la cui voce
s'empion l'alme di gioia e di diletto.
S'accompagnò con l'alma dea di Cipri
Erato bella, che ne l'alme inesta
quel caro germe ch'è chiamato Amore;
e Melpomene ascese al quarto lume,
e la spera di lui tempra e rivolve
col canto suo, ch'è pien d'ogni dolcezza.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

L'ardente spirto del superbo Marte
ogni orgoglio deposto, non rifiuta
di dar orecchie a la famosa Clio.
A Tersicore diede il re superno
che de la stella sua fosse compagna,
tutto invaghito di sua allegra vista;
e di Polinnia gode il padre antico
notando l'armonia del vario suono
e la memoria de le cose belle.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

Urania su volando altera salse
fra mille lumi, ed or in or s'aggira
lieta del suo bel ciel cantando intorno.
Calliope non ebbe proprio nido
dal sommo padre: ei volle ch'in ciascuna,
de l'altrui stanze fosse la sua stanza:
e le buone sorelle a la sorella
congiunte in dolce amor, in dolci accenti
cantando insieme fan dolce armonia.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

Signoreggiano in cielo, e 'n su la terra
han signoria quell'anime celesti:
e ciascuna di lor da la sua spera,
Calliope da tutte il lor valore
spargon quaggiù ne i più chiari intelletti.
E qual del divo spirto ha l'alma ingombra
a lui s'apre Elicona: a lui le chiome
cingono i lauri: a lui non si disdice
spenger la sete al fonte d'Aganippe.
Movete, o sante Dive, a i vostri onori,
cinte le tempie d'odorati allori.

Ma che novo furor m'ha 'l petto ingombro
di voler col mio calamo palustre
sonar di lor, ch'a i sempiterni Divi
rotando tuttavia l'eterne spere,
de le lor voci fan dolce concento?
Mercè dive, mercè del novo ardire
non vi chiamai nimico, e non mi vanto
di cantar vosco a prova. Anzi 'l desio
onde 'l vostro valor m'ha l'alma accesa
mi mosse a ragionar de i vostri onori.
Tornate, o sante Dive, a i vostri allori.

Tornate Dive; tornin l'altre e meco
rimanga la dolcissima Talia;
rimanti, o Diva, con colui che sempre
teco è col core. O Musa a le mie rime
basta la tua virtù. Tu 'l mio Elicona,
tu 'l mio Parnaso se': tu se' 'l mio Apollo:
tu con l'ardor de' begli occhi sereni
accendi entro 'l mio cor sì chiaro foco,
che l'invidia del tempo in alcun tempo
non potrà spegner mai la nostra luce.
Tu con la soavissima favella,
col dolce suon, con le celesti note
e con la leggiadria del chiaro stile,
me togliendo a me stesso, a dir m'invii
cose, ch'i' spero, che fra questi boschi
si serveranno ancor dopo mill'anni.
E trovando Talia per mille tronchi
scritto per la mia man, trovando Mopso
scritto per la man tua, n'avranno ancora
diletto e invidia la futura gente.

O che parlo? Il tuo aspetto a dir m'ispira
quantunque io parlo; tu mia lingua movi,
tu mi porgi i concetti e le parole.
O mia musa, o mio amor. E qual fu mai
più glorioso amor che la mia Musa
è 'l mio amor, e 'l mi' amor è la mia musa?
Dolce amor, dolce musa: e non vaneggio;
non è 'l mio sogno; no, che viva e vera
ti veggio alma mia diva; e tal ti scorgo
qual ti scorgono e Febo e tue sorelle
a l'onde di Permesso; e qual ti scorge
la sorella di Febo entro al suo giro.

Quant'è la gioia mia? Con voi ragiono
riposti orrori e solitaria riva:
e prego che fra voi si stian sepolte
le mie parole: e voi piacevoli aure
fermate l'ali e eco non risponda:
non risponda eco a me, che la sua doglia
mal si conface al mio gioioso stato.
Chieggio silenzio, acciochè fuor non s'oda
per la mia bocca l'alta mia ventura,
che d'invidia potria colmare altrui.
Quella, ch'un tempo per l'erbose sponde
de l'ampio laco de l'antica Manto
fece tenor cantando al gran Menalca:
quella, quella or risponde al vostro Mopso.

Volgi a me i lumi o diva, ch'in que' lumi
godo del ben del ciel: la lingua snoda
dolce mio santo amore; da quella lingua
sente 'l mio cor dolcezza più ch'umana.
O dolce il veder mio s'eternamente
gli occhi affisassi dentro a tuoi begl'occhi,
e tu gli occhi affisassi a gl'occhi miei:
o dolce udir, se 'l suon dolce e soave
sonasse eterno dentro a le mie orecchie,
dentro al cor penetrando, e dentr'a l'alma.
O dolci i miei pensier, se al mio desire
s'unisse il tuo desir con tanto affetto
che fosse una la mia con la tua voglia.

O mia Diva, o mio amor, se del tuo amore
e se del tuo favor tanto cortese
sarai a l'alma mia, che le mie rime
s'ergan sopra l'invidia, e i miei pensieri
sian pensier di letizia, in su la foce
del Formion, là dove il bel Sermino
quinci le dolci e quindi le salse onde
bagnan d'intorno, un venerabil tempio
sorgerà al nome tuo; quivi i pastori
soneran sempre a te cetre e zampogne:
e di fior sempre, e sempre di verdura
si trecceranno a te ghirlande fresche.
E da i colli e da l'onde, i Dei silvestri
e le ninfe e i tritoni, incoronati
di liete frondi, a te festosi giri
faran dolce iterando il tuo bel nome:
e fra gli altri la bella, la più bella
ninfa ch'abbia tutt'Adria in alcun scoglio
Egida bella l'onorate tempie
cinta di rami di felice oliva,
Talia cantando, e 'l nome di Talia
risonando d'intorno, e poggi e valli,
sopra i sacrati altari in fochi eterni
spargerà lieta a te con larga mano
in sacrificio gli odorati incensi.
Te col divo splender de i lumi santi,
col dolce riso e con la chiara voce,
ferma o Diva, e col cuore il mio bel voto.

V.

LA LONTANANZA

Mopso, solo.

È già gran tempo o Muse il mio suggetto
l'amor di Mopso, e voi beate Dive
sete 'l suo amore. Or il dolente Mopso
dal dolce amato nido e dal suo bene
fatto lontan, va empiendo selve e campi
di dolor, di sospiri e di querele.
Contan le ninfe che fra gli altri un giorno
lungo la riva, su verso le fonti
del vago Po salendo, a tali accenti,
a sì pietosi, a sì dogliosi accenti
allargò 'l fren, facendo in ogni verso
gemer le sponde al nome di Talia;
che le triste sorelle di Fetonte
obliando 'l lor duol, al suo dolore
porsero orecchie, e vinte di pietate
largaro il corso a non usati pianti.
Or qual fosse il suo pianto o santo coro
ditelo a' boschi nostri, e non vi annoi
di por le dotte e dilicate labbra
a le mal culte mie silvestre canne,
E tu mio dolce duol, mia amara gioia,
mio solo eterno amor, mia prima Musa,
mentr'io cantando lacrimo e sospiro
con pietate raccogli il triste canto.
Incominciate o Dee: le selve e gli antri
daran risposta al lacrimabil suono.

MOPSO. Lasso; quest'è ben dura dipartita;
dura, crudel, amara dipartita,
via più ch'assenzio amara e più che morte.
Ed è ragion, ch'estremamente amaro
mi sia 'l partir da lei che m'è più cara
che la zampogna mia, più che l'armento:
più che la vita cara e più che l'alma.
Ahi, ahi! protervo amore di te mi doglio,
protervo, iniquo e dispietato amore.
Tu con fredde paure in van sospetti
mi tenesti gran tempo, mentre ch'io
lei per Tirrenia e per ninfa del Tebro
amai languendo, ardendo e lacrimando.
Poi che 'l favor de' più benigni divi
salir mi fece il glorioso monte,
e mi fece veder fra i sacri allori
l'alto mio santo e dolce amore; e poi
che tolto via il furor di gelosia
alti e dolci pensier battendo l'ali
m'inalzavano al cielo altero e lieto;
hai tronco 'l volo a' miei gentil desiri.

Ahi lasso me dolente, e qual furore
mi conduce ad oprar la rabbia e i denti,
contro il benigno mio soave Iddio?
Mercè Signor, dolce Signor perdona
al soverchio martir che mi trasporta.
Tu la mia scorta se', tu 'l mio maestro;
tu se' 'l mio onor e tu se' la mia palma;
tu con la face tua m'hai mostro il calle
d'ir al bel monte: tu con l'auree penne
impenni i miei pensier; tu nel mio petto
scolpita hai la dolcissima Talia.

Per tante grazie a te di sacro sangue
spargerei d'or in or i santi altari,
a te arderei gl'interi sacrifici,
se non che tu (qual'è 'l tuo cor pietoso)
di crudeltà nimico, il sangue aborri.
Ma di quel, checchesia, che non rifiuti,
di fior, di lode, e d'odorati fumi,
la mia man, la mia lingua e la mia mente
a te non sieno in alcun tempo avare.

Da dolermi ho di mia crudel fortuna,
anzi di lui, che fa la mia fortuna.
Di te m'ho da doler, di te Tirinto,
crudel Tirinto, or se mai 'l petto caldo
ti sentisti d'amor: se punto amico
se' de le dotte Muse, il petto caldo
pur ti senti talor, e eterno amico
se' de l'amate Muse, ahi crudo, e come
puoi scurar dal suo amor l'acceso amante?
Come tòrre a la Musa il suo poeta?
Ben ti dovria Tirinto esser a grado
d'udir al suon di Mopso e di Talia
risponder Eco: e l'una e l'altra sponda
del tuo bel fiume: il tuo bel fiume e Eco
ti pon far fede che eia le pendici
de l'alto giogo, onde 'l Dio del tuo fiume
da l'ampio vaso versa i larghi rivi
insin là dove, per diverse foci,
si scorga in Adria, in tutte le sue rive
non ha 'l più santo ardor, nè 'l più gentile.
E tu cerchi d'opporti a tale amore.
O Tirinto crudel, se non ti move
il mio dolore e 'l mio cocente affetto,
di lei ti mova il grazioso sguardo,
ch'acceso di desir tacendo grida,
e per pietà pregando a te s'inchina.
Movati 'l suon di que' pietosi versi
in ch'ella amaramente sospirando
riprega te per l'amorosa face,
che 'l suo diletto Mopso a lei ritorni;
sia pietoso Tirinto e sia sicuro
che qual pastor, qual ninfa e qual bifolco
non ha pietade a chi d'amor sospira,
non gli ha pietade amor, quand'ei sospira.

Misero me, i' mi dolgo, e tuttavia
dilungando mi vo dal mio desio,
e per molto desio piango e languisco;
e fo col pianto mio col mio languire
pianger gli sterpi e fo pietosi i sassi.
Fera ventura, veramente fera,
che tu diva gentile e 'l tuo fedele
esser debbiate eternamente insieme
fermo suggetto a dolorose note.

Or il vago pensier va rimembrando
quelle parole tue; quelle parole,
quelle, quelle, quell'ultime parole
che mi sterparo il cor, mi svelser l'alma.
Ben è ragion ch'eternamente t'ami,
e se verace amore, se ferma fede
merta cambio d'amor, ragion è ancora
che tu, mia vita, eternamente m'ami.

Non sia mai luogo o tempo che disgiunga
da me 'l tuo amor, che mai per luogo o tempo
non sarà l'amor mio dal tuo disgiunto;
meco sia 'l tuo pensier, che 'l mio pensiero
sempre è con te. Con me sia 'l tuo desire,
che teco è 'l mio desir: sia l'alma tua
sempre con me, che teco è l'alma mia.
Così ci ricongiunga un giorno amore;
e ricongiunga con felice sorte
i pensieri, i desiri e l'alme nostre.

Lasso che 'l ragionar il pensier segue
e ragionando ognor cresce la voglia,
e crescendo la voglia il duol sormonta.
Vago fiume, alte rive, ombrose piante,
passò mai quinci, o qui mai si ritenne
pastor alcun a cui sì tristi lai,
sì cocenti sospir, sì largo pianto
facesser fede del dolor suo interno?
Ma degno è ben che mia lingua si dolga,
e che sospiri il core e piangan gli occhi.
È tolto agli occhi il sol de gli occhi santi;
il sol, ch'è solo il sol de gli occhi miei,
il sol, ch'oltre per gli occhi al cor passando
tutto l'empiea di vivi ardenti spirti;
di spirti che mia lingua a ta' suggetti
movea sovente, che per avventura
non son suggetti da ciascuna lingua.
Or sendo privo di sì altero oggetto
ragion è ben che 'l mio dolor sia solo;
e che sia la mia lingua, il cor e gli occhi,
lingua fioca, cor tristo e occhi molli.

I' vo dolente, e pur convien ch'io vada;
misero Mopso ov'è la tua Talia?
Cara Talia, ov'è il tuo fido Mopso?
O duro fato, o cruda dipartita.

Lasso, che importa a poverel pastore
quel che facciano i ricchi, empii tiranni?
Che tocca a me cercar l'armate squadre?
Inique stelle: veramente i cieli
contra me son giurati; e 'l fiero Marte
ha tant'arme commosse e tanti sdegni
per dipartirmi dal maggior mio bene.

O fortunati, a cui 'l terren natìo
è fermo seggio e certa sepoltura:
fortunati bifolchi voi se 'l giorno
i buoi giungete e col gravoso aratro
sottosopra voltate i duri campi,
non v'è negato almen tornar la sera
a le capanne vostre, a i dolci alberghi,
a le dilette vostre compagnie.
Voi non arate il periglioso suolo
del tempestoso mar: voi gli alti gioghi
non varcate giammai de l'orrid'alpi;
voi non bevete le straniere fonti.
È 'l lungo cammin vostro a la cittade,
a la città, al mercato; e quindi il sole
che v'ha condotti ancor vi riconduce.
Voi fortunati e sfortunato Mopso:
ei da quel dì ch'al sol pria gli occhi aperse
non ha potuto ancor pur una volta
dir: qui sarà domane il mio soggiorno.
Ma da la patria ad estrani paesi
dal Tebro a l'Istro e dal Po alla Garonna,
d'oltre il Carnaio a l'ultimo Oceano,
e dal Vesuvio a gli alti Pirenei
errando ognor, è stato a tutte l'ore
perpetuo strale a l'arco di fortuna.

Misero Mopso! O patria, o patria cara;
o grande Antiniano, o bel Sermino,
o vago Formione, o scoglio amato
quando sarà ch'io vi rivegga e dica:
quel poco omai di vita che m'avanza
mi vivrò pur tra voi, ch'è quel ch'io bramo?
Il grande Atiniano, il bel Sermino
il vago Formion, l'amato scoglio
a me è Talia. Talia mi renda 'l cielo
ch'è Talia la mia patria e 'l mio riposo.

VI.

LA SCONCIATURA

Mopso, solo.

Torniamo, o Muse, ai pianti e ai sospiri:
nostro soggetto or son sospiri e pianti.
Il vostro Mopso si consuma e strugge.
Or mentre io ch'io con lui mi lagno e ploro
seguite o dive le dolenti note.

FEDEL mio, se 'l mio Mopso men fedele
fosse in amor, i' vi so dir per vero
che fora la sua vita men dolente;
ma suo costante amor sua ferma fede
di vento di dolor, d'amaro umore
gli tien ognor il petto e gli occhi pregni;
e voi il sapete pur, ch'alcuna volta
gli occhi affissate in lui tutto pietoso.
Or se la vista del suo aspetto solo
può pietade inestar ne gli altrui cori,
che dovran far i dolorosi lai?
Il miserel ad or ad or s'invola
al vulgo e ai pastori; e in qualche bosco
in qualche antro riposto si raccoglie;
quivi s'asside, e quivi s'accompagna
or con un tronco antico, or con un sasso:
e di sé privo, col pensier dipigne
il dolce amato viso; in quel ritratto
gli occhi e l'animo affisa: in quel si specchia;
con quel ragiona; e quel tanto ha di pace
quanto 'l ritiene il dilettoso inganno.
Poi ch'in sé è ritornato, il duolo immenso
non capendo ne l'alma, si disgombra
per lo petto, per gli occhi e per la lingua
in spirti accesi, in lacrimosi rivi,
in fiochi, rotti ed angosciosi accenti.

I' pascea un dì 'l mio armento per le piagge
del bel Tesin: e così passo passo
per la sua riva errando, il piè mi scorse
là ov'io sentì dolersi quel meschino
con le fere, con l'acque e con gli sterpi.
E quanto con la mano ir seguitando
potei 'l suo dir, le triste sue querele
diedi a serbar ad una antiqua quercia.
Or, a voi di ridirle è 'l mio pensiero:
e voi cui talor visto ho 'l petto caldo
di caldo amore, e che di vera fede
portate il nome, con pietate udite
gli acri lamenti del fedele amante.

MOPSO. O mia cara Talia, m'ha dunque il cielo
disposto ad amarti perch'amando i' pera?
Ben poss'io dir che quanto gira il sole
non ha la nostra età più ardente foco:
non più gentil, non più lodevol foco
che sia 'l mio foco, e posso dir ancora
che non ha 'l mondo e non ha 'l secol nostro
alcun del mio più sventurato amore.

Bella, vaga, gentil, dolce Talia,
vaga e dolce Talia, ma non men cruda
che vaga e bella e che dolce e gentile:
perché crudel? Perché se tante voci
e se tanti sospir, se tanti pianti
ti mando d'or in or giù per quest'acque,
alcun tuo accento a me non mai ritorna?
Perché s'ami 'l tuo Mopso, a le sue pene
non hai pietate? E se pietà ti move,
che non porgi al dolente alcun conforto?

Misero Mopso, e sarà dunque il vero
quel, che per tutti i boschi ognor ribomba
del breve amor, de' mal fermi pensieri
del sesso feminil? Ahi! dunque lasso
avrò senza 'l suo amor da stare in vita?
Non sarà il ver, sebbene e pastorelle
e Ninfe, e Driadi e Naiacli, e Napee
son di mobil voler; però non voglio
dir che sia 'l suo così mutabil core.
Non è la mia non è cosa mortale,
non Naiada, non Driada od altra Ninfa;
ma de l'eccelse eterne abitatrici
de le spere celesti, una di loro
è la mia diva: e col suo divo spirto
nel cor mi spira l'alte cose belle.

O pur non sia fallace il creder mio.
Or mi sovvien, ch'ancor de l'alte dive
son mal stabili i cori. E quante volte
mutò voglia e amor la dea di Cipri,
la dea del terzo ciel? Di lei mi taccio.
Ma la bianca, la fredda e casta luna
come fu fida, lasso, al fido amante?
Il sanno gli alti boschi, ch'alcun tempo
vider Pan lieto e tristo Endimione.
Mal fida luna, avara luna; e troppo
grande argomento de l'incerta fede
de le mutabil, de l'avare voglie
del femineo desir. Chi mi conforta
in sì novo dolor? Su per le rive
del vago Po non mancano i pastori:
non mancano i leggiadri e bei pastori,
non i ricchi pastor di grassi armenti.

Ma non di gregge mai, non mai d'armenti
vidi vago 'l suo cor. Gli umil disiri
sdegna quell'alma sopra ogni alma altera.
Non per fior giovenil, non per tesoro
apron le sante Dive il santo monte.
Nè per fior giovenil, nè per tesoro
dee la mia Diva altrui largare il petto.
Caro a Talia di Mopso è il dolce canto
pien d'alti spirti e di gentili ardori.

Or non ha 'l Po di più soavi note?
Di più gentil, di più leggiadri spirti?
Dolente me: di quanti or mi sovviene
chiari pastor ch'alberghin per le sponde
dov'alberga 'l mio ben, tante punture
mi sento al cor. Ahi! ch'ella non rivolga
gli occhi altrove e l'orecchie e i pensieri.

Chiari pastor, deh! no, deh! no per Dio,
tant'oltraggio al buon Mopso. O Musa, o Diva:
o mia Musa, o mia Diva, il tuo buon Mopso,
il tuo devoto il tuo costante Mopso,
il tuo sincero il tuo verace amante,
il tuo fedel pastor il tuo poeta,
vive egli, o Diva, caro e solo albergo
de la sua vita? Ei vive, s'in te vive
la memoria di lui, s'a l'alma sua
dal petto amato non hai dato il bando.

Ahi, qual fora 'l mio stato o triste core,
(tolga Iddio tale augurio) quale stato
fora 'l mio s'a la mia dolce Talia
fosse a grado d'udir ch'altri che Mopso,
mia le dicesse. O pria fra questi boschi
aspra, selvaggia fera, e l'unghie, e i denti
contro me adopre; l'affamate voglie
di mie tremanti membra e del mio sangue
sbramando fiera e pia, finisca a un punto
il mio amor, il mio duolo e la mia vita.

VII.

TIRRENIA

Cosa propria d'amante è, Nobilissima signora mia, desiderare di esser
sempre e interamente unito con la persona amata, e di qui è che oltra
il desiderio il quale io ho che l'anima mia sia con la vostra
indissolubilmente congiunta, bramo ancora che i nomi nostri insieme
siano eternamente letti e che insieme vivano chiari e immortali. E per
tanto, oltra le molte altre rime alle quali l'amor vostro m'è stato
Elicona e voi stata mi sete Musa favorevole, mi è novamente venuto
fatta una mia composizione per avventura più affettuosa che
artificiosa, nella quale ingegnato mi sono di far un disegno di voi
più particolare che altro il quale insino ad ora io abbia visto che
sia stato fatto da altrui. E se io non ho così dotta mano che di voi
possa fare un vero ritratto, penso avervi almeno ombreggiata in
maniera che siccome dalle ombre delle bellezze superiori gli animi
nostri di grado in grado al disio della vera bellezza sono tirati,
così da questa ombra da me fatta di voi, i più gentili spiriti
potranno salire alla considerazione di quel vero ch'è in voi; or quale
che ella si sia, tale la vi mando nè altro vi dirò se non che se un
altra figura poteste vedere con gli occhi corporali la quale io porto
già gran tempo nell'animo e di quella farne comparazione con voi
stessa, sono securo che voi medesima non sapreste discernere se in voi
o in me sia più vera l'imagine di quella forma ab eterno conceputa
nella mente di Dio, alla cui simiglianza vi fabricò natura quando ella
volse

Mostrar quaggiù quanto lassù potea.

Interlocutori.- DAMETA e TIRSE

L'erboso prato e i verdeggianti allori,
l'aura soave e 'l bel rivo corrente,
m'invitan seco a far lieto soggiorno
e ragionar del mio soave foco.
Muse, Muse, mentr'io di lei favello,
avvolgetemi alcun di questi rami
intorno al crine, e non mi siate avare
del favor vostro: i' canto il vostro onore.
E tu, TITIRO mio, mcntr'io ricorro
quel che mi detta Amor, le mie parole 10
va ricogliendo, e 'n quel surgente tronco
le ripon di tua man; col tronco insieme
sorgeranno il suo nome e i nostri amori.

T. Dunque avrò da lodar la mia fortuna,
che qui a quest'ora ha volto il mio camino;
che, se brami DAMETA ch'el suo nome
per le piante si legga, non ti dee
noiar che TIRSE, tuo fedele amico,
l'oda sonar ancor per la tua lingua.

D. Tu se'qui Tirse? Anzi a me è caro assai 20
che tu ci sia, che con la tua zampogna
porger potrai soccorso a le mie note

T. Ciò ch'a te piace. Ma saper disìo
qual sia quella beata a cui tu intendi
d'acquistar lode con tue eterne rime.

D. Anzi sarian beate le mie rime
se pareggiasser le sue eterne lode.
Di TIRRENIA cantar è 'l mio pensiero.

T. Di TIRRENIA? Ho più volte in queste selve
il bel nome sentito; ma di lei 30
non ho particolare altra contezza.

D. Gran danno a lei, ch'un sì gentile spirto
non le sia in tempo alcun stato soggetto:
a te, che del suo chiaro e vivo lume
ancor non t'hai sentita l'alma accesa.

T. Nova querela, udir ch'altri si doglia
ch'altri non arda del medesmo foco.

D. Da diverse cagion diversi effetti
nascon, mio TIRSE, e altramente s'ama
cosa pura mortale, altri disiri 40
son quei che movon da cose divine.
Come, perché dal soie il lume prenda
una copia infinita d'animanti
non perciò il suo splendore alcuno è scemo;
così qual uom si sente l'alma piena
de' diletti de l'alma, non si sente
scemar il ben perch'altri ancor ne goda.
Anzi gode quel cor, ch'oggetto eterno
ha in se scolpito, che per molti cori
cresca la gloria del superno raggio. 50
E di quel ch'io ti dico, chiara luce
di TIRRENIA ne porge il divo lume.

T. Bramo di quel che di' saperne il come.

D. TIRSE, non ha veduto il secol nostro
pastor ch'io creda alcun, che d'alcun pregio
abbia colto ghirlanda in Elicona,
che s'ha lei vista, e se gli accenti suoi
ha ne l'alma raccolti, tale ardore
non abbia conceputo, che 'l suo ingegno
n'ha poi fuor dimostrati ardenti lampi. 60
Nè tra color giammai si vide o udìo
che ne nascesse invidia o gelosia;
anzi di lodar lei fa ognuno a gara,
e ne l'udir di lei ciascun si gode
de le sue laudi, e l'un l'altro n'invita
a dir del bel suggetto. E 'n lei n'avviene
quel ch'avvien de le cose rare e nove
e ch'avverrìa se sopra l'orizzonte
cominciasse a scoprirsi un nuovo sole
a gli occhi nostri: che com'altri scorto 70
prima l'avesse, così immantenente
si volgerebbe a dimostrarlo altrui.
E ciò n'avvien perochè al suo focile
non s'accende altro che gentil disire.

T. Nuovo ben, nuove grazie e santi amori.
Ma bram'io da te, se non t'annoia,
Dameta mio, che tu mi scopri ancora
que' pastor onorati che pur dianzi
hai detto c'han per lei cantato e arso.

D. E questo, Tirse, ancor farò di grado, 80
nè penso ch'altri altra più chiara fede
possa altrui far del suo valor soprano
che con sì gloriosi testimoni.
Dirò di loro, e dirò con tal legge,
che senza servar legge, di quel prima
ch'a la mia mente pria farà ritorno,
m'udirai favellar. Nè creder dei
ch'io sia per ricordargli tutti a pieno;
che lungo fora, e poi non m'assicuro
di tutti aver memoria o conoscenza. 90

T. Com'a te aggrada: io ad ascoltare intendo.

D. Fra i primi che cantaro in riva al Tebro
de la bella Tirrenia fu un pastore
d'antico sangue e di gente Latina,
e nel cui nome suona la sua gente
e del cui canto ancor, e del cui suono,
suonan le trionfali e altere sponde.
Arse colui per lei lunga stagione:
e ancor dolcemente ne sospira.

E per lei sospirò quel chiaro spirto 100
che morendo lasciò dubbiosi i boschi
tra le Muse di Lazio e di Toscana
quali al suo dir sian state più benigne.
Dico di quel che per li sette colli
abbandonò le piaggie di Panara.
E un altro di patria a lui vicino
per li paschi del Po ne 'l bel soggetto
affaticò sovente le sue canne.
TIRINTO dico, a costui 'l nostro Reno
diè 'l patrio albergo; e poi, come 'l ciel volse, 110
fu costretto a lasciare i dolci gioghi
e pascer le sue gregge per le valli
che 'l fiume, che detto ho, parte e abbraccia.

Che dirò del pastor che l'Arbia onora?
Di quel dotto pastore i cui vestigi
van seguitando e pastorelli e ninfe,
non altramente che lasciva greggia
la lanuta sua guida? Ei le sue rime
del bel nome ch'io canto ha fatte adorne.

T. Tu di', s'io non m'inganno, di colui 120
ch'un tempo parlar feo le nostre Muse
con quelle leggi e con quelle misure,
che già servò 'l Permesso, il Mincio e 'l Tebro.

D. Di' pur che dir di lui mia lingua intese.
E di lei cantò ancor un'altro Tosco,
un giovin pastor, ch'in riva d'Arno
mentre ch'a lui spargeano il novo fiore
le molli guance, con sì dolci note
tenne le ninfe, i satiri e i silvani,
de le donne cantando i pregi eterni, 130
che ne parlano ancor per questi poggi
le quercie e gli olmi; e se da morte acerba
non era tolto, a lui nel secol nostro
si convenia l'onor de i primi allori.

Nè ci mancano ancor tra queste rive
di quei che van segnando il chiaro nome
in piante e in sassi. E sopra gli altri s'ode
risonar BATTO: BATTO, che per l'erta
del sacro monte sale a' sì gran varchi,
che fatica è notar le sue pedate. 140
Ei d'or in or a lei volgendo gli occhi
prende virtute a gli alti e bei suggetti.

Per lei fatto anco ha risonare i boschi
colui, che sceso da gli alpestri gioghi
onde discendon l'acque a i lieti paschi,
de' pastor d'Insubria, in su le sponde
del Re de' fiumi fe 'l suo nome chiaro
cantando a l'ombra d'un gentil ginebro.

Fu cantata costei da l'aurea cetra
d'un ben dotto pastore, a cui Parnaso 150
concedette non sol tener le Ninfe
al dolce suon de le palustri canne,
ma gli mostrò i secreti di natura,
e render la salute a i membri infermi.

T. Forse di lui vuoi dir, che già discese
dal chiaro sangue di quel gran bifolco,
che fuggendo l'incendio e la ruina
de la sua patria, penetrando i seni
de l'aspra Illiria e di Liburni e d'Istri,
non lunge d'Adria pose la sua mandra? 160

D. Di lui dir volli. E dir ti voglio ancora
che 'l ricordar de gl'Istri a la mia mente
tornato ha MOPSO; MOPSO, in cui contende
il favor de le Muse e lo intelletto.
del terminar le sanguinose liti
de' più audaci pastor. Or quanto e dove
ei sia per TIRRENIA arso e quanto egli arda,
e quanto abbia per lei cantato e canti,
fan chiara fede il Po, il Ticino e l'Arno
che mille piante han di sue rime impresse. 170

Ma dove lascio, lasso, il buono IOLA,
IOLA che col dotto e nuovo suono
de ben temprati calami, a' pastori
solea far corto e agevole sentiero
di gir al fonte che fa i nomi eterni?
Questi venuto da gli aperti campi
che bagna l'uno e l'altro Tagliamento,
sè di gloria colmò, d'invidia altrui.
Ei col vivace lume del suo ingegno
solea in TIRRENIA, come aquila in sole, 180
gli occhi affissare e da' suoi chiari raggi
formar lo stile, e le parole, e 'l canto.
Morte pose silenzio a le sue note.

Invida morte, a lei rapisti ancora
e al mondo insieme un'altra chiara luce
d'un gran pastor, che nato in queste piagge
fu cultor nel giardin de' pomi d'oro.
Poi trapassando a le ricche pasture
e a gli orti di Celio e d'Aventino,
si trovò non pur d'edere e di mirti, 190
ma di purpurei fior cinte le tempie.
Fior di gloria mortal com'è caduco!
Ne sospirano ancor i sette colli
del caso acerbo; e VIRBIO nei sospiri
suona d'intorno. VIRBIO almo pastore
e poeta e materia de' poeti;
viverà in mille versi il pastor sacro
e 'l pregio di Tirrenia ne' suoi versi. 200

Non patisce la gloria di costui
ch'altri d'altro pastor, d'altro poeta,
faccia memoria: e a te bastar ben puote
d'aver sentito come tali e tanti,
e poeti, e pastori, i loro ingegni
abbian stancati intorno al caro oggetto.

T. Come sollecita ape per li prati
suoi la novella state errando intorno
di fior in fior gustare il dolce succo:
o come innamorata pastorella 210
di varii fiori al suo diletto amante
trecciar si vede una ghirlanda fresca,
così visto ho DAMETA la tua lingua
andar cogliendo il fior de i chiari spirti,
onde composto è 'l mel di quelle lode,
che rese ha 'l mondo a la tua cara amata,
e coronata d'immortal corona.

D. Ma non men gloriosa è la corona
ch'ella tesse a sè stessa: ch'oltra quelle
rime che d'ella col favor suo ispira 220
a chi del suo amor arde, che da lei
non men provengon che da l'altre Muse
le rime e i versi de gli altri poeti.
Ella suol d'or in or con le sue rime
destare i boschi intorno; e ad ora ad ora,
co' i più rari pastor cantando a prova
tiene intenti al suo dir Fauni e Napee.
Già sono impressi in più ch'in una pianta
gli alti suoi amori; e la virtù d'amore
quanto sia grande e come sia infinita, 230
si legge da lei scritta in nuove scorze:
e suggetti altri, che felicemente
viveran col suo nome chiari e eterni.

T. Ragion è adunque che sì altero spirto
cantato sia da gli spirti più chiari.

D. TIRSE, non vo' lasciare ancor di dirti
che se di lei scorgessi il divo aspetto,
e le dolci maniere e i bei sembianti:
s'udissi il suon de l'alte sue parole,
e le sentenze de' profondi detti, 240
protesti dir, non quel che di Medusa
si favoleggia che sua fiera vista
altrui mutava in insensibil pietra;
ma c'ha virtute a l'insensibil pietre
d'ispirar sentimento e intelletto.
O s'udissi talor quando accompagna
la voce al suon de la soave cetra:
o quando assisa tra Ninfe e Pastori
move tra lor la lingua a dolci note:
s'udissi, dico, come in nuovi accenti, 250
e come in soavissimi sospiri
l'aria intorno addolcisca, e i vaghi augelli
tra le frondi si stiano intenti e muti,
e come i colli, e gli alberi, e le grotte
mandin cantando al ciel novelle voci,
so che non chiederiano i tuoi disiri
altre Muse, altro Apollo, altro Elicona.

T. Grazie son queste così belle e care,
ch'in lei racconti, che fan dubbio altrui
se sia da dir ch'essa sia rara, o sola. 260
Ma perché spesso avvien ai nostri cori
che da l'un bel disio l'altro risorge,
poi che m'hai di TIRRENIA il gran valore
fatto sì aperto, ancor saper disio
qual sia di lei la stirpe e 'l patrio suolo;
salvo se del parlar già non se' stanco.

D. Di ragionar di lei sazio nè stanco
esser non poss'io mai; poi vizio fora
non sodisfare a sì giusti disiri.
Or porgi orecchie al chiaro nascimento. 270

In quelle parti ove si corca il sole,
si stende un'onorato ampio paese,
lo qual da l'oceano e dal mar nostro
è cinto d'ogni intorno, se non quanto
lunga costa di gioghi s'attraversa:
e questi son chiamati i Pirenei.
Da questi monti un gran fiume discende,
il qual porta tributo al sale interno,
e IBERO è 'l suo nome: or quanto serra
il giogo, e l'acque dolci, e l'acque salse, 280
vien nomato ARAGON. In quel paese
già surse un'onorata e chiara stirpe
ch'in tutti que' confìn co 'l suo vincastro
diede legge a' pastori ed a' bifolchi;
e questa dal paese il nome tolse.
Poi co 'l girar del ciel volgendo gli anni
passò l'alto legnaggio a i nostri liti,
a gl'italici liti; e s'alcun nome
ci fu mai chiaro o altero, sopra gli altri
questo gran tempo risonar s'udìo. 290
Che donde di là in Adria il fiume Aterno,
e di quà passa il Liri al gran Tirreno,
quanto circonda 'l mar fin là ove frange
l'orribil Scilla i legni a i duri scogli,
e quanto ara Peloro e Lilibeo,
solea già tutto a la famosa verga
del generoso sangue esser soggetto.

Or fra molti altri uscìo del chiaro sangue
un gran pastor, che di purpuree bende
ornato il crine e la sacrata fronte, 300
com'amor volle, un giorno per le rive
del vago Tebro errando, a gli occhi suoi
corse l'aspetto grazioso e novo
de la bella IOLE. Questa tra le sponde
nata del Re de' fiumi, ove si parte
l'acqua del suo gran fiume in molti fiumi,
avea cangiato 'l Po coi sette poggi:
e di questa 'l pastor, di ch'io ragiono,
caldo di dolce amore fe' 'l grande acquisto
di lei, ch'or m'arde il cor d'eterno amore. 310

T. Già non si convenìa men chiaro seme
per dare al mondo pianta sì gentile.

D. E non si convenìa men chiaro loco
al gran concetto e al glorioso parto
che l'onorate piaggie trionfali
de l'almo Tebro, il quale andar si vede
non men superbo che tra le sue arene
sia germogliata pianta sì felice,
che di solenne alcun altro trionfo.

T. Dunque felice il luogo, e 'l seme, e 'l ventre, 320
onde frutto sì eletto al mondo nacque:
e più felice a cui dal cielo è dato
gli occhi affissar nel lume de' begl'occhi,
ai dolci accenti aver l'orecchie intente,
e aver de gli occhi e de gli orecchi aperte
le porte a l'alma e aver l'alma rivolta
a la beltà del doppio eterno oggetto
da salir sopra 'l cielo. E sopra ogn'altro
felicissima lei, ch 'l gran legnaggio
e l'alto onor del bel nido natìo 330
vinto ha col pregio del valore interno.

Ma mentre abbiam la lingua e 'l cor rivolti
al tuo bel Sole, è già 'l celeste sole
presso che giunto a l'ultimo orizzonte:
perché buon sia che diam luogo a la sera.

D. Vanne felice. Io pria che 'l vago piede,
rivolga altrove, questa bella pianta
sacrare intendo a lei, cui 'l petto ho sacro
con la memoria de l'amato nome

[5 O sante Dee.]
[11 raccogliendo.]
[15 ch'a quest'ora qui volto ho 'l]
[20 m'è.]
[23 Eccomi presto.]
[24 il cui valore.]
[25 cerchi inalzar con le tue.]
[44 Non è in alcuno il suo splendore scemo.]
[48 Nel core ha impresso.]
[60 eterni lampi.]
[63 fan tutti.]
[76 ben da te.]
[127 Nel tempo che.]
[128 Sue molli.]
[147 Del real fiume.]
[174 Agevolar solea l'aspro sentiero.]
[205 Bastar ben ti puote.]
[225 e d'or in ora.]
[231 Leggesi.]
[233 col suo nome eterna vita.]
[252 L'aria addolcisca donde i vaghi augelli.]
[261 Ma perché avvenir suol ne i nostri cuori.]
[262 Che spesso l'un disio dall'altro sorge.]
[289 chiaro sopra gli altri nomi.]
[290 Questo oltra gli altri risuonar s'è udito.]
[314 beato parto.]

INDICE

(ARAGONA)
Alma del vero bel chiara sembianza
(ARRIGHI B.)
Alma gentile che già foste al paro
(ARAGONA )
Alma gentile in cui l'eterna mente
(STROZZI F.)
Alma gentile ove ogni studio pose
(ARAGONA)
Almo Pastor che godi alle chiare onde
(Muzio G.)
Amore ad ora ad or battendo l'ale
(ARAGONA )
Amore un tempo in così lento foco
(MUZIO G.)
Amor nel cor mi siede e vuol ch'io dica
(LO STESSO)
Anima bella che da gli alti chiostri
(ARAGONA)
Anima bella che dal Padre Eterno
(DE' MEDICI I.)
Anima bella che nel tuo bel lume
(ARAGONA)
Bembo, io che fino a qui di grave sonno
(LA STESSA)
Ben fu felice vostro alto destino
(CAMILLO G.)
Ben fu tra gli altri avventuroso il giorno
(ARAGONA)
Ben mi credea fuggendo il mio bel sole
(LA STESSA)
Ben si richiede al vostro almo splendore
(LA STESSA)
Ben sono in me d'ogni virtute accese
(LA STESSA)
Bernardo, ben potea bastarvi averne
(MUZIO G.)
Canti chi vuol le sanguinose imprese
(ARRIGHI A.)
Come di dolce più che d'agro parte
(MUZIO G.)
Dal mio mortal co 'l mio immortal m'involo.
(DE' BENUCCI L.)
Deh, non volgete altrove il dotto stile
(MUZIO G.)
Dive ch'al suon de la dorata cetra
(ARAGONA)
Dive che dal bel monte d'Elicona
(MUZIO G.)
Donna a cui 'l santo coro ognor s'aggira.
(VARCHI B.)
Donna che di bellezza e di virtute
(MUZIO G.)
Donna che sete in terra il primo oggetto
(LO STESSO)
Donna i cui beati ardori
(LO STESSO)
Donna il cui grazioso e altero aspetto
(LO STESSO)
Donna l'onor de' i cui be' raggi ardenti
(LO STESSO)
Donna più volte m'ha già detto amore
(ARAGONA)
Donna reale a i cui santi disiri
(MUZIO G.)
Donna se mai vedeste in verde prato
(ARAGONA)
Dopo importuna pioggia
(MUZIO G.)
Ebbe la favolosa antica etade
(LO STESSO)
È già gran tempo o Muse il mio suggetto
(ARAGONA)
Felice speme che a tant'alta impresa
(MUZIO G. )
Fiamma che chiaramente il mio cor ardi
(ARAGONA)
Fiamma gentil che da gl'interni lumi
(MUZIO G.)
Già fiammeggiava presso a l'aurea Aurora.
(LO STESSO)
Già risalito sopra l'orizzonte
(LO STESSO)
Già vide alle sue sponde il gelid'Ebro
(ARAGONA)
Ho più volte signor fatto pensiero
(MUZIO O.)
Il valor vostro Donna il cor m'incende
(LO STESSO)
In su le rive del superbo fiume
(ARAGONA)
Io ch'a ragion tengo me stessa a vile
(LA STESSA)
Io che fin qui quasi alga ingrata e vile
(VARCHI B.)
Io non miro giammai cosa nessuna
(ARAGONA)
La nobil valorosa antica gente
(MUZIO G.)
La sembianza di Dio che 'n noi risplende
(ARRIGHI A).
L'aspetto sacro e la bellezza rara
(MUZIO G.)
Lasso onde avvien che qui non fa ritorno
(LO STESSO )
L'erboso prato e i verdeggianti allori
(......)
Lieto viss'io sotto un bianco lauro
(ARAGONA)
Mentre ch'al suon de' i dotti ornati versi
(MUZIO G.)
Mentre le fiamme più che 'l sol lucenti
(DA MONTE VARCHI C.)
Mosso da l'alta vostra chiara fama
(ARAGONA)
Nè vostro impero ancor che bello e raro
(VARCHI B.)
Ninfa di cui per boschi, o fonti, o prati
(ARAGONA)
Non così d'acqua colmo in mar discende
(LA STESSA)
Nuovo Numa Toscan che le chiar'onde
(DE' BENUCCI L.)
O fiumicel se 'l più cocente ardore
(MUZIO G.)
O novo esempio de l'eterna luce
(ARAGONA)
O qual vi debb'io dire o Donna o Diva
(MUZIO G.)
Or di là se ne vien questa dolce ora
(PORZIO S)
Or qual penna d'ingegno m'assecura
(MUZIO G.)
O se tra queste ombrose e fresche rive
(ARAGONA)
Ov'è misera me quell'aureo crine
(VARCHI B.)
Per non sentir la turba iniqua e fella
(ARAGONA)
Più volte Ugolin mio mossi il pensiero
(CAMILLO G.)
Poi ch'a la vostra tanto alma beltade
(BENTIVOGLIO E.)
Poi che lasciando i sette colli e l'acque
(ARAGONA)
Poi che mi diè natura a voi simile
(LA STESSA)
Poi che rea sorte ingiustamente preme
(LA STESSA)
Porzio gentile a cui l'alma natura
(LA STESSA)
Poscia, ohimè, che spento ha l'empia morte
(MUZO G.)
Quai d'eloquenza fien sì chiari fiumi
(ARAGONA)
Qual vaga Filomela che fuggita
(MUZIO G.)
Quando, com'Amor vuol, la donna mia
(VARCHI B.)
Quando doveva ohimè l'arco e la face
(TOLOMEI C.)
Quando la Tullia mia che vien dal cielo
(MUZIO G.)
Quando 'l raggio del bel ch'in voi risplende
(ARAGONA)
Quel che 'l mondo d'invidia empie e di duolo
(LA STESSA)
Sacro pastor che la tua greggia umile
(LA STESSA)
S' a l'alto Creator de gli elementi
(MUZIO G.)
Sebben gli occhi e l'orecchie alcuna volta
(MARTELLI U.)
Se bella voi così le Grazie fero
(ARAGONA)
Se ben pietosa madre unico figlio
(VARCHI B.)
Se da i bassi pensier talor m'involo
(LO STESSO)
Se di così selvaggio e così duro
(ARAGONA)
Se forse per pietà del mio languire
(LA STESSA)
Se gli antichi pastor di rose e fiori
(LA STESSA)
Se 'l ciel sempre sereno e verdi i prati
(DE' MEDICI I.)
Se 'l dolce folgorar de i bei crini d'oro
(MARTELLI N.)
Se 'l mondo diede allor la gloria a Arpino
(MARTELLI U.)
Se lodando di voi quel che palese
(MOLZA B.)
Se 'l pensier mio, ov'altamente amore
(GRAZZINI A.)
Se 'l vostro alto valor, Donna gentile
(ARAGONA)
Se materna pietate affligge il core
(DE' BENUCCI L.)
Se per lodarvi e dir quanto s'onora
(ARAGONA)
Se veston sol d'eterna gloria il manto
(LA STESSA)
Siena dolente i suoi migliori invita
(LA STESSA)
Signor che con pietate alta e consiglio
(LA STESSA)
Signor d'ogni valor più d'altro adorno
(LA STESSA)
Signore in cui valore e cortesia
(LA STESSA)
Signor nel cui divino alto valore
(LA STESSA)
Signor pregio e onor di questa etade
(ARRIGHI A.)
S'il dissi mai ch'io venga in odio a voi
(ARAGONA)
S'io 'l feci unqua, che mai non giunga a riva
(MUZIO G.)
Sogni chi vuol di riportar corona
(LO STESSO)
Spirto felice in cui sì rare e tante
(ARAGONA)
Spirto gentil che dal natio terreno
(LA STESSA)
Spirto gentil che vero e raro oggetto
(MOLZA B.)
Spirto gentile che riccamente adorno
(MUZIO G.)
Spirto gentile in cui sì chiaramente
(ARAGONA)
Spirto gentil s'el giusto voler mio
(ARRIGHI A.)
S'un medesimo stral due petti aprio
(MUZIO G.)
Superbo Po ch'a la tua manca riva
(LO STESSO)
Torniamo o Muse a i pianti e ai sospiri
(CAMILLO G.)
Tullia gentile a le cui tempie intorno
(DALLA VOLTA S.)
Tullia mostro miracol Sibilla
(STROZZI F.)
Uscendo 'l spirto mio per seguir voi
(BENTIVOGLIO E.)
Vaghe sorelle che di trecce bionde
(ARAGONA)
Varchi, da cui giammai non si scompagna
(LA STESSA)
Varchi, il cui raro e immortal valore
(GlOVENALE L.)
Vide già la famosa antica etade
(ARAGONA)
Voi ch'avete fortuna sì nemica
(MARTELLI L.)
Voi che lieti pascete ad Arno intorno
(ARRIGHI B.)
Voi che volgete il vostro alto disio