The Project Gutenberg eBook of Cronica di Matteo Villani, vol. 3

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org . If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title : Cronica di Matteo Villani, vol. 3

Author : Matteo Villani

Editor : Ignazio Moutier

Release date : January 29, 2023 [eBook #69900]

Language : Italian

Original publication : Italy: Magheri

Credits : Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the Bayerische Staatsbibliothek)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CRONICA DI MATTEO VILLANI, VOL. 3 ***

CRONICA
DI
MATTEO VILLANI

TOMO III.


CRONICA

DI

MATTEO
VILLANI

A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA
coll’aiuto
DE’ TESTI A PENNA

TOMO III.

FIRENZE
PER IL MAGHERI
1825


INDICE


[5]

LIBRO QUINTO Qui comincia il quinto libro della Cronica di Matteo Villani; e prima il Prologo.

CAPITOLO PRIMO.

Chiunque considera con spedita e libera mente il pervenire a’ magnifici e supremi titoli degli onori mondani, troverà che più paiono mirabili innanzi al fatto e di lungi da quello, che nella presenza della desiderata ambizione e gloria: e questo avviene, perchè il sommo stato delle cose mobili e mortali, venuto al termine dell’ottato fine, invilisce, perocchè non può empiere la mente dell’animo immortale; ancora si fa più vile, se con somma virtù non si governa e regge; ma quando s’aggiugne a’ vizi, l’ottata signoria diventa incomportabile tirannia, e muta il glorioso titolo in ispaventevole tremore de’ sudditi popoli. Ma perocchè ogni signoria procede ed è data da Dio in questo mondo, assai è manifesto, che per i peccati de’ popoli regna l’iniquo. L’imperial nome sormonta gli altri per somma magnificenza, al qual solea ubbidire [6] tutte le nazioni dell’universo, ma a’ nostri tempi gl’infedeli hanno quello in dispregio, e nella parte posseduta per i cristiani tanti sono i potenti re, signori, e tiranni, comuni, e popoli che non l’ubbidiscono, che piccolissima parte ne rimane alla sua suggezione; la qual cosa estimano ch’avvenga principalmente dalla divina disposizione, il cui provvedimento e consiglio non è nella podestà dell’intelletto umano. Ancora n’è forse cagione non piccola l’imperiale elezione trasportata ai sette principi d’Alamagna, i quali hanno continovato lungamente a eleggere e promuovere all’imperio signori di loro lingua, i quali colla forza teutonica, e col consiglio indiscreto e movimento furioso di quella gente barbara hanno voluto reggere e governare il romano imperio; la qual cosa è strana da quel popolo italiano che a tutto l’universo diede le sue leggi, e’ buoni costumi e la disciplina militare: e mancando a’ Tedeschi le principali parti che si richieggono all’imperiale governamento, non è maraviglia perchè mancata sia la somma signoria di quello. E stringendone l’usata materia a fare principio al quinto libro, la coronazione di Carlo di Luzimborgo, e quanto di quella seguitò in brevissimo tempo, sieno in parte esempio di quello che narrato avemo nella presente rubrica.

[7]

CAP. II. Come messer Carlo di Luzimborgo fu coronato imperadore de’ Romani.

Domenica mattina a dì 5 del mese d’aprile, gli anni Domini 1355 dalla sua salutevole incarnazione, il dì della Resurrezione di Cristo, essendo il cardinale d’Ostia legato del papa a fare la consecrazione dell’imperadore con molti prelati nella basilica di san Pietro, l’eletto Carlo sopraddetto giugnendo a san Pietro co’ Romani, e colla grande cavalleria e moltitudine di popolo che l’aveano accompagnato, scavalcato colla sua donna, furono ricevuti nella chiesa con grande tumulto di stromenti, e allegrezza e festa di catuna gente. E incontanente ch’egli fu in san Pietro, com’egli avea ordinato, molti cavalieri armati tramezzarono tra la sua persona e della donna con alquanti più confidenti prelati ch’erano all’uficio dell’altare, e l’altro popolo riempierono sì il mezzo della grande basilica che niuno potea valicare verso l’altare, o vedere la sua consacrazione, salvo i prelati e coloro ch’erano in compagnia con l’eletto. E celebrato l’uficio della solenne messa, spogliato l’eletto de’ suoi primi vestimenti, e stando a piè dell’altare, ricevuta la sagra unzione, e confessata la sua cattolica fede, con quelle cerimonie che l’usanza richiede, fu vestito dell’imperiali vestimenta, e consecrato dal cardinale; per lo prefetto di Vico, in chi sta l’uficio d’incoronare, [8] gli fu messo la corona dell’oro imperiale, ed egli incoronò l’imperatrice. E fatta la solennità della sua coronazione, l’imperadore nella maestà imperiale montò in su uno grande e nobile destriere, portando nella mano destra un bastone d’oro, e nella sinistra una palla d’oro ivi suso una crocetta di sopra, e sotto nobilissimi palii d’oro e di seta, addestrato da’ principi romani e da altri nobili signori alla sella e al freno e d’intorno, e appresso a lui l’imperadrice, con grande allegrezza e festa furono condotti per la città di Roma a san Giovanni Laterano, ov’era fatto l’apparecchiamento per desinare; e ivi smontati, con grande reverenza andarono a vicitare l’altare: e già valicata l’ora di nona, si posono a mangiare: e fatta la desinea, l’imperadore e l’imperadrice, con poca compagnia di loro gente, mutato l’abito dell’imperiale maestà, montarono a cavallo, e andarono ad albergare fuori della città di Roma a san Lorenzo tra le vigne: e questo fece per ubbidire al comandamento a lui fatto dal santo padre, che coronato che fosse, non dovesse albergare in Roma. A questa coronazione si trovarono cinquemila tra baroni e cavalieri alamanni, i più Boemi, e più di diecimila Italiani vi furono a cavallo, tutti al servigio e a fare onore all’imperadore. E niuno contrario o sospetto a lui si trovò in Italia, per l’umile venuta e savia pratica che tenne, di non essere partefice e di non seguire il consiglio de’ ghibellini come i suoi antecessori, cosa maravigliosa e non udita, addietro per molti tempi. E partito l’imperadore [9] da san Lorenzo con minore compagnia se n’andò a Tivoli per osservare alcuna ceremonia debita a’ novelli imperadori; incontanente tutta la cavalleria si cominciò a partire da Roma, e venire verso Siena e Pisa, e chi a ritrarsi verso la Magna. Lasceremo alquanto l’imperadore e la sua cavalleria al cammino, e seguiremo d’altre novità strane, che in questi giorni s’apparecchiano alla nostra materia.

CAP. III. Come messer Ruberto di Durazzo prese per furto il Balzo in Provenza.

Quello che seguita essendo molto strano dalla schiatta reale, ci fa manifesto, che dove la necessità regna, rade volte s’aggiugne la ragione. Messer Ruberto, figliuolo che fu di messer Gianni duca di Durazzo, nipote del re Ruberto, tornato di prigione d’Ungheria, e male provveduto dal re Luigi suo cugino, se n’andò in Francia; e servendo il re alle sue spese, non essendo provveduto da lui tornò in Provenza; e ivi, per mantenersi a onore, gravati gli amici e’ parenti, consumò ciò ch’egli avea: e venuto a tanto che non potea mantenere quattro scudieri, si pensò di fare male; e non avendo da se la forza, s’accostò col sire della Guardia, a cui manifestò il suo pensiero, e richieselo d’aiuto. Costui, ch’era uomo atto alla guerra più ch’al riposo, disse di seguirlo volentieri, e accolsono ottanta cavalieri, e provvidonsi di scale; [10] e una notte, a dì 6 d’aprile del detto anno, essendo il forte castello del Balzo in Provenza senza alcuno sospetto, e ’l signore del Balzo nel Regno in cortese guardia del re, messer Ruberto vi s’entrò dentro, e senza contasto prese il castello e la rocca inespugnabile. Sentendosi la novella in corte, il papa e’ cardinali se ne turbarono forte, salvo il cardinale di Pelagorga ch’era suo zio, il quale con seguito di certi cardinali di sua setta lo scusavano in concestoro, e segretamente l’atavano per modo, che in pochi dì ebbe nel Balzo trecento cavalieri e cinquecento fanti armati, e cominciò a correre il paese e fare preda fin presso Avignone, non senza sospetto del papa, e de’ cardinali, e di tutta la Provenza.

CAP. IV. Come i Provenzali s’accolsono per porre l’assedio al Balzo.

Essendo questa cosa divolgata per la Provenza, i baroni del paese ch’amavano la casa del Balzo, e temeano delle loro castella per lo male esempio, senza essere richiesti da altro signore fece catuno suo sforzo, e trassero con cavalieri e fanti che poterono fare al Balzo, e in pochi giorni vi si trovarono ottocento cavalieri e gran popolo: e dato ordine tra loro, tennono assediato il castello e la gente che dentro v’era. La novella andò di subito a Napoli al conte d’Avellino signore del Balzo, il quale di presente il disse al re; ond’egli si turbò forte, e incontanente licenziò [11] il conte, e rimandollo in Provenza, profferendogli il suo aiuto: il conte si mise in fretta al suo viaggio. Il papa e’ cardinali erano in turbazione colla setta di quelli di Pelagorga, la qual cosa conturbava non poco la corte e tutta la Provenza. Lasceremo al presente la materia del Balzo, e trapasseremo alle novità che occorsono in Italia innanzi che il Balzo si racquistasse.

CAP. V. Come si comincio l’izza da messer Galeazzo Visconti a messer Giovanni da Oleggio.

Messer Giovanni da Oleggio vicario di Bologna per messer Maffiolo de’ Visconti di Milano, innanzi che l’arcivescovo avesse presa Bologna era provveduto dal detto arcivescovo, del quale si credea che fosse figliuolo, tra altre utili possessioni d’un castello grande e nobile chiamato...., del quale messer Giovanni avea buona rendita: il castello vicinava con certe terre di messer Galeazzo Visconti. Avvenne, che messer Giovanni s’intendea in Milano d’amore con alcuna donna la quale nel segreto era al servigio di messer Galeazzo, il quale accorgendosi di messer Giovanni, l’ebbe a sdegno, e senza altro dimostramento della cagione prese izza contro a lui, e messer Giovanni sforzandosi di fargli onore nol potea contentare: infine gli tolse il castello, più per fargli dispetto che per altra cagione. Della qual cosa messer Giovanni non s’osò rammaricare nè dolere, ma di questo nacque poi maggiore [12] novità quando messer Giovanni si rubellò alla casa de’ Visconti, come leggendo appresso si potrà trovare.

CAP. VI. Come il capitano di Forlì sconfisse gente della Chiesa.

Del mese d’aprile del detto anno, il capitano di Forlì cavalcava nella Marca, e avea in sua compagnia dugento cavalieri i più gentili uomini giovani, i quali erano con lui per amore a sua provvisione. Il capitano della gente d’arme della Chiesa seppe l’andata del capitano di Forlì, e di notte gli si fece incontro, e misegli un aguato di quattrocento cavalieri. Il capitano di Forlì, innanzi che fosse al passo dell’aguato, per sue spie seppe come i nemici in quantità di quattrocento cavalieri l’attendeano di presso; egli era in parte ch’el si poteva tornare addietro salvamente, ma pensando che ciò gli tornerebbe a vergogna, avendo l’animo grande, e giovani cavalieri con seco pro’ e arditi, diliberò con loro d’andare ad assalire i nemici, non ostante che gran vantaggio avessono del numero della gente e del terreno; fece cento feditori ch’andassono innanzi a cominciare la zuffa, i quali si mossono in un fiotto, e dirizzaronsi al cammino verso l’aguato, a modo come se ’l capitano fosse tra loro. I nemici pensandogli raccogliere a mansalva uscirono loro addosso, credendo che vi fosse il capitano di Forlì. I cento cavalieri, vedendo venire [13] verso loro tutto l’aguato, strettamente con grande ardire, sì fedirono tra loro sì virtuosamente, che gli feciono invilire; e vedendo come francamente sosteneano contro a loro, temettono che il capitano con maggior forza non venisse loro addosso; e vedendo dalla lunga apparire gente al loro soccorso, e che questi cento cavalieri tanto francamente si sosteneano, innanzi che il capitano giugnesse ruppono; e giugnendo il capitano di Forlì al soccorso de’ suoi, trovò rotti i nemici, e perseguitandoli, prese dugento cavalieri e più di quell’aguato, e raccolta la preda, vittoriosamente fornì il suo viaggio.

CAP. VII. Come messer Filippo di Taranto prese per moglie la figliuola del duca di Calavria.

Essendo dama Maria, sirocchia della reina Giovanna figliuola del duca di Calavria, rimasa vedova di due mariti tagliati a ghiado, che l’uno fu il duca di Durazzo, l’altro Ruberto figliuolo del conte d’Avellino, de’ quali innanzi è fatta menzione, essendo così vedova, del mese d’aprile, ella e messer Filippo di Taranto fratello carnale del re Luigi senza moglie, non ostante ch’ella fosse figliuola di suo cugino carnale e stata moglie del duca suo cugino, senza alcuna dispensazione, con volontà e consiglio del detto re e della reina Giovanna sua sirocchia, per nome di matrimonio si congiunsono insieme; e dopo la loro congiunzione e maritaggio, il detto messer Filippo andò [14] a corte di Roma a Avignone al papa per avere la dispensagione. Il papa ebbe questa cosa molto a grave, e il collegio de’ cardinali, e fu da loro messer Filippo mal veduto, e dimorò in corte e in Provenza lungamente, adoperando cose da piacere al papa per potere avere la dispensazione a lui più volte negata. Infine dopo lungo dimoro, caricato il papa dal re e dalla reina, che questa vergogna non rimanesse nella casa reale, infine per lo meno male, e per ricoprire quello vituperio, concedette la detta dispensagione.

CAP. VIII. Come Massa e Montepulciano non ricevettono i vicari del patriarca.

In questi dì, essendo l’imperadore a Roma, i Massetani, e’ Montepulcianesi, e que’ di Grosseto, che soleano ubbidire al comune di Siena, avendo sentiti i romori della città, e l’abbattimento dell’ordine de’ nove e di tutti gli ufici del comune mandandovi il vicario dell’imperadore per riprendere la signoria di quelle terre, catuna si ritenne senza volere ricevere la signoria del vicario, volendo prima vedere come la città di Siena si dovea riposare. E di questa novità il minuto popolo e gli artefici ch’aveano abbattuto l’ordine de’ nove, che di ciò erano contenti, furono turbati assai, e presono cagione d’intendersi insieme, onde poi seguirono gravi revoluzioni, come al suo tempo appresso racconteremo.

[15]

CAP. IX. Come i Visconti tolsono a messer Giovanni da Oleggio il suo castello.

Essendo messer Giovanni de’ Peppoli che vendè Bologna molto confidente a messer Galeazzo Visconti, per accattare benivolenza a’ suoi amici da Bologna da messer Giovanni da Oleggio che n’era vicario operò tanto, che messer Galeazzo gli rendè la grazia sua, e il castello, che per sdegno gli avea tolto; la qual cosa fu a messer Giovanni da Oleggio a grado, e di presente si provvide di ricchi doni, e mandolli a messer Galeazzo, il quale gli ricevette graziosamente. Messer Maffiolo vedendo che messer Giovanni era tornato nella grazia di messer Galeazzo, incominciò a prendere sconfidanza di lui, e inanimossi di rimuoverlo del vicariato di Bologna, e il suo proprio castello ch’avea riavuto da messer Galeazzo recò cortesemente al suo governamento, e certa provvisione ch’egli era usato di fare ogni anno a messer Giovanni per i servigi che ricevea da lui cominciò a sostenere con dissimulazioni. E parendogli che messer Giovanni ubbidisse più gli altri suoi fratelli che se, avendo intendimento di mutarlo e trarlo di Bologna, copria il suo intendimento con povero consiglio, che non sapea più; ma colui con cui egli avea a fare era uomo astuto e avvisato, e però il fine andò tutto per altro modo che messer Maffiolo e’ fratelli non pensarono, come leggendo innanzi si potrà vedere.

[16]

CAP. X. Andamenti della gran compagnia.

Essendo lungamente stata in Puglia la compagnia del conte di Lando, favoreggiata dal duca di Durazzo e dal conte Paladino in vergogna della corona, perchè dal re erano stati mal trattati, del mese di maggio la condussono in Terra di Lavoro, e misonsi a Serni e a Matalona, facendo per lo paese danni di ruberie e di prede quanto più poteano, senza trovare fuori delle mura delle terre alcuno contasto: e appresso feciono più parti di loro, e sparsonsi per lo paese facendo danni assai, come per i tempi innanzi si racconteranno.

CAP. XI. Come il re di Tunisi fu morto.

Innanzi ch’e’ Genovesi prendessono Tripoli di Barberia, il re di Tunisi avendo assai figliuoli di diverse donne, com’è usanza de’ saracini, i quali figliuoli male ordinati, non volendo che la successione del regno venisse a quel loro fratello a cui il re intendea di lasciare la reale signoria, trattarono e misono ad esecuzione la violente morte del re loro padre; e rimanendo il reame in vacazione, i baroni occuparono chi in un paese e chi in un altro le possessioni e ragioni del reame; e nondimeno alcuni de’ piccoli figliuoli [17] del re che non era partefice al patricidio feciono re, il quale possedea Tunisi e parte del reame, ma non l’occupava. In quel tempo avvenne, ch’un figliuolo d’un fabbro saracino, essendo sperto, e ben parlante, e di grand’animo, ebbe cuore, trovandosi in Tunisi, d’occupare la città con tirannia; ed essendovi grande per la sua eloquenza, per la sua industria se ne fece signore, e reggea e governava quel popolo e quell’antica città a suo volere, senza lasciarli ritornare alla debita signoria del re di Tunisi; e per lo male stato di quello reame non era chi lo repugnasse. Per la qual cosa avvenne, che certi Genovesi ch’aveano veduto il reggimento di quel tiranno, e sentito com’egli era in odio al re di Tunisi e a’ suoi baroni, da cui non avrebbe soccorso, e il gran tesoro ch’era in quel popolo, si pensarono di prendere per ingegno e per forza quella città, come poi venne loro fatto, secondo che appresso leggendo si potrà trovare.

CAP. XII. Come messer Giovanni da Oleggio rubellò Bologna.

Noi abbiamo poco addietro narrato come messer Maffiolo de’ Visconti di Milano, nella cui parte era venuta la città di Bologna, avea preso sospetto di messer Giovanni da Oleggio suo vicario, e provvedeasi segretamente a rimuoverlo; e parendogli tempo, mandò a Bologna messer Galeazzo de’ Pigli [18] da Modena con certa famiglia, acciocchè prendesse da messer Giovanni la signoria, e rimanesse suo vicario in Bologna, e a messer Giovanni scrisse, ch’assegnato ch’avesse al nuovo vicario la tenuta e la signoria, che se ne tornasse a Milano, facendogli assai larghe offerte. E giunto in Bologna messer Galeazzo, fu da messer Giovanni ricevuto graziosamente nella prima apparenza, e per mostrarsi fedele e ubbidiente al suo signore, di presente fece assegnare la rocca e la guardia della porta di verso Modena a uno Milanese, di cui messer Maffiolo n’avea fatto castellano. Questo si crede che facesse piuttosto per poter meglio trattare l’altre cose che gli bollivano nell’animo, che per semplice disposizione d’ubbidienza. E vedendosi egli allo stremo partito, lavorava dentro con grande angoscia dell’animo, e non avea con cui confidentemente potersi consigliare; e dall’una parte il premea la fede promessa alla casa de’ Visconti di cui e’ si tenea per nazione, ma più per i grandi onori e per lo stato ov’era pervenuto di piccolo grande, per i beneficii ricevuti da’ suoi signori; e dall’altro lato tempellava la mente l’ambizione della signoria che gli convenia lasciare, e lo sdegno che già sentiva preso per messer Maffiolo gli generava paura che lasciata la signoria e’ non fosse mal trattato, e però, ma più l’appetito della signoria, il fece diliberare di mettersi innanzi a ogni pericolo di sua fortuna, che di lasciare così grande signoria com’egli avea tra le mani, e ogni fede promessa, e tutte l’altre ragioni di sua natura, e d’onori e di beneficii ricevuti mise addietro per niente. E avendo in se [19] medesimo così diliberato, ebbe a se messer Galeazzo nuovo vicario, e fecegli vedere con belle ragioni, come la subita revoluzione della signoria di Bologna era di gran pericolo, e maggiormente perchè sapea che ’l marchese di Ferrara avea accolto gente d’arme, e manifesto era per l’aspre cose ch’egli avea fatte a’ Bolognesi ch’elli erano mal contenti; e però consigliava, ch’egli prima andasse a prendere le tenute delle castella di fuori, e quelle rifornisse e provvedesse di buona guardia, e fatto questo, senza pericolo potea sicuramente ricevere la signoria. Costui ignorante del baratto seguitò il consiglio di messer Giovanni, e prese le masnade ch’avea in Bologna a cavallo e a piè, e’ nuovi castellani e le lettere del comandamento, ch’e’ castellani e l’altre masnade dovessono ubbidire al nuovo vicario; e messolo fuori della città di Bologna, incontanente messer Giovanni mandò pe’ rettori e per tutti gli uficiali ch’erano in Bologna, catuno per se, e come veniano a lui, gli facea mettere in certa camera del suo palagio in salva guardia: e com’ebbe raccolti tutti i rettori, e uficiali in quella sera, mandò per tutti i maggiori cittadini di Bologna grandi e popolani, e per coloro cui egli avea più serviti e meno gravati, e raunatili insieme nel suo palagio, essendo già assai infra la notte, disse, com’egli col loro aiuto intendea di volere torre la signoria di Bologna a messer Maffiolo e agli altri suoi fratelli signori di Milano, e voleala tenere per se, promettendo di trattare benignamente grandi e popolani, e d’alleggiare i cittadini [20] dal disordinato giogo, che a petizione di que’ tiranni era stato costretto di tenere loro addosso contro a sua volontà; scusando se, che come sottoposto al duro comandamento avea fatte assai aspre e crudeli cose a que’ cittadini, facendole contro alla sua natura e all’animo suo per ubbidire a’ crudeli tiranni, a cui non avea potuto fare resistenza, ma da quinci innanzi intendea trattarli come fratelli, e ne daria loro un segnale, mettendo il governamento della cittadinanza nelle loro mani. I cittadini paurosi per l’usata tirannia, temendo che ’l parlare di messer Giovanni non fosse per tentarli della loro fedeltà, dimostrarono e rispuosono di concordia, ch’elli erano apparecchiati a mantenere a lui e a’ suoi signori la fede promessa. Messer Giovanni vedendo la ferma risposta de’ cittadini, e temendo il pericolo della brevità del tempo, con aspre parole cominciò a minacciare i cittadini, dicendo, che parlava aperto e non per tentarli, e che poteano bene comprendere, che in questo punto a lui convenia prendere o lasciare la signoria, ed egli per suo vantaggio, e per trarre loro del servaggio, volea fare con loro consentimento quello ch’avea loro proposto e ragionato: ma poichè vedea tanta follia nelle cieche menti di que’ cittadini, disse, che contro a loro e contro agli altri che non v’erano farebbe aspre e dure cose infino alla morte di catuno, e la città arderebbe e lascerebbe desolata. E questo dimostrava con tanto infocamento d’animo, che manifesto fu a tutti ch’e’ parlava da dovero e non per alcuna tentazione. Allora [21] presono tra loro consiglio, e dissono: Signor nostro, che aiuto vi possiamo noi fare, essendo senz’arme? messer Giovanni disse, che volea ch’eglino il chiamassono signore, e in quella notte farebbe a catuno rendere l’armi: ed eglino il feciono, e l’armi furono rendute in quella notte a chi le volle. La mattina messer Giovanni mandò per i conestabili de’ soldati da cavallo e da piè, e disse, che volea il saramento da loro a se come signore di Bologna, e chi fare nol volesse di presente si partisse di Bologna, e del contado e del suo distretto, a pena della testa; giurarono a lui le due parti, e gli altri si partirono, e di presente uscirono del paese: e tutti gli uficiali ch’egli avea rinchiusi rimutò de’ loro ufici, e misevi de’ nuovi che giurarono a lui, e quelli fece partire della città. Il nuovo castellano, ch’avea messo nella rocca della porta verso Modena, avendo messer Giovanni mandato per lui, non v’era voluto andare, ma per mattia n’avea mandato il figliuolo, il quale messer Giovanni ritenne: e in quella mattina con gran fretta mandò a tutti i castellani di fuori, che non si dovessono rimuovere, nè ricevere in loro castella messer Galeazzo de’ Pigli per lettere o per comandamento ch’e’ portasse da sua parte, e di ciò fu bene ubbidito. Il castellano della città sopraddetto, sentendo la ribellione di messer Giovanni, non volea rendergli la rocca. Messer Giovanni, dal venerdì mattina fino alla domenica sera, con molta sollecitudine intese a ordinare e a rifermare il reggimento della città e della guardia dentro: e in questo [22] tempo il marchese di Ferrara, cui egli avea richiesto d’aiuto, gli mandò dugentocinquanta cavalieri. Il lunedì mattina, non volendo il castellano milanese rendere la rocca della porta, messer Giovanni vi mandò gente d’arme per mostrare di volerla combattere, e per fare impiccare il figliuolo nel cospetto del padre; la battaglia fu ordinata, e le forche ritte, e ’l figliuolo menatovi a piè per impiccare. Il padre doloroso, vedendosi senza soccorso da non potere resistere, e ’l figliuolo per essere impiccato, rendè la tenuta, e fu libero egli e ’l figliuolo: e messer Giovanni rimase libero signore della città di Bologna, levatala dalla signoria de’ signori di Milano, per cui l’avea governata e retta in cruda tirannia infino a dì 20 del mese d’aprile 1355 che se ne fece signore ed ebbe la detta rocca, e in Bologna prese tutti i Milanesi che v’erano e le loro mercatanzie, de’ quali trasse molti danari per riscatto delle persone e della mercatanzia. E nelle castella di fuori non ebbe podere d’entrare messer Galeazzo, salvo che in Luco, e ivi si ritenne, sentendo la ribellione di messer Giovanni, aspettando la volontà de’ suoi signori. Messer Giovanni mettendosi alla fortuna rimase signore; quegli che segue rifrenandola per senno, ovvero per mattia, ne perdè la vita, come appresso diviseremo.

[23]

CAP. XIII. Come il doge di Vinegia fu decapitato.

Messer Marino Faliere doge di Vinegia, uomo di gran virtù e senno, reggendo l’uficio di cotanta dignità, e senza sospetto e in grazia de’ suoi cittadini, avendo l’animo grande si contentava male, non parendogli potere fare a sua volontà com’avrebbe voluto, strignendolo la loro antica legge di non potere passare la deliberazione del consiglio a lui diputato per lo comune; e però avea preso sdegno contro a’ gentili uomini che più lo repugnavano presontuosamente. E intanto avvenne, che certi popolani furono da alquanti de’ grandi di parole e di fatti oltraggiati villanamente; e crescendo lo sdegno del doge per la disordinata baldanza de’ gentili uomini, prese sicurtà di scoprire agli oltraggiati popolani l’animo suo ch’avea contro la riverenza de’ gentili uomini, che tutti erano del consiglio; e di questo seguitò, che il doge concedette segretamente licenza a’ popolari ingiuriati che si procacciassono di confidenti amici, e d’arme e di gente acconcia al servigio, e una notte ordinata fossono su la piazza di san Marco, e sonassono le campane a stormo, e dessono voce che le galee de’ Genovesi fossono nel golfo; e per usanza in cotali novità i gentili uomini di consiglio soleano venire al palazzo al doge per provvedere e consigliare quello che fosse da fare, e in quella venuta i popolani armati li doveano uccidere, ovvero radunati in palagio metterli [24] alle spade; e questo fatto, doveano correre la città gridando, viva il popolo, e fare il doge signore, e annullare l’ordine del consiglio e de’ gentili uomini, e fare tutti gli uficiali popolari. Ed essendo con molta credenza la cosa condotta sino alla sera che la notte dovea seguire, il fatto come a Dio piacque per lo minore male, il doge in questa sera mandò per un suo confidente popolare amico, uomo di grande ricchezza, a cui rivelò il trattato, e come in quella notte si dovea fare il fatto: costui turbato nella mente, con savie parole gli biasimò l’impresa e impaurì il doge, e non ostante che la cosa fosse recata molto agli stremi del tempo, disse, che là dove piacesse al doge, che metterebbe subito consiglio che la cosa non procederebbe. Il doge invilito nell’animo al consiglio di questo suo amico, gli diè mattamente parola ch’egli ordinasse segretamente che il fatto si rimanesse; e acciocchè dato gli fosse fede, gli diè un suo segreto suggello. Questi andò di presente ai caporali a cui il doge il mandò ch’aveano accolta la loro compagnia, e disse loro da parte del doge, che si dovessono ritrarre dall’impresa, e mostrò loro il segno del suo suggello. A’ popolari ch’erano apparecchiati parve essere traditi, e non ardirono di procedere più innanzi, sentendo la mutazione del doge. Uno pellicciere ch’era degl’invitati, sentendo che la cosa non procedea, per paura d’essere incolpato se n’andò a uno gentile uomo di consiglio, e manifestogli quello che sapea del fatto, che non sapea però tutto. Costui menò il pellicciere al doge, il quale, non sapendo che il doge sentisse di questo fatto, gli [25] narrò ciò che ne sapea, e nominogli i caporali. Il doge annullò molto il fatto, dicendo, che per alcuno sentimento che n’avea avuto avea fatto spiare, e trovato avea che la cosa era nulla. Il savio consigliere disse al doge, che volea che questa cosa sentisse il consiglio; e contradiandolo il doge, costui perseverò tanto in questo, che il savio doge divenuto per viltà fuori del senno promise farlo raunare; commettendo fallo capitale della sua testa, che lieve gli era ritenere costoro, e fare eseguire quello che ordinato era, o stringerli e giudicarli a suo volere segretamente. La mattina raunato il consiglio, e divolgata la novella, furono mandati a prendere i caporali, e venuti dinanzi al doge e al consiglio, il doge li chiamò traditori per dimostrarsi strano dal trattato, ma vennegli fallato, perocchè in faccia gli dissono, che ogni cosa che ordinata era s’era mossa da lui e proceduta dal suo consiglio. Il doge nol seppe negare. Il consiglio incontanente il fece guardare nel suo palagio per loro medesimi. In prima impesono quattro de’ caporali alle colonne del palagio del doge, e il dì seguente confiscarono tutti i beni del doge, ch’era grande ricco uomo, al comune, salvo che per grazia gli concedettono che di duemila fiorini potesse testare a sua volontà; e menatolo in sulla scala dov’egli avea fatto il saramento quando il misono nella signoria, gli feciono tagliare la testa, e vilissimamente il suo corpo messo in una barca fu mandato a seppellire a’ frati; e l’amico suo che sturbò il patricidio de’ grandi cittadini, e il rivolgimento dello stato di quella città, ebbe per merito condannagione [26] grande pecuniale, e perpetuo esilio, rilegato nell’isola di Creti.

CAP. XIV. Come l’imperadore tornò coronato a Siena.

L’imperadore Carlo ricevuta la corona in Roma, come detto abbiamo, se ne tornò verso Siena, e soggiornato a Montalcino, e appresso venuto a Montepulciano; e in catuno luogo lasciati suoi vicari con alcuna gente, domenica a dì 19 d’aprile in sul vespero giunse alla città di Siena; e innanzi che entrasse nella città, fattoglisi incontro i cittadini con gran festa in sull’ora del vespero, in quest’abboccamento otto cittadini pomposi e avari per cessare la debita spesa alla cavalleria si feciono a lui fare cavalieri, e appresso entrato nella città glie n’accorreano molti senza ordine o provvisione, ed egli avvisato del vano e lieve movimento di quella gente, commise al patriarca che in suo nome gli facesse. Il patriarca non potea resistere a farne tanti quanti nella via glie n’erano appresentati: e vedendone così gran mercato, assai se ne feciono che innanzi a quell’ora niuno pensiere aveano avuto a farsi cavalieri, nè provveduto quello che richiede a volere ricevere la cavalleria, ma con lieve movimento si faceano portare sopra le braccia a coloro ch’erano intorno al patriarca, e quand’erano a lui nella via il levavano alto, e traevangli il cappuccio usato, e ricevuta la guanciata usata in segno di cavalleria gli mettevano un cappuccio accattato col [27] fregio dell’oro, e traevanlo della pressa, ed era fatto cavaliere; e per questo modo se ne feciono trentaquattro in quella sera tra grandi e popolari. E condotto l’imperadore al suo ostiere, fu fatto sera, e catuno si tornò a casa; e’ cavalieri novelli senza niuno apparecchiamento o spesa con la loro famiglia celebrarono quella notte la festa della loro cavalleria. Chi considera con la mente non sottoposta alla vile avarizia l’avvenimento d’un novello imperadore in cotanto famosa città, e tanti nobili e ricchi cittadini promossi all’onore della cavalleria nella patria loro, uomini di natura pomposi, non avere fatto alcuna solennità in comune o in diviso a onore della cavalleria, può giudicare quella gente poco essere degna del ricevuto onore.

CAP. XV. Come il legato parlamentò a Siena con l’imperadore.

Messer Gilio cardinale di Spagna, a cui il papa e’ cardinali aveano commesso il procaccio e la legazione di riacquistare la Marca, e ’l Ducato, e la Romagna occupata per messer Malatesta da Rimini e per gli altri tiranni Romagnuoli, avendo molto premuto e dirotto messer Malatesta, l’avea condotto in parte, ch’e’ tentava di volere accordarsi col cardinale per le mani dell’imperadore, e avea detto di venire a Siena per questa cagione all’imperadore; e ’l legato per questo fatto, e per vicitare l’imperadore, si mosse [28] della Marca, e a Siena giunse a dì primo di Maggio; e ivi, con l’altro cardinale d’Ostia ch’avea coronato l’imperadore, furono a parlamentare con lui de’ fatti d’Italia ch’apparteneano a santa Chiesa, attendendo messer Malatesta per pigliare accordo con lui: ma il tiranno mutato consiglio, non vi volle andare. In questo attendere, l’imperadore trattò con loro de’ fatti di Perugia, che a lui aveano proposto ch’erano immediate sotto la giurisdizione di santa Chiesa, come del ducato di Spuleto, per liberarsi da lui, e al legato non rispondeano in alcuna ubbidienza per nome di santa Chiesa; e per questa cagione deliberarono tra loro, che l’imperadore senza offendere santa Chiesa potea trattare con loro, come con l’altre città d’Italia, e così si pensava l’imperadore di fare, ma sopravvenendogli altre novitadi, come noi diviseremo appresso, feciono dimenticare i fatti di Perugia, e partire il legato in animo forte adirato contro a messer Malatesta, da cui si tenea deluso a questa volta.

CAP. XVI. Come l’imperadore ebbe la seconda paga da’ Fiorentini.

Essendo l’imperadore in Siena, obbligato a molti baroni e cavalieri da cui avea ricevuto servigio, mostrandosi povero di moneta, li nutricava di promesse, e rimandavali nella Magna mal contenti: e volendogli i Fiorentini fare la [29] seconda paga, mandò a dire a’ signori di Firenze, che glie la mandassimo segretamente. I Fiorentini innanzi al termine promesso, all’uscita d’aprile gli mandarone contanti trentamila fiorini: e fattogli in segreto sentire come i danari erano venuti, di presente fece uscire dall’ostiere tutta sua famiglia, e rinchiusosi in una camera, in sua presenza li fece contare al patriarca; e trovato che uno di sua famiglia stava a vedere al buco dell’uscio, il punì gravemente, temendo ch’e’ suoi baroni nol sentissono, perocchè più amava di tenersi i danari in borsa, che l’amore de’ suoi baroni o il loro contentamento.

CAP. XVII. Come il nuovo tiranno di Bologna mandò a Firenze ambasciadori a richiedere i Fiorentini.

Messer Giovanni da Oleggio avendo novellamente tolto e rubato la città di Bologna a’ suoi signori de’ Visconti, e trovandosi povero d’aiuto a sostenere il fascio di quella città e de’ potenti avversari, incontanente mandò lettere per suoi messaggi, e appresso solenni ambasciadori al comune di Firenze, offerendo di volere essere singulare amico de’ Fiorentini, e di governare e reggere quella città alla volontà e piacere del comune di Firenze. E i detti ambasciadori con molte suasioni e larghe promesse da parte di messer Giovanni pregarono, ch’almeno in privato, se non volesse in palese, il nostro comune [30] il dovesse consigliare, acciocchè potesse quella città mantenere in amore e in fratellanza, come anticamente era costumata d’essere co’ Fiorentini, e difenderla da’ tiranni di Milano, originali nemici del comune di Firenze. I Fiorentini conobbono chiaramente, ch’essendo Bologna in loro amistà e lega, sarebbe a modo che forte muro alla difesa del nostro comune contro a ogni potenza tirannesca di Lombardia; ma per osservare lealmente la promessa pace a’ Visconti signori di Milano, per niuno vantaggio che conoscessono, o per promesse che fatte fossono loro, poterono essere recati a fare in segreto o in palese cosa, che sospetto potesse essere alla pace promessa a’ Visconti. E avendo gli ambasciadori trovata ferma costanza nel comune a mantenere sua fede, si tornarono mal contenti al loro signore a Bologna a dì 4 mese di maggio del detto anno; e questo fu chiaramente manifesto a’ signori di Milano, che molto l’ebbono a bene, e offersonsi largamente al comune di Firenze.

CAP. XVIII. Come fu sconfitto, e preso messer Galeotto da Rimini da’ cavalieri del legato.

Avendo poco addietro narrato come messer Malatesta da Rimini avea cambiato l’animo dell’accordo con messer lo cardinale legato, seguitò, che la sua gente d’arme capitanata e guidata per messer Galeotto suo fratello, perocchè in pochi giorni [31] due volte avea rotti i cavalieri della Chiesa, avviliva tanto quella gente che poco se ne curava. E però avendo per assedio e per forza preso un castello di Recanati, con più di seicento barbute e gran popolo s’era posto ad assedio a un altro, e nondimeno per buona provvidenza di guerra avea fortificato il campo con un muro per modo, ch’entrare nè uscire per lo piano non si potea se non per una sola entrata; e per questo stavano baldanzosi all’assedio con minore guardia, non temendo per gente che il legato avesse, per la qual cosa prima ebbono addosso la cavalleria del legato, che di loro si fossono provveduti. Messer Ridolfo da Camerino capitano della gente della Chiesa, con più d’ottocento cavalieri e con assai buoni masnadieri, avendogli condotti al campo de’ nemici, gli fece assalire agramente, e per due volte tolse loro l’entrata del campo, e quelli di messer Galeotto combattendo virtuosamente catuna volta lo racquistarono per forza d’arme. Infine avvedendosi il capitano della Chiesa che un piccolo poggetto si guardava per lo popolo d’Ancona ch’era sopra il campo, mosse i cavalieri e’ balestrieri contro a loro, i quali francamente gli assalirono: e non potendo avere soccorso dal campo, ch’erano combattuti dall’altra parte, per forza furono rotti: e di quel poggetto senza riparo di muro cacciando e uccidendo i nemici per forza entrarono nel campo, e l’altra parte di loro presono l’entrata del campo e misonsi dentro. Messer Galeazzo si ristrinse co’ suoi combattendo co’ nemici, dinanzi e di dietro assaliti, molto vigorosamente a modo di valenti cavalieri, e per più riprese si percosse [32] tra’ nemici, e due volte preso fu riscosso dà suoi cavalieri. Infine vincendo quelli della Chiesa, a messer Galeotto fu morto il destriere sotto, e ricoverato un piccolo cavallo, volendosi salvare, fu fedito di più fedite; e ritenuto prigione, e tutta sua gente rotta, presa e sbarattata e morta; e liberato il castello, messer Ridolfo detto con piena vittoria si tornò al legato: e questa fu la cagione perchè poi messer Malatesta non potè fare retta contro al legato, come appresso si potrà trovare.

CAP. XIX. Come la fama della liberazione di Lucca si sparse.

Avvenne in questi dì, all’entrante del mese di maggio del detto anno, essendo l’imperadore libero signore di Pisa, di Lucca, di Siena, di Sangimignano e di Volterra, e dell’altre terre loro sottoposte, e in amore e pace co’ Fiorentini e’ Perugini, Pistoiesi e Aretini, senza alcuno avversario in Italia, onde che la cosa muovesse, una fama corse per tutta Italia ch’egli avea fatto accordo con gli usciti di Lucca, i quali si dicea che gli doveano far dare in Francia centoventimigliaia di fiorini d’oro quand’egli liberasse la città di Lucca della signoria de’ Pisani; e questo si dicea ch’avea promesso di fare finito il termine ch’e’ Pisani aveano promesso di liberarla; e doveala lasciare in libertà al reggimento del popolo e rimettervi tutti gli usciti, la quale suggezione de’ Pisani dovea seguire il secondo anno. Il divolgamento di [33] questa fama non si trovò ch’avesse fondamento da trattato fatto dall’imperadore, o se fatto fu, altrove che in Toscana e per altri che per la persona dell’imperadore ebbe movimento. Trovossi bene, che grandi ricchi mercatanti usciti di Lucca intendeano a fare colta di moneta. Ma come che la cosa si fosse o si spirasse, a tutti parve che così dovesse essere, e in segno di ciò furono revoluzioni e gravi novità ch’appresso ne seguitarono, come leggendo nostro trattato si potrà trovare.

CAP. XX. Come l’imperadore diede Siena al patriarca.

Nel soggiorno che l’imperadore facea a Siena trattò di volere che il patriarca suo fratello fosse libero signore di quella città, e’ Sanesi avendosi condotti nel reggimento non però fermo dell’ignorante popolo vacillante nello stato, per volere accattare la benivolenza dell’imperadore consentirono d’avere il patriarca per loro signore, e di volontà dell’imperadore di nuovo feciono la suggezione e ’l saramento al patriarca, e a lui furono assegnate tutte le terre e castella della loro giurisdizione, nelle quali confermò suoi castellani e vicari, cosa strana all’antico governamento della loro libertà, e di matto consentimento: e l’imperadore per la sua autorità e pe’ suoi privilegi gli confermò la libera signoria di quella terra, e del suo contado e distretto. Il patriarca volendo confermare la sua signoria s’accostò [34] col minuto popolo, e di quelli fece uficiali a’ reggimenti comuni dentro nella città, e per lo loro consiglio si reggea, essendosi accorto che per lo favore di quella minuta gente era venuto alla signoria, e per questo avea schiusi gli altri maggiori popolani, e abbattuto in tutto la setta dell’ordine de’ nove per modo, che non ardivano in palese a comparire tra gli altri cittadini,

CAP. XXI. Come i capi de’ ghibellini d’Italia si dolsono all’imperadore.

In questi medesimi dì, all’entrante di maggio, i caporali di parte ghibellina ch’erano venuti alla coronazione dell’imperadore, aspettandone la loro esaltazione e l’abbassamento di parte guelfa in Toscana, e vedendo per opera il contradio, si raunarono insieme in una chiesa di Siena, e ivi ricordarono tra loro tutte le persecuzioni ricevute da’ guelfi per cagione dell’imperio, e le infamazioni de’ comuni di Toscana, e spezialmente del comune di Firenze, per le resistenze fatte agl’imperadori; e avendo raccolta loro materia da dire, feciono quelle cose pronunziare nel cospetto dell’imperadore al prefetto di Vico; il quale saviamente in prima raccontò la fede, l’amore, i servigi che i ghibellini d’Italia aveano portato e fatto per i tempi passati di quanto avere si potea memoria agl’imperadori alamanni, e in singularità all’imperadore Arrigo suo avolo, e come i guelfi d’Italia aveano [35] sempre fatto grave resistenza all’imperio, e tra gli altri comuni più singolarmente e con maggior forza il comune di Firenze; e come per operazione di quel comune l’imperadore Arrigo suo avolo era morto, e le imperiali forze recate al niente; e’ ghibellini sentendo l’avvenimento della sua signoria tutti erano venuti in grande speranza, aspettando per lui essere esaltati, e vedere la struzione de’ guelfi, e singolarmente del comune di Firenze sempre ribello all’imperadore; e vedendo che per danari egli s’era acconcio con quel comune, e a’ suoi fedeli ghibellini per sua venuta non era seguito vendetta delle loro oppressioni e de’ danni ricevuti, e le loro terre e castella perdute non erano racquistate, nè per suo procaccio loro restituite, essendo perdute per volere mantenere la parte imperiale, si maravigliavano forte, e molto più conoscendo che il tempo era venuto che col loro aiuto, e delle città e castella di Toscana tornate all’imperiale suggezione, e colla sua grande potenza, e’ potea essere signore della città e de’ danari de’ Fiorentini, e per un poco di danari avea fatto accordo con quel comune in poco onore della maestà imperiale. L’imperadore, udite le dette cose, senza ristrignersi ad altro consiglio o fare risponditore alcuno altro, come signore facondioso d’intendimento e d’eloquenza, coll’animo quieto parlando soavemente, disse: Noi sappiamo bene l’amore e la fede ch’avete portata all’imperio, e’ servigi fatti al nostro avolo per voi non possiamo dimenticare, perocchè scritti sono ne’ suoi annali. Appo i nostri registri troviamo noi, che i mali [36] consigli de’ ghibellini d’Italia, avendo più rispetto al proprio esaltamento, e a fare le loro proprie vendette, che all’onore e grandezza dell’imperadore Arrigo mio avolo, il feciono male capitare, e non il comune di Firenze, nè alcuna operazione di quel comune; e però non intendo in ciò seguitare vostro consiglio: e frustrati della loro corrotta intenzione, mal contenti e poco avanzati si tornarono in loro paese.

CAP. XXII. Come l’imperadore si partì da Siena e andò a Samminiato.

L’imperadore raccomandata la signoria e ’l reggimento della città di Siena al patriarca, a dì 5 di maggio del detto anno si partì della città, e vennesene da Staggia e da Poggibonizzi senza entrare nella terra; e fatta ivi di fuori sua lieve desinea, si mise a cammino, e la sera giunse a Samminiato del Tedesco, e da’ Samminiatesi fu ricevuto a onore come loro signore. E com’egli prese la via di là per andare a Pisa, molti de’ suoi baroni con grande comitiva de’ loro cavalieri si partirono da lui, e vennonsene a Firenze per seguire loro cammino tornandosi in Alamagna. In Firenze furono ricevuti cortesemente, rassegnandosi i caporali per nome, e dando il numero della loro gente al conservadore: e questo valico fu più giorni, avendo il dì e la notte da seicento in ottocento o più cavalieri tedeschi ad albergare in Firenze, e però niuno sospetto o movimento [37] si fece o si prese nella città, salvo che un pennone per gonfalone guardava la notte senza andare la gente attorno.

CAP. XXIII. Come il cardinale d’Ostia fu ricevuto a Firenze.

Il cardinale d’Ostia ch’avea coronato l’imperadore, avendo volontà di venire a Firenze per vedere la città e per procacciare alcuna cosa dal comune, venne a Firenze a dì 6 di maggio del detto anno, ricevuto da’ cittadini con grande onore, andandogli incontro la generale processione, e messo sotto un ricco palio d’oro e di seta, addestrato da’ cavalieri di Firenze e da’ maggiori popolari, sonando tutte le campane del comune e delle chiese a Dio laudiamo mentre ch’e’ penò ad essere albergato, con grande riverenza per onore di santa Chiesa fu collocato nelle case degli Alberti; e fattogli per lo comune ricchi presenti, domandatosi per lui a’ priori cose indiscretamente che non gli poteano fare, delle quali iscusatisi onestamente, non contento da loro per la sua ambizione, a dì 8 di maggio del detto anno, mal contento del nostro comune per suo disonesto sdegno se ne ritornò a Pisa, dimenticato l’onore ricevuto per lo corrotto appetito della sconcia domanda.

[38]

CAP. XXIV. Come la gente del legato presono quattro castella di Malatesta.

Dopo la sconfitta e la presura di messer Galeotto narrata poco addietro, messer Malatesta andò a Pisa all’imperadore, perchè l’acconciasse in pace col legato e con la Chiesa; nondimeno avea alle frontiere della gente e delle terre della Chiesa tutta la forza della sua gente d’arme a cavallo e a piè ragunata quivi, avvisando che là si facesse la guerra, e così dimostrava di volere fare il capitano della gente della Chiesa; ma come uomo avvisato ne’ fatti della guerra, avendo condotto certo trattato per le mani del conticino da Ghiaggiuolo il quale era de’ Malatesti, ma nimico di messer Malatesta e de’ suoi per la morte di suo padre, questi avendo ordinato il suo trattato, fece col capitano della Chiesa che subito mandò della Marca in Romagna cinquecento cavalieri e altrettanti e più masnadieri, i quali furono prima in su le porte di Rimini ch’e’ terrazzani sprovveduti senza avere gente d’arme alla guardia se n’avvedessono, e funne la città in gran pericolo; e per questo subito avvenimento, non essendo gente nella terra da potere soccorrere di fuori nè riparare al trattato del conticino, presono e rubellarono a’ Malatesti il castello di sant’Arcagnolo, e ’l Verrucchio, e due altre castella intorno e di presso alla città di Rimini, le quali fornirono di gente da [39] cavallo e da piè che faceano guerra a Rimini e nel paese, ed erano come bastite che teneano assediata la terra. Di questa cosa si conturbò tutta la Romagna, e fu cagione di recare i Malatesti più tosto a rendersi alla volontà del legato, come al suo tempo appresso racconteremo; e questo fu del mese di maggio del detto anno.

CAP. XXV. Come morì il duca di Pollonia.

Il duca Stefano di Pollonia cugino dell’imperadore, giovane virtudioso e di grande autorità, avendo vaghezza di venire a Firenze per suo diporto, e lasciato l’imperadore a Pisa, venne con sua compagnia di giovani baroni a Firenze, ove fu ricevuto a grande onore; ed essendo il gran siniscalco del Regno messer Niccola Acciaiuoli a Firenze, gli fece compagnia festeggiando per la città. E avendo ricevuto onore di corredi da’ signori e dal gran siniscalco, e compiaciutosi molto co’ cavalieri e gentili uomini, e nella cittadinanza de’ Fiorentini e a più feste, tornato a Pisa all’imperadore si lodò molto de’ Fiorentini, e magnificò il nome della nostra città in molte cose, e dopo pochi dì cadde malato in Pisa, e d’una continua febbre in sette dì passò di questa vita. Dissesi ch’avea mangiato in Pisa d’un’anguilla, e che immantinente ammalò, ma la continua più ch’altro il trasse a fine; della cui morte fu gran danno, perocch’era barone di grande aspetto. Della morte di costui molto si dolse l’imperadore, [40] ma l’imperadrice vedendolo morire così brevemente impaurì molto, e stimolava l’imperadore di ritornare nella Magna, e molti baroni e cavalieri per la morte del duca Stefano abbandonarono l’imperadore e tornaronsi in Alamagna, e lasciaronlo con poca gente. E ’l sire della Lippa, uno dei maggiori signori di Boemia, essendo malato a Pisa si fece conducere a Firenze, e giunto nella città, e venuto a notizia de’ signori, di presente il feciono albergare nel vescovado con tutta sua famiglia, che non v’era il vescovo, e fornironlo di buone letta e di tutto ciò che a bene stare gli bisognava, e ordinarongli i migliori medici della città alla provvisione e consiglio della sua sanità, e continovo sera e mattina gli faceano apparecchiare delle loro dilicate vivande e de’ loro fini vini. E tanta fede aggiunta col suo piacere ebbe il nostro comune, che di lunga malattia e quasi incurabile, non pensando potere campare altrove, come fu piacere di Dio prese perfetta sanità nella città di Firenze, e guarito, fu onorato di doni e d’altre cose dal nostro comune. Per le quali cose fatto singulare amico del nostro comune e de’ suoi cittadini, soggiornò nella città a suo diletto infino alla..., tanto che fu tornato nella sua fortezza: poi ebbe dal comune i danari che i Fiorentini gli aveano promessi per l’imperadore, come innanzi racconteremo.

[41]

CAP. XXVI. Come fu coronato poeta maestro Zanobi da Strada.

Era in questi dì in Pisa il maestro Zanobi, nato del maestro Giovanni da Strada del contado di Firenze; il padre insegnò grammatica a’ giovani di Firenze e a questo suo figliuolo, il quale fu di tanto virtuoso ingegno, che morto il padre, e rimaso egli in età di vent’anni, ritenne in suo capo la scuola del padre; e venne in tanta fecondità di scienza, che senza udire altro dottore ammendò e passò in grammatica la scienza del padre, e alla sua aggiunse chiara e speculativa rettorica; e dilettandosi negli autori ne venne tanto copioso, che in breve tempo d’anni esercitando la sua nobile industria divenne tanto eccellente in poesia, che mosso l’imperadore alla gran fama della sua virtù, e da messer Niccola Acciaiuoli di Firenze gran siniscalco del reame di Cicilia, alla cui compagnia il detto maestro Zanobi era venuto, vedute e intese delle sue magnifiche opere fatte come grande poeta, volle che alla virtù dell’uomo s’aggiugnesse l’onore della dignità, e pubblicandolo in chiaro poeta in pubblico parlamento, con solenne festa il coronò dell’ottato alloro; e fu poeta coronato e approvato dall’imperiale maestà del mese di maggio del detto anno nella città di Pisa; e così coronato, accompagnato da tutti i baroni dell’imperadore e da molti altri della città di Pisa, con grand’onore celebrò [42] la festa della sua coronazione. E nota, che in questi tempi erano due eccellenti poeti coronati cittadini di Firenze, amendue di fresca età; e l’altro ch’avea nome messer Francesco di ser Petraccolo, onorevole e antico cittadino di Firenze, il cui nome e la cui fama coronato nella città di Roma era di maggiore eccellenza, e maggiori e più alte materie compose, e più, perocch’e’ vivette più lungamente, e cominciò prima; ma le loro cose nella loro vita a pochi erano note, e quanto ch’elle fossono dilettevoli a udire, le virtù teologhe a’ nostri dì le fanno riputare a vili nel cospetto de’ savi.

CAP. XXVII. Come fu morto messer Francesco Castracani da’ figliuoli di Castruccio.

Sentendo i Pisani che messer Francesco Castracani di Lucca facea venire gente delle sue terre di Garfagnana in favore della setta de’ raspanti di Pisa per muovere novità nella città, il feciono assapere all’imperadore. L’imperadore gli mandò comandando che di presente si dovesse partire della città di Pisa. E sostenuti più comandamenti senza ubbidire, sentendo che ’l maliscalco colle masnade s’armavano contro a lui, si partì tenendo la via verso Lucca; e partito lui, fu comandato il simile a’ figliuoli di Castruccio Castracani, i quali dolendosi di quello ch’avvenne a loro per messer Francesco, si partirono cavalcando per quella medesima via, e la sera si trovarono ad albergo insieme, e ivi mostrandosi [43] di buona voglia albergarono insieme, e dormirono in uno letto. La mattina seguendo loro viaggio vennono a uno maniero, il quale Castruccio essendo signore di Lucca avea fatto edificare e acconciare a suo diletto molto nobilemente, e di pochi dì innanzi l’imperadore l’avea restituito a’ figliuoli di Castruccio; e trovandovisi presso, pregarono messer Francesco che con loro insieme andasse a vicitare il luogo, e risposto di farlo volentieri, uscirono di strada, e andarono al maniero, e giunti là, i famigli si dierono attorno per i giardini a loro diletto. Messer Arrigo e messer Valeriano di Castruccio rimasono con messer Francesco, e col figliuolo e con un suo genero, ed entrarono ne’ palagi per vedere l’edificio, il quale era bello, ma molto guasto, perchè diciassette anni era stato disabitato; e sedendo costoro in sulla sala del palagio, messer Arrigo s’accostò al fratello, e dissegli: Ora abbiamo tempo; e andando messer Francesco guardando l’edificio, messer Arrigo, essendogli poco addietro, di subito trasse la spada, e non avvedendosene messer Francesco, gli diede nella gamba un colpo grave e pericoloso. Messer Francesco sentendosi fedito, volendosi rivolgere, chiamando traditore messer Arrigo, non potendosi sostenere cadde, e messere Arrigo gli diè sù la testa un altro colpo della spada che non lo lasciò rilevare: e morto messer Francesco, i due fratelli corsono addosso al genero, e ivi senza arresto l’uccisono, e ’l figliuolo di messer Francesco lasciarono per morto; e rimontati a cavallo seguirono loro viaggio, e tornaronsi in Lombardia; e questo fu a dì 18 di maggio del [44] detto anno: cosa detestabile per lo grande tradimento mosso da invidia; ma per divino giudicio spesso avviene che le tirannie prendono termine e fine per simiglianti modi.

CAP. XXVIII. Come i Fiorentini mandarono tre cittadini all’imperadore a sua richiesta.

L’imperadore trovando l’animo de’ Pisani male contento per la voce corsa, come detto è, ch’egli trattava di liberare Lucca, e avvedendosi delle novità che cominciavano ad apparire in Pisa e in Siena, cominciò a sospettare, e avendo fidanza nel comune di Firenze, il richiese che gli mandasse tre confidenti suoi cittadini per averli al suo consiglio. Il comune di presente gliel mandò, e da lui furono ricevuti graziosamente. Ma poco si potè intendere o consigliare con loro, tante sfrenate novità occorsono l’una appresso l’altra, che voleano più operazione subita che consiglio, come seguendo appresso diviseremo.

CAP. XXIX. Come i Sanesi ebbono novità.

Il popolo minuto di Siena già avea cominciato a sperare nella signoria, e per l’appetito di quella dall’una parte, e per paura e gelosia dall’altra non potea acquetare; e già impaziente del loro signore, a cui di tanta concordia s’erano sottoposti, [45] a dì 18 di maggio del detto anno levarono la città a romore, e presono l’arme, e serrarono le porte della terra. Il patriarca maravigliandosi di questo subito movimento, senza muoversi ad altra novità domandò quello che ’l popolo volea: e risposto gli fu, che rivoleano le catene usate nella città a ogni canto delle vie, ch’erano state levate all’avvenimento dell’imperadore. Il patriarca l’acconsentì, e fecele rendere loro. E appresso domandarono di volere dodici uficiali sopra il governamento del comune di due in due mesi al modo che soleano essere i nove, e che da loro parte andasse il bando: e domandarono di volere avere un gonfalone del popolo, e che la misura del loro staio si crescesse. Il patriarca vedendosi male apparecchiato a potere resistere al popolo commosso e armato, ogni cosa concedette alla loro volontà. I loro grandi in questo fatto non si armarono, e non si dimostrarono in favore del minuto popolo nè in contrario; e se questo movimento ebbe ordine da loro non si scoperse: ma ’l popolo osò di dire che questo movimento avea fatto temendo che l’ordine dell’uficio de’ nove non si rifacesse; che sentivano che per forza di danari si cercava di rifare. E stato il popolo tre dì armato, e impetrata la loro intenzione si racquetò: e poste giù l’armi, rimase arrogante e superbo per la vittoria del loro primo cominciamento. E di presente ebbono fatto i dodici di loro minuti mestieri e messili nell’uficio, e fatto un gonfalone e datolo a uno loro vile artefice, con ordine che tutti dovessono accompagnare e seguire il loro gonfalone. E questo fu il principio del loro reggimento, [46] del quale poi seguirono maggiori cose come seguendo il tempo racconteremo.

CAP. XXX. Come i Pisani per gelosia furono in arme.

Essendo venuta la novella della morte di messer Francesco Castracani a Pisa, la setta de’ raspanti cui e’ favoreggiava si cominciarono a dolere fortemente, e dire che questa era stata operazione della parte de’ Gambacorti, ma ciò non era vero; nondimeno l’imperadore se ne fece grande maraviglia, e tutta la città ne prese conturbazione, e crebbene l’izza delle loro sette. E stando la città in questo bollimento, a dì 20 del detto mese di maggio improvviso s’apprese fuoco nel palagio del comune ove abitava l’imperadore, e senza potervi mettere rimedio arse tutta la camera dell’arme del comune ch’era in quel palagio, ove arsono tutte le buone belestra, tende, e trabacche, e padiglioni, e l’altre armadure che v’erano, che niuna ne potè campare. E per questa cagione convenne che l’imperadore andasse ad abitare al duomo, e ’l popolo tutto sotto l’arme tra per l’una cagione e per l’altra stava in gelosia e in sospetto, e per questo modo stette armato il dì e la notte. La mattina vegnente rassicurata la gente lasciarono l’arme quetamente, e catuno intese a’ suoi mestieri. E in quella mattina ebbe l’imperadore novelle della novità di Siena, che gli dierono assai malinconia e pensiero, e più perchè si trovava fortuneggiare in Pisa, e [47] mal fornito di gente d’arme da potere provvedere e riparare alle fortune che si vedea apparecchiare. Allora cominciò a potere conoscere che l’avarizia era nimica d’ogni buona provvisione.

CAP. XXXI. Ancora gran novità di Pisa.

Quello che seguita è grande assalto d’avversa fortuna: e per esprimere meglio la verità del fatto, ci conviene alquanto ritornare a dietro la nostra materia avvolta in diversi e vari intendimenti, i quali per lungo spazio di tempo cercammo discretamente, per lasciare di tanto inopinato caso la verità del fatto nel nostro trattato. Egli è manifesto che i Gambacorti di Pisa aveano lungamente in grande prosperità governata e retta la città di Pisa, e quella magnificata con pace in grandi ricchezze de’ suoi cittadini. L’invidia delle loro buone operazioni avea creato una setta contro a loro chiamati i Raspanti, e la loro si chiamava de’ Bergolini. I Gambacorti furono coloro che ricevettono in pace l’imperadore, e che gli diedono la signoria di Pisa, benchè ciò facessono secondo la volontà del popolo. A costoro promise l’imperadore di mantenere e accrescere nella città di Pisa il governamento del comune e il loro buono stato, e ne’ cominciamenti appo l’imperadore erano i maggiori, e molto fedelmente si portavano al servigio dell’imperio. I raspanti, uomini astuti e vegghianti, per abbassare [48] i Gambacorti aveano più volte messo novità e romori nella terra, e’ Gambacorti con loro seguito, per riparare con dolcezza alla loro malizia, aveano acconsentito di raccomunarsi insieme nella cittadinanza e negli ufici, e fatta pace con loro, e acconsentito all’imperadore la derogazione de’ patti promessi, stretti dalla necessità più che dalla ferma fede dell’imperadore il feciono. È vero ch’e’ Gambacorti con la loro parte, e i raspanti e tutti i cittadini di Pisa si doleano d’uno modo della voce corsa che l’imperadore avesse l’animo di liberare Lucca, e questo parlavano pubblicamente. L’imperadore dicea di non liberarla, e nondimeno avea presa la guardia del castello dell’Agosta con la sua gente e trattine i Pisani, e a’ Pisani parea ch’egli attendesse il termine che compieva la sommissione di quella città, che venia il giugno seguente, e nel vero si sapea ch’e’ Lucchesi accoglievano moneta per la detta speranza: e trovammo nel vero che tutti i buoni cittadini di Pisa di catuna setta s’erano consigliati insieme per riparare che Lucca non si liberasse d’uno animo e d’una volontà, e di questo s’era fatto capo il Paffetta de’ conti di Montescudaio; e quelli della Rocca caporali della setta de’ raspanti, e a questo comune consiglio acconsentirono i Gambacorti; delle quali cose seguitò la loro morte, come appresso diviseremo.

[49]

CAP. XXXII. Come furono in Pisa presi i Gambacorti.

Dopo la novità dell’arsione sopraddetta e della morte di messer Francesco Castracane, essendo il popolo insollito, e malcontento e sospettoso de’ fatti di Lucca, sopravvenne, che le some degli arnesi e dell’armadure de’ loro cittadini ch’erano stati alla guardia dell’Agosta in Lucca tornavano, avendo rassegnata la guardia di quella alla gente dell’imperadore. I Pisani della setta de’ raspanti, per le cui contrade le some passavano, facendosene capo il Paffetta, cominciarono a levare il romore contro all’imperadore, e ogni uomo s’andò ad armare; la gente dell’imperadore veggendo questa novità s’armarono, e montarono a cavallo in diverse contrade com’erano albergati, e tutti traevano al duomo dov’era il loro signore. I cittadini gli lanciavano, e assalivano, e uccidevano per le vie come fossono loro nemici, e in questo primo romore in più contrade furono morti più di centocinquanta cavalieri tedeschi di quelli dell’imperadore. L’imperadore vedendosi a questo pericolo, e mal fornito a fare resistenza al furore del commosso popolo, s’era armato e diliberato di volersi partire con la sua gente ch’avea raccolta al duomo. De’ Gambacorti, ciò era Franceschino e Lotto, quand’era questo romore si trovarono in casa l’imperadore con certi altri cittadini senz’arme; e Bartolommeo e Piero, maravigliandosi di questo subito romore, [50] si racchiusono in casa il cardinale d’Ostia legato del papa. I grandi e i buoni cittadini che non sapeano la cagione del romore traevano a casa i Gambacorti; e nel vero, se alcuno di loro fosse uscito fuori di casa armato, non ne dubito, che tanto e tale era il seguito de’ buoni cittadini, che la città di Pisa avrebbe preso quel partito ch’e’ Gambacorti avessono voluto, ma la loro mala provvedenza coperta da semplice ignoranza li condusse alla loro ruina, e la sagace malizia de’ loro avversari li fece signori. Il conte Paffetta e messer Lodovico della Rocca, ch’erano stati i movitori di questo romore, avvedendosi che la maggior forza de’ cittadini traevano a casa i Gambacorti, e che quelli della casa per folle consiglio non comparivano a farsi capo de’ cittadini, s’avvisarono d’abbatterli per malizia in quello furore, coll’aiuto della paura che sentivano ch’avea l’imperadore che cercava di volersi partire; e per fornire loro intendimento, acciocchè ’l romore mosso per loro non tornasse in loro confusione, cambiarono la voce, e mostrandosi aiutatori dell’imperadore, con gran compagnia di loro seguito armati s’appresentarono dinanzi dall’imperadore, e dissono: Signor nostro, voi siete tradito da’ Gambacorti e dalla loro setta, perchè non pare loro essere signori di Pisa come e’ solieno, e per questa cagione hanno fatto levare questo romore e uccidere la vostra gente, e alle loro case hanno raccolto in arme la maggior forza de’ cittadini; dicendoli, che se per lui a questo punto non si mettesse riparo, egli e sua gente era in grave pericolo a campare del loro [51] furore, ed eglino medesimi co’ loro seguaci erano in grave pericolo di morte e d’essere cacciati di Pisa: e detto questo, s’offersono all’imperadore, e dissono; Se voi ci volete dare l’aiuto del vostro maliscalco e parte di vostre masnade, recheremo tosto al niente la parte de’ Gambacorti, e voi faremo libero signore di Pisa. L’imperadore avendo il suo senno intenebrato, e sviato da se per la via della paura, indiscretamente diede fede alla manifesta iniquità di costoro, e non volle la cosa ricercare con alcuna ragione o verità del fatto; ma in quello stante prese parte, e fecesi nemico de’ suoi fedeli e innocenti amici, e amico di coloro che gli erano stati avversari, e diede le sue masnade e il suo maliscalco a seguitare messer Paffetta, e messer Lodovico e la loro setta contro a’ Gambacorti, i quali senz’arme avea ne’ suoi palagi e in casa ignoranti di questo fatto, e per suo comandamento fece ritenere Franceschino e Lotto ch’avea in casa, e al legato mandò per gli altri ch’erano là fuggiti udendo il romore sotto le sue braccia, e fu di tanta vile condizione, che di presente glie le mandò, in gran disonore e infamia del suo cappello e della libertà di santa Chiesa; e così fece di più altri cittadini, che a lui erano fuggiti per tema del romore.

CAP. XXXIII. Come fur arse le case de’ Gambacorti.

Il conte Paffetta e messer Lodovico della Rocca [52] avendo accolto loro seguito, e la gente e l’insegna dell’imperadore, i quali il dì aveano perseguitati e morti, ora per loro sagace industria li traevano alla morte de’ loro cittadini, e gridando viva l’imperadore, molta gente di loro seguito ragunata contro a lui rivolsono contro a’ Gambacorti, e contro a’ buoni cittadini ch’erano tratti senza loro saputa o procaccio alle loro case. E venendo a valicare i ponti dell’Arno, trovarono alcuna lieve resistenza di gente ignorante del fatto, e tra loro non era alcuno de’ Gambacorti, in manifesto segno che quel dì era terminato alla loro ruina; perocchè se alcuno di quella casa fosse comparito in arme, tanti e tali erano i cittadini tratti per difenderli, ch’avrebbono ributtati i loro avversari e la gente dell’imperadore al Ponte vecchio e al Ponte della spina; ma non apparendo alcuno de’ Gambacorti, il Paffetta e messer Lodovico colla cavalleria dell’imperadore furono lasciati passare, e addirizzaronsi verso casa i Gambacorti, e trovandole senza alcuna difesa, le feciono rubare e appresso ardere; e per questo inopinato furore presi i non colpevoli Gambacorti con certi altri loro amici, e arse le case, diedono per quella giornata, a dì 21 di maggio del detto anno, riposo al furore dello scommosso popolo. I presi furono Franceschino, Lotto, Bartolommeo, Piero e Gherardo de’ Gambacorti; e gli altri cittadini di loro seguito furono ser Benincasa Giunterelli notaio della condotta, Cecco Cinquini, ser Piero dell’Abate, ser Nieri Papa, Neruccio Mestondine, Neri di Lando da Faggiuola, Ugo di Guitto, e Giovanni delle [53] Brache, messer Guelfo de’ Lanfranchi, e messer Piero Baglia de’ Gualandi, messer Rosso de’ Sismondi e Francesco di Rossello. E avvegnachè tutti questi fossono in questo dì presi, nondimeno non però tutti furono giudicati dall’imperadore, come appresso diviseremo nei dì della loro condannazione.

CAP. XXXIV. Di novità seguite a Lucca.

In questo avviluppato furore della commozione di Pisa fu di subito la novella a Lucca; e a’ Lucchesi parendo che fosse venuto il tempo di potere uscire del grave giogo e servaggio de’ Pisani, incontanente a dì 22 del detto maggio sommossono i loro contadini che venissono a liberare la città, che da loro erano impotenti a ciò fare, perocchè erano pochi e male in arme da potere muovere tanto fatto. I contadini caporali nemici de’ Pisani per l’animo della parte e per le gravi oppressioni, trassono subitamente d’ogni parte alla città, e i cittadini mossono il romore dentro, e presono l’arme contro alle guardie delle porti, che di quelli dell’Agosta non temeano, perocch’era in mano della gente dell’imperadore, e non si travagliavano di difendere la città a’ Pisani; e avendo già presa alcuna porta, misono dentro parte de’ loro contadini, e col loro aiuto ripresono tutte le fortezze della città e tutte le porti, fuori che quella del castello e quella del prato; essendo già liberi signori del corpo [54] della terra, e potendovi mettere i contadini e fortificarsi alla difesa della loro libertà, e poteano avere subito aiuto di gente d’arme da’ loro vicini, e’ Pisani non erano in istato da contradiarli, e l’imperadore tradito da’ Pisani non li avrebbe atati, assai chiaro era tornata la libertà nelle loro mani, ma forse non compiuto ancora il termine de’ loro peccati; e però avvenne, che certi popolani ch’erano meno male trattati da’ Pisani che gli altri, e alquanti degl’Interminelli, per tema che la tirannia già passata di Castruccio non tornasse loro a male, tradirono i loro cittadini, e dissono ch’aveano da’ Pisani ogni patto che sapessono dimandare, e che con buona pace sarebbono liberi. Il popolo vile, nutricato lungamente in servaggio, lievemente si lasciò ingannare, e lasciarono accomiatare i contadini e restituire la guardia delle porti a’ Pisani; i quali per riprendere con più asprezza la signoria, fattisi forti nella città arsono molte case de’ cittadini, e i più franchi e chi avea alcuno polso cacciarono fuori della terra, e i miseri che dentro vi lasciarono strinsono sotto gravi servaggi della loro vita, e tolsono loro ogni ferramento d’arme, e in Pisa tenendo in sospetto l’imperadore si feciono rendere la guardia dell’Agosta, e voleano che privilegiasse loro la signoria di Lucca: di questo li tenne sospesi a questa volta, ed eglino riavendo l’Agosta si contentarono.

[55]

CAP. XXXV. Come nuovo romore si levò in Siena.

Essendo i cittadini di Siena male disposti tra loro, avvedendosi che ’l minuto popolo cercava la libera signoria, questo spiacea agli altri: e vedendo che ’l patriarca a dì 22 di maggio del detto anno avea ricevuto il saramento di nuovo, e però non ostante ch’egli avesse acconsentito al popolo l’uficio de’ dodici e ’l gonfalone si recava in dubbio quello uficio; nondimeno gli artefici e il minuto popolo esercitavano gli ufici loro sforzatamente, e aveano commessa la guardia della città a certi caporali i quali andavano alla cerca con grande compagnia di loro artefici per la terra, oggi l’uno e domani l’altro. In questo avvenne, che certi fanti da Casole di Volterra che veniano a petizione di certi gentili uomini, la guardia degli artefici gli presono, e di fatto li voleano fare impiccare. I grandi cittadini e ’l popolo grasso vedendo lo sfrenato furore del minuto popolo cominciarono a fare romore contro a loro, e tutta la città fu sotto l’arme, e l’esecuzione de’ presi si rimase. Allora il minuto popolo che reggea mandò all’imperadore a Pisa che mandasse loro aiuto. L’imperadore vedendosi in Pisa in cotanta briga e tempesta, e conoscendo l’incostanza del popolo, e vedendo le nuove cose che ogni dì nascevano in Siena, mandò a dire a’ Sanesi che gli rimandassono il patriarca suo fratello salvo, e facessono di quello reggimento come a loro piacesse, che tra loro non volea prendere parte.

[56]

CAP. XXXVI. Come i Sanesi feciono rinunziare la signoria al patriarca.

Avuti ch’ebbono i dodici nuovi ufiziali di Siena, a dì 26 di maggio detto, la risposta dall’imperadore, feciono loro generale consiglio, nel quale il minuto popolo e gli artefici furono per comune, ma non così gli altri cittadini, e nella loro presenza feciono venire il patriarca, il quale come loro signore venne colla bacchetta in mano; ed essendo nel consiglio, disonestamente gli feciono rendere la bacchetta, e rinunziare alla singulare signoria che data gli aveano a richiesta dell’imperadore, e fecionne trarre pubblichi istromenti a più notai. E fatto questo, parendo al patriarca essere in vergognoso e non sicuro partito tra le mani dello scondito popolazzo cui egli mattamente avea esaltato, domandò di potersene andare all’imperadore con sicuro condotto; fugli risposto, che tanto gli conveniva stare che le loro castella fossono restituite nella guardia del comune: avendo con suo mandato e colle sue lettere mandato gente a prenderle, nondimeno gli convenne contro a sua voglia due dì attendere: poi a dì 27 di maggio del detto anno in fretta si mise a cammino per ritornarsi all’imperadore. I Massetani e quelli di Montepulciano lasciarono partire la gente dell’imperadore, e però non accettarono la signoria de’ Sanesi a quella volta. Per queste rivolture di Pisa e di Siena [57] in così pochi giorni dopo la coronazione dell’imperadore si può comprendere, come altre volte abbiamo contato, che il reggimento della gente tedesca è strano agl’Italiani, e non si sanno reggere nè provvedere; e però è poco savio chi si sottomette alla loro suggezione, che non tengono fede a mantenere lo stato che trovano, e da loro non sanno governare i popoli, e però di necessità seguitano pericolose rivoluzioni de’ liberi comuni, e quello ch’è detto, e quello che seguita, sono manifesti esempi del nostro consiglio.

CAP. XXXVII. Come furono decapitati i Gambacorti.

Avendo l’imperadore presi i Gambacorti e gli altri nominati cittadini, e fattili contradi alla maestà imperiale ov’erano fedeli, e rubelli ov’erano amici, a suggestione del conte Paffetta e di messer Lodovico della Rocca, come detto è, essendo racquetato il tumulto del popolo, e l’imperadore nell’animo quieto per coprire il notorio fallo, e perchè dimostare si potesse più certo, volendo giustificare la sua inconsulta impresa, essendo dal cominciamento della loro presura ciascuno racchiuso di per se senza sapere l’uno dell’altro, li fece disaminare a un giudice d’Arezzo, acciocchè potesse formare l’inquisizione contro a loro per poterli giudicare colpevoli. E avendoli disaminati senza martorio, e appresso con tormento, ciascuno disse per forza di tormento ciò che ’l giudice volle che dicessono, acciocchè li potesse [58] condannare colpevoli, come sapea la volontà del signore; e nondimeno pubblicato il processo si trovò, che l’uno non avea detto come l’altro, ma diversamente: l’uno, come avea trattato col comune di Firenze, e che dovea mandare la sua cavalleria in Valdarno, e non conchiudea; e l’altro nominò che ’l trattato era con tre cittadini di Firenze, e nominolli per nome, e non sapea dire il modo; e l’altro si trovò ch’avea detto per un altro modo: e così esaminati tutti, non era nel processo convenienza salvo che in una cosa, che tutti, vedendo che a diritto o a torto convenia loro morire, per non essere più tormentati, confessarono a volontà del giudice ch’aveano voluto tradire e uccidere l’imperadore e la sua gente. Il furore del romore mosso in Pisa era sì manifesto che non fu di loro operazione, che ’l processo nol potea contenere. I tre cittadini di Firenze nominati per Franceschino erano tali, che niuno sospetto ne cadde nel cospetto dell’imperadore: nondimeno non lasciò trarre del processo i loro nomi, anzi convenne che si appresentassono in giudicio in Samminiato del Tedesco, allora terra libera dell’imperadore, e per sentenza imperiale furono dichiarati non colpevoli e prosciolti. E allora veduto pe’ savi tutto il processo, fu manifesto che i presi per ragione non doveano esser giudicati colpevoli; ma gli sventurati Gambacorti, ch’aveano tanto tempo retta la città di Pisa in singolare buono stato, e onorato l’imperadore sopra gli altri cittadini, in parlamento fatto a dì 26 di maggio predetto furono giudicati traditori dell’imperiale [59] maestà, Franceschino Lotto e Bartolommeo Gambacorti fratelli carnali, e Cecco Cinquini e ser Nieri Papa, Ugo di Guitto e Giovanni delle Brache, tutti grandi popolani di Pisa: e armato il maliscalco con cinquecento cavalieri tedeschi furono menati in camicia cinti di strambe e di cinghie, e a modo di vilissimi ladroni tirati e tratti da’ ragazzi, furono così vilmente condotti dal duomo di Pisa alla piazza degli anziani, scusandosi fino alla morte non colpevoli, e scusando il comune di Firenze e i tre cittadini nominati; e ivi involti nel fastidio della piazza e nel sangue l’uno dell’altro furono decapitati, e gli sventurati corpi maculati dalla bruttura del sangue per comandamento dell’imperadore stettono tre dì in sulla piazza senza essere coperti o sepolti: la cui morte, in vituperio del cardinale legato del papa, e in abbassamento della gloria imperiale, diede ammaestramento a’ popoli che voleano vivere in libertà e a’ rettori di quelli, di non doversi potere fidare alle promesse imperiali nello stato delle loro signorie, nè nel grande stato cittadinesco alcuno singulare onorato cittadino, perocchè l’invidia spesso per non provvedute vie è cagione di grandi ruine. Per la morte di costoro, e per la paura conceputa nel petto dell’imperadore, messer Paffetta e messer Lodovico della Rocca rimasono i maggiori governatori di Pisa, ma tosto sentì messer Paffetta la volta della fallace fortuna, come al suo tempo appresso racconteremo.

[60]

CAP. XXXVIII. Dello stato de’ Gambacorti passato.

Avvegnachè quello ch’è narrato de’ Gambacorti dovesse bastare, tuttavia per dare esempio agli altri cittadini di temperanza ne’ fallaci stati del comune ricordiamo, che costoro essendo mercatanti e antichi cittadini di Pisa, cacciati i Conti e quelli della Rocca ch’aveano retto un tempo, costoro senza usurpare il reggimento accostati e tratti innanzi da’ buoni cittadini di Pisa, per loro operazioni pacifiche e virtuose divennono i maggiori, e per loro consiglio si mantenea giustizia, e s’aumentava la pace de’ loro vicini; e per questo, e per la frequenza delle mercatanzie e del loro porto molto accrebbono le ricchezze a’ cittadini, e ’l comune uscì in piccol tempo di gran debito. Questi fratelli montarono in tanta autorità, che poterono fare la pace dall’arcivescovo di Milano al comune di Firenze e agli altri comuni di Toscana, e rimanere arbitri tra le parti: e venendo l’imperadore in Italia, e’ furono in podere di non riceverlo in Pisa s’avessono voluto, ma per loro consiglio si ricevette, con promissione d’essere da lui conservati nel loro stato. Costoro l’albergarono nelle loro case, facendoli grande onore e ricchi doni del loro e di quello del comune, e portandosi nelle rivoluzioni ch’avvennono sempre in fede e in purità verso il signore, e comportando pazientemente la loro detrazione mossa [61] dalla loro avversaria setta. Ma che vale la troppa ricchezza, e gli onori e ’l magnifico stato della cittadinanza contro alla rodente invidia de’ suoi cittadini? nella quale si racchiude gli aguati della fortuna e della mortale inimicizia, alla quale manca l’umana provvisione, e spesso genera inestimabili cadimenti e ruine; e per questo e molti altri esempi assai è più senno vivere civilmente, che prendere il reggimento del comune più che la comune sorte gli dea, e quella innanzi ristrignere e mancare, che crescere o allargare per ambizione; perocchè i popoli naturalmente sono ingrati, e tra loro le virtù e la troppa alterezza come è temuta e riverita, così in occulto è odiata, e l’invidia conceputa genera pericolosi traboccamenti; e la furiosa e matta baldanza più muove e guida il popolo, che virtù o giustizia non può sostenere o riparare.

CAP. XXXIX. Come l’imperadore prese in guardia Pietrasanta e Serezzana.

Parendo all’imperadore non stare sicuro in Pisa per le novità sopravvenute, domandò a’ Pisani di volere la libera guardia di Pietrasanta e di Serezzana, e’ Pisani glie la diedono, e incontanente vi mandò l’imperadrice con parte della sua gente, e fece pigliare la tenuta delle terre e la guardia della rocca di Pietrasanta; e quando ebbe novella che le castella erano in sua guardia [62] gli parve essere più al sicuro, sentendo ch’e’ cittadini si cominciavano a rammaricare de’ Gambacorti e degli altri cittadini decapitati, e rivoleano i presi; l’imperadore di presente si sarebbe partito, e abbandonato ogni cosa per grande paura che gli martellava la mente non senza gravezza di coscienza delle cose novellamente fatte, ma temeva forte del patriarca per le novità mosse in Siena, e grande pericolo gli pareva lasciarlovi addietro; e però attendeva con grande affezione, e ogni dì gli parea del soggiorno un anno aspettando. A’ caporali pisani nuovamente esaltati parea rimanere male partendosi l’imperadore, perocchè ancora erano troppo grandi i loro avversari; e per tanto furono all’imperadore, e domandarongli che vi lasciasse suo vicario; l’imperadore contento della loro domanda ordinò suo vicario un valente prelato, uomo sperto in arme e di gran consiglio, chiamato messer Antorgo Maraialdo vescovo d’Augusta, con trecento cavalieri, ma non determinatoli questo numero nè altro per l’avvenire, con salario della sua persona e della sua gente di fiorini dodicimila d’oro il mese; e così prese l’uficio e ’l titolo del vicariato.

CAP. XL. Come l’imperadore si partì da Pisa.

Avendo l’imperadore novelle certe che ’l patriarca era in cammino, e libero da’ Sanesi e’ tornavasi a lui, non aspettò che giugnesse in Pisa innanzi la sua partita, ma avute le novelle in sull’ora [63] del vespero, a dì 27 di maggio del detto anno si partì di Pisa, e con lui il cardinale d’Ostia, e cavalcando forte non si tenne sicuro infinch’e’ fu giunto a Pietrasanta; e giunto là, si mise di presente con l’imperadrice a stare dentro dalla rocca, e mentre che vi dimorò, che furono più giorni, continovo tornò a dormire nella rocca, e in persona andava a fare serrare le porte, e mettea le guardie, e portavasene le chiavi nella sua camera, ch’era nella mastra torre di quella rocca.

CAP. XLI. Come i Sanesi domandarono vicario all’imperadore, e non l’accettarono.

Parendo a’ Sanesi avere offeso l’imperadore, e non essendo ancora in istato fermo del loro reggimento, mandarono all’imperadore che mandasse loro suo vicario. L’imperadore chiamò per suo vicario della città di Siena messer Agabito della Colonna di Roma. I Sanesi saputo cui egli mandava loro per vicario, uomo animoso in parte ghibellina e di disonesta vita, avvegnachè fosse di grande lignaggio, il ricusarono, e più non si travagliarono di domandare altro vicario all’imperadore, nè l’imperadore per sdegno preso di darlo loro.

[64]

CAP. XLII. Come i Sanesi presono e rubarono Massa.

Rimasa la signoria di Siena nelle mani degli artefici e del minuto popolo favoreggiato dalle case de’ grandi, avendo veduto che Massa di Maremma non avea voluto ricevere la loro signoria, e dimostrava di volersi reggere in libertà, di subito senza provvisione, all’entrata del mese di giugno del detto anno, in furore si mosse il popolo con certi soldati ch’avea, e andaronne a Massa. Gl’infelici Massetani, che stando alle difese per lo disordine di quel popolo erano vincitori, per più disordinato modo che quello de’ Sanesi, baldanzosi uscirono della città di Massa e affrontaronsi alla battaglia co’ Sanesi, nella quale furono rotti e sconfitti; e fuggendo alla città, e’ Sanesi seguitandoli, con loro insieme v’entrarono dentro; e senza misericordia, come avessono preso una terra di nemici, intesono a rubare, e a spogliare la città di tutti i suoi beni, ch’erano pochi, e recare in preda gli uomini, e le femmine e’ fanciulli, e raccolta la gente, misono fuoco nella città, e menarne a Siena gli uomini, e le femmine, e’ fanciulli, e le masserizie e l’altre cose, in gran gloria e gazzarra di quello scondito popolazzo. E nell’empito di questa loro vittoria corsono a Grosseto, e feciono pruova di volerlo per forza, ma non ebbono podere d’accostarsi alle mura, e con vergogna si tornarono addietro. Ma poi i Grossetani [65] per fuggire la guerra de’ loro vicini s’accordarono co’ Sanesi, e ricevettono la loro signoria. A Montepulciano non vollono andare, perchè sentirono ch’e’ Montepulcianesi erano provveduti alla loro difesa, non ostante che per loro si tenesse la rocca del castello, ma non potea dare l’entrata.

CAP. XLIII. Come l’imperadore domandò menda a’ Pisani.

Essendo l’imperadore a Pietrasanta ove gli pareva essere sicuro dal furore del popolo, e pertanto traendo l’animo suo alla cupidigia più che all’onore imperiale, mandò a Pisa per certi cittadini caporali del nuovo reggimento, e fugli mandato messer Paffetta con altri cinque cittadini; e avendo costoro a se, disse, che voleva dal comune di Pisa l’ammenda del danno ricevuto al tempo del romore; del suo disonore e della morte de’ suoi cavalieri non fece conto. Questi cittadini tenendosi in istato per lui, e acciocchè ’l suo vicario li mantenesse negli onori, gli terminarono per ammenda fiorini tredicimila d’oro, ed egli ne fu contento; e tanto attese che gli furono mandati, e quitò del danno ricevuto il comune di Pisa. L’ingiuria e la vergogna sfogata nel sangue degl’innocenti, con più gravezza il seguitò per lunghi tempi infino nella Magna.

[66]

CAP. XLIV. Come i Sanesi vollono fornire la rocca di Montepulciano, e non poterono.

Messer Niccolò e Messer Iacopo de’ Cavalieri di Montepulciano, che furono tratti della terra quando l’imperadore andò a desinare con loro, ed essendo nel cammino di Roma, come già è detto, quando sentirono la revoluzione del popolo e del patriarca si tornarono in Montepulciano, e avendo accolta gente d’arme coll’aiuto de’ loro terrazzani s’erano afforzati, e aveano assediati i Sanesi ch’erano nella rocca. Il popolo e gli artefici di Siena baldanzosi per la presura di Massa e per l’ubbidienza di Grosseto accolsono la loro potenza a cavallo e a piede, e andarono per fornire la rocca di Montepulciano. I terrazzani co’ loro signori provveduti di buona gente d’arme ordinatamente prenderono loro vantaggio, e ributtarono i Sanesi addietro con danno e con vergogna: e fatto questo, incontanente quelli della rocca s’arrenderono a’ terrazzani, i quali di presente la disfeciono, e fortificarono le mura della terra, e d’un animo, per lo tradimento che i Sanesi feciono a’ loro signori narrato addietro, si disposono e ordinarono alla difesa contro a loro.

[67]

CAP. XLV. Come i Veneziani feciono pace co’ Genovesi senza i Catalani.

Partendoci un poco di Toscana, i Veneziani non senza ammirazione ci si apparecchiano, nè però a loro cosa nuova, ma forse non troppo onesta. Compagni e collegati erano stati lungamente col re d’Araona e co’ suoi Catalani contro a’ Genovesi, e fatte con loro diverse e gravi battaglie, nelle quali comunemente aveano partecipato lo spargimento del loro sangue, e perdimento di navili nelle sconfitte, e l’onore e ’l navilio e la preda nelle vittorie acquistate; e ancora essendo in lega e in giuramento con quel re e con quella gente, stretti dalla paura de’ Genovesi, che poco innanzi gli aveano mal guidati nel porto di Sapienza, e temendo che non si allegassono contro a loro col re d’Ungheria, a cui eglino teneano occupata Giadra e gran parte della Schiavonia, posponendo la vergogna della fede che rompeano a’ Catalani, senza loro consentimento, all’uscita di maggio predetto fermarono pace co’ Genovesi in questa maniera: che la pace dovesse avere tra loro cominciamento a dì 28 del mese di settembre prossimo avvenire, e che fra questo termine il re d’Aragona co’ suoi Catalani con certi patti potesse venire, s’e’ volesse, alla detta pace, e se non, rimanesse in guerra co’ Genovesi senza i Veneziani: e fu di patto, che infra questo tempo niuno comune [68] dovesse dinnovo armare, ma se le galee e’ legni armati di catuno comune ch’erano in mare in diverse parti del mondo s’abboccassono e facessono danno l’uno all’altro, intendessesi essere fatto per buona guerra, e ciò che n’avvenisse, e’ non avesse a maculare la detta pace. E’ Veneziani promisono di stare tre anni senza andare colle loro galee o altri navili alla Tana, ma in questo tempo fare loro porto e mercato a Caffa. E promisono i Veneziani a’ Genovesi per ammenda, e per riavere i loro prigioni, in certi termini ordinati dugento migliaia di fiorini d’oro, e’ prigioni di catuna parte furono lasciati liberamente.

CAP. XLVI. Come si fè l’accordo dal legato a messer Malatesta da Rimini.

Messer Malatesta da Rimini, il quale tenea occupata a santa Chiesa Ancona con gran parte della Marca e alquante terre in Romagna, trovandosi assottigliato del danaro e della rendita per la tempesta della compagnia e per la sconfitta ricevuta dalla Chiesa, e preso il fratello, e i sudditi tanto gravati che più non poteano sostenere, e avendo addosso il legato a cui al continovo accresceva forza, e da niuno signore o comune di Toscana contro alla Chiesa non potea avere aiuto, e col legato non trovava accordo con patti, avendone lungamente fatto cercare, conoscendo egli e’ suoi essere naturali guelfi, che la pace piuttosto [69] che la guerra potea mantenere il loro stato, confortato da’ suoi amici e di santa Chiesa, che il legato gli sarebbe benivolo e grazioso, s’arrendè liberamente alla sua misericordia, e liberamente rendè a santa Chiesa quante terre tenea nella Marca e in Romagna; e il legato ricevuto ogni cosa in nome di santa Chiesa, essendo grato dell’onore ricevuto da’ Malatesti, e per compiacere a’ guelfi d’Italia, avendo promesso e giurato messer Malatesta e’ suoi di stare in ubbidienza, e di mantenere lealtà e fede a santa Chiesa, acciocchè potessono a onore mantenere loro stato, diede loro la libera giurisdizione e signoria di cinque città, ciò sono, Rimini, Pesaro, Fano, Fossombrone, e .... co’ loro contadi, per dodici anni avvenire; le quali riconobbono la santa Chiesa, e promisono di darne per censo ogni anno alla Chiesa certa piccola quantità di pecunia, e compiuto il termine, farne la volontà di santa Chiesa. E rimasi contenti e in pace, messer Malatesta e’ figliuoli e’ fratelli cominciarono fedelmente a seguitare il legato, e a servire la santa Chiesa; ed essendo singulari amici de’ Fiorentini, assai con più fidanza gli adoperava e onorava il legato ne’ fatti della guerra. E questa pace e accordo fu fatto all’uscita di maggio del detto anno.

CAP. XLVII. Come i Genovesi appostarono Tripoli.

Avea il comune di Genova, innanzi la pace [70] fatta co’ Veneziani, armate quindici galee di loro cittadini, e fattone ammiraglio Filippo Doria, ed era l’intenzione del comune di fare prendere la Loiera in Sardigna per alcuno trattato, che si menava per un soldato ch’era alla guardia di quella; e giunti in Sardigna, trovarono che il trattato non ebbe effetto. Allora l’ammiraglio si pensò di fare maggiore impresa, e avea l’animo a diverse terre per via di furto: e arrivati in Cicilia a Trapani, ebbe avviso, come Tripoli di Barberia era per un vile tirannello rubellato alla corona, ed era male guernito alla difesa d’un subito assalto, e per questo fece in Trapani fare scale e altri argomenti da potere combattere alle mura, tenendo segreta sua intenzione; e quando si vide apparecchiato, fece muovere le sue galee verso la Barberia. E giunto a Tripoli, mostrando d’andare pacificamente per mercatanzie, trovando due navi del signore cariche di spezieria che venivano d’Alessandria, si mostrarono come amici, e al signore feciono domandare licenza di potere mettere scala in terra per alcuno rinfrescamento, e il signore la concedette. L’ammiraglio mise in terra alquanti de’ suoi più savi e provveduti vestiti vilmente a modo di galeotti per comperare alcune cose per rinfrescamento, e commise loro che provvedessono il modo della guardia di quelli Saracini e di loro aspetto, e l’altezza delle mura della città, e da qual parte fosse più debole. Il signore più per paura che per amore fece fare onore a’ galeotti, e nondimeno guardare la terra. Eglino mostrandosi rozzi e grossi provvidono [71] molto bene quello che fu loro imposto: e comperate delle cose, si ritornarono a galea, e avvisarono pienamente il loro ammiraglio. Il signore presentò alle galee due grossi buoi, e castroni e vino; i Genovesi non vollono prendere le cose, ma molto grandi grazie ne feciono rapportare al signore, e incontanente, senza fare a’ legni carichi alcuna novità, suonarono loro trombetta, e partendosi di là, si misono in alto mare, tanto che si dilungarono da ogni vista della città, per assicurare più il signore e la gente della terra; i quali sentendo le galee partite, e che a’ loro legni carichi non aveano fatto nulla, che li poteano prendere, presono sicurtà, la quale tosto tornò loro amara, come appresso diviseremo.

CAP. XLVIII. Come i Genovesi presono Tripoli a inganno.

I Genovesi ch’erano partiti da Tripoli, come la notte fu fatta, avendo bonaccia in mare, si strinsono insieme colle loro galee, e ragunato al consiglio padroni e nocchieri, l’ammiraglio manifestò loro l’intenzione ch’avea, quando a loro piacesse, di vincere per ingegno e per forza la città di Tripoli, ove tutti sarebbono ricchi di gran tesoro; e mostrò loro come il signore di quella era un vile tirannello nato d’un fabbro saracino, e disamato da tutti per la sua tirannia, e però se fosse assalito francamente non potrebbe fare resistenza, e soccorso non potea avere, [72] perchè non ubbidiva il re di Tunisi, ma era suo ribello; e avvisolli com’egli avea fatto provvedere di prendere le mura e la porta agevolmente: e però, là dove e’ volessono essere prod’uomini, la grande e la ricca preda era loro apparecchiata. Costoro cupidi della roba altrui, avendo udito il loro ammiraglio, con grande allegrezza deliberarono che l’impresa si facesse, e offersonsi tutti a ben fare il suo comandamento, e misonsi di presente in concio di loro armi, e balestra, e saettamento; e preso alcuno riposo, in quella notte, e innanzi che il giorno venisse, all’aurora tutti armati e ordinati di quello ch’aveano a fare giunsono nel porto di Tripoli, e di colpo con poca fatica ebbono presi i due navili del signore; e messe le ciurme in terra e’ loro soprassaglienti colle balestra, portando le scale a’ muri della città vi montarono suso senza trovare resistenza, e la parte di loro ch’era rimasa a guardia delle galee e de’ legni s’accostarono alla terra per dare aiuto e soccorso a’ loro compagni; e questo fu sì tosto e sì prestamente fatto, che appena i cittadini se n’avvidono, se non quando i Genovesi teneano le mura, e già aveano presa la porta. Levato il romore per la città, il signore armato colla sua gente, e con parte de’ cittadini ch’ebbono cuore alla difesa, corsono per volere riparare ch’e’ nemici non potessono correre la terra, e abboccaronsi con loro. I Genovesi erano già tanti entrati dentro e sì forti, che per suo assalto non li potè ributtare; e stando loro a petto, i Genovesi ordinati colle balestra a vicenda li sollecitavano [73] tanto co’ verrettoni, ch’e’ Saracini male armati non li poteano sostenere. E il signore vedendo che non potea riparare, vilmente diede la volta, e fuggendosi abbandonò la città e il popolo. I Genovesi, sentendo partito il tiranno, presono più ardire, e ordinatisi insieme si misono per la terra, e qualunque si volea difendere uccidevano, e grande strage feciono quel dì de’ Saracini; e avendo corsa tutta la terra, presono le porti e serraronle, e misonvi le guardie, e furono al tutto signori della terra e degli uomini, e di tutta la loro sostanza.

CAP. XLIX. Di quello medesimo.

Presa, come detto è, l’antica città di Tripoli, e chiuse le porti, i Genovesi diedono ordine di spogliare le case, e di farsi insegnare i tesori del signore e l’avere de’ cittadini, e che ogni cosa pervenisse a bottino, sicchè lo spogliamento andasse per ordine; e così seguitarono penando più giorni a fare questa esecuzione, e condussono a bottino in pecunia, e in avere sottile, e ornamenti d’oro e d’argento il valere di più di diciannove centinaia di migliaia di fiorini d’oro, e settemila prigioni tra uomini, femmine, e fanciulli; e questo fu senza le segrete ruberie ch’e’ galeotti e gli altri maggiori feciono, che non le rassegnarono in comune, e di ciò non si fece cerca nè inquisizione; e avendo così spogliata la terra, la guardarono, e mandarono una delle loro più [74] sottili galee al comune di Genova, significando quello ch’aveano fatto, e come teneano la città a farne la volontà del comune. I governatori di quel comune, e appresso i buoni cittadini si turbarono forte del tradimento fatto a coloro che non erano nemici, e non aveano guardia di loro, non ostante che fossono Saracini, e temettono forte, ch’e’ cittadini di Genova ch’erano in Tunisi e in Egitto tra’ Saracini, e in loro mani colle loro mercatanzie, non fossono per questo a furore presi e morti; e così sarebbe avvenuto, se non fosse che Tripoli era sotto reggimento di vile tiranno, e non ubbidia al re di Tunisi, e però egli e gli altri signori saracini contenti del suo male non se ne curarono. Agli ambasciadori della galea non fu risposto; i quali vedendo i cittadini mal contenti, senza prendere comiato si tornarono a Tripoli a’ loro compagni; i quali vedendosi smisuratamente ricchi, del cruccio del loro comune, sapendo che tutti erano corsali, poco si curarono, e in Tripoli si misono a stare, consumando ogni reliquia di quella città, e cercavano di venderla per averne danari da chi più ne desse: e questo fu di giugno del detto anno.

CAP. L. Come la gente del marchese di Ferrara fu sconfitta, a Spaziano.

In questi medesimi dì, il marchese di Ferrara avea mandato quattrocento cavalieri e millecinquecento [75] fanti ad assediare un castello ch’avea nome Spaziano, il quale avea occupato il signore di Milano nel Ferrarese; e avendolo tenuto assediato alcun tempo, messer Bernabò vi mandò subitamente de’ suoi cavalieri al soccorso, e furono tanti, che per forza li levarono dall’assedio e sconfissono, dando loro danno assai; e liberato il castello, il fornirono di ciò ch’avea bisogno, e tornarsene a Milano.

CAP. LI. Come l’imperadore ebbe l’ultima paga da’ Fiorentini, e fè la fine.

Restavano i Fiorentini a dare all’imperadore ventimila fiorini d’oro per lo resto de’ centomila, e sentendolo partito da Pisa, e ch’egli era a Pietrasanta, s’affrettarono di mandarglieli più tosto, e a dì 10 di giugno gli feciono appresentare contanti ventimila fiorini a Pietrasanta. L’imperadore considerato il suo partimento non d’onore ma piuttosto d’abbassamento dell’imperiale maestà, e vedendo la sollecitudine della fede promessa del comune di Firenze, e il luogo dove gli aveano mandata la pecunia, fu molto allegro, e commendò magnificamente la fede e il buono portamento ch’avea trovato ne’ cittadini di Firenze, dicendo, come i Pisani ch’erano camera d’imperio, e’ Sanesi che liberamente s’erano dati senza mezzo alla sua signoria l’aveano ingannato e tradito, e fattagli gran vergogna per loro corrotta fede, e’ Fiorentini l’aveano atato e consigliato [76] dirittamente, e onorato molto i suoi baroni, e la sua gente, e adempiutogli pienamente ciò ch’aveano promesso, onde molto si tenea per contento da quello comune; e di proprio movimento li privilegiò di nuovo ciò che teneano in distretto, e riconobbe diciotto migliaia di fiorini che il comune diede per lui al sire della Lippa suo alto barone, e tremila che per suo mandato avea pagati ad altri baroni, e di tutta la quantità di centomila fiorini d’oro ch’aveano promesso, come addietro abbiamo narrato, fece fine al detto comune per suoi documenti e cautela, per carta fatta per ser Agnolo di ser Andrea di messer Agnolo da Poggibonizzi notaio imperiale, fatta nella detta terra di Pietrasanta il detto dì.

CAP. LII. Come il figliuolo di Castruccio fu decapitato.

Avendo veduto messer Altino figliuolo di Castruccio Castracane già tiranno di Lucca, come l’imperadore era uscito di Pisa con sua vergogna per andarsene nella Magna, accolti certi masnadieri e con sua gente entrò in Monteggoli presso a Pietrasanta, per tenersi la terra. I Pisani sdegnati di presente vi cavalcarono, e assediarono il castello intorno. Messer Altino intendea a difenderlo da’ Pisani, e credea poterlo fare. I Pisani sentendo ivi presso l’imperadore, mandarono a pregarlo che gli piacesse di venire nel campo, perocch’elli erano certi che [77] alla sua persona messer Altino non si terrebbe. L’imperadore v’andò, e fece comandare a messer Altino che si dovesse arrendere; il quale incontanente ubbidì a’ suoi comandamenti, e diede la terra a’ Pisani, e sè all’imperadore. I Pisani di presente arsono e disfeciono il castello: e richiesto l’imperadore da’ Pisani che desse loro messer Altino, con poco onore della sua corona il mandò prigione a Pisa, e ivi a pochi dì, partito l’imperadore da Pietrasanta, i Pisani gli feciono tagliare la testa.

CAP. LIII. D’una fanciulla pilosa presentata all’imperadore.

Mentre che l’imperadore era a Pietrasanta, per grande maraviglia, e cosa nuova e strana, gli fu presentata una fanciulla femmina d’età di sette anni, tutta lanuta come una pecora, di lana rossa mal tinta, ed era piena per tutta la persona di quella lana insino all’estremità delle labbra e degli occhi. L’imperadrice, maravigliatasi di vedere un corpo umano così maravigliosamente vestito dalla natura, l’accomandò a sue damigelle che la nudrissono e guardassono, e menolla nella Magna.

[78]

CAP. LIV. Come l’imperadore e l’imperadrice si partirono per tornare in Alamagna.

Avendo l’imperadore col senno e colla provvedenza alamannica presa la corona dell’imperio, e guidati i fatti degl’Italiani come nel nostro trattato è raccontato, essendosi ridotto a Pietrasanta, l’imperadrice sollecitando che si tornasse nella Magna, a dì 11 di giugno del detto anno si partì di là con milledugento cavalieri di sua gente, e tenne la via di Lombardia; e giugnendo alle terre de’ signori di Milano non potè in alcuna entrare, ma a tutte trovò le porte serrate, e le mura e le torri piene d’uomini armati alla guardia colle balestra, e col saettamento apparecchiato. E giugnendo a Cremona, ch’è grossa città, volendovi entrare dentro, fu ritenuto alla porta per spazio di due ore innanzi che vi potesse entrare; poi ebbe licenza d’andarvi la sua persona con alquanta compagnia senza alcuna gente armata; e strignendolo la necessità, per non mostrare d’avere dimenticata la pace che la sua persona avea voluto trattare tra’ Lombardi, vi si mise ad entrare, e stettevi la notte e il dì seguente, continovo le porti della città serrate, e di dì e di notte i soldati armati facendo continova guardia. E ragionando l’imperadore con certi che v’erano per i signori di Milano, di volere trattare della pace tra’ Lombardi, gli fu detto da parte de’ signori, che non se ne dovesse affaticare. E però [79] la mattina vegnente, avendo già preso di se alcuno sospetto, s’uscì della città, e cavalcò a Soncino. Ivi fu ricevuto con pochi disarmati e con grandissima guardia: e vedendosi così onorare ora ch’era imperadore nella forza de’ tiranni di Milano, molto pieno di sdegno s’affrettò di tornare in Alamagna, ove tornò colla corona ricevuta senza colpo di spada, e colla borsa piena di danari avendola recata vota, ma con poca gloria delle sue virtuose operazioni, e con assai vergogna in abbassamento dell’imperiale maestà.

CAP. LV. Come il minuto popolo di Siena prese al tutto la signoria di quella.

Del mese di giugno del detto anno, il minuto popolo di Siena avendo fino a qui avuto in certi ufici in compagnia alquanti delle grandi case di Siena, e desiderando d’avere in tutto il governamento di quella città, levò il romore, e tutti i cittadini presono l’arme; e stando il popolo armato, dimostrò di volere che i grandi rinunziassono agli ufici del comune; e sentendo i grandi che questo movea dal consiglio dato al minuto popolo per Giovanni d’Agnolino Bottoni de’ Salimbeni per accattare la benivolenza del minuto popolo per animo tirannesco, non vollono per forza d’arme cercare di ributtare i loro cittadini; e acciocchè il popolo non si tenesse d’avere lo stato del reggimento da Giovanni d’Agnolino, i Tolomei suoi avversari furono quelli che [80] prima cominciarono a rinunziare agli ufici, e volere che il popolo gli avesse in tutto, e così feciono gli altri appresso. E volle il popolo, che laddove lo staio era cresciuto per lo patriarca alla misura lieve, fosse alla picchiata, e così fu conceduto per tutti. Allora il popolo ordinò d’avere il gran consiglio, e lasciato l’arme, in questo stabilì per riformagione la loro somma signoria, reggendosi per dodici priori di due in due mesi, e ivi li crearono; e ancora feciono un gonfaloniere di popolo, e certi altri ch’avessono a rispondere a lui per terziere della città: e ivi da capo rifiutato messer Agapito della Colonna per loro vicario, come detto è, cominciò in libertà il reggimento di quello popolazzo.

CAP. LVI. Come la compagnia del conte di Lando cavalcò a Napoli.

Avvenne ancora del detto mese di giugno, che la compagnia ch’era lungamente stata in Puglia guidata dal conte di Lando, sentendo che il re Luigi contro a loro non avea fatta alcuna provvisione a sua difesa, si partirono di Puglia, e vennonsene in Principato; e soggiornati alquanti dì nelle contrade di Serni, e di Matalona, e d’Argenza, feciono grandi prede; e non trovando fuori delle terre murate alcun contrasto, di là entrarono in Terra di Lavoro, e vennono infino presso a Napoli, e cavalcarono il paese d’intorno; e non sentendo chi vietasse loro il paese, essendo [81] ubbiditi da’ casali e da’ paesani di fuori, e forniti di quello che alla loro vita e dei loro cavalli bisognava, per potere stare più ad agio, si divisono in più compagnie, e l’una stando nell’una contrada, e l’altra nell’altra, compresono a modo di paesani tutto il paese; e lasciarono l’arme non sentendo alcuno avversario, e cominciarono a prendere diletti d’uccellare e di cacciare; e i loro cavalcatori e’ ragazzi visitavano le ville e’ casali, e recavano all’ostiere ciò che bisognava largamente per la loro vita e di loro cavalli, e quando i signori tornavano, trovavano apparecchiato, e i cattivelli paesani, che non aveano aiuto dal loro signore, erano consumati in vilissima fama della real corona.

CAP. LVII. Come Fermo tornò alla Chiesa e si rubellò da Gentile da Mogliano.

In questo mese di giugno, quelli della città di Fermo, i quali per lo tradimento fatto per Gentile da Mogliano al legato quando gli rubellò la città colla forza del capitano di Forlì e coll’ordine di messer Malatesta, essendo contro al loro volere, come narrato è addietro, tornati contro alla signoria del legato, dove s’erano ridotti con loro grande piacere, vedendo ora la forza del legato loro di presso, e che Gentile era povero di gente, levarono il romore nella città, e rinchiusone Gentile nella rocca, e diedono la terra al legato; il quale la fornì di buone masnade [82] a piè e a cavallo, e presene buona e sollecita guardia.

CAP. LVIII. Come il re di Francia mandò gente in Scozia per guerreggiare gl’Inghilesi.

Trapassando alquanto agli strani, il re di Francia vedendo che passate le triegue gl’Inghilesi cavalcavano nel reame, e facevano spesso danno alle sue genti e al paese, prese consiglio da’ suoi, e avendo alcuno intendimento da certi baroni di Scozia, mandò in Scozia il sire di Garendone suo barone con ottocento armadure di ferro, a fine di muovere gli Scotti a fare guerra agl’Inghilesi per modo, che quelli che guerreggiavano in Francia avessono cagione di tornare a guerreggiare con gli Scotti. E giunta questa gente in Scozia, gli Scotti tennero loro consiglio e diliberarono, che essendo il loro re David prigione del re d’Inghilterra, se gli Scotti movessono guerra agl’Inghilesi tornerebbe in pericolo e dannaggio del loro re; e però non vollono che ad istanza del re di Francia in Scozia si facesse movimento di guerra sopra gl’Inghilesi, e per questo la gente francesca ch’era di là passata si ritornò addietro. E questo avvenne del mese di giugno del detto anno.

[83]

CAP. LIX. Come i prigioni d’Ostiglia presono il castello.

Di questo mese una buona brigata di prigioni, che messer Gran Cane della Scala avea racchiusi in Ostiglia, seppono tanto fare per loro sottile provvedimento che tutte le guardie delle prigioni e del castello uccisono, e presono il castello, e recaronlo nella loro guardia e signoria. Il castello era forte e in sù i confini del distretto di Mantova e di Ferrara. Sentendo i signori vicini questa rubellione, tentarono quelli di Mantova e di Ferrara catuno di volere dare danari a’ prigioni che l’aveano preso per avere quella tenuta, ch’era di piccola guardia, ed era forte da non potere essere vinta per battaglia, e dava il passo in catuna parte; i matti prigioni non seppono prendere il buono partito, e però s’accostarono al reo; e avendo grandi promesse da messer Gran Cane, cui eglino aveano cotanto offeso, affidandosi solamente alla fede delle sue promesse, che renderebbe loro i propri beni e farebbe a catuno altri vantaggi, dicendo, che non imputerebbe loro il misfatto, perocchè fatto l’aveano come prigioni, a cui era lecito di trovare ogni via di loro scampo, sicchè ciò non era tradimento. I miseri vinti dalle vane promesse renderono la tenuta del forte castello alla gente di messer Gran Cane, il quale ripresa la fortezza, incontanente attenne la promessa ammazzandone una parte colle scuri, e altri con gravi tormenti fece morire, e trentasei [84] de’ residui più vili fece impendere per la gola: e per questo modo morti tutti i prigioni riebbe la sua fortezza del castello d’Ostiglia.

CAP. LX. Come i Genovesi venderono Tripoli.

I Genovesi ch’aveano preso Tripoli di Barberia, come addietro abbiamo narrato, e non avendo potuto avere risposta dal loro comune quello che della città si facessono, cercarono di venderla per danari a’ baroni saracini che v’erano di presso, e niuno trovarono che vi volesse intendere. Era a quel tempo signore dell’isola di Gerbi un Saracino ricco e di gran cuore; costui intese a volerla comperare, e trattato il mercato, ne diè a’ Genovesi cinquantamila doble d’oro; e ricevuto il pagamento e la tenuta della città, e sceltisi de’ cittadini uomini e femmine e fanciulle cui e’ vollono, gli altri lasciarono colla città spogliata d’ogni bene; e raccolti in su le loro quindici galee piene d’arnesi e di gran tesoro partironsi del paese, e lungamente stettono ora in una parte ora in un’altra, tanto che il loro comune fu rassicurato de’ loro cittadini ch’erano in Alessandria e in Tunisi, che per questa novità di Tripoli non aveano ricevuto danno, allora ribandirono quelli delle galee, i quali aveano sbanditi per lo fallo commesso, e dierono loro licenza che potessono tornare a Genova, quando tre mesi alle loro spese avessono guerreggiate le marine di Catalogna; i quali fatto [85] il servigio tornarono a Genova, e riempierono la città di schiavi e schiave saracine, e di molto tesoro acquistato con gran tradimento, ma per giusto giudicio di Dio in breve tempo capitarono quasi tutti male, rimanendo in povero stato.

CAP. LXI. Come gli usciti di Lucca tentarono di far guerra.

Essendo per le novità sopravvenute all’imperadore in Pisa perduta agli usciti di Lucca la speranza d’essere liberati dal giogo de’ Pisani, secondo il trattato di cui era scorsa la fama; e veduto come fortuna avea fatti signori della città le piccole reliquie de’ Lucchesi ch’erano nella città in una giornata, per un poco d’ardire ch’aveano dimostrato, se da loro medesimi non fossono stati traditi, come detto è, trovandosi gli usciti avere ragunata alcuna moneta per la detta cagione della speranza dell’imperadore, e parendo loro ch’e’ Pisani fossono in dubbioso stato, s’intesono insieme i guelfi co’ ghibellini, e’ figliuoli di Castruccio ch’erano in Lombardia promisono a tutti i caporali delle famiglie guelfe uscite di Lucca nella loro fede, che contro alla loro origine e’ si farebbono guelfi per trarre di tanto servaggio la loro città; e trattarono con loro di fare ogni loro sforzo con buona punga per rientrare in Lucca, e catuno promise di fornirsi di gente per loro aiuto, e di cavalli e d’armi per fornire loro impresa. E sentendo i Pisani questo apparecchiamento, [86] si provvidono sollecitamente al riparo. Le cose procedettono e seguirono al loro fine come degnamente meritarono, e tosto ci verrà il tempo da raccontarlo.

CAP. LXII. Conta della gran compagnia di Puglia.

Avvedendosi quelli della compagnia ch’erano in Terra di Lavoro, che il re nè i suoi baroni mettevano alcuno riparo contro a loro, presono maggiore baldanza, e raccolti insieme se ne vennero verso Napoli, e posonsi a campo a Giuliano tra Aversa e Napoli, presso a Napoli a quattro miglia di piano, e domandavano al re danari senza fare guasto. Allora i Napoletani vedendo che il re non si movea, si mossono da loro, e accolsono de’ paesani e de’ forestieri una quantità di cavalieri, e feciono capo il conte camarlingo, e ’l conte di san Severino e l’ammiraglio di volontà del re; nondimeno costoro non uscivano di Napoli a riparare le cavalcate della compagnia e sturbavano l’accordo, che si cercava di dare loro danari. Per la qual cosa i Napoletani temendo di ricevere il guasto, di che la compagnia gli minacciava, a dì 12 di Luglio del detto anno s’armarono a cavallo e a piè romoreggiando, e minacciando i baroni che non lasciavano fare l’accordo colla compagnia. I baroni erano forti da loro, e aveano con seco i forestieri armati, sicchè poco curavano le minacce o le mostre de’ Napoletani, e avvedendosene [87] i Napoletani, posono giù l’arme, e se n’acquetarono. Nondimeno il re mostrando di fare al movimento de’ Napoletani l’accordo, vedendosi l’oste di presso addosso, per schifare maggiore pericolo, trattò di dare loro fiorini centoventimila in certi termini, e per questo si levarono da Giuliano, e dilungaronsi da Napoli, paesando e vivendo alle spese de’ paesani. L’effetto di questo trattato ebbe mutamenti con danno de’ regnicoli innanzi che si traesse a fine, come innanzi al suo tempo racconteremo.

CAP. LXIII. Come il gran siniscalco condusse mille barbute contro alla compagnia, ond’ella s’accrebbe.

Mentre che queste cose si trattavano in Napoli, il gran siniscalco del Regno messer Niccola Acciaiuoli di Firenze essendo stato in Toscana, e in Romagna e nella Marca accogliendo gente d’arme, s’era con essa messo a cammino: e giunto alla città di Sulmona con mille barbute di gente tedesca e oltramontana, fè sentire al re la sua venuta; il re richiese i baroni per volersi combattere colla compagnia venendo contro a’ patti promessi: ma la cosa venne dilatando e prendendo indugio, e nel soprastare il caldo appetito del re venne raffreddando, e ancora de’ suoi baroni, e il termine delle paghe de’ soldati menati per lo gran siniscalco cominciò a venire; e non essendo il re mobolato da poterli pagare e riconducere per innanzi, assai se ne partirono dal servigio del re. [88] e andarsene alla compagnia, e fecionla maggiore.

CAP. LXIV. Come gli usciti di Lucca s’accolsono senza far nulla.

Ritornando nostra materia al fatto degli usciti di Lucca, que’ caporali ch’erano a soldo del comune di Firenze, con le loro bandiere appresentandosi al tempo ordinato tra loro, cominciò la cosa a pubblicarsi in Firenze. Quando il comune sentì questo, incontanente tutti gli cassò dal suo soldo, e comandò loro sotto pena della vita, che niuna ragunata di gente facessono nel contado o distretto di Firenze, e contradisse a tutti i cittadini e contadini sotto pena dell’avere e della persona, che niuno aiuto o favore si desse loro, perocchè non volea il nostro comune rompere per niuna cagione la pace ch’avea co’ Pisani. Nondimeno i Lucchesi guelfi ch’erano in Toscana, con loro sforzo s’accolsono in certo luogo in sù quello di Lucca, e ivi si trovarono con dugento cavalieri e con molti masnadieri che gli seguitavano per speranza di guadagnare. I conducitori furono Obizzi e Salamoncelli, e attendeano che dall’altra parte, com’era ordinato, venissono i figliuoli di Castruccio con gli usciti ghibellini, e col popolo di Lunigiana e Garfagnana. I Pisani sentendo che gli usciti di Lucca si cominciavano a ragunare, cacciarono di Lucca tutti i cittadini ch’aveano alcuna apparenza, e mandaronvi per comune [89] i due quartieri di Pisa alla guardia, e con grande studio si fornirono di gente d’arme alla difesa. I figliuoli di Castruccio non attennono la promessa al termine, per la qual cosa gli usciti guelfi soprastati al termine più di due dì, e non avendo novelle che venissono, si cominciarono a sfilare, e senza ordine tornare catuno a casa con poco onore. Abbianne fatto memoria non per lo fatto, che nol meritava, ma perchè in quel tempo che questo fu, erano quarantadue anni ch’e’ Lucchesi guelfi erano stati fuori della loro città, e mai non aveano fatta altrettanta vista per cercare di volere tornare in Lucca, come a questa volta.

CAP. LXV. Come il re di Cicilia racquistò più terre.

In questo tempo, don Luigi di Cicilia coll’aiuto de’ Catalani dell’isola e della loro setta, accolti insieme in arme a piè e a cavallo si mossono da Catania con la persona del loro signore, e cavalcando sopra le terre ch’ubbidiano l’altra setta di Chiaramonti e il re di Puglia, e trovandole mal fornite alla difesa, s’arrenderono e ubbidirono, vedendo la persona di don Luigi, senza farli resistenza. E appresso preso più ardire, del mese di luglio con sei galee armate e con l’altra gente per terra venne a Palermo, e posevisi intorno credendolasi riavere, ma vedendo ch’e’ si difendeano colla gente forestiera che v’era per lo re Luigi di Puglia, fece danno assai nelle villate di fuori, e poi se ne ritornò a Catania.

[90]

CAP. LXVI. Novità di Padova.

Essendo messer Iacopino da Carrara signore di Padova, e avendo lungamente tenuta la signoria in compagnia di Francesco suo nipote carnale, avendosi portato insieme grande onore, non sentendosi alcuna cagione d’odio o di sospetto tra loro, salvo che messer Francesco volea pace co’ signori di Milano, e messer Iacopo la volea con loro, e voleala co’ signori di Mantova insieme con cui erano collegati, non dovea però per questo essere cagione d’odio tra loro, ma piuttosto quello che non soffera d’avere consorto nella signoria tra gli animi ambiziosi di quella; e per questo Francesco ch’era più giovane e più atto a guerra, e avea il seguito della gente d’arme, una sera, a dì 26 del mese di luglio del detto anno, essendo messer Iacopino nella sua sala posto a cena, messer Francesco con suoi compagni armati copertamente venne al palagio, dove non gli era nè di dì nè di notte vietata porta, e andato suso, trovò il zio che cenava, e accogliendo il nipote senza alcuno sospetto, fu da lui preso, e incamerato e messo in buona guardia, senza essere per lui alcuna resistenza fatta nel palagio. La mattina vegnente messer Francesco cavalcò per la città, e senza fare novità nella terra fu ubbidito in tutto come signore, e si scusò al popolo, che questo avea fatto perocchè avea trovato di certo, che poichè messer Iacopino si vide avere figliuolo, avea [91] cercato di fare avvelenare lui: e che ciò fosse vero o no, tanto se ne dimostrò, che alcuni di ciò furono incolpati e martoriati, tanto che confessarono il malificio, e perderonne le persone.

CAP. LXVII. Come i Visconti tentarono di racquistare Bologna.

Di questo mese di luglio del detto anno, messer Bernabò de’ Visconti di Milano avendo tenuto alcuno trattato in Bologna, credendolasi racquistare, mandò di subito duemila cavalieri e di molti masnadieri di soldo sopra la città di Bologna, e la loro prima posta fu al Borgo a Panicale, e feciono vista d’afforzare loro campo presso a Bologna a tre miglia; poi all’entrata d’agosto si levarono di là e andarono a Budrio, e trovandovi difetto d’acqua, si partirono di là, e posono campo a Medicina tra Bologna e Imola, e là dimorarono attendendo che novità si movesse in Bologna. Lasceremo ora questa gente ch’attende di fare suo baratto, come al tempo innanzi racconteremo.

CAP. LXVIII. Come in Firenze nacquono quattro lioni.

A dì 3 d’agosto nacquono in Firenze quattro lioni, due maschi e due femmine; l’uno si donò al duca d’Osteric, che ’l domandò al comune, l’altro al signore di Padova.

[92]

CAP. LXIX. Novità fatte per gli usciti di Lucca.

All’entrata del mese d’agosto del detto anno, messer Arrigo e messer Gallerano figliuoli di Castruccio usciti di Lucca, con quella gente d’arme ch’avere poterono in Lombardia apparirono in Lunigiana, e ivi e di Garfagnana accolsono fanti a piè; e i Lucchesi guelfi usciti da capo si ragunarono e accozzarono co’ figliuoli di Castruccio, e di concordia, trovandosi quattrocento cavalieri e duemilacinquecento fanti, si posono ad assedio a Castiglione, che si guardava per i Pisani. I Pisani avuto l’aiuto da’ Sanesi, con cui erano in lega e compagnia, con settecento cavalieri e seimila pedoni uscirono di Pisa per andare a soccorrere il castello, e a dì 12 d’agosto del detto anno, trovandosi ne’ campi presso a’ nemici, feciono loro schiere. Gli usciti di Lucca, veggendosi il vantaggio del terreno, si feciono ordinatamente loro incontro da quella parte donde li vidono venire. I Pisani si mostrarono di volerli assalire da quella parte, e cominciaronvi l’assalto per tenere i nemici a bada; e cominciata la battaglia, il loro capitano con quella gente ch’e’ s’avea eletta, mentre che d’ogni parte si mantenea l’assalto, girò il poggio, e montò sopra i nemici da quella parte onde venia la vittuaglia agli usciti che teneano l’assedio, e fece questo sì prestamente, che i Lucchesi, ch’aveano assai di buoni capitani, non vi poterono riparare, [93] ma veduto ch’ebbono ch’e’ nemici aveano tolto loro la via del pane, non vidono potere mantenere l’assedio al castello; e però si strinsono insieme, e arsone il campo loro, e ricolsonsi in alcuna parte ivi presso senza potere essere danneggiati da’ nemici; e raccolti quivi, senza alcuno danno di là si partirono salvamente, e valicarono l’alpe, e capitarono nel Frignano, e di là catuno con accrescimento d’onta, senza altro danno, perduta la speranza di tornare in Lucca, catuno tornò a procacciare sue condotte per vivere al soldo, e ’l castello rimase libero all’ubbidienza de’ Pisani.

CAP. LXX. Come i Catalani non vollono la pace co’ Genovesi fatta per i Veneziani.

Il re d’Araona essendo in Ispagna dopo l’acquisto fatto della Loiera, e dell’accordo preso col giudice d’Alborea, sentendo che i Veneziani aveano fatta pace co’ Genovesi senza il suo consentimento contro al giuramento della loro compagnia, fece di presente armare venti galee per sua sicurtà: e domandaronli i Genovesi la Loiera e altre terre di Sardigna, se con loro volea pace. E questa fu la cagione già scritta addietro, perchè il comune di Genova ribandì le quindici galee ch’aveano preso Tripoli, le quali feciono per tre mesi gravi danni nella riviera di Catalogna, spezialmente d’ardere e di profondare loro navili ne’ porti. Le venti galee del re avendo fortificate [94] e fornite le terre di Sardigna, e reiterata la pace col giudice, si ritornarono in Catalogna senz’altra novità fare.

CAP. LXXI. Come messer Ruberto di Durazzo lasciò il Balzo.

Di questo mese d’agosto, essendo stato messer Ruberto di Durazzo stretto da’ Provenzali nel Balzo per modo, che non avea potuto correre il paese nè fare prede com’avea cominciato, benchè ’l castello potesse tenere lungamente, parendogli stare con sua vergogna senza guadagno, di sua volontà s’uscì del castello, e rilasciollo a’ signori del Balzo. Alcuni dissono, che ’l papa gli diè alcuni danari co’ quali si mise in arme, e andò a servire il re di Francia nelle sue guerre ove morì a onore, come a suo tempo racconteremo.

CAP. LXXII. Come arse la bastita da Modena.

Essendo lungamente mantenuta per la forza di messer Bernabò di Milano una grande e forte bastita sopra la città di Modena con molti cavalieri e masnadieri, i quali aveano per stretto modo assediata la città, e recata in grandi stremi, come piacque a Dio, quello che non avea potuto fare la gran compagnia nel caso della ribellione [95] di Bologna, nè appresso tutta la forza della lega di Lombardia, fece subitamente un fuoco che vi s’apprese, ma piuttosto fu fama ch’un soldato corrotto dal signore di Bologna il vi mise. Questo fuoco infiammò per sì fatto modo la bastita, che per la gente dentro non si potè ammortare. I Modenesi stati a vedere lungamente, e sentendo il romore, presono l’arme, e corsono verso la bastita con smisurato romore. I cavalieri e’ masnadieri, che ve n’erano assai, impacciati dal fuoco, e impauriti del romore, si ritrassono fuori della bastita con animo di fermarsi di fuori, ma non ebbono potere di farlo, che di presente catuno cominciò a fuggire senza essere cacciati, e abbandonarono la bastita. I Modenesi la presono e spensono il fuoco: e appresso per tema che messer Bernabò non la rifacesse da capo riporre, ch’era il luogo molto forte, la feciono riparare e rafforzare, e misonvi gente a guardarla lungamente per sicurtà della terra.

CAP. LXXIII. Come fu fatto il castello di Sancasciano.

Tornando alquanto nostra materia al fatto di Firenze, occorse in questi dì, che tornando a memoria a’ collegi del nostro comune i danni ricevuti a’ tempi delle persecuzioni fatte al nostro comune, e i pericoli che occorsi erano alla città ponendosi i nemici a oste in sul poggio del borgo di Sancasciano in Valdipesa, e questo conosciuto per esperienza dell’imperadore [96] Arrigo di Luzimborgo, e appresso di Castruccio tiranno di Lucca, e novellamente della gran compagnia di fra Moriale, che catuno nimicando il nostro comune tennono campo in quel luogo con podere, per lo vantaggio del sito, di potere vantaggiare assai e non potere essere danneggiati: acciocchè questo non potesse più avvenire, deliberò il comune di farvi un forte e nobile castello di mura, e incontanente del mese d’agosto del detto anno 1355 si cominciarono a fare i fossi, e all’uscita di settembre del detto anno si cominciarono a fondare le mura, e tutte s’allogarono in somma a buoni maestri con discreti e avvisati provveditori, dando d’ogni braccio quadro soldi sette di piccioli, di lire tre soldi nove il fiorino dell’oro, dando il comune a’ maestri solo la calcina, acciocch’e’ maestri avessono cagione di fare buone le mura. Le mura furono larghe nel fondamento braccia quattro, e fondate braccia uno sotto il piano del fosso, e sopra terra grosse braccia due, ristrignendosi a modo di barbacane, e sopra terra alle braccia dodici, con corridoi intorno i beccatelli, e armate di torri intorno intorno, di lungi braccia cinquanta dall’una torre all’altra, alzate braccia dodici sopra le mura e con due porte mastre, catuna con due torri più alte che l’altre e bene ordinate alla guardia. E questo circuito comprese il poggio e il borgo, e senza arresto fu compiuto e perfetto il lavorio del mese di settembre seguente 1356. E veduto il conto del detto edificio, costò al Comune di Firenze trentacinque migliaia di fiorini d’oro.

[97]

CAP. LXXIV. Come in Firenze s’ordinò la tavola delle possessioni.

Di questo mese d’agosto, alquanti cittadini di Firenze, parendo loro che dovesse essere util cosa al comune per levare la briga a’ creditori di ritrovare i beni del debitore, misono innanzi a’ signori che si facesse una tavola, nella quale si scrivessono tutti i beni immobili della città e del contado per popolo e per confini, e diedono il modo a catuno quartiere della città e del contado per se; e’ signori misono la petizione, e vinsesi, parendo a tutti che dovesse essere utile cosa. Agli uomini antichi, e savi e pratichi parea la cosa impossibile a potere avere perfezione, ma non fu loro creduto, se non quando per pratica si conobbe. Furono comandate le recate a ogni possessore sotto grave pena, e nondimeno ch’e’ reggitori de’ popoli anche le dovessono recare, catuno si provvidde di recare e di fare recare i beni in cui volle, e confinavali secondo che trovava l’usata vicinanza, e quando tali nelle loro recate mutavano i primi possessori, e così d’ogni parte discordavano i confini, e oltre a questa inconvenienza ve n’accorrevano molte altre maggiori. Per la qual cosa dopo la lunga scrittura, e la grande spesa cresciuta parecchi anni, in confusione senza frutto rimase abbandonata, e la sperienza ammaestrò il nostro comune alle sue spese. Avenne fatta memoria [98] per esempio di coloro che verranno appresso, acciocch’e’ notino quello ch’è detto provato per opera; e ancora, che molti recavano una medesima cosa per mostrare che possedessero i beni: ma quello ch’è più forte, si è la mutazione de’ beni, che più occorre nella nostra città che altrove, perchè più abbonda di mercatanzie e di mestieri e d’arti, c’hanno a fare la mutazione de’ beni immobili.

CAP. LXXV. Come il re d’Inghilterra con grande apparecchio valicò a Calese.

Avendo noi addietro narrata la morte del conestabile di Francia, della quale il re di Navarra fu operatore, seguita, che d’allora innanzi il re di Navarra era in odio del re Giovanni di Francia, e per questa cagione tenne trattato col re d’Inghilterra di riceverlo nelle sue terre. Il re d’Inghilterra era di questo molto contento, e però mise in concio sua gente e suo navilio per valicare con forte braccio; e nel soprastare che facea, per sollecita operazione del cardinale di Bologna e d’altri baroni e’ fu fatta la pace tra ’l re di Francia a quello di Navarra, e perdonatoli liberamente l’offesa della morte del conestabile, e per suo amore a tutti gli altri ch’erano a ciò stati. Il re d’Inghilterra avendo apparecchiata la sua gente d’arme e ’l suo navilio, del mese di settembre del detto anno valicò a Calese. Il re di Francia avea d’altra parte [99] apparecchiata la sua baronia, e con quindicimila cavalieri e molti sergenti gli si fece incontro in Normandia. Il re d’Inghilterra sentendo la pace fatta tra’ due re, e vedendo la gran forza apparecchiata contro a sè dal re di Francia, non si attentò d’uscire a campo, nè di seguire sua impresa, e data la volta, con sua vergogna si ritornò con tutta la sua oste in Inghilterra. Il re di Francia sentendo i suoi nemici tornati nell’isola si ritornò a Parigi, e dimostrando grande amore al re di Navarra, gli accomandò il Delfino suo maggiore figliuolo, i quali d’allora innanzi si congiunsono di fraternale amore, e di grande compagnia.

CAP. LXXVI. Come il re Luigi s’accordò colla compagnia del conte di Lando.

Mandaci il tempo materia di ritornare in Italia. Di questo mese di settembre del detto anno, essendo la compagnia ritornata presso a Napoli in Terra di Lavoro, e il re per arroto al danno per la gente condotta nel Regno alle sue spese, volendo atare i Napoletani che non perdessono le loro vendemmie, e non avendo il podere altro che con danari, rifece la nuova concordia, e promise loro centocinque migliaia di fiorini d’oro; le trentacinque migliaia contanti, e le settanta in due paghe a venire: e mentre che le penassono ad avere si doveano stare in Puglia. E per fornire la prima paga, il re Luigi gravò di fatto [100] i Napoletani, e certi baroni, e forestieri, e mercatanti, e le loro mercatanzie, e pagò la compagnia, e andossene in Puglia alla roba d’ogni uomo, non senza grande rammarichio, contro alla corona degli uomini di quel paese.

CAP. LXXVII. Come il conte da Doadola fu sconfitto e morto dal capitano di Forlì.

Avendo il legato rivolto tutto suo intendimento di volere abbattere la tirannia di Francesco degli Ordelaffi capitano di Forlì, e guerreggiando la città di Cesena, il conte Carlo da Doadola con due figliuoli del conticino da Ghiaggiuolo de’ Malatesti si mise in preda con cento cavalieri e con assai masnadieri, e corsono insino presso alle mura di Cesena; e avendo raccolta una buona preda d’uomini e di bestiame, si raccoglievano per tornare al campo. Avendo questo sentito madonna Cia moglie del capitano, a cui egli avea accomandata la guardia di quella città, non come femmina, ma come virtudioso cavaliere montò a cavallo coll’arme indosso gridando, e smovendo i cavalieri soldati che v’erano che la dovessono seguire contro a’ nemici ch’erano di fuori. I cavalieri inanimati, vedendo tanto ardire in una femmina, di presente la seguitarono, e abboccatosi co’ nemici per forza li sconfissono, e fuvvi fedito il conte Carlo per modo che poco appresso morì, e presi i due figliuoli del conticino da Ghiaggiuolo, e la maggior parte de’ cavalieri e [101] assai masnadieri furono prigioni; e riscossa la preda, con grande onore si tornarono in Cesena del mese d’agosto predetto.

CAP. LXXVIII. Come la gente del Biscione prese le mura di Bologna e furono cacciati.

Poco addietro ci ricorda, che noi trattammo de’ duemila cavalieri e de’ molti masnadieri che messer Bernabò avea mandati sopra Bologna, e le mute che fatte aveano di luogo in luogo; all’ultimo, all’uscita del mese d’agosto del detto anno, erano tornati al borgo a Panicale forniti di molte scale, e bolcioni ferrati da cozzare mura della città, e di queste cose il signore di Bologna non si prendeva guardia. E però una notte ordinata tutta l’oste se ne venne alle mura di Bologna dalla parte del prato, dov’era più solitario, ed ebbono poste le scale alle mura, e di subito vi montarono suso più di dugento cavalieri armati, ch’erano smontati de’ cavalli, e assai masnadieri, e traboccate le guardie che vi trovarono dalle mura in terra, cominciarono a perquotere le mura co’ bolcioni tanto che già l’aveano forate e aperte le mura da piè, innanzi che ’l signore o i cittadini se n’avvedessono, e alquanti per gagliardia erano scesi dentro e entrati per la piccola rottura; e parendo agli assalitori avere la forza delle mura e l’entrata, avvisando che dentro fosse dato loro alcuno aiuto per lo loro trattato, cominciarono a gridare ad alte boci: [102] Vivano i popolani, e muoia il signore. A questo romore il popolo si cominciò a sentire, e ogni uomo a prendere l’arme, e certe masnade di fanti a piè toscani con alquanti cittadini trassono in quella parte ov’erano i nemici, e quanti ne trovarono a basso entrati uccisono, e ingrossandosi alla difesa quelli della terra a cavallo e a piè, con molti balestrieri cacciarono a terra quelli ch’erano montati su per le mura; e avvedendosi i capitani della gente di messer Bernabò, che per lo fallo dell’affrettato romore la città era difesa, con vergogna sonarono a ricolta e tornarsi al borgo a Panicale, e indi cavalcate le contrade d’intorno, e fatto assai danno d’arsione presono loro cammino e andarono a Milano; e il signore di Bologna, vedendo il pericolo ch’avea corso, prese miglior guardia.

CAP. LXXIX. Novità state in Udine.

Di questo medesimo mese d’agosto: o che il patriarca d’Aquilea facesse fare gravezze con oppressione al popolo della città d’Udine a lui soggetta, o che il vicario ch’era testa lucchese, chiamato messer Iacopo Morvello, per soperchia baldanza, ch’avea per moglie la figliuola del patriarca, facesse da sè cose sconce, a furore di popolo con l’aiuto d’alquanti terrieri del paese fu preso nel palazzo del comune, e tratto di là, fu racchiuso in prigione, e poco appresso senza processo dicollato, in grande vituperio [103] e vergogna del patriarca, ch’era fratello dell’imperadore.

CAP. LXXX. Come abbondarono grilli in Cipri e in Barberia.

In questo tempo abbondarono nell’isola di Cipri tanti grilli, che riempierono tutti i campi alti da terra un quarto di braccio, e consumarono ciò che verde trovarono sopra la terra, e guastarono i lavori per modo, che frutto non se ne potè avere in quest’anno. E ’l simigliante avvenne questo medesimo anno 1355 in molte parti della Barberia, e massimamente nel reame di Tunisi; ed essendo mancato il pane al minuto popolo di Barberia, metteano i grilli ne’ forni, e cotti alquanto incrosticati li mangiavano i Saracini, e con questa brutta vivanda mantennero la misera vita, ma grande mortalità seguitò di quel popolo.

CAP. LXXXI. Come messer Maffiolo Visconti fu morto da’ fratelli.

Messer Maffiolo de’ Visconti di Milano essendo il maggiore de’ tre fratelli signori di Milano, perchè era dissoluto nella sua vita e senza alcuna virtù era riputato il minore nel reggimento della signoria: tuttavia messer Bernabò e messer Galeazzo gli rendeano assai onore. Avvenne, [104] che per scellerato stemperamento della sua lussuria accolse nella camera sua venti tra donne maritate, e fanciulle, e altre femmine, colle quali, avendole fatte spogliare ignude, si sollazzava a suo diletto con loro bestialmente; e ricordandosi in quello sformato e sfrenato ardore di libidine d’una bella giovane moglie d’un buono cittadino di Milano, mandò per lei, e minacciandolo di farlo morire se immantinente non glie la menasse, o mandasse. Vedendosi questo buono uomo a così villano partito, come disperato piangendo se n’andò a messer Bernabò, e contogli il grave partito a che messer Maffiolo l’avea messo, dicendo, che innanzi volea morire ch’assentire a cotanta sua vergogna, pregandolo che ’l dovesse atare. Messer Bernabò disse: Io non ho a gastigare il mio maggiore fratello, per non mostrare a colui la sua intenzione, e di presente cavalcò all’ostiere di Messer Maffiolo, e trovò la scellerata danza del suo fratello; e senza dire alcuna cosa diede la volta, e accozzossi con messer Galeasso, e disse: Noi corriamo gran pericolo di nostro stato, e le sconce e dissolute cose di messer Maffiolo ci faranno cacciare della signoria, se per noi non si ripara a cotanto pericolo a che ci conduce. E manifestatoli ciò che facea delle donne de’ buoni uomini di Milano, e il richiamo che n’avea avuto, di presente s’accordarono alla morte sua, che altro gastigamento non avea luogo. E però essendo andato messer Maffiolo a Moncia a fare una caccia, la sera di sant’Agnolo di settembre, li feciono dare con quaglie veleno; e la mattina vegnente essendo nella caccia si cominciò a sentir male [105] nel ventre, e di presente se ne tornò a Milano; e vicitato la sera da’ fratelli, la mattina si trovò morto in sù ’l letto. Alcuni dissono, che in quella visitazione e’ fu soffocato da loro, e altri tennono che morisse delle quaglie; e l’una cagione e l’altra potè essere, per non farlo storiare. Il vero fu che morì come un cane, senza confessione, di violenta morte, e forse degnamente per la sua dissoluta vita.

CAP. LXXXII. Come messer Bernabò ebbe la Mirandola.

Dappoichè la bastita da Modena per l’arsione fu ripresa da’ Modenesi, messer Bernabò tenne nelle castella ch’avea acquistate nel Modenese gente d’arme per scorrere il paese, e fare continova guerra a Modena: e oltre a ciò mise a campo tra Reggio e Modena millecinquecento cavalieri e assai masnadieri, i quali assediavano il castello della Mirandola, il quale era di certi gentili uomini loro patrimonio: e non essendo potenti a poterlo lungamente difendere da’ signori di Milano, s’accordarono con loro, e diedono la guardia del castello a messer Bernabò, ed egli li ricevette in amistà, e con provvisione li mise nelle sue guerre. E in questi dì, vedendosi messer Giovanni da Oleggio in pericolo della guardia di Bologna, cercò accordo con messer Bernabò; e messer Bernabò per poterlo rimettere in confidenza, per meglio potere venire alla sua intenzione, s’accordò con lui; e messer Giovanni [106] gli promise di guardare Bologna per lui, e dopo la sua morte gliela lascerebbe, e riceverebbe nella città continuamente un suo potestà. E fece questo messer Giovanni da Oleggio senza volontà o consiglio de’ cittadini di Bologna, sperando rimanere in pace nella signoria, nella quale rimase in continovi aguati, come leggendo per innanzi si potrà trovare: e ricevette in prima per potestà di Bologna il signore della Mirandola sopraddetto.

CAP. LXXXIII. Come i Perugini presono a difendere Montepulciano.

I Sanesi vedendosi avere perduta in tutto la signoria ch’avere soleano in Montepulciano, trattavano della guerra; ed essendo cercato se co’ Sanesi si potea trovare modo d’accordo senza fargliene signori, non trovandosi, i signori che dentro v’erano ritornati, ricordandosi che ’l comune di Siena non avea attenuti i patti promessi loro altra volta sotto la sicurtà e fede del comune di Firenze e di Perugia, a cui i Sanesi l’aveano rotta con inganno assai sconcio e manifesto, al quale i detti comuni senza l’arme non aveano potuto mettere rimedio, e l’arme non aveano voluto pigliare, per questa cagione non si vollono più fidare alla corrotta fede de’ Sanesi; e vedendosi impotenti da difendersi da’ Sanesi, s’accordarono, e misono di volontà del popolo la guardia di Montepulciano con certi patti nelle mani de’ Perugini; e i Perugini vaghi di crescere signoria, [107] e ricordandosi dell’ingiuria ricevuta in Siena per questi fatti di Montepulciano, accettarono la guardia, e incontanente la fornirono di loro soldati a cavallo e a piè per difenderla da’ Sanesi. Questa cosa conturbò molto il comune di Siena, e perciò facendosi la lega che seguitò appresso de’ Toscani, i Sanesi non vi vollono essere, e altre gravi cose ne seguirono, come innanzi si potrà trovare al debito tempo.

CAP. LXXXIV. Come il re d’Inghilterra tornò in Francia.

Quello che seguita è cosa bene strana: essendo il re d’Inghilterra, come poco innanzi avemo contato, ritornato di state nell’isola d’Inghilterra con tutto suo oste e col navilio, e dovendosi secondo usanza della guerra, il navilio e la gente d’arme riposare per la grazia del verno, il detto re di maggiore animo e ardire che altro signore al suo tempo, del mese d’ottobre del detto anno, co’ figliuoli, e colla moglie, e co’ baroni, e con grande moltitudine di suoi cavalieri e arcieri, di subito e improvviso a’ Franceschi valicò a Calese: e di presente fece tre osti, l’una accomandò al conte di Lancastro suo cugino, e questa mandò in Brettagna, e la seconda accomandò al suo maggiore figliuolo duca di Guales, e questa mandò in Guascogna, e l’altra ritenne a sè, per venire verso Parigi, e a catuna comandò che dimostrasse sua virtù, mettendosi innanzi fra le terre del re di Francia ardendo [108] e predando, e facendo dimostranza di valorosi baroni contro a’ loro nemici.

CAP. LXXXV. Come il re d’Inghilterra cavalcò il reame fino ad Amiens.

Mandato ch’ebbe il re d’Inghilterra i detti baroni, catuno con grande compagnia di cavalieri e d’arcieri nel reame di Francia, egli in persona si mosse da Calese colla sua oste, e avviossi verso Parigi dov’era il re di Francia, e guastando le ville del paese con fuoco, facendo grandi prede se ne venne ad Amiens, e ivi s’arrestò alquanti dì. Ma vedendo che ’l soprastare gli era pericoloso per la gran cavalleria che ’l re di Francia apparecchiava contro a lui, e perchè i passi del suo ritorno erano da potere essere occupati, sopravvenendo la gente del re di Francia, a grave suo pericolo, come savio guerriere raccolse tutta la sua gente e tutta la preda ch’avea fatta, e senza contasto sano e salvo colla sua oste si tornò a Calese in dieci dì dalla sua mossa. Il conte di Lancastro entrò colla sua oste in Brettagna e cavalcò il paese, facendo danno assai e grandi prede, e stettevi più tempo: poi si raccolse colla sua oste, e con gran preda tornossi a salvamento.

[109]

CAP. LXXXVI. Della materia degl’Inghilesi medesima.

Il valente prenze di Guales colla sua compagnia di tremila cavalieri e quattromila arcieri mosso da Calese, a gran giornate si mise in Tolosana, e trovando i paesi sprovveduti del suo subito avvenimento, fece in Tolosana molte grandi prede, e con fuoco guastò molto paese; e senza arrestarsi in Tolosana cavalcò a Carcasciona, e vinse e prese l’antica città di Carcasciona, fuori che la rocca della villa, ch’era un forte castello; e recato in preda ciò che potè fare portare, arse la maggior parte della villa, e cavalcò più innanzi in Bideurese, e arse e fece preda grande senza contasto, e della sua gente corse insino presso a Mompelieri a poche leghe, e dimostrava di voler venire insino a sant’Andrea dirimpetto a Avignone, il Rodano in mezzo, e forte se ne temette nella corte di Roma; ma il papa gli mandò a dire che non venisse più innanzi, e incontanente per ubbidire al santo padre si tornò addietro, essendo stato nuovo flagello di quel paese, che memoria non v’avea per i viventi a quel tempo ch’altra guerra gli avesse molestati. Il conestabile di Francia, ch’era allora messer Giacche figliuolo del duca di Borbona, giovane cavaliere e di gran cuore, avendo accolta assai gente d’arme, in compagnia del conte d’Armignacca, e del conte di Foci e di più altri baroni del paese, [110] sentendo tornare per quel paese il duca di Guales con tutta la preda, ch’era più di mille carrette cariche dell’avere de’ paesani, e più di cinquemila prigioni, si volle abboccare con gl’Inghilesi per combattere con loro per riscuotere la preda. Il conte d’Armignacca e gli altri baroni non vollono e non acconsentirono al conestabile, parendo loro avere disavvantaggio per la buona compagnia de’ franchi guerrieri ch’erano con il duca di Guales. Il giovane e franco barone ne prese sdegno, e cavalcò a Parigi e rifiutò l’uficio, e allora fu fatto conestabile il duca d’Atene conte di Brenna. Il valente duca di Guales intese a conducere la sua preda, ch’era oltre a modo grande, e sentendo i nemici appresso, come fu alla selva di Crugnì per maestria di guerra vi nascose una parte di sua gente in aguato, e i Franceschi vi mandarono ad imboscare, non sapendo degl’Inghilesi che v’erano, messer Astorgio di Duraforte con mille cavalieri, i quali entrando nella selva furono di subito assaliti dagl’Inghilesi che prima v’erano riposti, che poco sostennono, che furono sconfitti e sbarattati con loro danno, e d’allora innanzi non trovarono gl’Inghilesi contasto, e ricchi di preda, sani e salvi si tornarono a Bordello in Guascogna, del mese di novembre del detto anno.

[111]

CAP. LXXXVII. Come morì il re Lodovico di Cicilia, e l’isola rimase in male stato.

Di questo mese di novembre anno detto, Lodovico di Cicilia primogenito di don Pietro si morì molto giovane, e poco appresso di lui si morì il seguente suo fratello detto duca Giovanni, e de’ tre fratelli rimase Federigo il minore, il quale la setta de’ Catalani recarono appo loro, per potere sotto il titolo d’avere a governare il giovane, a cui s’appartenea il regno, aggiugnersi maggiore forza. Ma per questo l’altra setta degl’Italiani si feciono più strani contro al duca Federigo, e diventarono più animosi contro alla setta de’ Catalani. E per la detta maladizione di divisione e tempesta tanto intestina battaglia era nell’isola, che gli abitanti di catuna terra erano in fatica d’avere del pane per vivere, e consumavansi d’inopia e di carestia; e di questo seguitò poi grande novità nell’isola, come al suo tempo racconteremo.

CAP. LXXXVIII. Come in Napoli fu romore.

A’ Napoletani parendo essere gravati de’ danari pagati per la compagnia e d’alcune altre gravezze, del mese di novembre del detto anno, per mostrare la potenza e la franchigia di quella [112] città, tutti di concordia presono l’arme, e feciono armare tutti i forestieri mercatanti e artefici ch’erano nella città, e levarono il romore, gridando: Viva la reina, e muoia il suo consiglio. E di questo tumulto seguitò solamente, che la misura del sale fu alcuna cosa consentita loro migliore mercato: convenevole prezzo di cotanto movimento, non volendosi francare dell’antica consuetudine della loro natura, che come sono pieni di furore per ambizioso vento, così poco mantengono l’ira, che li riduce a pace.

[113]

LIBRO SESTO

CAPITOLO PRIMO. Il Prologo.

Perocchè ’l sesto libro del nostro trattato nuova e non pensata materia di guerra nel suo principio con seguito di gran cose in breve tempo ci apparecchia, ci fa pensare come e quanto lo stato della tirannesca signoria è pieno d’aguati e di calamitosa vita. Le loro scellerate operazioni sempre combattono e spesso abbattono le virtù de’ buoni: i loro diletti sono dissimiglianti a’ buoni costumi: per loro s’abbattono le ricchezze de’ sudditi; nimicano gli uomini che crescono nella loro giurisdizione in magnanimità e in senno; assottigliano con incarichi la sustanza de’ popoli: la loro sfrenata libidine non prende saziamento dal fatto, ma quanto il piacere della vista richiede, tanta in fatto a’ sudditi contro all’onesto debito conviene sostenere e patire. Ma perocchè in queste e molte altre maligne operazioni le violenti tirannie si manifestano, non richieggiono da noi nuovo raccontamento. Ma traendone una parte assai strana nell’apparenza e assai dimestica nel fatto, qual’è più maravigliosa [114] vista, guardando nella tirannesca gloria, a vedere antichi e nobili principi naturali ubbidienti a’ tiranneschi servigi, e uomini d’alti lignaggi e d’antica nobiltà usare le mense di coloro, e prendere le loro provvisioni? Ma se guardare vogliamo l’uscimento delle cose, quella gloria spesso si converte in calamitosa miseria. Chi la può disegnare maggiore? che i tiranni medesimi non sanno nè possono in alcuno riposare la loro fede, ed eglino al continovo aspettano il cadimento del tiranno, e lievemente si dispongono e accordano alla loro distruzione, non ostante le sopraddette cose. E questo non si trova avvenire nelle reali e naturali signorie, perocch’e’ loro fatti ne’ sudditi, e nelle loro virtù e cose son contrarie a’ tiranni. Dunque come le tirannie si criano, com’elle esaltando si fortificano e crescono, così in esse si nutrica e nasconde la materia della loro confusione e ruina. Certo intra l’altre questa è grandissima miseria de’ tiranni: e perocchè al presente ci occorre alcuna cosa di ciò manifestare in fatto non di lieve movimento, come seguirà appresso nostro volume, basti narrando quella avere fatto certa prova al nostro proponimento.

CAP. II. Come nacque briga da’ Visconti e que’ di Pavia e di Monferrato.

Certa cosa è, che il marchese di Monferrato per vicinanza e per larghe provvisioni de’ tiranni [115] di Milano, e i signori da Beccheria di Pavia parenti stretti e dimestichi della loro mensa, per lunghi tempi uniti colla casa de’ Visconti signori di Milano, e nelle loro guerre stati i principali aiutatori, e in questo tempo valicando Carlo d’Osteric re de’ Romani in Lombardia, come già è detto, il marchese, non ostante ch’e’ fosse soggetto all’imperio, venne a Milano per dare aiuto e favore a’ signori con seicento cavalieri di buona gente d’arme, e que’ da Beccheria anche vi mandarono loro sforzo. Avvenne, che un dì essendo il marchese in Piacenza in compagnia di messer Maffiolo Visconti, ch’allora vivea, un suo scudiere andò in cucina al cuoco di messer Maffiolo per un tagliere di vivanda: il cuoco villanamente gliel contradicea: lo scudiere sdegnoso diede una gotata al cuoco, e portonne la vivanda; il cuoco di presente se n’andò a dolere a messer Maffiolo suo signore. Il tiranno mosso a furore non considerò suo onore, nè quello di tant’uomo quant’era il marchese, e senza dirli alcuna cosa, avendolo in sua compagnia, fece prendere lo scudiere, e in quell’istante tagliarli la mano; della qual cosa il marchese fu molto turbato, ma ritenne con virtù nel petto il grave sdegno. Questo li rinnovò nella mente certo oltraggio che la famiglia di messer Galeazzo Visconti per maggioranza avea fatto alla sua gente che vicinavano con sue terre, la quale cosa con senno avea trapassata insino allora. E ancora di nuovo sentiva, come al continovo per nuovi dispetti la gente di messer Galeazzo oltraggiava i detti sudditi che vicinavano con loro, [116] e il signore il sentiva, e vedea l’onore che ’l marchese facea alla loro signoria, e per arrogante maggioranza mostrava d’esserne contento; onde turbato il marchese, cambiò l’animo, ed essendo con quelli da Beccheria una cosa, s’intesono insieme, essendo l’imperadore futuro a Mantova, e ancora, con lui s’intesono in segreto. E trattando l’imperadore co’ signori di Milano di volere prendere la corona a Moncia, sentirono i Visconti, che se non s’accordavano con lui, che quelli da Beccheria erano acconci di riceverlo in Pavia; onde i signori concepettono contro a loro; per la qual cosa poterono comprendere, che partito l’imperadore, a loro converrebbe mutare stato. E tornando l’imperadore coronato da Moncia in Milano, i signori feciono molti cavalieri, e in questo stante il marchese cavalcò subito a Pavia, e menò seco due di quelli da Beccheria e feceli fare cavalieri all’imperadore, e questo accrebbe l’izza e la malavoglia a’ tiranni. Poi partito l’imperadore il marchese se n’andò via, e quelli da Beccheria rimasono in gran sospetto de’ signori di Milano, e stavanne in più guardia che non soleano. E dalle sopraddette cose seguitarono le ribellioni e le nuove guerre che appresso seguirono a’ signori di Milano, come seguendo nostro trattato per li tempi racconteremo.

[117]

CAP. III. Come si rubellarono terre di Piemonte.

Il marchese di Monferrato avendo ordinato co’ signori di Pavia che si fortificassono di gente e di buona guardia, acciocchè i tiranni vicini non li potessono improvviso sorprendere, tornato nelle sue terre, procacciò aiuto di gente d’arme da certi baroni tedeschi di sua amistà, e con suoi trattati (ch’era molto amato da quelli del Piemonte e dalla sua gente) trovandosi forte di cavalieri e favoreggiato dall’imperadore, del mese di dicembre, gli anni di Cristo 1355, fece rubellare nel Piemonte a messer Galeazzo de’ Visconti di Milano Chieri e Carasco; e poco appresso del mese di gennaio fece rubellare al detto tiranno la ricca terra d’Asti, e appresso Albi, Valenza, e Tortona, e più altre terre del Piemonte, e tutti i popoli di quelle d’un animo, con ordine di mantenere la difesa, feciono loro capitano il detto marchese. Messer Galeazzo vi mandò incontanente molta gente d’arme a cavallo e a piè credendo ricoverare delle terre; il marchese era provveduto di buona gente, e coll’aiuto de’ Piemontesi si fece loro incontro alle frontiere, e in alcuni abboccamenti fece vergogna alla gente di messer Galeazzo, e difese bene i Piemontesi. Allora quelli da Beccheria, ch’erano confederati nella amistà e compagnia del marchese, non si poterono più coprire, e però in aperto si fortificarono di gente e d’altre cose, aspettando l’impeto [118] dell’ira e della forza de’ tiranni contro a loro, non dimostrando però di volere essere i movitori della guerra, ma apparecchiati alla difesa. Lasceremo alquanto questa materia per raccontare al suo tempo con più chiarezza le cose che ne seguitarono, e diremo degli altri fatti che prima occorrono alla nostra materia.

CAP. IV. Come i Fiorentini feciono lega contro la compagnia.

E’ m’incresce di scrivere quello ch’ora seguita, perocchè ’l nostro comune delle leghe e delle compagnie c’ha usato di fare co’ comuni di Toscana, al bisogno sempre s’è trovato ingannato, nondimeno il fatto narreremo. Sentendosi già per tutta Italia che ’l conte di Lando colla compagnia ch’aveva nel Regno era per venire al primo tempo nella Marca, e valicare in Toscana, i Fiorentini volendo riparare ch’ella non facesse ricomperare i comuni di Toscana, mandarono a Perugia, e a Pisa, e a Siena, e all’altre minori comuni di Toscana, richieggendo i detti comuni, che per beneficio di tutti parea loro di fare una lega e una taglia di duemila cavalieri il meno, i quali fossono al tempo apparecchiati interi e cavalcanti al servigio della detta lega contro alla compagnia, o a chi venisse a fare guerra sopra alcuna città di quelle della lega. E a ciò feciono muovere i detti comuni per loro ambasciadori, e durò il trattato lungamente, sturbandolo i Sanesi [119] per l’izza ch’aveano presa co’ Perugini per l’impresa di Montepulciano; in fine, essendo la cosa cominciata al principio di gennaio, del mese di febbraio del detto anno ebbe compimento in questo modo tra’ Fiorentini, e’ Pisani, e’ Perugini: che la lega dovesse durare tre anni, e la taglia fosse di milleottocento cavalieri, ottocento de’ Fiorentini, cinquecentocinquanta de’ Pisani, e quattrocentocinquanta de’ Perugini; con patto ch’e’ Sanesi vi potessono entrare colla loro parte della taglia de’ cavalieri, e che del mese d’aprile fossono pagati e apparecchiati, e che l’uno comune dovesse fare rassegnare i cavalieri dell’altro. La lega fu ferma e fatta, l’effetto che ne seguitò fa manifesto quello che poco innanzi n’avemo detto.

CAP. V. Come gli Scotti presono Vervic.

Essendo tornato il re d’Inghilterra a Calese dalla cavalcata ch’avea fatta ad Amiens, come poco innanzi abbiamo detto, i baroni di Scozia sentendo il re, e i figliuoli, e’ baroni, e tutta la forza del re d’Inghilterra valicati nel reame di Francia, e cominciatovi grande guerra, non ostante che il loro re vi fosse in prigione, prestamente accolsono molta gente d’arme a cavallo e a piè, e improvviso agl’Inghilesi se ne vennono a Vervic, grande e forte terra degl’Inghilesi, situata agli stremi de’ confini di Scozia; e giugnendo alla città sprovveduta, [120] per forza v’entrarono dentro e presono la terra, ma il castello del re che v’era forte e bene guernito non poterono avere; ma com’ebbono presa la terra, la lasciarono guernita di loro gente, e per savia provvisione con tutta loro oste si misono innanzi, e presono una montagna onde il soccorso degl’Inghilesi potea venire alla terra, e non d’altra parte, e ivi s’accamparono per contradire agl’Inghilesi il passo. Era in que’ dì il conte di Lancastro già tornato in Inghilterra, il quale di presente cavalcò nel paese colla sua gente, ma non ebbe podere di levare gli Scotti dal passo. Il re Adoardo sentendo la novella degli Scotti, incontanente valicò nell’isola con quella gente che subitamente potè muovere, e senza arresto se n’andò contro a’ nemici che teneano il passo della montagna, e aggiuntosi il conte di Lancastro colla sua gente, non ostante che grande fosse il loro disavvantaggio ad avere a combattere i nemici all’erta, colla sua persona si mise innanzi, e diede tanto conforto a’ suoi, ricordando loro le vittorie avute sopra gli Scotti e la loro viltà, che con tanto ardore d’animo, e con tanto duro assalto d’ogni parte li percossono, che per forza li ributtarono della montagna; e senza avere cuore di rifare testa alla terra ch’aveano presa l’abbandonarono in tanta fretta, che la preda ch’aveano accolta non ne portarono, e assai de’ loro Scotti vi lasciarono morti e presi per ricordanza. E questo fu del mese di gennaio del detto anno. Allora fece il re racconciare la terra, e fornire di miglior guardia.

[121]

CAP. VI. D’un trattato fatto per racquistare Bologna.

Messer Bernabò de’ Visconti di Milano avendo la mente attenta a trovar modo di racquistare Bologna, e di vendicarsi di messer Giovanni da Oleggio; quanto che per l’accordo fatto si dimostrasse amico, diede boce e dimostrò manifesto segno di volere guerreggiare in sul Ferrarese; e mandò messer Arrigo figliuolo di Castruccio che fu tiranno di Lucca in Romagna, a conducere al suo soldo mille barbute della compagnia ch’allora era nel paese, il quale avea caparrati i conestabili, e intesosi secondo il segreto a lui commesso da messer Bernabò col capitano di Forlì, e col signore di Ravenna, e con alquanti degli Ubaldini in cui si confidava, e ancora s’intendea col podestà di Bologna, ch’avea nome messer Ramondo de’ Ramondi di Parma, ed erano in questo trattato certi caporali di quelli da Pagano, e altri Bolognesi confidenti di messer Bernabò. Il modo era, che la forza del tiranno dovea venire da Milano sul Ferrarese secondo la palese boce, e già era messer Bernabò venuto in persona a Parma con duemila cavalieri, e come messer Bernabò fosse in sul Ferrarese, messer Arrigo di Castruccio co’ cavalieri condotti di Romagna, e coll’aiuto de’ Romagnuoli e degli Ubaldini, essendo provveduti e apparecchiati, doveano il dì nominato, essendo messer Bernabò in sul Ferrarese, valicare [122] sopra Bologna da quella parte, e messer Arrigo colla sua compagnia venire dall’altra, e allora il podestà, e que’ da Pagano con gli altri Bolognesi confidenti doveano levare il romore nella città, e con loro quattordici conestabili di cavalieri che tenevano a questo trattato; e costoro, ch’erano soldati di messer Giovanni, nel romore doveano trarre a lui, e ucciderlo se potessono, e se non, si doveano strignere dall’una parte della città, e aprire e spezzare la porta, e mettervi dentro quella gente di fuori che più avessono di presso. Questo trattato era segreto per li palesi verisimili della vicina impresa della guerra di Ferrara, alla quale il marchese prendea ogni riparo che potea; ma come fu piacere di Dio, per lo meno male, la cosa fu rivelata per strano e non pensato modo come appresso diviseremo.

CAP. VII. Come si scoperse il trattato di Bologna, e fevvisi giustizia.

In Bologna era tornato di Romagna messer Arrigo di Castruccio, avendo fornito e messo in punto ciò che gli era stato commesso, e ivi era venuto per intendersi con gli altri traditori. Avvenne, che, all’entrata del mese di Febbraio del detto anno, Francesco de’ Roaldi di Bologna, grande cittadino e molto confidente di messer Giovanni da Oleggio, tanto ch’al continovo ricevea provvisione da lui, essendo in questo trattato, confidandosi nel suo senno, volendosi sgravare [123] della sua provvisione, se n’andò a messer Giovanni, e per me’ coprire quello che sentiva in sè, disse: Signor mio, pigliate ne’ vostri fatti buona guardia, perocch’io sento che molti uomini, e oltre al modo usato, sono venuti della montagna nella città in questi giorni; e a dirli questo il movea la tenerezza ch’avea nell’animo del suo stato e onore, per lo beneficio ch’avea ricevuto e ricevea da lui. Il tiranno il commendò di questo fatto, e ringrazionnelo assai, e dopo questo confortò della buona guardia. Messer Francesco entrando in altra materia disse a messer Giovanni: Signor mio, io vi prego che vi piaccia di darmi licenza, ch’io possa prendere altrove mio vantaggio, perocchè della provvisione ch’io ho da voi non posso comportare la vita mia a onore. Il tiranno si maravigliò di questo, perocchè gli avea assegnate grandi provvisioni e altri gaggi, e ricordogli le dette cose, e ancora li promettea al tempo maggiori, e nondimeno messer Francesco pure gli domandava licenza. Il tiranno gli disse, che si ripensasse, e poi tornasse a lui; e a tanto si partì messer Francesco. Messer Giovanni mandò incontanente alle porti, e fece sapere chi a que’ giorni vi fosse entrato oltre all’usato modo, e trovò che non v’erano entrati contadini nè altra gente oltre al modo usato, e così se n’erano usciti. E per questo cominciò a maravigliarsi più del movimento di messer Francesco de’ Roaldi, e sospicciando mandò per lui; e quando l’ebbe seco, il tiranno finse di sapere che sentisse contro a lui alcuno trattato. Il savio cavaliere veggendosi preso [124] dall’astuzia, pensò che senza grave tormento non potea passare mettendosi al niego, e però di cheto gli confessò e manifestò tutto il trattato. Il tiranno senza arresto mandò per lo potestà, e per messer Arrigo di Castruccio ch’era in Bologna, e per que’ caporali da Pagano, e a avuti costoro disse, e a certi degli Ubaldini ch’era no in quel servigio, ch’e’ perdonava loro per vicinanza e per molti servigi ch’avea ricevuti da quella casa, ma comandò loro che incontanente si dovessono partire, e così fu fatto. E abboccando messer Giovanni i traditori insieme, fu da loro al tutto chiaro del trattato sopraddetto: e a dì 12 di febbraio, non trovando il tiranno chi volesse fare la condannagione nè l’esecuzione, fece podestà messer Tassino de’ Donati rubello di Firenze; costui li condannò; e Sinibaldo di messer Amerigo Donati di Firenze, allora in bando e al soldo del tiranno, con dugento fanti tutti armati a corazze fece tagliare la testa a messer Arrigo, figliuolo che fu di Castruccio signore di Lucca e di Pisa, e a messer Bernardo e a Galeotto da Pagano, e a messer Ramondo Ramondi da Parma podestà di Bologna, e a Francesco de’ Roaldi di Bologna; e appresso, a dì 20 del detto mese, ne furono decapitati diciassette tra conestabili de’ soldati e famigli de’ traditori. E fatto questo, messer Giovanni rimase in maggior paura, e in gran sospetto di messer Bernabò di Milano.

[125]

CAP. VIII. Come il signore di Bologna fece lega.

Era insino a qui messer Giovanni da Oleggio, poichè avea fatta la pace e la concordia con messer Bernabò, stato in fede ne’ suoi servigi, e intesosi con lui e ricevuto in Bologna le sue podestà, e attendea dopo la sua morte lasciarli Bologna, come gli avea promesso, ma vedendo questo mortale trattato contro a sè, non pensò potersi mai più fidare de’ signori di Milano, e conobbe, che a volersi meglio potere guardare gli convenia essere loro mortale nemico, e però incontanente si rifornì di nuove masnade di cavalieri e di masnadieri. Ed essendo in guerra il signore di Mantova e il marchese di Ferrara col Biscione, ch’allora era così chiamata la tirannia di Milano per la loro arme, si collegò con loro, e promise d’essere sempre contro alla casa de’ Visconti di Milano, e mandò la sua gente a fare loro guerra con gli altri collegati.

CAP. IX. Come l’oste del Biscione ch’era a Reggio si levò in isconfitta.

A Reggio era stata lungamente l’oste de’ signori di Milano in una forte bastita presso alla terra, nella quale avea ottocento cavalieri e grande popolo, e in quel tempo vi s’aspettava il [126] fornimento della vittuaglia da Parma con grande scorta. Il marchese di Ferrara, e quegli di Mantova, e ’l signore di Bologna sentendo quell’apparecchio, accolsono loro gente per impedire la scorta a loro podere; e avendo a Modena seicento barbute e cinquecento masnadieri, il signore di Bologna n’aggiunse dugento cavalieri e cinquanta masnadieri; e avendo lingua come la vittuaglia in dugento carra colla scorta dovea l’altro dì venire alla bastita, cavalcarono la notte per modo, che essendo giunta l’altra parte alla bastita, e messavi la roba, tornandosene senza sospetto, costoro li assalirono sprovveduti, i quali non feciono retta, e quasi tutti furono presi, i buoi e le carra in preda. E avuta subitamente questa vittoria, con grandi grida e con maggiore baldanza percossono alla bastita dalla parte di fuori; e quelli di Reggio ch’aveano veduta la vittoria della loro gente francamente li assalirono dalla parte d’entro, e combattendo la bastita d’ogni parte, in fine per forza v’entrarono dentro, ed ebbono a prigioni i cavalieri e’ masnadieri che quella guardavano, e pochi ne poterono campare; e messa la vittuaglia e l’arme, e tutti i prigioni guadagnati in Reggio, arsono in tutto la bastita: e riposati alcuno dì la gente in Reggio, cavalcarono infino a Parma, e valicarono quella facendo grandi prede e danno a’ paesani: e del mese di febbraio del detto anno, con grande onore e ricca preda, in vergogna de’ tiranni di Milano, si ritornò catuna gente a’ suoi signori senza trovare alcuno contasto.

[127]

CAP. X. Come i Chiaravallesi di Todi tenevano trattato col prefetto.

Del mese di febbraio del detto anno, i Chiaravallesi di Todi per provvisione del comune tornarono a’ loro beni, e potendo colle loro persone usare la cittadinanza, cercavano, come mal contenti, trattato col prefetto di Roma di metterlo in Todi per farlone signore; e non potendo menare eglino questo perchè erano sospetti, il feciono menare a un messer Andrea giudice di Todi loro confidente. Il trattato si scoperse, e al giudice fu tagliata la testa. I Chiaravallesi avvedendosi che il comune di Todi per questo prendea di loro maggiore sospetto, temendo di non essere corsi un dì a furore, da capo uscendo della città, presono il castello di Toscina l’aprile seguente, e rubellaronlo al comune.

CAP. XI. Come morì messer Pietro Sacconi de’ Tarlati.

Essendo messer Pietro Sacconi de’ Tarlati d’Arezzo in età decrepita intorno al centinaio degli anni, e malato a morte, in questi dì si disse pubblico, ch’e’ pensò di non volere morire che non ordinasse prima alcuno nobile fatto del suo antico mestiere: e ordinò con Marco suo figliuolo, dicendo: Ora, che si crede che tu [128] sia imbrigato intorno alla mia malattia, e che altri non prenderà guardia di te, procaccia di furare Gressa al vescovo d’Arezzo e agli Ubertini. Il figliuolo ubbidì al consiglio del padre, e molto segretamente accolse gente, e di furto entrò nel castello di Gressa, ma essendovi gli Ubertini forti, per forza ne lo pinsono fuori; e forse per dolore che messer Pietro n’ebbe s’avacciò la sua dispettosa e non contenta morte, lasciando nuova guerra tra’ suoi Tarlati e gli Ubertini per questo furto. Pro’ e valente uomo fu e avvisato, in fatti di guerra, ma più in operazioni di trattati, e di furti e di subite cavalcate, che in campo o in aperta guerra; e’ fu fortunato contro agli altri suoi nemici, e infortunato contro al comune di Firenze, e per animosità di parte ghibellina non seppe tener fede.

CAP. XII. Come scurò tutto il corpo della luna.

Martedì notte alle ore quattro, a dì 16 di febbraio anno 1355, cominciò la scurazione della luna nel segno dell’Aquario, e alle cinque ore e mezzo fu tutta scurata, e bene dello spazio d’un’altra ora si penò a liberare. E non sapendo noi per astrologia di sua inflenza, considerammo gli effetti di questo seguente anno, e vedemmo continovamente infino a mezzo aprile serenissimo cielo, e appresso continove acque oltre all’usato modo il rimanente d’aprile e tutto il mese di maggio, e appresso continovi secchi e stemperati [129] caldi insino a mezzo ottobre. E in questi tempi estivali e autunnali furono generali infezioni, e in molte parti malattie di febbri e altri stemperamenti di corpi umani, e singularmente malattie di ventre e di pondi con lungo duramento. Ancora avvenne in quest’anno un disusato accidente agli uomini, e cominciossi in Calavria a Fiume freddo e scorse fino a Gaeta, e chiamavano questo accidente male arrabbiato. L’effetto mostrava mancamento di celabro con cadimenti di capogirli con diversi dibattimenti, e mordeano come cani e percoteansi pericolosamente, e assai se ne morivano, ma chi era provveduto e atato guariva. E fu nel detto anno mortalità di bestie dimestiche grande. E in quest’anno medesimo furono in Fiandra, e in Francia e in Italia molte grandi e diverse battaglie, e nuovi movimenti di guerre e di signorie, come leggendo si potrà trovare. E nel detto anno fu singulare buona e gran ricolta di pane, e più vino non si sperava, perchè un freddo d’aprile l’uve già nate seccò e arse, e da capo molte ne rinacquono e condussonsi a bene, cosa assai strana. E da mezzo ottobre a calen di gennaio furono acque contino ve con gravi diluvi, e perdessene il terzo della sementa, ma il gennaio vegnente fu sì bel tempo, che la perduta sementa si racquistò. I frutti degli alberi dimestichi tutti si perderono in quest’anno. Non ne avremmo stesa questa memoria se la scurazione predetta non vi ci avesse indotto.

[130]

CAP. XIII. Come la gran compagnia presono Venosa.

La compagnia del conte di Lando ch’avea avuta la prima paga dal re Luigi, e dovea attendere l’altre paghe in Puglia senza far danno a’ paesani, vernava di là, e non faceva guerra; ma la fede, vedendosi il destro, non seppe per promessa o saramento ch’avessono fatto osservare: e però entrarono in Rapolla, e presa la terra la spogliarono d’ogni sustanza, e consumarono colle persone e co’ cavalli ciò che da vivere vi trovarono; e appresso, del mese di febbraio predetto, per aguato di furto presono la città di Venosa, e fecionne il simigliante. E questa è la fede delle compagnie, che ogni cosa fanno licito alla corrotta volontà della preda, e però è folle chi alle loro promissioni si fida.

CAP. XIV. Come il legato bandì la croce contro al capitano di Forlì.

In questo tempo del verno, messer Gilio cardinale di Spagna legato di santa Chiesa, avendo prosperamente racquistato a santa Chiesa il Patrimonio, la Marca d’Ancona, e ’l ducato di Spoleto, e la maggior parte della Romagna, restavagli a racquistare Forlì e Faenza, e le terre vicine e de’ loro distretti, le quali tenevano occupate [131] per loro tirannie Francesco degli Ordilaffi capitano di Forlì, e messer Giovanni di messer Ricciardo Manfredi; e non trovando il detto legato concordia con loro, ordinò contro a’ detti suo processo, e seguitollo fino alla sentenza, perocchè tornare non vollono all’ubbidienza. E pubblicata per Italia la loro dannazione, e fattili scomunicare, avendo dal papa lettere d’indulgenza con piena remissione de’ peccati e della pena a chi fosse contrito e confesso, fece bandire la croce contro Francesco Ordilaffi tiranno di Forlì, e di Forlimpopoli e di Cesena, e contro a Giovanni e Rinieri de’ Manfredi tiranni di Faenza, condannati per eretichi e ribelli di santa Chiesa, potendo il cavaliere e il pedone partecipare in due anni il servigio d’un anno in arme contro a loro. Ordinati furono i predicatori, e’ collettori delle provincie e delle città, e incontanente l’avarizia de’ cherici cominciò a fare l’uficio suo, e allargarono colla predicazione l’indulgenza oltre alla commissione del papa, e cominciarono a non rifiutare danaio da ogni maniera di gente, compensando i peccati e i voti d’ogni ragione con danari assai o pochi come gli poteano attrarre; e per non mancare alla loro avarizia, sommoveano nelle città e ne’ castelli e nelle ville ogni femminella, ogni povero che non avea danari, e dare panni lini e lani, e masserizie, grani e biada, niuna cosa rifiutavano, ingannando la gente con allargare colle parole quello che non portava la loro commissione; e così davano la croce, e spogliavano le ville e le castella più che [132] non poteano fare le città, ma nelle città le donne e le femmine valicavano tutta l’altra gente, e per questa maniera davano la croce: e ’l termine della guerra cominciava in calen di maggio gli anni 1356. Della città di Firenze e del contado un frate de’ Romitani vescovo di Narni trasse grandissimo tesoro, del quale non potendo il cardinale avere diritto conto, lungo tempo tenne in prigione il detto vescovo in un suo castello nella Marca, guardato alle spese del detto vescovo.

CAP. XV. Come il conte Paffetta fu da’ Pisani messo in prigione.

Egli è assai utile cosa agli uomini considerare contro alla malizia e alla superbia de’ grandi cittadini, quando possono far male e abbattere gli altri, ch’e’ medesimi sono sottoposti a quella medesima calamità e fortuna; ma provarlo per esperienza gli ne fa più certi, e a quelli c’hanno a venire ne rimane migliore esempio. Detto abbiamo come la malizia di messer Paffetta conte di Montescudaio cittadino di Pisa, colla perversa operazione fece morire e cacciare i Gambacorti di Pisa, e sè fece il maggiore di quella città; avvenne che gli altri cittadini, cui egli avea rimessi al governamento del comune, parendo loro che messer Paffetta fosse troppo grande, si legarono e feciono setta contro a lui segretamente, e un dì, essendo messer Paffetta andato agli anziani, come ordinato era, gli anziani [133] mandarono di subito a fare pigliare certi cittadini caporali della sua setta e stretti suoi confidenti, e altri di suo seguito intorno di cinquanta, e di presente li mandarono a’ confini, facendoli uscire della città, e messer Paffetta con alcuno altro mandarono in prigione nell’Agosta a Lucca; e messolo in carcere sotto buona guardia, rivocarono i confini agli altri e fecionli ritornare, senza fare altra novità o mutazione di loro stato. Parve a tutti rimanere più sicuri, e in migliore essere nella cittadinanza, che in prima; e questo fu all’entrata del mese d’aprile, e ancora non era compiuto l’anno ch’egli avea abbattuti i Gambacorti e gli altri buoni cittadini di Pisa. Era in Pisa il vicario sostituto del vicario dell’imperadore, il quale consentì a tutto, essendoli fatto intendere che messer Paffetta volea con certo trattato dare Pisa a’ signori di Milano: grande loro amico era, ma altro vero non se ne potè trovare; e stato alquanto in prigione, per tema che l’imperadore non lo ne facesse trarre, o i signori di Milano, di veleno, o d’altra violente morte, celatamente lo feciono morire in prigione.

CAP. XVI. Come gli Aretini riposono certe fortezze.

Gli Aretini sentendo morto messer Piero Sacconi de’ Tarlati loro nemico, il quale lungo tempo gli avea tenuti in guerra e in gran paura, contro al quale non s’ardivano a muovere vivendo, [134] incontanente dopo la sua morte, del detto mese di febbraio del detto anno, uscirono a oste, e riposono una tenuta contro al castello di Gaerina, e un’altra contro a Bibbiena, e una sopra Pietramala, e tanto stettono a campo, che tutte e tre furono fortificate e fornite, acciocchè i Tarlati non potessono correre sopra loro a loro volontà, com’erano usati di fare. E per la baldanza presa per la morte d’un decrepito vecchio, non avendo avuto ardire di farlo a sua vita, ordinarono tra nella città e nel contado tremila uomini a corazze, e trecento balestrieri e centocinquanta barbute, per potere mantenere il loro contado più sicuro, e guerreggiare i nemici. Abbianne fatta memoria per una cosa assai nuova, considerando che un uomo vecchio tenesse in freno e in paura così antica e gran città, che non pensavano in fatti di guerra potere resistere alla sua persona.

CAP. XVII. Di nuove rivolture della gran compagnia.

Stando la compagnia del conte di Lando a vernare in Puglia con grande abbondanza d’ogni bene da vivere, aspettando dal re Luigi la moneta promessa, per lo patto ch’avea di doversi partire al maggio prossimo e uscire del regno, una parte di loro con certi conestabili intorno di cinquecento barbute, contentandosi male d’aversi a partire del paese, senza tenere promessa al re o fede all’altra compagnia si rubellarono da essa, [135] e accostati al conte di Minerbino detto Paladino, se n’andarono per sua condotta in terra d’Otranto, ove per lunghi tempi passati non era sentita guerra, e di presente presono due castella nel paese piene di molta vittuaglia, e preda quanta ne poterono guardare di bestiame grosso e minuto, del quale poterono avere l’uso, ma non danari. Il conte di Lando si dolse al re Luigi del tradimento fatto per costoro, e offerse sè e l’altra compagnia al servigio del re contro a que’ ribelli, e contro a tutti i baroni che non volessono ubbidire alla corona. Il re, e il suo consiglio, e il gran siniscalco, credendosi fare meno male, accettarono la profferta, e una parte della compagnia con certa condotta de’ suoi uficiali mandò in Abruzzi per fare ubbidire alquanti comuni e baroni, i quali così rubavano e predavano il paese come se fossono nel servigio della compagnia e non in quello del re, e tanto più sicuramente, perchè niuno s’era provveduto contro a loro: e quelli ch’erano rimasi col conte di Lando volevano pur vivere largo all’altrui spese. E così nella concordia, come nella guerra, erano d’ogni parte i regnicoli mal trattati.

CAP. XVIII. Di grandi gravezze fatte dal re di Francia nel suo reame.

In questo verno, vedendosi il re di Francia la guerra degl’Inghilesi addosso, e spogliare da’ forestieri il reame, come già abbiamo narrato, pensando [136] avere a moltiplicare la spesa, oltre alle colte de’ feudi delle città del reame e de’ baroni, e oltre alle gravezze dell’usate reve, e del gran danno fatto a’ sudditi del reame di cambiare le buone monete d’oro e d’argento in ree contro all’usanza di quel regno, ordinò, e pose per modo di gabelle, ch’ogni mercatanzia che si comperasse o vendesse nel reame dovesse pagare agli uficiali ordinati sopra ciò danari otto per catuna lira. La qual cosa gravò tanto i mercatanti, che abbandonarono in gran parte il reame e il trafficare in quello, e quasi tutto il peso rimase a’ baroni e a’ paesani, della qual gravezza forte si conturbarono inverso il loro signore, e desideravano il suo male; e alquante città per questa cagione si recarono a reggere per loro, e non voleano ricevere gli esecutori e gli uficiali del re di Francia, come per innanzi leggendo si potrà trovare.

CAP. XIX. Come i Pisani facevano simulata guerra.

La materia ch’ora seguita non era degna di memoria per lo fatto, ch’assai fu lieve, ma il modo, c’ha poi generate più gravi cose, ci scusa. I Pisani, innanzi a questo tempo di più anni, per loro maliziosa industria, avendo buona e leale pace co’ Fiorentini, contro a’ patti di quella aveano fatto fare il castello di Sovrana, il quale il comune di Firenze tenea per li patti della pace, e fecionlo torre a certi ghibellini usciti di quel paese, e il comune di Pisa sotto nome di costoro si [137] tenea la terra, e mantenievi soldati che tribolavano tutto il paese e le terre d’intorno del comune di Firenze; essendo i Pisani, oltre alla pace, in singulare compagnia e lega col nostro comune, faceano queste coperte con grande ambizione. I Fiorentini lungamente dissimularono mostrando di non se n’avvedere, ma moltiplicandosi il male, e scoprendosi ogni dì più l’uno che l’altro, il nostro comune prese di gastigarli in quella contrada con quella malizia ch’eglino avevano insegnata. E del mese di febbraio del detto anno ordinarono co’ Pistoiesi che si lasciarono torre Calumao, una fortezza sopra Sovrana, a certi caporali di buoni masnadieri, i quali con aspra e continova guerra in breve tempo uccisono tutti i caporali di Sovrana, e presono masnade ch’e’ Pisani mandavano per guastare la Sambuca, e feciono grande guerra nel paese. E per questo tutti i ghibellini di Valdinievole erano mal condotti, ch’avendo pace vivevano in continua guerra per la cominciata malizia pisanesca. Ma aggiugnendo malizia a malizia, per vendicare loro onta sbandirono loro soldati, e mandarono trecento barbute e gran popolo agli usciti ghibellini di Valdinievole, i quali cavalcarono infino alla Pieve a Nievole, e arsono intorno a quella, e feciono quel danno che poterono; e appresso si dirizzarono a Castelvecchio, e ordinatamente il combatterono, ma nol vinsono. Il comune di Firenze sentendo questo fece cavalcare i suoi cavalieri in Valdinievole, e raunati i paesani, cercavano d’abboccarsi co’ nemici, ma eglino non attesono; e non potendo tornare per la via ond’erano [138] andati, per altra via più aspra, ma a loro più sicura, in fretta si ritornarono a Pisa, e furono ribanditi.

CAP. XX. Come il capitano della Chiesa assediò Cesena.

Il legato del papa, oltre alla gente ch’attendea de’ crociati avea da sè a soldo duemila barbute, e confidandosi de’ Malatesti, fece gonfaloniere di santa Chiesa e capitano della sua gente d’arme messer Galeotto da Rimini, e con mille cavalieri e con gran popolo del mese di febbraio del detto anno il mandò a oste sopra la città di Cesena; il quale in prima corse il paese predando d’intorno, e appresso visi pose ad assedio, e strettosi alla terra, vi stette infino che il conte di Lando venne del Regno in Romagna, come innanzi al suo tempo racconteremo.

CAP. XXI. Come il conte da Battifolle assediò Reggiuolo.

Avendo il conte Ruberto da Battifolle ricevuto ingiuria nel suo contado di cavalcate e di prede fatte per Marco figliuolo di messer Piero de’ Tarlati, contro a’ patti della pace fatta con gli aderenti de’ signori di Milano, accolta sua gente e’ suoi fedeli in arme, all’entrata del mese d’aprile anni 1356, essendo per nevi e per venti smisurato freddo, se n’andò al castello di [139] Reggiuolo, il quale era allora del detto Marco, e cinselo d’assedio, e fece a’ suoi fare case di legname per ripararsi dal freddo, e rizzò trabocchi e manganelle che tribolavano il castello e coloro che dentro il guardavano, e aggiungendo al continovo forza avea sì stretti gli assediati, che più non si poteano difendere. Vedendo Marco che ’l castello non si potea più tenere, mandò a richiedere il comune di Firenze per li patti della pace, che non lasciassono al conte seguitare l’impresa. Il conte venne a Firenze, e mostrò al comune come Marco era stato movitore della guerra, e più che non avea voluto approvare nè ratificare per carta alla pace secondo i patti. Ma nondimeno il comune di Firenze, per non potere essere calunniato a diritto o a torto d’avere lasciato a’ suoi aderenti rompere la pace, diliberò, che ’l conte si dovesse partire dall’assedio. Il conte non ostante l’ingiuria ricevuta, e la spesa fatta, e la ferma speranza d’avere il castello, per ubbidire al comune di Firenze lasciò l’impresa, e a dì 18 d’aprile del detto anno si tornò in Casentino.

CAP. XXII. Come il conticino da Ghiaggiuolo racquistò Ghiaggiuolo.

Di questo mese di maggio 1356, il conticino da Ghiaggiuolo con alcuna gente del legato cavalcò nelle terre che il capitano di Forlì gli avea tolte; e stando nella contrada molto baldanzoso, [140] fece correre boce che Forlì s’era renduto al legato, e che il capitano era preso. E per mostrare la cosa ben certa, si fece venire un frate con lettere che contavano le novelle molto verisimili, e recò l’ulivo palese, e fu ricevuto con grande festa. E incontanente si strinse a Ghiaggiuolo, e fece vedere le lettere al castellano, e poi gli disse, che se incontanente non li rendesse il castello, che lui e’ compagni farebbe morire senza niuna misericordia. La cosa avea sembianza di verità, e il castellano era di poco intendimento, e pauroso e vile, e però gli rendè il castello, ch’era forte e bene fornito, e andossene colla sua compagnia a salvamento con vergogna, e non senza infamia di tradimento.

CAP. XXIII. Come i Visconti assediarono Pavia.

Avendo nel principio di questo sesto libro narrato il sospetto preso, e la discordia tra’ signori di Milano e il marchese di Monferrato, e quelli da Beccheria di Pavia, e accresciuta la mala voglia per le rubellioni fatte in Piemonte, messer Bernabò e messer Galeazzo Visconti volendosi vendicare sopra i loro parenti e prossimani vicini, con grande moltitudine di cavalieri e di popolo, del mese di maggio del detto anno, valicarono il Tesino e strinsonsi alla città di Pavia, e vi poson l’assedio d’ogni parte, con intendimento di non levare l’oste se prima non avessono la città al loro comandamento, e così si [141] credette per tutta Italia, perocchè la città è presso a Milano a venti miglia di piano, e la potenza de’ tiranni era sopra modo grande a quella impresa. Ma perocchè non procede dalla volontà umana la potenza divina, le cose succedono spesso ad altro fine che gli uomini non divisano, e così avvenne di quest’assedio, come seguendo nostro trattato dimostreremo.

CAP. XXIV. Come il re di Francia prese il re di Navarra.

Avendo racconto addietro come il re Giovanni di Francia avea renduto pace al re di Navarra, e perdonatagli la morte del conestabile e agli altri baroni ch’erano stati con lui, e come accomandato gli avea il Delfino suo figliuolo, seguitò, che in questo tempo, essendo loro commesso dal re la provvisione della guardia di Guascogna, insieme cavalcavano la provincia, provvedendo a quello ch’era di bisogno alla difesa del paese, e ancora andavano prendendo loro diporto; ed essendo nella città di Ruen, il re di Francia il sentì, e mossesi da Parigi quasi sconosciuto con poca compagnia e cavalcò ad Orliens, e là tenne a battesimo un fanciullo nato di quelli d’Artese, e parente stretto del conestabile di Francia che fu morto, a cui il re secondo il volgo avea portato disordinato amore: avvenne, o che la morte del suo diletto amico per lo fanciullo parente li rivenisse nella mente, o che altra cagione il movesse al presente fatto, [142] niuna certezza se ne potè avere, ma di subito armato a modo di cavaliere, con sessanta cavalieri armati di sua famiglia cavalcò a Ruen; e giunto senza arresto alla città, mandò un cavaliere innanzi a sè, il quale dicesse in segreto al Delfino suo figliuolo, che di cosa ch’avvenisse non prendesse turbazione nè paura; e seguendo il re co’ suoi cavalieri armati entrò nel palagio ov’era il re di Navarra, e il Delfino, e il conte di Ricorti con quattro cavalieri banderesi di Normandia, e aveano a desinare con loro altri baroni e cavalieri del paese. Ed essendo giunto innanzi il cavaliere, e appena compiuto di favellare al Delfino, il re di Francia armato colla barbuta in testa e co’ suoi cavalieri fu in sulla sala, e trovandoli alla mensa, comandò che alcuno non si movesse; e avviatosi verso il re di Navarra, il chiamò traditore della corona, e andogli addosso con uno stocco ignudo per ucciderlo di sue mani: ripreso e ritenuto da’ suoi, dicendo che a re non si convenia tanto fallo, il fece prendere e imprigionare, e detto fu che alquanto il punse dello stocco; e fece pigliare il conte di Ricorti, e i quattro cavalieri normandi, chiamandoli traditori, i quali si scusavano, dicendo ch’erano diritti e leali; ma il re mosso da furiosa tempesta d’animo giurò di non mangiare, prima che di loro avesse fatto secondo la sua intenzione piena giustizia.

[143]

CAP. XXV. Come il re di Francia fece decapitare il sire di Ricorti e altri quattro cavalieri normandi.

Avendo preso il re di Navarra, di presente il mandò a incarcerare a un forte castello che si chiama Castel Gagliardo: e in quello stante il re di Francia fece mettere in su una carretta il sire di Ricorti e i quattro cavalieri normandi per farli decapitare, innanzi che volesse desinare. E quelli della città per la subita tempesta del re vedendo tanta novità, e non sapendo che vi fosse la persona del re di Francia, traevano in piazza per aiutare i baroni presi. Il re conoscendo il pericolo del popolo commosso, si trasse la barbuta di testa e fecesi conoscere; e sparta la voce che ivi era la persona del re loro signore catuno stette cheto. Allora il re, per mostrare al popolo e agli altri maggiori che v’erano che ’l suo furioso movimento a tanto fatto non era senza gran cagione, si trasse dal lato un brieve con molti suggelli, nel quale si contenea, come il re di Navarra col sire di Ricorti, e con quattro cavalieri normandi, e con altri che in quello si nominavano, aveano trattato col re d’Inghilterra d’uccidere il re di Francia e ’l Delfino suo figliuolo, e di fare re di Francia il detto re di Navarra, il quale fatto re, dovea rendere la Guascogna e la Normandia al re d’Inghilterra. E questo brieve, vero o simulato che fosse, continovo fino [144] alla morte fu negato per lo sire di Ricorti e per i quattro cavalieri normandi; nondimeno nella presenza del re tranati in sulla piazza furono decapitati, e i corpi loro legati con catene, senza concedere loro sepoltura, furono appesi. Altri dissono, che doveano dare prigione il Delfino al re d’Inghilterra, ma poca fede si diede all’una cagione e all’altra, ma più che ciò fosse fatto per vendetta della morte del conestabile. E appresso fu mandato il re di Navarra prigione in Castelletto, parendo a molti, che egli, egli altri ch’erano stati decapitati fossono senza colpa di quella infamia.

CAP. XXVI. D’un grosso badalucco fu a Pavia.

Essendo l’oste de’ signori di Milano sopra la città di Pavia, del mese di maggio del detto anno, uscirono cavalieri della terra, e cominciarono giostre e badalucchi con quelli del campo; e venendo a poco a poco crescendo l’assalto e la gente da catuna parte, vi s’allignò un’aspra battaglia di più di mille cavalieri di catuna gente, tutti i più pro’ e i più arditi, che di grande volontà per fare d’arme si metteano in quello stormo. Infine per lo superchio de’ cavalieri che messer Galeazzo sollecitava di mandarvi, quelli di Pavia non poterono sostenere, e per forza convenne che dessono le reni, e fuggendo, alquanti ne furono presi; gli altri per campare si tornarono nel borgo della città, ed essendo fortemente incalciati da’ nemici [145] che li seguivano, con loro insieme si misono follemente nel borgo, ove racchiusi, si trovarono prigioni per troppa sicura gagliardia, e ben quattrocento se ne rassegnarono a bottino, per li quali quelli di Pavia riebbono tutti i loro prigioni; e guadagnati i cavalli e l’arme, tutti gli lasciarono andare alla fede, secondo l’usanza de’ Tedeschi.

CAP. XXVII. Come i Visconti assediarono Borgoforte.

Di questo mese di maggio, i signori di Milano, non ostante ch’avessono l’oste a Pavia, e mandata gran gente in Piemonte contro al marchese di Monferrato, mandarono duemila cavalieri e gran popolo con molto navilio ad assediare Borgoforte in sul Mantovano, e ivi si posono ad assedio per acqua e per terra, facendo nel Pò grandi palizzati, acciocchè levassono al castello ogni fornimento e soccorso che venire gli potesse per lo fiume del Po, e con bertesche, e con guardie, e con navili il chiusono, e per acqua e per terra l’assediarono strettamente.

CAP. XXVIII. Come i Visconti feciono contro a’ prelati di santa Chiesa.

Avvenne in questi dì, che ’l papa mandò un valente prete in Lombardia a predicare la croce, [146] guardandosi i maggiori prelati di non volere la grazia di quell’uficio. E la croce si bandiva e predicava, come detto è, contro al capitano di Forlì e al signore di Faenza. Il valente sacerdote se n’andò a Milano, e ivi favoreggiato dal vescovo di Parma, cominciò sollicitamente a fare l’uficio che commesso gli era dalla santa Chiesa. Come messer Bernabò ebbe notizia di questo servigio, senza vietarglielo, o ammonirlo che questo fosse contro alla sua volontà, il fece pigliare, e ordinata per lui una graticola di ferro tonda a modo d’una botte, là dentro vi fece mettere il sacerdote, e accesovi sotto il fuoco come si fa a uno arrosto, e facendolo volgere, crudelmente il fece morire a grande vitupero, non tanto per la sua persona ch’era prete sagrato, quanto per lo dispregio e irreverenza che per lui si mostrò fatto a santa Chiesa che l’avea mandato. E per arrogere al mal fatto aggiunse, che al vescovo di Parma fece torre il vescovado, e delle rendite di quello investì altrui, e contradiò alla predica della croce. E acciocchè il capitano si potesse difendere dal legato li mandò subitamente dieci bandiere di cavalieri, dandogli speranza di maggiore aiuto, e avendoli presso il castello di Luco, che tenea tra Bologna e la Romagna, senza contasto li vi mise dentro.

[147]

CAP. XXIX. Come i Visconti feciono tre bastite a Pavia.

Del mese di maggio 1356, i signori di Milano volendo vincere per assedio la città di Pavia, feciono edificare attorno alla terra tre grandi bastite, le quali feciono armate di bertesche e di steccati, e molto afforzare con buoni e larghi fossi, e l’una strinsono alla città di là dal Tesino, e l’altra di verso Milano, il Tesino in mezzo; e in sul fiume feciono un largo ponte di legname per lo quale l’un’oste potea soccorrere all’altra, e l’altra bastita posono dall’altra parte della terra. E per non tenervi tanta gente impedita a tenervi campo aperto, misono in queste bastite cavalieri e pedoni assai, i quali faceano aspra guerra, e teneano la città sì stretta, che vittuaglia niuna o gente non grossa vi poteva entrare, e grande speranza aveano di vincere la città, se fortuna l’avesse conceduto alla loro volontà: ma non sempre agli appetiti de’ potenti tiranni acconsente la divina disposizione, come leggendo innanzi si potrà trovare.

CAP. XXX. Come i Turchi con loro legni feciono gran danno in Romania.

In questi medesimi tempi, i Turchi avendo settanta legni armati, e molte barche imborbottate, [148] valicarono in Romania, ricettati da un barone di quelli che rimase nel paese dell’antica compagnia, uomo di perversa condizione; e per far male a’ suoi paesani, dava a’ Turchi rinfrescamento e porto a’ loro navili, ed eglino quando per mare quando per terra correvano il paese predando uomini e bestiame e roba senza trovare da’ paesani contasto, e al barone, che gli ritenea e favoreggiava, di tutta la preda davano la decima parte. E così seguendo tutta la state feciono in Grecia grandissimi danni, e poi senza contasto si tornarono in Turchia carichi di servi greci e di molta roba.

CAP. XXXI. Come gl’Inghilesi guerreggiarono, il reame di Francia.

Non essendo per li legati di santa Chiesa potuto trovare in tutto il verno passato pace o tregua tra il re di Francia e quello d’Inghilterra, ma piuttosto aggravato l’animo del re di Francia e de’ suoi Franceschi per l’ingiurie ricevute dagl’Inghilesi; e gl’Inghilesi montati in maggiore audacia e baldanza aveano tanto a vile i Franceschi, che non pensavano potere perdere abboccandosi con loro: e però essendo tornato il re d’Inghilterra nell’isola per lo fatto degli Scotti, come detto è, da capo s’apparecchiarono il valente duca di Guales, e ’l pro’ e ardito conte di Lancastro, e tra loro divisono il paese ove doveano guerreggiare nel reame di Francia, e catuno prese tremila [149] cavalieri e molti arceri, e da capo cominciarono a correre il paese. E ’l conte entrò in Brettagna facendo nel paese aspra guerra, ardendo, e guastando e predando senza trovare contasto, e ’l duca se n’entrò in Guascogna scorrendo il paese, e valicando insino a Nerbona, guastando e predando il Nerbonese e ’l paese d’intorno senza trovare avversari in campo. Catuno si tenea alla guardia delle mura e delle fortezze, per modo che niuna terra vi potè acquistare. E in questo modo gl’Inghilesi stettono il maggio e ’l giugno del detto anno, facendo assai danno e vergogna al re di Francia e a’ sudditi del suo reame. Il re di Francia non avendo riparato infino a qui all’audacia degl’Inghilesi, vedendoli tanto montare in sua vergogna e in danno del paese, s’apparecchiò con ogni sollecitudine che potè di tutta sua forza di cavalieri e di sergenti e d’arme, a intenzione d’andare a trovare i nemici, e di combattere con loro, e cacciarli del reame a suo podere. Ma i due baroni colle due osti, si tornarono a Bordello in Guascogna colle loro prede, per ordinarsi insieme de’ nuovi assalti che intendeano fare nel reame, e per provvedersi contro all’apparecchiamento che sentivano fare al re di Francia. Come le cose seguirono, leggendo appresso per li loro termini si potranno trovare.

[150]

CAP. XXXII. Come gl’Inghilesi furarono un forte castello.

Essendo un forte castello nel mezzo della contea della Marcia chiamato...., ove si facea grandi mercati certi dì per li circostanti paesani, gl’Inghilesi feciono prendere a più loro cavalieri abito di mercatanti, i quali sapeano la lingua francesca, e mostrando d’andare a fare loro investite al mercato, a due a due giugnendo al castello prendevano albergo; ed essendovene entrati una buona compagnia, facendo vista d’attendere il mercato per lo seguente dì, faceano grandi e larghe spese e cortesie, e diportandosi per lo castello verso la rocca, il castellano che non si prendea guardia de’ mercatanti fu da loro morto. E morto il castellano, entrarono nella fortezza, e quella tennono tanto, che gl’Inghilesi che stavano però attenti n’ebbono la novella, e cavalcaronvi di subito quattrocento cavalieri e altri arceri; e giugnendo alla terra, avendo l’entrata, senza uccisione vi s’entrarono e afforzaronvisi dentro, e feciono in quello loro ridotto, guerreggiando tutto il paese d’intorno, con fare danno grave a’ paesani. E questo avvenne del mese di giugno predetto.

[151]

CAP. XXXIII. Come il zio del conte di Ricorti si rubellò al re di Francia.

Dappoichè il re di Francia ebbe morto il conte di Ricorti e gli altri cavalieri normandi, come già è detto, mandò in Normandia un suo barone, e fecelo giustiziere in quel paese. Costui cavalcò nel paese, e faceva senza contasto l’uficio del suo baliato, ubbidito da tutti i paesani. Avvenne che una terra della contea di Ricorti era nel giustiziato del suo uficio; il balio vi cavalcò con tutta sua famiglia per tenervi ragione, come facea in tutte l’altre terre. Il zio carnale del conte di Ricorti ch’era morto, con sua forza prese il detto balio e’ suoi famigli, e in dispetto del re di Francia, a lui e a’ diciassette suoi compagni, per ricordanza di quello ch’era stato fatto al nipote sire di Ricorti, fece tagliare le teste, e quella terra e l’altre della contea di Ricorti fece rubellare al re di Francia; e allegatosi col re d’Inghilterra fornì le sue terre, e ricettando gl’Inghilesi, faceva grande guerra a’ Normandi.

CAP. XXXIV. Come messer Filippo di Navarra si rubellò al re di Francia.

Appresso alla detta rubellione, sentendo messer Filippo di Navarra fratello del re, come il re Giovanni [152] in persona sconciamente avea a Ruen voluto uccidere il re di Navarra suo fratello, e appresso l’avea villanamente imprigionato, e come avea morto il conte di Ricorti, disperandosi della salute del fratello e della sua, incontanente rubellò tutte le terre di Navarra al re di Francia; e cavalcando per tutte le terre accogliendo a parlamento gli uomini del reame, si dolea del grande tradimento fatto per lo re di Francia al loro signore, e inanimandoli contro al re di Francia, gli confortò alla difesa del paese, e ordinò e fornì tutte le buone ville; e fatto questo, colla sua persona si mise nel forte e nobile castello posto in sulla marina, che si chiama...., e ivi si fortificò, per potere dare l’entrata in Navarra agl’Inghilesi e a cui volesse, senza potere essere impedito. E messovi buona e confidente guardia, si partì del reame e andossene al re d’Inghilterra, e fece lega e compagnia con lui. E poi seguitò coll’aiuto e in compagnia degl’Inghilesi a fare grande guerra al re di Francia, come seguendo nostra materia si potrà trovare.

CAP. XXXV. Come il popolo di Pavia prese le bastite, e liberossi dall’assedio.

Essendo con tre grandi e forti bastite assediata la città di Pavia da’ signori di Milano, confidandosi nelle grandi fortezze, ne trassono de’ cavalieri e de’ masnadieri per sovvenire all’altre loro imprese; e avvedendosene quelli da Beccheria che [153] governavano la città, procacciarono d’avere segretamente aiuto dal marchese di Monferrato. Era in quella stagione in Pavia un frate Iacopo Bossolaro de’ romitani, in cui gli uomini e le donne di Pavia aveano grande divozione: costui colle sue prediche avea confortato molto il popolo alla sua franchigia contro alla potente tirannia di quelli di Milano; e avendo avuta gente dal marchese, la quale v’era entrata di notte chetamente, essendosi provveduti della bastita ch’era loro più di presso, che rispondea a quella di là dal Tesino, dato il dì ordine a’ cavalieri e al popolo, e apparecchiate scale e argomenti di legname da entrare nella bastita, per modo che i loro nemici non n’ebbono alcuno sentimento, e dato l’ordine dell’assalto a’ caporali, sicchè catuno sapea ciò che s’aveva a fare, e da qual parte avea a fornire la sua battaglia, s’andarono la sera a posare: e nella mezza notte s’armarono e guernirono d’ogni cosa; e poi, come ordinato era, in sù l’aurora, a dì 28 di maggio del detto anno, uscirono della città, e il buono frate Iacopo Bossolaro con loro. Cominciarono l’assalto d’ogni parte alla bastita, e fecionlo sì contamente, ch’elli sprovveduti dentro del subito assalto perderono ogni facondia di consiglio e d’aiuto alla loro difesa; e’ cavalieri tedeschi che dentro v’erano, vedendosi d’ogni parte assaliti, non ebbono cuore alla difesa, e stavano smarriti a vedere come se fossimo consenzienti, e ciò non era vero: ma per loro natura rinchiusi non sanno combattere, nè resistere come in aperto campo. E però quelli di Pavia con poca resistenza entrarono nella bastita, e presonla, facendo [154] grande uccisione de’ loro nemici, e la maggiore parte ne presono; gli altri che poterono fuggire non furono perseguitati, e camparono. Presa la prima bastita, di presente si dirizzarono al ponte, e presonlo, e fedironsi nell’altra bastita di là dal Tesino. I capitani di quella impauriti della sconfitta de’ loro compagni, e della perdita della forte bastita, non ebbono cuore di mettersi alla difesa, ma alla fuga, chi meglio il seppe fare, ma non sì che assai non ne rimanessono morti e presi. E vinta, e messo fuoco alla seconda bastita, si dirizzarono alla terza ch’era dall’altra parte della città, e quella vinsono per simigliante modo. E come saviamente per loro era ordinato, seicento de’ loro fanti a piè forniti di seghe, e d’altri argomenti da tagliare, e da svegliere palizzati e rompere catene, furono mandati per acqua al navilio di Piacenza ch’era raunato in Po, e alquanti cavalieri per terra in loro aiuto, i quali valorosamente feciono il servigio: e per forza presono il navilio, e arsonne la maggiore parte, e alquanto ne ritennono, e quelli che v’erano alla guardia ne mandarono in rotta. E così maravigliosamente, come a Dio piacque, quella franca gente assediata lungamente dalla gran potenza de’ signori di Milano, in uno dì se ne liberò vittoriosamente, dando abbassamento alla superba potenza de’ grandi tiranni.

[155]

CAP. XXXVI. Il movimento del re d’Ungheria per assediare Trevigi.

Sopravvenendo nuova guerra a raccontare alla nostra materia, così cominciamo. Avendo Lodovico re d’Ungheria per lungo tempo molte volte richiesto a’ Veneziani la città di Giara e l’altre terre, che del suo regno teneano occupate in Schiavonia, e non trovando modo con loro di riaverle con pace, di questo mese di maggio del detto anno, si mosse dalla città di Buda in persona con trenta compagni, e misesi a cammino dirizzandosi in Schiavonia alla città di Sagabria, ch’è in Dalmazia, e innanzi che quivi fosse giunto, si trovò con cinquecento cavalieri. E giunto in Sagabria, in pochi dì vi vennono tutti i baroni del reame e del suo distretto, e catuno colla gente d’arme del debito servigio, la quale era tanta che non la comportava il paese; per la qual cosa fu costretto il re di parlare a uno a uno, e dir loro la gente ch’e’ volea in quel servigio, e tutti gli altri fece rimandare addietro in Ungheria. A Sagabria vennono a lui ambasciadori del comune di Vinegia i quali addomandavano la sua pace, offerendoli danari quanti più potessono, per rimanere in concordia con lui. Il re rispose che non cercava i loro danari, perocchè n’avea assai, ma s’eglino avevano in mandato dal loro comune di renderli le sue terre, per questo poteano avere la sua concordia e la sua pace. Gli ambasciadori risposono, [156] che ciò non aveano in commissione. Il re disse, che per altro non si travagliassono: onde gli ambasciadori si tornarono addietro al loro comune. Il re stando in Sagabria ordinò di fare la sua guerra, come appresso la diviseremo. La boce che usciva si spandea per diversi luoghi; i più credeano che a Giara si facesse la gran punga, come altra volta era fatta, altri nell’Istria, altri a Trevigi, e ’l certo non si potea sapere; e per questo i Veneziani aveano più a pensare, e maggiore spesa a provvedere alle loro terre in diverse parti: e incontanente, non curando la spesa, dando grandi e disordinati soldi, fornirono Giara, e l’altre terre di Schiavonia e dell’Istria, e provvidono e fornirono la città di Trevigi di gente d’arme a cavallo e a piè con grande spesa.

CAP. XXXVII. Come per l’avvenimento del re d’Ungheria si temette in Italia.

Sentendosi per tutta Italia, che il re d’Ungheria con grande moltitudine d’Ungheri e d’altri suoi sudditi infedeli s’apparecchiava per passare sopra i Veneziani, aggiugnendosi alla novella, che l’imperadore e ’l duca d’Osteric tenea mano con lui, e che l’imperadore dovea creare re in Lombardia e re in Toscana, non senza sospetto stettono tutti i tiranni d’Italia, e ancora i popoli di catuna parte sospesi, e massimamente i tiranni di Lombardia. E per questa cagione s’accostarono a parlamento insieme, e [157] ordinarono loro leghe, e di concordia li mandarono ambasciadori per sapere la sua intenzione de’ fatti loro; e avuta da lui amichevole risposta, catuno rimase senza paura della sua impresa, salvo il comune di Vinegia, contro a cui egli manifestamente s’apparecchiava.

CAP. XXXVIII. Come la cavalleria del re Luigi sconfissono i nemici, e furono vinti.

Di questo mese di maggio, essendo il conte Paladino in ribellione del re Luigi, e avendo con seco due grandi conestabili con cinquecento barbute, ch’egli avea tratte della compagnia contro alla volontà del conte di Lando, come addietro abbiamo narrato, e avendone messi quattrocento in una sua terra di Puglia che guerreggiavano il paese, il re, avendo concordia col conte di Lando, mandò in Puglia ottocento cavalieri per ristrignere quelli del conte nella terra, e poi coll’aiuto de’ paesani assediativi dentro. Ma gli avvisati Tedeschi non si vollono rinchiudere tra le mura, e partire non si sarebbono potuti senza loro grande danno e vergogna. E però, come uomini di grande ardire, uscirono della terra, e sentendo nel paese la gente del re, vennono loro incontro, e misonsi in aguato, e appressatasi la cavalleria del re, per modo che quelli dell’aguato non si poteano coprire, si schierarono e ordinarono a battaglia, e mandarono a richiedere i cavalieri del re di battaglia, [158] ch’erano ivi cinquecento cavalieri bene armati, e montati tutti in buoni cavalli; i quali sentendo la richiesta, e avendoli in dispregio, senza fare altra risposta, accoltisi insieme e dato il nome, s’addirizzarono contro a’ nemici, e percossongli per tale virtù, ch’al primo assalto gli ruppono e sbarattarono; e cacciandoli per avere in preda, si cominciarono a sciogliere della loro massa con mala provvedenza, e chi cacciarono qua e chi là. L’uno de’ due conestabili con pochi de’ suoi si ridusse in alcuno vantaggio di terreno e fece testa, e degli altri che fuggivano, vedendo ferma quella bandiera, per loro scampo si riduceano ad essa, e ingrossavano la sua forza. La gente del re vittoriosa, avendo morti e presi de’ loro nemici, vedendo che alquanti aveano fatto testa sotto quella bandiera, s’addirizzarono a loro con più baldanza che buon ordine. Il conestabile avvisato di guerra, conoscendo la sciocca venuta de’ suoi avversari, confortò i suoi di ben fare, e stretto co’ suoi pochi sì percosse tra gli assai male ordinati, e ruppegli più per maestria di guerra che per forza ch’egli avesse; e coloro ch’erano vincitori, per la stolta baldanzosa tratta rimasono vinti in questa parte, e il conestabile, per lo savio accorgimento e buona condotta, essendo prima vinto e fuggito del campo, rimase vincitore, e tanti prese de’ suoi avversari, quanti i suoi cavalieri ne poterono menare prigioni, tra’ quali furono certi baroni e alcuni cavalieri di Napoli e altri Toscani, tutti ricchi prigioni; e senza arresto, quanto i cavalli di buono andare li poterono menare [159] si partirono, e condussonli senza cercare più altra fortuna in sul campo a salvamento. E nondimeno della loro compagnia ne rimasono morti assai, e più presi che quelli ch’e’ ne menarono in buona quantità, ma de’ loro poco si curarono: di quelli ch’aveano presi eglino ebbono danari assai, e per mala condotta la bella vittoria condussono a vergognoso fine.

CAP. XXXIX. D’appelli fatti per lo conte di Lando di tradigione.

Quello che seguita non è cosa che meriti memoria, se non per dimostrare con esempio del fatto la matta follia degli oltramontani. Il conte di Lando era lungamente stato colla sua compagnia a nimicare con operazioni latrocine e infedeli il Regno, e con lui i sopraddetti due conestabili alamanni. Avvenne, che fatta la sopraddetta battaglia, il conte di Lando appellò di tradimento i detti due conestabili, dicendo, che contro al loro saramento s’erano partiti della compagnia. E’ conestabili dall’altre parte appellavano lui per traditore, dicendo, che contro al suo saramento avea rotti loro i patti. L’antica pazzia oltramontana per l’usanza del loro appello li recò in giudicio, e commisonsi nel re Luigi; e appresentandosi l’una parte e l’altra in giudicio nella sua corte, non senza giusto pericolo delle loro persone, essendo prencipi di manifesti ladroni senza alcuna fede, [160] nondimeno il re guardò alla liberalità ch’e’ nemici ebbono confidandosi alla sua persona, e fedelmente commise a disputare la loro questione, facendo loro assessore il suo gran siniscalco, e d’ogni parte per lungo piato furono i savi ad allegare. Ma in fine, o ragione o torto che si fosse, il re, avuta la relazione dal suo consiglio, liberò il conte, e i due conestabili condannò per traditori, e ritenneli per prigioni alla volontà del conte. E per questo modo forse fece in parte la sua vendetta per la capitosa follia tedesca.

CAP. XL. Come i Sanesi per paura ricorsono a’ Fiorentini.

Avvedutosi alquanto il comune di Siena, che l’essere strano dal comune di Firenze gli potea tornare a pericoloso danno, e massimamente sentendosi male forniti, e che la compagnia del Regno era già in Abruzzi per valicare nella Marca e appresso in Toscana, elesse de’ suoi maggiori cittadini grandi e popolani, e accompagnati da molta famiglia pomposamente alla loro maniera, a dì 16 di giugno del detto anno vennero a Firenze. E fatti adunare i collegi e gli altri buoni cittadini di Firenze, con parole di grande reverenza cominciarono loro sermone, chiamando padri del loro comune il popolo e ’l comune di Firenze, e come figliuoli al padre a loro si raccomandavano, offerendo il loro comune apparecchiato di non partirsi dal reverente consiglio e [161] ubbidienza del comune di Firenze, dicendo, ch’erano apparecchiati ad entrare nella lega e compagnia già provveduta e ordinata per lo comune di Firenze, e di pigliare la loro taglia, e di fare quanto il detto comune volesse comandare in questo e nell’altre cose. I governatori della nostra città, non guardando alli sconvenevoli falli per addietro commessi pe’ Sanesi contro al nostro Comune, li riceverono graziosamente in compagnia e in lega, e promisono, dov’eglino volessono essere uniti e in fede al nostro comune, d’aiutarli e difenderli come cari e diletti fratelli amichevolemente.

CAP. XLI. Come l’oste si levò da Borgoforte.

Tornando a nostro conto all’assedio di Borgoforte in sul Mantovano, il quale i signori di Milano molto si sforzarono per acquistare, e’ ruppono e svelsono i grandi palizzati che v’erano per difesa del castello, e per molte battaglie e gravi assalti tentarono d’averlo, e sarebbe venuto fatto, se non fosse il grande e buono aiuto ch’ebbono da Mantova e da Reggio, e per questo si difesono francamente. Vedendo i capitani dell’oste che a quella pugna si perdea il tempo senza frutto, e sapendo che Reggio per soccorrere Borgoforte era sfornito della gente d’arme, si levarono subito, e cavalcarono a Reggio; e trovando la città sprovveduta dei loro subito avvenimento, di poco fallì che non entrarono [162] nella terra, ma quella poca gente che v’era si mise francamente a guardare le mura e le porte, per la qual cosa l’oste corse danneggiando il contado, e appresso vi si misono ad assedio, e stettonvi più dì; ed ebbono novelle, come gente del marchese di Monferrato s’era ingrossata a Pavia, per la qual cosa temendo i signori di ricevere vergogna in sul Milanese, feciono partire l’oste da Reggio, e all’uscita di luglio del detto anno con poco onore si tornarono a Milano.

CAP. XLII. Principio della guerra da’ Fiamminghi a’ Brabanzoni.

Sopravvenendo in questi dì alla nostra materia grande e non pensata guerra, e volendone dimostrare la cagione, ci conviene alquanto tornare addietro nostra materia. Certa cosa fu, che per antico la villa e gli uomini di Mellina in Brabante erano della chiesa cattedrale di Legge, ma essendo nella provincia di Brabante e tra’ Brabanzoni, erano usati di fare lega col duca di Brabante per essere più sicuri e più riguardati, e per antica costuma con ogni novello duca di Brabante facevano l’usata lega e compagnia, e ne’ patti tra loro era che ’l duca li dovea difendere e aiutare in tutte le loro brighe, e la comune di Mellina dovea servire il duca in tutte le loro guerre, essendo i primi che venissono al servigio e gli ultimi che si partissono. Avvenne, che un duca di Brabante ebbe guerra [163] col vescovo di Legge e fece oste sopra le sue terre, nella quale due di Mellina furono in arme contro al loro signore; per la qual cosa, finita la guerra, il vescovo andò a corte di Roma a Avignone a papa Benedetto sesto, e tanto procacciò, ch’egli ebbe di licenza dal papa sotto la sua bolla ch’e’ potesse vendere Mellina, e convertire i danari in altre possessioni a utilità della chiesa di Legge, il quale di presente si mise in cerca, e venne a concordia segretamente col conte di Fiandra per dugento migliaia di reali d’oro; e trovato a ciò il sussidio de’ Fiamminghi, pagò il vescovo innanzi ch’avesse la possessione della città, pensando, ma non saviamente, non avere contasto. Ma incontanente che quelli di Mellina sentirono il fatto, andando il conte per la tenuta serrarono le porte, e presono l’arme alla difesa e non lo vi lasciarono entrare, e misonsi a procacciare di fare ritrattare la vendita; e non potendolo fare, ricorsono al duca di Brabante, richieggendolo per li patti della lega e compagnia ch’aveano con lui che li dovesse aiutare e difendere, ed egli il fece, e fecelo volentieri, parendoli che la villa dovesse essere sua, ma non l’avea voluta comperare. Per questa ingiuria il conte richiese il re di Francia, il quale avendo conceputo contro al duca di Brabante per li fatti del re d’Inghilterra, prese ad aiutare il conte di Fiandra. E allora fu fatto grande sommovimento di Tedeschi e di Franceschi contro al duca di Brabante, e il conte di Fiandra co’ suoi Fiamminghi, per modo che il duca fu recato a grave e pericoloso partito di perdere [164] tutta la duchea, e fatto li venia, se non fosse che il conte di Bari con tutta sua forza il francò a quella volta, come trovare si può nella Cronica di Giovanni Villani nostro antecessore. Per questo sdegno preso per lo duca contro al re di Francia incontanente si collegò col re d’Inghilterra contro al re di Francia, onde grande male ne seguitò a’ Franceschi. Poi morto il duca predetto niella generale mortalità lasciò quattro figliuole femmine, che la maggiore fu moglie di messer..... fratello uterino di Carlo di Boemia eletto re de’ Romani, la seconda fu moglie del conte di Fiandra, la terza del duca di Giulieri, la quarta del duca di Ghelleri. E non essendovi reda maschio, il conte domandò di volere parte della duchea di Brabante per la legittima della moglie; e non potendola avere, perchè si tenne che all’anzianità rimanesse la successione del ducato, mosse di rivolere Mellina, come sua propria terra comperata dal vescovo di Legge, come di sopra è detto, ed essendoli dal nuovo duca dinegata, ne seguirono in breve tempo gran cose, come appresso racconteremo.

CAP. XLIII. Come il conte di Fiandra andò su quello di Brabante.

Di questo mese di giugno 1356, il conte di Fiandra avendo raddomandato al cognato duca di Brabante la villa di Mellina che di ragione era sua, e non volendogliela rendere, fece bandire [165] per tutta la contea, di Fiandra il torto che il duca di Brabante e’ Brabanzoni faceano loro, e che catuno s’apparecchiasse d’arme, per seguitare la sua persona contro a’ Brabanzoni in Brabante, e in pochi dì ebbe, con apparecchiamento fatto di molta vittuaglia e di gran carreaggio, centocinquanta migliaia d’uomini armati, quasi tutti a modo di cavalieri, e con essi ebbe di suo sforzo e di sua amistà seimila cavalieri; e con questo grande esercito, e coll’animo acceso di tutti per l’ingiuria de’ Brabanzoni, uscirono di Fiandra, ed entrarono in Brabante per combattersi co’ Brabanzoni.

CAP. XLIV. Come si fece accordo sul campo da’ Fiamminghi a’ Brabanzoni.

Il duca di Brabante, ch’era Alamanno, accolse dall’imperadore e da altri baroni d’Alamagna molti cavalieri, e apparecchiò in arme i Brabanzoni a piè e a cavallo per comune; e sentendosi venire addosso il conte di Fiandra co’ Fiamminghi, si fece loro incontro con diecimila cavalieri, e con centodieci migliaia di Brabanzoni a piè bene armati. Ed essendo accampati l’uno presso all’altro, e cercando di combattere insieme più per altiera miccianza che per guerra che tra’ cognati fosse, alquanti baroni di catuna parte si mossono per trattare tra l’una parte e l’altra accordo, acciocchè a sì grande e pericolosa battaglia non si mettessono, e infine vennero a questa concordia: che catuno eleggesse quattro [166] buoni uomini di sua parte, e uomini d’autorità; e fatta la lezione, fu loro commesso di concordia delle parti che dovessono vedere le ragioni che ’l conte di Fiandra avea sopra la villa di Mellina e quelle del duca di Brabante, e veduta la verità del fatto, incontanente obbligati per loro saramento, ricevuto solennemente in presenza di molti baroni, che levato via ogni cavillazone o non vere ragioni, e’ giudicherei bono a cui la villa di Mellina dovesse rimanere per loro sentenza. I baroni e’ popoli promisono stare e osservare quello per loro fosse giudicato, e gli arbitri giurarono ancora in fra ’l termine loro assegnato avere terminata e renduta la loro sentenza. E presa la detta concordia tra le parti, catuno dolcemente senz’altro movimento o segno d’alcuna arroganza, mansuetamente si ritornarono i Fiamminghi in Fiandra, e’ Brabanzoni in Brabante, catuno alle sue ville, del mese di giugno del detto anno. Lasceremo ora le novità di Fiandra e di Brabante, tanto che torni il tempo ove fu abbattuta la superbia del Tedesco e la baldanza de’ Brabanzoni, e torneremo alle italiane novità che prima ci occorrono a divisare.

CAP. XLV. Come la città d’Ascoli s’arrendè al legato.

Il valente cardinale legato del papa, avendo duemila barbute a soldo della Chiesa, oltre ai molti crociati ch’avea in Romagna, avendo inteso come [167] la compagnia ch’usciva del Regno volea passare d’Abruzzi nella Marca d’Ancona inverso la città d’Ascoli, s’ingrossò di gente d’arme a piè e a cavallo in quelle contrade. Gli Ascolani temendosi della compagnia, perchè non erano ancora in accordo col legato, si disposono di rendersi a fare la volontà del legato. Il cardinale fu loro benigno e mansueto, facendo assai di quello ch’e’ voleano, e del mese di giugno del detto anno ricevettono la signoria del legato, e la sua cavalleria nella città a ubbidienza di santa Chiesa. E in questi medesimi giorni prese il legato accordo col signore di Fabriano, ch’era stato ribello a santa Chiesa per animo tirannesco e ghibellino; e col vescovo di Fuligno, che tenea la terra per lo detto modo, ogni cosa dissimulava con molta provvisione, secondo che ’l tempo glie la richiedea.

CAP. XLVI. Come il legato procacciò tenere il Tronto alla compagnia.

Avuto che il legato ebbe la città d’Ascoli a’ suoi comandamenti, sentendo la compagnia del conte di Lando in Abruzzi a’ confini della Marca, e che i danari che ’l re Luigi dovea dare loro perch’elli uscissono del Regno veniano, temendo che valicato che avesse il Tronto e’ non si stendesse in troppo danno de’ suoi Marchigiani, con grande animo raunò al Tronto gran parte della sua cavalleria e il popolo del paese, e fece fare [168] in sulla riva del Tronto fossi di grande lunghezza, e fortificare con steccati, e faceva continovo di dì e di notte guardare i passi, acciocchè la compagnia non entrasse sopra le sue terre, e nondimeno tenea col conte capitano della compagnia trattato d’accordarsi con lui a suo vantaggio.

CAP. XLVII. Come i Pisani ruppono la franchigia a’ Fiorentini.

Avvegnachè già per noi addietro sia narrato, come la non domata astuzia de’ Pisani avea fatto fare a’ Fiorentini rubellare Sovrana e Coriglia, e quelle faceano guardare e fare guerra a’ loro soldati, i quali diceano essere loro sbanditi, rompendo per indiretto modo la pace a’ Fiorentini, e il comune di Firenze dissimulando l’ingiuria per non turbare il tranquillo della pace, ed eglino multiplicando in superbia, confidandosi che per cagione del loro porto i Fiorentini portassono ogni soma, avendo rivolto lo stato e il reggimento della città come addietro è contato, volendo manifestamente rompere i patti della pace a’ Fiorentini, e mostrare che ciò non fosse, ordinarono, che per cagione che la mercatanzia venisse e stesse sicura nel porto e in quel mare, pagasse due danari per lira di ciò che la mercatanzia valesse, alla stima de’ loro uficiali ordinati sopra ciò. E sapendo che per i patti della pace i Fiorentini doveano essere liberi e franchi delle loro mercatanzie, e persone e cose nella loro città, e porto e distretto, [169] non glie ne feciono esenti, ma i primi a cui staggirono e arrestarono la mercatanzia per la detta gabella furono i Fiorentini. Il comune di Firenze sentendo la novità ch’e’ Pisani faceano di torre contro a’ patti della pace la franchigia a’ suoi cittadini, vi mandò solenni ambasciadori, richieggendo e pregando quello comune che non dovesse torre la franchigia debita per gli ordini della pace a’ suoi cittadini. La risposta fu, ch’elli erano sotto il governo del loro signore messer l’imperadore, e questo era sua fattura, per volere che ’l porto e ’l mare stesse guardato e sicuro. E non potendosi trarre altro da loro, il comune mandò all’imperadore in Boemia a sapere, se suo ordine era, e se volea ch’e’ Pisani sotto l’imperiale titolo rompessono loro la pace, togliendo la franchigia a’ suoi cittadini. L’imperadore udita la novella, gli dispiacque: e incontanente riscrisse al nostro comune, che ciò non era fatto di suo volere nè di suo sentimento, e che la sua volontà era ch’e’ Pisani mantenessero a’ Fiorentini la loro franchigia e buona e leale pace; e così riscrisse al comune di Pisa per sue lettere, ma poco il curarono, e però poco valse. E avuta la risposta dall’imperadore, più pertinacemente tennono fermo quello ch’aveano incominciato, e necessità fu a’ mercatanti fiorentini a cui era staggita la loro mercatanzia di pagare il dazio, e rompere la franchigia, se rivollono la loro mercatanzia. Questo fu il primo cominciamento del mese di giugno predetto; come le cose montarono poi a grande sdegno, e poi a incitazione di grave turbazione di guerra, appresso ne’ tempi come occorsono [170] si potrà trovare, e massimamente nel cominciamento dell’undecimo libro della nostra compilazione.

CAP. XLVIII. Come i Fiorentini deliberarono partirsi da Pisa e ire a Talamone.

Vedendo i Fiorentini la pertinacia de’ Pisani in non volersi rimuovere dall’impresa, conoscendo manifestamente che venivano contro a’ patti della pace con due maliziosi rispetti; il primo, che non sapeano vedere, e non poteano pensare, che per quella lieve gravezza i Fiorentini si dovessono sconciare della comodità ch’aveano del loro porto per le proprie mercatanzie, e per quelle degli altri mercatanti strani da cui aveano a comperare, trovandole in Pisa a una giornata presso alla loro città, e trovando in Pisa da’ Pisani la civanza delle scritte e della loro credenza; e perocchè partendosi di là la spesa e lo sconcio era sformato, non voleano pensare ch’e’ Fiorentini non s’acconciassono a consentire questo cominciamento: e quando ciò fosse recato in pratica e in usanza, aveano intenzione di venire crescendo il dazio a utilità del loro comune, e a servaggio di quello di Firenze. L’altro peggiore pensiere si era, se per questo i Fiorentini si movessono a guerra, lo stato di coloro che nuovamente reggeano, il quale era debole per i molti buoni cittadini cui eglino aveano abbattuti dello stato, si fortificherebbe per la guerra de’ Fiorentini, e sarebbono seguitati [171] e più ubbiditi dal loro popolo. I Fiorentini conoscendo la loro malizia, non vollono però rompere la pace, ma tennero più consigli, e trovarono i loro cittadini tutti acconci di portare ogni gravezza, e ogni spesa e interesso che incorrere potesse all’arti e alla mercatanzia, innanzi che volessono comportare un danaio di dazio o di gabella da’ Pisani contro alla loro franchigia. E però di presente ordinarono per riformagione penale, che catuno cittadino, o contadino, o distrettuale di Firenze, infra certo tempo giusto dato loro, catuno si venisse spacciando e ritraendo per modo, ch’al termine dato catuno si potesse partire da Pisa senza suo danno: e sopra ciò e sopra trovare modo d’avere porto altrove fu fatto un uficio di dieci buoni cittadini, due grandi e otto popolani con grande balìa, e chiamaronsi i dieci del mare; della quale provvisione seguirono gran cose, come innanzi al suo tempo diviseremo.

CAP. XLIX. Come fu disfatta la città di Venafri in Terra di Lavoro.

Il re Luigi avendo lungamente avuto addosso la compagnia e certi de’ suoi baroni ribelli, non avea potuto resistere a’ ladroni, e per questo erano in ogni parte multiplicati i malfattori, e i baroni si teneano in loro fortezze, e davano più rifugio e favore a’ rei che a’ buoni; e per tanto il paese era nella forza di chi male volea fare, per tale, ch’uno conestabile tedesco, ch’avea [172] nome Currado Codispillo, si rubellò al re essendo al suo soldo, e con ottanta barbute e cento masnadieri era entrato nella città di Venafri, e tormentava le strade e’ cammini e tutto il paese d’intorno, cavalcando in prede e in ruberie infino ad Aversa, e ritornavasi in Venafri; e per questo erano assediate le strade e’ cammini, ch’e’ mercatanti non poteano andare nè mandare le mercatanzie per lo Regno. Sapendo il re che la compagnia era per uscire del Regno, fece di subito sua raunata, e in persona cavalcò a Venafri, e sopraggiunti li sprovveduti ladroni, combattè la terra ch’avea poca difesa, e vinsela, e’ forestieri si fuggirono per la montagna, e salvaronsi. Il re nel caldo del suo furore, non pensando che la città era sua e antica nel Regno, la fece ardere e disfare, perchè più non potesse essere ridotto di ladroni suoi ribelli, e del detto mese si ritornò a Napoli, cominciando a essere più ubbidito e temuto che non era prima.

CAP. L. Come l’oste del re d’Ungheria cominciò a venire a Trevigi.

Avendo contato poco addietro il movimento del re d’Ungheria, seguita, che a dì 28 del mese di giugno del detto anno, messer Currado Lupo, il conte d’Aquilizia, Ilbano di Bossina con quattromila cavalieri tedeschi, friolani e ungari vennono sopra la città di Trevigi, la quale era a quel tempo sotto la guardia e libera signoria [173] de’ Veneziani; i quali avendo poco dinanzi avuta per li loro ambasciadori tornati dal detto re risposta della sua intenzione, aveano presa temenza ch’e’ non venisse sopra loro a Trevigi, e però in fretta intesono a fornire la città di gente d’arme a cavallo e a piè per la difesa, e d’altre cose necessarie, ma tanto giunsono tosto i nemici, che a compimento non lo poterono fare; nondimeno per levare il ridotto a’ loro avversari arsono le villate d’intorno, e i borghi del castello di Mestri. Giunto messer Currado Lupo incontenente colle sue masnade tedesche corse il paese, e cavalcò infino a Marghera presso di Vinegia a tre miglia di mare in sul canale ch’andava a Trevigi, nel quale trovarono più barche cariche di vittuaglia e d’arme ch’andavano a Trevigi, le quali prese, e gli uomini fece impiccare, e la roba conducere al campo. Costoro cominciarono a porre l’assedio alla città, e il re era rimaso addietro a Sigille con più di quaranta migliaia d’Ungari a cavallo, per venire appresso al detto assedio.

CAP. LI. De’ parlamenti che per questo si feciono in Lombardia.

Nell’avvenimento della gente del re d’Ungheria a Trevigi, da capo presono sospetto tutti i signori lombardi, e quelli di Milano andarono in persona a messer Cane Grande, e con lui s’accozzarono al lago di Garda a un suo castello, [174] e ivi fermarono tra loro lega e compagnia. E alla città di Bologna si ragunarono tutti gli altri collegati contro al signore di Milano, e da capo rifermarono loro lega, e di comune concordia catuna gente per sè mandò da capo ambasciadori al re d’Ungheria, a volere sapere se egli intendea con tanto grande esercito quant’egli avea seco fare altra novità in Italia che contro alla città di Trevigi; e saputo da lui che non venia per altro che per procacciare le sue terre dal comune di Vinegia, rimasono per contenti. E Ilbano di Bossina e messer Currado Lupo andarono al signore di Padova che vicinava col Trivigiano, e da parte del loro signore gli offersono amistà e buona pace e sicurtà del suo paese, pregandolo ch’allargasse la sua mano di dare all’oste del re vittuaglia per li loro danari, la qual cosa fu promessa con certo ordine a’ detti baroni. E tutte queste cose furono mosse e fatte in pochi dì, all’entrare del mese di luglio del detto anno.

CAP. LII. Come il re d’Ungheria ebbe Colligrano.

Colligrano è un grande e forte castello in Trevigiana presso a Trevigi a sedici miglia, e in sul passo del Frioli. Questo castello aveano ben fornito i Veneziani di gente d’arme per impedire il passo al re. In questi dì il re venia con grande esercito verso Trevigi, e giunto a Colligrano, vedendolo forte e in sul passo, quanto che [175] potesse ben passare per forza della sua cavalleria, non lo si volle lasciare addietro, e però mise in ordine gli Ungheri, ch’erano più di quarantamila per fare combattere la terra, con intenzione di non partirsene ch’e’ l’arebbe. I terrazzani vedendo la moltitudine che copriva la terra intorno intorno parecchie miglia, tutti con gli archi e colle saette, temendo il pericolo della battaglia, s’arrenderono alla persona del re innanzi che battaglia si cominciasse. Ed egli in persona, senza lasciare fare loro alcuno male, v’entrò dentro con quella gente ch’e’ volle, a dì 12 di luglio del detto anno, e prese la signoria in nome dell’imperadore, e fornitolo di suoi cavalieri e d’uno confidente capitano, si mise innanzi col suo esercito in verso la città di Trevigi.

CAP. LIII. Come il re d’Ungheria venne a oste a Trevigi.

Essendo il detto re in cammino, prese un’altro castello che si chiama Asille, e altre tenute d’intorno senza arrestarsi ad esse, ed ebbele a’ suoi comandamenti. E cavalcando innanzi, a dì 14 del detto mese giunse nel campo a Trevigi con più di quarantamila Ungheri e Schiavi a cavallo, oltre a quelli che prima erano venuti co’ suoi baroni. E con questo grande esercito prese tutto il paese intorno a Trevigi, e assediò la città e più altre castella in Trevigiana ivi d’intorno; e ’l suo proponimento era di non partirsi [176] dall’assedio ch’egli avrebbe la città al suo comandamento. Ma le cose alcuna volta non succedono alla volontà umana, e però con tutta la smisurata potenza non potè adempiere suo proponimento, come leggendo appresso dimostreremo.

CAP. LIV. Come si reggeano gli Ungheri in oste.

E’ pare cosa maravigliosa agl’Italiani ne’ nostri dì, a udire la moltitudine de’ cavalieri che seguitano il re d’Ungheria quando cavalca in arme contro i suoi nemici. E però, avvegnachè gli antichi fossono di queste cose più sperti, per lo lungo trapassamento di quella memoria qui ne rinnoveremo alcuna cosa, per levare l’ammirazione de’ moderni. Gli Ungheri sono grandissimi popoli, e quasi tutti si reggono sotto baronaggi, e le baronie d’Ungheria non sono per successione nè a vita, ma tutte si danno e tolgono a volontà del signore: e hanno per loro antica consuetudine ordinate quantità di cavalieri, de’ quali catuno barone, e catuno comune hanno a servire il loro re quando va o manda in fatti d’arme, sicchè il numero e ’l tempo del servigio catuno sa che l’ha a fare. E perocchè alla richiesta del signore subitamente senza soggiorno o intervallo conviene che sieno mossi, per questo quel comune e quello barone ha diputato quelli che a quel servigio debbino continovo stare apparecchiati di doppi cavalli, e chi di più, e di loro leggieri armi da offendere, cioè l’arco colle [177] frecce ne’ loro turcassi, e una spada lunga a difensione di loro persone. Portano generalmente farsetti di cordovano, i quali continovano per loro vestimenta, e com’è bene unto, v’aggiungono il nuovo, e poi l’altro, e appresso l’altro, e per questo modo gli fanno forti e assai difendevoli. La testa di rado armano, per non perdere la destrezza del reggere l’arco, ov’è tutta la loro speranza. Gli Ungheri hanno le gregge de’ cavalli grandissime, e sono non grandi, e co’ loro cavalli arano e governano il lavorio della terra, e tutte loro some sono carrette, e tutti gli nudriscono a stare stretti insieme, e legati per l’uno de’ piedi, sicchè in catuna parte con uno cavigliuolo fitto in terra li possono tenere, e il loro nudrimento è l’erba, fieno e strame con poca biada; massimamente quando usano d’andare verso levante, e valicare i lunghi diserti. E andando verso que’ paesi, usano selle lunghe a modo di barde, congiunte con usolieri; e quando sono in que’ cammini disabitati e ne’ loro eserciti, l’uomo e ’l cavallo in sul campo a scoperto cielo fanno un letto senz’altra tenda, e in tempo sereno aprono le bande delle loro selle a modo di barda, e fannosene materasse, e sopr’esse dormono la notte; e se ’l tempo è di piova, che di rado avviene, o dell’una parte o d’amendue si fanno coperta, e’ loro cavalli usi a ciò non si curano di stare al sereno e alla piova, e non hanno danno in que’ paesi che di rado vi piove; altrove non è così, ma pure comportano meglio i disagi; e molti ne castrano, che si mantengono meglio, e sono più mansueti. Di loro vivanda con [178] lieve incarico sono ne’ diserti ben forniti, e la cagione di ciò e la loro provvisione è questa; che in Ungheria cresce grande moltitudine di buoi e di vacche, i quali non lavorano la terra, e avendo larga pastura, crescono e ingrassano tosto, i quali elli uccidono per avere il cuoio, e ’l grasso che fanno ne fanno grande mercatanzia, e la carne fanno cuocere in grandi caldaie; e com’ell’è ben cotta e salata la fanno dividere dall’ossa, e appresso la fanno seccare ne’ forni o in altro modo, e secca, la fanno polverezzare e recare in sottile polvere, e così la serbano; e quando vanno pe’ deserti con grande esercito, ove non trovano alcuna cosa da vivere, portano paiuoli e altri vasi di rame, e catuno per sè porta uno sacchetto di questa polvere per provvisione di guerra, e oltre a ciò il signore ne fa portare in sulle carrette gran quantità; e quando s’abbattono alle fiumane o altre acque, quivi s’arrestano, e pieni i loro vaselli d’acqua la fanno bollire, e bollita, vi mettono suso di questa polvere secondo la quantità de’ compagni che s’accostano insieme; la polvere ricresce e gonfia, e d’una menata o di due si fa pieno il vaso a modo di farinata, e dà sustanza grande da nutricare, e rende gli uomini forti con poco pane, o per se medesima senza pane. E però non è maraviglia perchè gran moltitudine stieno e passino lungamente per li diserti senza trovare foraggio, che i cavalli si nutricano coll’erbe e col fieno, e gli uomini con questa carne martoriata. Ma ne’ nostri paesi, ove trovano il pane e ’l vino e la carne fresca, infastidiscono il loro cibo, il quale per dolce usano [179] ne’ deserti; e però mutano costume, e non saprebbono vivere di quell’impastata vivanda, e però non potrebbono in tanto numero ne’ nostri paesi durare, che le città e le castella sono forti, e i campi stretti e le genti provvedute; e però avviene, che quanti più in numero di qua ne passano, più tosto per necessità di vita si confondono. La loro guerra non è in potere mantenere campo, ma di correre e fuggire e cacciare, saettando le loro saette, e di rivolgersi e di ritornare alla battaglia. E molto sono atti e destri a fare preda e lunghe cavalcate, e molto magagnano colle saette gli altrui cavalli e le genti a piede, e per tanto sono utili ove sia chi possa tenere campo, perocchè di fare guerra in corso e tribolare i nemici d’assalto sono maestri, e non si curano di morire, e però si mettono a ogni gran pericolo. E quando le battaglie si commettono, sempre gli Ungheri si tengono per loro, e combattono, partendosi a dieci o quindici insieme, chi a destra e chi a sinistra, e corrono a fedire dalla lunga con le loro saette, e appresso in su’ loro correnti cavalli si fuggono, e solieno andare senza insegna o alcuna bandiera, e senza stromento da battaglia, e a certa percossa di loro turcassi s’accoglievano insieme. Abbianne forse oltre al dovere stesa nostra materia, ma perchè in questo nostro tempo si sono cominciati a stendere nelle italiane guerre, non è male a sapere loro condizione.

[180]

CAP. LV. Come l’oste si mantenea a Trevigi.

Stando il re d’Ungheria all’assedio di Trevigi, venne a lui messer Gran Cane della Scala con cinquecento barbute di fiorita gente d’arme, e ricevuto dal re graziosamente stette a parlamentare con lui in segreto, e tornossi a Verona, lasciati al servigio del re que’ cavalieri che menati avea con seco, avvegnachè il re, avendo troppa gente della sua, non gli arebbe voluti, ma per cortesia gli ritenne. Messer Bernabò di Milano gli mandò cinquecento balestrieri, i quali gli furono assai a grado; e incontanente il re fece strignere l’oste intorno alla città, e rizzarvi da diverse parti da diciotto difici, e cominciava a volere fare cave per abbattere le mura, ma di quello quelli della città poco si torneano, perocch’ell’è posta in piano, ed è quel piano sì abbondante d’acqua viva, che non si può cavare braccia due in profondo, che da catuna parte l’acqua surge abbondante e bella. Quelli che dentro v’erano alla guardia della città per i Veneziani, vedendo l’oste strignersi alle mura della città, francamente si mostrarono apparecchiati alla difesa, e contro a’ trabocchi aveano fatti terrati e altri utili ripari. Il re e ’l suo consiglio avendo provveduto la terra intorno, conobbono che non era cosa possibile a volerla vincere per battaglia, avendo difensori come la sentivano fornita, perocchè le mura erano forti e alte, [181] e molto bene provvedute e armate, e i fossi larghi e pieni d’acqua viva. E per tanto non era da potere sperare vittoria, se non per lungo assedio, e a questo si disponea la volontà reale, ma la moltitudine de’ suoi Ungheri bestiali e baldanzosi generava confusione, che non si poteano reggere nè tenere ordine; e però avvenne, non ostante che il re col signore di Padova avesse pace e concordia (per la quale mandava ogni dì grande quantità di pane cotto all’oste in molte carra, e quattro carrette di vino per mantenere in dovizia l’oste, senza quella vittuaglia che le singulari persone del suo contado vi portavano) e in patto era che il suo contado e distretto dovea essere salvo e sicuro da tutto l’esercito del re, che non ostante le dette promesse gli Ungheri cavalcavano di loro movimento in sul Padovano, uccidendo ardendo e rubando, e facendo preda come sopra i nemici; onde il signore si turbò, e non mandò più nel campo l’ordinata vittuaglia, e’ paesani per non essere rubati si rimasono di portarvene, per la qual cosa il grande esercito cominciò a sentire difetto, e sformata carestia delle cose da vivere oltre all’usato modo. Lasceremo alquanto questa materia, per dare all’altre cose che occorsono alla fine di questo assedio il loro debito.

[182]

CAP. LVI. Come la gran compagnia passò nella Marca.

All’uscita del mese di luglio del detto anno, il conte di Lando colla sua compagnia uscì del Regno per la via della marina di san Fabiano. La forza del legato ch’era in sul Tronto non si potè tanto stendere che la compagnia inverso la marina non valicasse il fiume, e valicati senza contasto, si dirizzarono verso Fermo, e tra la città d’Ascoli e di Fermo posono loro campo; nel quale si trovarono duemilacinquecento barbute ben montati e bene in arme, e gran quantità di cavallari e di saccomanni in ronzini e in somieri, e mille masnadieri, e barattieri, e femmine di mondo, e bordaglia da carogna bene più di seimila. Essendosi accampati, sentirono come il legato era forte di gente d’arme e apparecchiato a tenerli stretti dalle gualdane, e però cercarono accordo con lui, e vennero a’ patti, che promisono in dodici dì essere fuori della Marca d’Ancona, senza fare prede o danno al paese, e che prenderebbono derrata per danaio, e’ paesani doveano apparecchiare la vittuaglia al loro trapasso. Seguirono i patti, ma non del termine, e dovunque tenevano campo non poteano fare senza grave danno de’ paesani; e a dì 10 del mese d’agosto furono passati in Romagna.

[183]

CAP. LVII. De’ fatti dell’isola di Cicilia.

In questi tempi nell’isola di Cicilia avvenne, che essendo morto Lodovico che si faceva dire re, e un suo fratello, ch’erano in guardia della setta de’ Catalani, l’altra parte della setta degl’Italiani, ond’erano capo i conti della casa di Chiaramonte, i quali s’erano accostati col re Luigi di Puglia, presono più ardire, e’ Catalani e’ loro seguaci n’abbassarono; e per questo avvenne, che messer Niccola di Cesaro con alquanti grandi cittadini di Messina i quali erano stati cacciati di Messina vi ritornarono; e questo messer Niccola essendo cacciato della terra, s’era ridotto di volontà del re Luigi nel castello di Melazzo, e fatto capitano de’ cavalieri del detto re Luigi per guardare il castello e guerreggiare i Messinesi. Costui ritornato in Messina co’ suoi consorti e con altri di suo seguito, molto segretamente si cominciò a intendere co’ caporali di Chiaramonte, e all’entrata di luglio del detto anno, provveduto a’ suoi segreti, fece muovere certi di sua setta, i quali cominciarono mischia con quelli cittadini ch’erano avversari di messer Niccola, e che l’aveano tenuto fuori di Messina. Essendo per questa novità la terra a romore, come ordinato era, messer Niccola ebbe di subito da Melazzo dugento cavalieri che v’erano del re Luigi e quattrocento fanti, i quali mise nella città, e con loro e con suo [184] seguito di cittadini corse la terra, e caccionne fuori diciannove famiglie de’ suoi avversari, e tutti gli fece rubare, e fecesene signore, non per titolo, ma come maggiore governava il reggimento di quella. E così in tutte le parti dell’isola erano dissensioni e brighe per le maladette sette, ma l’una calava e l’altra montava con continove uccisioni e guastamento del paese; e già per terre che ’l re Luigi v’avesse o per sua forza di gente, che ve ne manteneva poca per povertà di moneta, lievemente montava al fatto. La divisione de’ paesani mutava la loro fortuna, come seguendo nel loro tempo si potrà vedere.

CAP. LVIII. Come il conte di Lancastro cavalcò fino a Parigi.

Del mese di luglio del detto anno, il conte di Lancastro con due fratelli del redi Navarra, con quattromila cavalieri e molti arcieri inghilesi, per fare maggiore onta al re di Francia, sentendo s’apparecchiava di molta baronia, si misono a cammino, scorrendo i paesi inverso la città di Parigi, facendo col fuoco gran danno alle villate di fuori e predando in ogni parte, e misonsi tanto innanzi, che a una giornata s’appressarono a Parigi. Sentendo che ’l re s’apparecchiava di venire contro a loro con diecimila cavalieri e grande popolo, diedono la volta girando il paese, e facendo continovi danni e gravi si ridussono in Normandia a un castello che si [185] chiamava Bertoglio, innanzi al quale fermarono loro campo per difenderlo, avvisando che ’l re di Francia il dovesse fare assediare, perocchè tribolava col ricetto degl’Inghilesi tutta Normandia.

CAP. LIX. Come il re di Francia andò in Normandia.

Il re di Francia infocato di sdegno più contro a messer Filippo di Navarra che gli era venuto addosso, che contro al duca di Lancastro, sentendo che s’era ridotto nel Castello di Bertoglio sotto la guardia degl’Inghilesi, di presente in persona si mosse da Parigi con quella cavalleria ch’avea accolta, lasciando d’essere seguito dagli altri, e dirizzossi in Normandia verso Bertoglio; e trovandosi con più di diecimila cavalieri, e con grande moltitudine di sergenti, si mise a campo presso a’ suoi nemici, a intenzione di combattere con loro. Il conte di Lancastro avvisato guerriere, sentendosi il re appresso con molto maggior forza che la sua, ebbe un suo avvisato scudiere e ben parlante, il quale mandò al re di Francia, e fecelo richiedere di battaglia. Il re allegramente ricevette il gaggio della battaglia, facendo allo scudiere larghi doni; il quale volendo dimostrare ch’avesse amore al re, in sul partire gli disse, che la venuta del conte alla battaglia sarebbe innanzi dì, dicendogli, che per tempo si dovesse apparecchiare. Il re mucciando gli disse, che di ciò non si curava; venisse quando volesse, pure che venisse alla battaglia; ma le parole dello [186] scudiere furono molto piene di malizia, perocchè sapendo che ’l conte la notte si dovea partire, disse questo acciocch’e’ Franceschi sentendo il movimento credessono che ciò fosse apparecchio di battaglia e non di fuga, e così avvenne, che ’l conte di Lancastro, e messer Filippo di Navarra in quella notte, facendo fare gran vista nel campo e gran romore, chetamente si ricolsono, e partirono colla loro gente. Il re la mattina scoperto il baratto degl’Inghilesi si mise a oste al castello con proponimento di lasciare gli altri assalti degl’Inghilesi, e attendere a racquistare le terre che rubellate gli erano in Normandia. In questo tempo il duca di Guales faceva alle terre del re di Francia grandi guerre in Guascogna, ma però il re non si volle partire dall’assedio di Bertuglio infino a tanto che l’ebbe a’ suoi comandamenti, arrenduti al re salve le persone, e così fu fatto; avendo il re vittoria d’avere cacciati con vergogna i nemici, e vinto il castello.

CAP. LX. Come il papa e l’imperadore diedono titolo al re d’Ungheria.

In questi tempi mostravano il papa e’ cardinali grande affezione al re d’Ungheria, o che fosse procaccio del detto re, che spesso avea in corte suoi ambasciadori, o che motivo fosse della Chiesa per fargli onore, a dì quattro del mese d’agosto del detto anno, il papa e i cardinali di concordia in consistoro il pronunziarono e dichiararono [187] gonfaloniere di santa Chiesa contro agl’infedeli. In questo medesimo tempo, essendo il detto re all’assedio di Trevigi, l’imperadore il fece suo vicario nella guerra de’ Veneziani, ed egli levò nel campo la sua insegna, e tutte le terre che per lui s’acquistavano riceveva in nome dell’imperadore.

CAP. LXI. Come i Fiorentini s’accordarono di fare porto a Talamone.

Avemo narrato addietro, come il comune di Firenze per lo torto ch’e’ Pisani faceano a’ suoi cittadini, d’avere levata loro la franchigia contro a’ patti della pace, essendo venuto il termine che i mercatanti s’erano partiti da Pisa, e ritrattone le mercatanzie e’ danari, del presente mese d’agosto del detto anno, avendo i dieci del mare lungamente trattato col comune di Siena di volere far porto a Talamone, recato l’acconciamento del porto e del ridotto in terra, e della guardia, che da loro parte era a fare, e del dirizzamento del cammino, e dell’albergherie, e appresso di quello che per dazio e gabelle la mercatanzia de’ Fiorentini avesse a pagare, in piena concordia, per riformagioni de’ consigli di catuno comune, si fermò per dieci anni di fare i Fiorentini porto là e ridotto a Siena, e i Sanesi di conservare i patti promessi. È vero, che tra gli altri patti era promesso di sbandire le strade da Siena a Pisa per divieto d’ogni mercatanzia, ma questo [188] non osservarono i Sanesi, anzi correa il cammino dall’una città all’altra in grande acconcio de’ Pisani. Avvedendosene i Fiorentini, se ne dolsono, ma ’l reggimento del comune di Siena non se ne movea. Vedendo de’ cittadini che voleano s’attenesse la fede al comune di Firenze, e che i loro rettori non lo faceano, ordinarono, che certi sbanditi loro cittadini rompessono e rubassono la strada e la mercatanzia, e forse fu d’assentimento de’ rettori per coprirsi al comune di Pisa. Costoro feciono volentieri il servigio per modo che ’l cammino al tutto per terra fu loro tolto. E i Pisani sopra gli altri Toscani saputi e maliziosi, a questa volta si trovarono presi nella loro malizia; perocchè incontanente che i Fiorentini presono porto a Talamone e ridotto a Siena, tutti gli altri mercatanti d’ogni parte abbandonarono il porto e la città di Pisa, e votarono la città d’ogni mercatanzia, e le case dell’abitazioni, e ’l mestiere delle loro mercerie, e gli alberghi de’ mercatanti e de’ viandanti, e’ cammini de’ vetturali, e ’l porto delle navi, per modo che in brieve tempo s’avvidono, che la loro città era divenuta una terra solitaria castellana; e nella città n’era contro a’ loro rettori grande repetio. Allora s’accorsono senza suscitamento di guerra quanto guadagno tornava al loro comune per avere rotta la pace e la franchigia a’ Fiorentini. Allora cominciarono a cercare ogni via e modo, con ogni vantangio che volessono i Fiorentini, di ritornarli a stare in Pisa; ma i Fiorentini, sdegnati della fede rotta pe’ Pisani cotante volte al loro comune, non poterono essere smossi del fermo proposito [189] di fare col fatto conoscenti i Pisani, che i Fiorentini poteano ben fare le mercatanzie per terra e per mare senza loro, ed eglino male usare il porto, e’ mercatanti, e la mercatanzia, e l’arti, e’ mestieri a utilità de’ loro cittadini, e l’entrate del loro comune senza i Fiorentini. E perchè per indietro non si potessono atare, si fece divieto in tutto il distretto di Firenze d’ogni mercatanzia o roba ch’andasse o venisse verso Pisa, senza rompere il cammino a’ viandanti. E di questo seguitarono appresso maggiori cose per mare e per terra, come leggendo innanzi per li tempi si potrà trovare,

CAP. LXII. Come messer Bruzzi cercò di tradire il signore di Bologna.

Messer Bruzzi, figliuolo non legittimo che fu di messer Luchino signore di Milano, essendo per sospetto de’ signori di Milano cacciato di quella, e per sue cattive operazioni stato in ribellione più tempo, vedendosi messer Giovanni da Oleggio molto solo di confidenti nella sua signoria, e conoscendo messer Bruzzi pro’ e ardito, e bene avvisato in guerra e di gran consiglio, il recò a sè, parendogli potersi confidare di lui, e assegnogli larga provvisione, e facevagli onore, e tutte le maggiori cose di fatti d’arme li commettea; e oltre a ciò in camera l’avea a’ suoi segreti consigli, e mostravagli tanto amore, ch’e’ Bolognesi temevano, che se messer Giovanni morisse [190] costui non rimanesse signore; ma l’animo tirannesco affrettando l’ambizione della signoria li gravava d’attendere, e però cercava di fornirlo più tosto, e trattò di torre la signoria a messer Giovanni, ma non seppe fare il trattato sì coperto che a messer Giovanni, ch’era maestro di buona guardia e di savia investigagione, non li venisse palese. E tornando messer Bruzzi di fuori con molta gente d’arme in Bologna con grande pompa, messer Giovanni mandò per lui, e avendolo in camera, li rammentò l’onore e ’l beneficio che gli avea cominciato a fare, e l’animo ch’avea di farlo grande; e appresso li mostrò il trattato ch’e’ tenea per torli la signoria di Bologna sì aperto, ch’e’ non glie lo potè negare: ma per amore della casa de’ Visconti, dond’era nato, gli disse, che li perdonava la morte; ma per vendetta dello sconoscimento dell’onore che gli avea fatto trovandolo traditore il fece spogliare in giubbetto, e cacciare a piè fuori di suo distretto incontanente, e diede congio a tutta sua famiglia, e ritenne l’arme gli arnesi e i cavalli.

CAP. LXIII. Come i Veneziani cercarono accordo col re d’Ungheria.

Di questo mese d’agosto del detto anno, vedendo i Veneziani essere recati a mal partito nella guerra col re d’Ungheria, signore di così gran potenza, e pensando che per lo cominciamento della guerra i loro cittadini erano per le [191] spese loro premuti dal comune infino al sangue, pensarono ch’altro scampo non era per loro se non di procacciare la sua pace; e però elessono parecchi de’ maggiori e de’ più savi cittadini di Vinegia, e mandaronli al re nel campo a Trevigi con pieno mandato, informati dell’intenzione e volontà del loro comune, e giunti al re, da lui furono ricevuti onorevolemente; ed essendo a parlamento con lui, gli offersono da parte del comune di Vinegia, come quando potessono avere da lui buona pace, che ’l comune lascerebbe la città di Giara, con patto ch’ella dovesse rimanere nel primo stato in sua libertà, e che renderebbono liberamente certe terre nomate della Schiavonia a sua volontà, e certe altre voleano ritenere e riconoscere da lui, con quello convenevole censo a dare ogn’anno al re ch’a lui piacesse, e offerendoli di ristituire per tempo ordinato quella quantità di pecunia per suoi interessi e spese che fosse convenevole, e di che egli giustamente si potesse contentare. Al re parve strano ch’e’ volessono trarre Giara del suo reame e metterla in libertà, e che per patto li convenisse lasciare le sue terre al comune di Vinegia a censo; e questo riputava in vergogna della sua corona, e però non volle consentire a questa pace, nè a questo accordo, se liberamente non gli fossono restituite le terre del suo reame. Molti di questo biasimarono il re, parendo ch’egli dovesse avere preso questo accordo con suo vantaggio, per quello ch’appresso ne seguitò di suo poco onore, ma chi riguarderà al fine e alla potenza reale non li darà biasimo della sua alta risposta.

[192]

CAP. LXIV. Come il signore di Bologna scoperse un altro trattato contro a sè.

Messer Bernabò di Milano, avendo sopra all’altre cose cuore a’ fatti di Bologna, come avea ordinato l’uno trattato contro al signore di Bologna, e era scoperto, così avea ricominciato l’altro: apparve cosa maravigliosa, che tutti si scoprivano per sè stessi per non pensati nè provveduti modi. Avea in questi dì messer Giovanni da Oleggio fatto podestà di san Giovanni in Percesena, e datali provvisione in altre terre circustanti, un Milanese, in cui avea grande e antica confidanza. Tanto seppe adoperare messer Bernabò, che corruppe questo podestà milanese, e corruppe il suo cancelliere, il quale dovea fare lettere da parte del signore per certo modo come volea il detto podestà; e già ogni cosa era recata in opera per modo, ch’era mossa la cavalleria che dovea entrare nelle castella sotto il titolo delle lettere del signore di Bologna, e mandò messer Bernabò un suo fidato messaggere innanzi al podestà di san Giovanni colle sue lettere. Avvenne che in quel dì, alcune ore innanzi che ’l fante giugnesse al castello di san Giovanni, il podestà era ito a Bologna; il fante li tenne dietro, e cominciò infra sè a dubitare delle lettere che portava, perocchè sentiva della cagione perch’egli andava; e giunto a Bologna, trovo che ’l podestà era col signore, e [193] allora li montò più il sospetto, immaginando che ’l trattato fosse scoperto, e per campare sè, tanto fu forte la sua immaginazione ch’e’ si mise ad andare al signore, e con grande improntitudine fece d’avere udienza da lui, e allora li manifestò il fatto; e per provare la verità li diè le lettere di messer Bernabò ch’e’ portava al podestà, per le quali fu manifesto che san Giovanni, e Nonantola e altre castella, in uno dì doveano essere date per lo trattato del podestà alla gente di messer Bernabò, il quale era ancora in casa del signore; messer Giovanni vedute quelle lettere e disaminato il fante, fece ritenere il podestà e il cancelliere, è ritrovata con loro la verità del fatto, e colpevoli, di presente provvide alla guardia delle terre, e costoro con anche dieci di loro seguito fece morire.

CAP. LXV. Di certa novità che gli Ungheri feciono nel campo a Trevigi.

La disordinata moltitudine de’ cavalieri ungheri, che a modo di gente barbara non sanno osservare la disciplina militare, nè essere ubbidienti a’ loro conducitori, come detto è poco addietro, aveano scorso il Padovano, perchè la vittuaglia che di là solea venire non venia, e la carestia montava nel campo. Per la qual cosa al primo fallo n’arrosono uno maggiore, e presono riotta co’ cavalieri tedeschi che v’erano con messer Currado Lupo e con gli altri conestabili tedeschi [194] che fedelmente servivano il loro signore, e per arroganza li villaneggiavano; e fatto questo, corsono con furore alla camera dove il re avea ordinato il fornimento della vittuaglia e dell’altre cose per conservare l’oste, e rubaronla; e così in pochi dì ebbono a tanto condotta l’oste, sconciando l’ordine che la mantenea, che per necessità fu costretto il re di partirsi dall’assedio, come appresso diviseremo: verificandosi quel detto del filosofo il quale disse: che le sopragrandi cose reggere non si possono, e quelle che reggere non si possono, lungamente durare non possono.

CAP. LXVI. Come il re d’Ungheria si levò da oste da Trevigi.

Il re d’Ungheria vedendo l’oste sua sconcia per la sfrenata baldanza della moltitudine de’ suoi Ungheri, e che i difetti della vittuaglia erano senza rimedio, si pentè di non avere presa la concordia che potuta avea prendere con suo onore co’ Veneziani; ed essendo naturalmente di subito movimento, senza deliberare con altro consiglio, improvviso a tutti, a dì 23 del mese d’agosto del detto anno si partì dall’assedio di Trevigi, ov’era con più di trecento migliaia di cavalieri, è passò la Piave raccolta tutta sua gente a salvamento; perocchè quelli della città nè segno nè avviso n’ebbono ch’e’ si dovesse partire, e alcuni dì stettono innanzi che pienamente si potesse [195] credere la loro partita. A Colligrano fu la loro raccolta, e in quella terra lasciò duemila cavalieri ungari alla guardia della terra per fare guerra a Trevigi, ed egli con tutto l’altro esercito si tornò in Ungheria con poco onore della sua impresa a questa volta.

CAP. LXVII. Raccoglimento di condizioni, e movimento del re.

Questo re d’Ungheria, per quella verità che sapere ne potemmo, è uomo di gran cuore, pro’ e ardito di sua persona, e nelle prosperità di grandi imprese molto animoso, rigido e fiero in quelle, e molto si fa temere a’ suoi baroni, e vuole avere presti i loro debiti servigi; è grande impigliatore senza debita provvedenza; e a sua gente in fatti d’arme è più abbandonato e baldanzoso che provveduto, per la soperchia fidanza, che havea in loro ed eglino in lui, perocchè molto è cortese a tutti e di buona aria; assai volte ha mostrati esempi di subiti e lievi movimenti nelle grandi cose, e l’avverse sa meglio abbandonare, partendosi da esse, che stando con virtù resistere a quelle.

[196]

CAP. LXVIII. Come la gente della lega di Lombardia sconfisse il Biscione a Castel Lione.

Essendo lungamente stato assediato il forte Castel Leone de’ Mantovani dalla forza de’ signori di Milano, e recato a stretto partito, i signori di Mantova coll’aiuto del marchese di Ferrara e del signore di Bologna raunate subitamente, all’uscita d’agosto anno detto, mille dugento barbute e grande popolo per soccorrere il castello, s’avviarono molto prestamente verso il campo de’ nemici, i quali vedendosi venire improvviso addosso i Mantovani si levarono dall’assedio, e ordinarono una grossa schiera alla loro riscossa e innanzi che la gente de’ Mantovani giugnesse al campo, si ridussono a uno castello ivi presso de’ loro signori di Milano; ma la schiera fatta per la riscossa fu soppressa dalla gente de’ Mantovani e sconfitta, e morti e presi la maggior parte, e ’l castello liberato dall’assedio; e rifornito di nuova gente e di molta vittuaglia con vittoria si tornarono al loro signore, avendo vituperata la gente de’ signori di Milano di quella loro lunga impresa.

[197]

CAP. LXIX. Trattati de’ Ciciliani.

Detto abbiamo addietro, come certi potenti cittadini della città di Messina nominati que’ di Cesare cacciarono della città altri cittadini loro avversari, e rimasi i maggiori, s’accostarono co’ baroni di Chiaramonte, i quali teneano col re Luigi del Regno. Nondimeno perchè a loro parea essere nell’isola i maggiori, eziandio senza l’aiuto del detto re, e’ cercarono di riducere a loro Federigo loro legittimo signore, e trarlo delle mani de’ Catalani, e conducerlo a Messina e farlo coronare dell’isola. E per dimostrare che eglino avessono affezione al loro signore naturale dell’isola, messer Niccola di Cesaro in persona, a cui il re Luigi avea accomandata la terra di Melazzo, andò là con gente d’arme, e fece per più di combattere coloro che per lo re guardavano la rocca, tanto che l’ebbe. Per la qual cosa i Messinesi presono molta confidanza di messer Niccola, e don Federigo medesimo prese speranza e diede intenzione di venire a Messina, e per tutto si divolgò che l’accordo di Cicilia era fatto. Ma o che questo trattato fosse fatto ad ingegno di malizia, come si credette, o che la setta de’ Catalani non si fidasse, la cosa si ruppe tra’ Ciciliani, e seguitonne la chiamata a Messina del re Luigi, come appresso al suo tempo, conseguendo nostra materia, diviseremo.

[198]

CAP. LXX. Come la compagnia stette sopra Ravenna.

Venuta la compagnia del conte di Lando del Regno in Romagna, il legato per tema de’ baratti di quella gente senza fede si ritrasse dall’assedio di Cesena, e dalla cominciata guerra contro al capitano di Forlì, pensando saviamente i pericoli che occorrere li poteano. Il capitano a quella compagnia dava il mercato, e a’ capitani e a’ maggiori conestabili facea doni per avere il loro aiuto: e la moltitudine di quello esercito si stava in sul contado di Ravenna facendo danno di prede, e minacciando di dargli il guasto, se ’l loro signore messer Bernardino da Polenta non desse loro danari. Ma egli, essendo molto ricco di moneta, chiamò a consiglio i Cittadini di Ravenna; e con loro ordinò il modo dell’ammenda del guasto, e volle in questo caso, come valoroso tiranno, innanzi sodisfare il danno a’ suoi cittadini, che sottomettersi al tributo della compagnia. Onde molto fu commendato da’ savi; perocchè del guasto la compagnia fa danno a sè senza trarne alcun frutto, e il trarre danari da’ signori e da’ comuni è un accrescere baldanza e favore a mantenere le compagnie e servaggio de’ popoli.

[199]

CAP. LXXI. Come i Fiorentini ordinarono di fare balestrieri.

Sentendo i Fiorentini la gran compagnia in Romagna, e che ’l termine promesso per quella di non gravare i Fiorentini compieva, si provvidono d’alquanti cavalieri, e mandaronli in Mugello per contradire i passi dell’alpe, e feciono eletta nella città e nel contado di balestrieri, e del mese di luglio del detto anno feciono mostra di duemilacinquecento balestrieri sperti del balestro, tutti armati a corazzine, e mandaronne a’ passi dell’alpe, e senza arresto, ne compresono appresso fino in quattromila, tutti con buone corazzine, della qual cosa le terre vicine ghibelline, e guelfe di Toscana, che allora viveano in sospetto, stavano in gelosia e in guardia, e la compagnia medesima ne cominciò a dottare. Nondimeno il comune, per savia e segreta provvidenza, mandò alcuni cittadini per ambasciadori alla compagnia, i quali teneano ragionamento di trattato, e passavano tempo, e tentavano con ispesa di trarre de’ caporali della compagnia e conducergli a soldo; e per questo modo temporeggiando co’ conducitori di quella, tanto che il grano e i biadi del nostro contado fu fuori de’ campi, e ’l comune fortificato di cavalieri, e masnadieri, e balestrieri, e presi i passi in tutta l’alpe, ove potea essere il passo alla compagnia, si ruppono dal trattato, e tornaronsi a Firenze. La compagnia, sentendo il comune di [200] Firenze provveduto contro a sè, con accrescimento di sdegno perdè la speranza d’entrare a fare la ricolta tributaria in Toscana, e però tenne co’ Lombardi suo trattato, il quale fornì, come innanzi al suo tempo racconteremo.

CAP. LXXII. L’ordine ch’e’ Fiorentini presono per mantenere i balestrieri.

Piacendo a’ Fiorentini molto il nuovo trovato de’ balestrieri, il fermarono con ordine, e nella città n’elessono ottocento, tutti balestrieri provati, partendoli per gonfalone, e a venticinque davano un conestabile, e le balestra e le corazze di catuno inarcavano del marco del comune, e per simile modo n’elessono nel contado, dandone secondo l’estimo cotanti per cento, e appresso nel distretto ne feciono scegliere a catuna comunanza, terra o castello quelli che si conveniano, tanti che in tutto n’ebbono quattromila; e ordinarono per li loro soldi certa entrata del comune, e che catuno de’ detti balestrieri, non andando al servigio del comune, standosi a casa sua avesse ogni mese soldi venti di provvisione dal comune, e ’l conestabile soldi quaranta, e dovessono stare apparecchiati a ogni richiesta del comune; e quando il comune li mandasse o tenesse in suo servigio, dovessono avere il mese fiorini tre di soldo, e ogni capo di tre o di quattro mesi erano tenuti a volontà degli uficiali deputati sopra loro, ch’erano due [201] cittadini per catuno quartiere, colle loro balestra e colle corazze marcate del marco del comune. E oltre a ciò, a ogni rassegnamento gli uficiali facevano fare per ogni gonfalone un bello e nobile balestro e tre ricche ghiere, il quale poneano in premio e in onore di quel balestriere della compagnia del gonfalone, che tre continovi tratti saettando a berzaglio vinceva gli altri; e ancora così faceano ne’ comuni del contado per esercitare gli uomini, per vaghezza dell’onore, a divenire buoni balestrieri; e fu cagione di grande esercitamento del balestro, tanto che tra sè nella città e nel contado ogni dì di festa si ragunavano insieme i balestrieri a farne loro giuoco e sollazzo per singulare diporto.

CAP. LXXIII. Come i Trevigiani furono soppresi dagli Ungheri con loro grave danno.

Tornando un poco nostra materia, a’ fatti di Trevigi, avendo veduto coloro ch’erano per i Veneziani alla guardia di Trevigi la subita partita del re d’Ungheria e del suo grande esercito, cominciarono a far tornare i lavoratori nel contado, e conducervi il bestiame, e sparti per le contrade. Gli Ungheri ch’erano rimasi a Colligrano e per le terre vicine, sentendo il paese pieno di preda, mandarono scorrendo di loro Ungheri fino presso a Trevigi intorno di quattrocento cavalli, i quali raunarono d’uomini e di bestiame una grande preda; i cavalieri e’ balestrieri [202] ch’erano in Trevigi con loro capitani veneziani, per risquotere la preda gagliardamente uscirono fuori più di cinquecento cavalieri e assai masnadieri, i quali di presente s’aggiunsono con gli Ungheri; ed eglino si cominciarono a difendere andando verso i nemici, e voltando e appresso ritornando; e continovo si ritraevano, ove sapevano ch’era l’aguato della loro gente, non facendone alcuno sembiante; e così continuando, e perseguitandoli i Trevigiani, gli ebbono condotti dov’erano riposti in aguato ottocento de’ loro Ungheri, i quali di subito uscirono addosso a’ Trevigiani, e rinchiusi tra loro, più di dugento n’uccisono in sul campo, e presonne più di trecento, e menaronsene i prigioni e la preda, avendo più danno fatto a’ Veneziani e a quelli del paese in questa giornata, che il re nell’assedio con tutto il suo esercito; e questo fu a dì 23 del mese d’agosto anno detto.

CAP. LXXIV. Come il Regno era d’ogni parte in guerra.

Essendo, come detto abbiamo poco innanzi, uscita la compagnia del reame, il re rimaso povero d’avere e di gente d’arme non potea riparare alla forza de’ ladroni che per tutto scorrevano il reame, ricettati da’ baroni ch’erano scorsi a mal fare, e partivano le ruberie e le prede con loro; e di verso le parti di Campagna centocinquanta cavalieri, ch’erano rimasi della [203] compagnia, tribolavano tutto il paese d’intorno, e rubavano e rompevano le strade e’ cammini, e così gli altri caporali de’ ladroni facevano in principato e in Terra di Lavoro; e in Puglia il paladino col favore del duca di Durazzo, faceva il simigliante, e con ottocento barbute avea assediato Sanseverino, scorrendo e rubando tutto il piano di Puglia; e per questo il Regno era in maggiore tempesta che quando v’era la gran compagnia, e niuno cammino v’era rimaso sicuro; catuna parte del Regno era corrotta a mal fare, fuori che le buone terre, per gran colpa della mala provvedenza del re loro signore, che fuori de’ suoi diletti poco d’altro si mostrava di curare.

CAP. LXXV. Come i collegati condussono la compagnia al loro soldo.

La compagnia del conte di Lando stando lungamente sopra il contado di Ravenna, e premendo per via d’aiuto gravemente i Forlivesi, conosciuto che per lo riparo e provvedenza del comune di Firenze a loro era malagevole e pericoloso entrare in Toscana, s’accordarono d’andare a servire i collegati contro a’ signori di Milano in Lombardia; e condotti per quattro mesi per quelli della lega, promisono di stare il detto tempo sopra le terre de’ signori di Milano guerreggiando il paese a loro utilità; e a dì 18 del mese di settembre anni Domini 1356 si partirono di Romagna, e presono loro cammino in Lombardia, [204] e tra Bologna e Modena attesono l’altra forza de’ collegati e ’l capitano ch’appresso diviseremo.

CAP. LXXVI. De’ fatti de’ collegati di Lombardia.

Erano in questo tempo collegati contro a’ signori di Milano il signore di Mantova, il marchese di Ferrara e ’l signore di Bologna, nominati caporali, avvegnachè assai degli altri tacitamente teneano con loro; e avendo procacciato d’avere la compagnia al loro servigio, come detto è, trattarono coll’imperadore d’avere capitano da lui a quell’impresa, e l’imperadore avendo l’animo contro a’ signori di Milano, i quali avea trovati molto potenti, avendo in Pisa per suo vicario messer Astorgio Marcovaldo vescovo d’Augusta, uomo valoroso in arme e di grande autorità, per non volersi scoprire manifestamente contro a’ tiranni, concedette la libertà al vescovo, e in segreto l’ordinò suo vicario, e a ciò li concedette tacitamente suoi privilegi, commettendoli che ciò non manifestasse se non quando sopra loro si vedesse in gran prosperità, sicchè con onore dell’imperio il potesse fare, altrimenti nol facesse, ma mostrasse da sè fare quell’impresa. Costui chiamato dalla lega de’ Lombardi si partì da Pisa e venne a Firenze, ove li fu fatto grande onore; e senza soggiorno se n’andò alla compagnia, e fu fatto loro conduttore, e dell’altra gente de’ Lombardi collegati; il quale [205] valentemente s’ordinò contro a’ tiranni, e fece grandi cose, come appresso narreremo; ma richiedendoci innanzi alcune cose grandi conviene che prima abbiano il debito della nostra penna.

CAP. LXXVII. Come i Brabanzoni ruppono i patti a’ Fiamminghi.

Avendo poco innanzi narrato la concordia che si prese in luogo dell’apparecchiata battaglia tra’ Fiamminghi, e’ Brabanzoni per lo fatto di Mellina, seguita, che gli otto albitri eletti, quattro da catuna parte, sotto la fede del loro saramento, aveano diligentemente vedute, e disaminate le ragioni di catuna parte; e trovando di concordia tutti gli albitri la ragione della villa di Mellina essere del conte di Fiandra, e così essere acconci di sentenziare per osservare il loro saramento; il duca di Brabante, rompendo la fede promessa, mandò per fare pigliare i quattro suoi Brabanzoni ch’erano albitri, acciocchè non potessono dare la sentenza, e due ne presono, e due se ne fuggirono. Per questa cosa il conte di Fiandra, e’ Fiamminghi si tennono traditi da’ Brabanzoni e dal loro duca, e di presente mossono guerra nel paese. Ed essendo alquanti cavalieri fiamminghi entrati in Brabante guerreggiando, i Brabanzoni si misono con maggiore forza contro a loro, e rupponli, e uccisono ottanta cavalieri, e più altri ne imprigionarono. E aggiunto alla prima ingiuria il secondo danno e vergogna [206] de’ Fiamminghi, s’infiammarono tutti di tanto sdegno, che per comune tutti diedono luogo a’ loro mestieri, e intesono ad apparecchiarsi in arme per andare contro a’ Brabanzoni, onde uscirono notabili cose come appresso racconteremo.

CAP. LXXVIII. Come il conte di Fiandra andò sopra Brabante.

È da sapere, per meglio intendere quello che seguita, che non per nuovo accidente, ma per antica virtù, e continovata ambizione, il popolo Fiammingo era più pro’ e più sperto e audace in fatti d’arme che il popolo brabanzone, e i cavalieri brabanzoni più sperti e più atti in fatti d’arme ch’e’ cavalieri fiamminghi. Ma recando a sè il popolo fiammingo l’ingiuria ricevuta da’ Brabanzoni, nell’impeto del furore del suo animo, come un uomo, s’accolsono insieme più di centocinquanta migliaia d’uomini, tutti armati a modo di cavalieri, e con loro il conte loro signore con quattromila cavalieri, e raccolto grandissimo carreaggio carico di vivanda, e d’armadura a dì 9 d’agosto anno detto presono loro cammino per entrare in Brabante, e a dì 12 del detto mese si trovarono sopra la gran città di Borsella, presso a mezza lega, e ivi fermarono loro campo, scorrendo il paese d’intorno, e facendo assai danno a’ paesani.

[207]

CAP. LXXIX. Come il duca di Brabante si fè incontro a’ Fiamminghi.

Il duca di Brabante, il quale era Tedesco, fratello uterino di Carlo di Boemia imperadore, avendo in animo di non volere, Mellina al conte rendere attendendo la guerra, avea richiesto d’aiuto l’imperadore, e molti altri principi della Magna, e a questo punto si trovò da diecimila o più buoni cavalieri tedeschi e brabanzoni, e tutto il popolo di Brabante si mise in arme, e trovossi il duca a questo bisogno cento migliaia di Brabanzoni a piè bene armati. E vedendosi i nemici all’uscio, a dì 17 del detto mese d’agosto uscirono a campo fuori della villa di Borsella, e misonsi a campo a rimpetto de’ Fiamminghi presso a un mezzo miglio: e cominciarono a ordinare la loro gente, e disporla per battaglie a piè, e a cavallo; perocchè ben conosceano che l’impresa era tale, che non riceveva altro termine che la vittoria della battaglia a cui Iddio la concedesse. In questo ordinare stettono dalla mattina a nona; mezzani non si poteano in questo fatto tramettere per la fede altra volta rotta pe’ Brabanzoni, catuna parte s’acconciava di combattere, e tanto era presso l’un’oste all’altra, che battaglia non vi potea mancare.

[208]

CAP. LXXX. Come i Fiamminghi sconfissono i Brabanzoni.

I Fiamminghi, ch’erano infocati per l’ingiurie ricevute, vedendosi i nemici così di presso, e sentendo tra loro gran romore, avvisandosi che per discordia si dovessono partire, senza attendere che venissono schierati al campo, valicata l’ora della nona, si misono ad assalirgli. E cominciato un grido tutti insieme a loro costuma, che trapassava il cielo vincendo ogni tonitruo, e giugnendo a’ nemici, i quali aveano incominciata alcuna discordia tra’ Tedeschi e’ Brabanzoni, gli assalirono con grande ardimento; e cominciata tra loro la battaglia, avvenne per caso, e non per operazione de’ nemici, che l’insegna del duca di Brabante si vide abbattuta. Veduto questo i Brabanzoni a piede in prima si misono alla fuga, e i cavalieri appresso volsono le reni a’ nemici senza fare alcuna resistenza, e intesonsi a salvare nella città ch’era loro presso; i Fiamminghi affannati per la corsa al primo assalto, e carichi d’arme, non li poterono seguire, e per questa cagione pochi ne morirono in sul campo, ma più n’annegarono, gittandosi a passare il fiume coll’armi indosso; ma tra tutti i morti in sul campo e annegati nel fiume appena aggiunsono al numero di cinquecento, che fu di così grande esercito gran maraviglia, e de’ Fiamminghi non morì alcuno di ferro, cosa quasi, incredibile a raccontare, ma così fu per la grazia di Dio, che non assentì tra loro maggiore effusione di sangue.

[209]

CAP. LXXXI. Come il conte di Fiandra ebbe Borsella.

Il duca di Brabante fuggendo co’ suoi cavalieri tedeschi entrò in Borsella, e tanta paura gli entrò nell’animo per la fede rotta a’ Fiamminghi, che non ebbe cuore di ritenersi in Borsella, ma di presente senza ordinarla a difesa o a guardia se ne partì, e andossene in Loano. Il conte, avendo vittoriosamente rotti e cacciati del campo i suoi nemici, vedendo i suoi Fiamminghi per la vittoria baldanzosi e di grande volontà a seguire innanzi, di presente in quel giorno se n’andò a Borsella. I gentili uomini e i grandi borgesi di quella villa aveano per addietro ordinato, che tutti gli artefici de’ mestieri stessono fuori della città in grandi borghi che v’erano, per novità che v’erano di loro riotte alcuna volta avvenute in pericolo della villa, e in questa rotta non gli aveano lasciati rifuggire dentro. I borghi erano grandi a maraviglia cresciuti per li mestieri, ed erano pieni e forniti d’ogni bene. Il conte avendo in fuga i suoi nemici senza contasto s’entrò ne’ borghi facendo alcuna uccisione, e comincionne ad affocare uno, e disse, che tutti gli arderebbe se la terra non facesse i suoi comandamenti. Gli artefici ch’abitavano ne’ borghi, e aveano di fuori e nella villa di loro gente, e avendo già in loro balìa l’una delle porte, dissono a’ borgesi, che non intendeano essere diserti colle loro famiglie per loro, e che se di presente non facessono i [210] comandamenti del conte, che per forza il metterebbono nella villa. Per la qual cosa vedendosi i borgesi dentro a mal partito, elessono di concordia di volere innanzi essere all’ubbidienza del conte, che di lasciarsi prendere per forza da’ Fiamminghi e da’ loro propri cittadini, e guastare la città di sangue e di ruberia; e di presente elessono ambasciadori, e mandaronli ne’ borghi al conte, che voleano ubbidire a’ suoi comandamenti, promettendo salvarli d’uccisione e di ruberie, e così fu fatto; e di presente furono aperte le porte, ed entrovvi il conte e chi volle de’ Fiamminghi, ricevuti con grande onore da tutta la villa, e apparecchiato loro come ad amici ciò che era di bisogno, il conte ne prese la signoria dolcemente, e ordinovvi il reggimento e la guardia come a lui parve; e rinfrescata la sua gente, il terzo dì coll’empito della sua prospera fortuna si mosse da Borsella co’ suoi Fiamminghi, e andò a Villaforte, la quale come che molto fosse forte e difendevole a battaglia, sentendo che Borsella s’era renduta, e che il loro signore si fuggiva e non facea riparo, per non tentare maggiore fortuna s’arrendè a’ comandamenti del conte, il quale la ricevette benignamente. E la villa di Mellina, per cui era stato la cagione della guerra, senza attendere che l’oste v’andasse s’arrenderono al conte, e ricevettonlo per loro signore, e ordinaronsi per tutto a fare i suoi comandamenti.

[211]

CAP. LXXXII. Come il conte di Fiandra ebbe tutto Brabante a suo comandamento.

Il duca di Brabante, vilmente abbattuto per la sua corrotta fede, e poco amato perchè era Tedesco, avendo sentito come Borsella e Villaforte aveano fatto i comandamenti del conte, non si fidò in Loana nè in alcuna terra di Brabante, ma colla moglie, e colla sua famiglia, e co’ suoi arnesi s’uscì di tutta la provincia di Brabante e ridussesi in Alamagna, abbandonando così ricco e nobile paese per sua codardia. Il conte sentendo partito il duca, crebbe in ardire co’ suoi Fiamminghi, e dirizzossi verso Anversa: quelli d’Anversa feciono vista di volersi difendere: il conte non volle quivi fare sua pruova, e lasciata Anversa, se n’andò a Loano, affrettandosi prima che potessono mettere consiglio alla loro difesa. Quelli di Loano vedendosi abbandonati dal duca loro signore, e male provveduti alla subita guerra, e che l’altre buone ville di Brabante s’erano arrendute al conte, e che da lui erano bene trattati, per non ricevere il guasto nè maggiore danno s’arrenderono al conte, e con pace il misono nella città con gran festa ed onore; ed entrato in Loano, incontanente Anversa, e tutte le buone ville e castella della provincia di Brabante, si misono all’ubbidienza del conte e feciono i suoi comandamenti; e così in pochi giorni del rimanente del mese d’agosto del detto anno, [212] dopo la sconfitta de’ Brabanzoni, fu il conte di Fiandra messer Lodovico signore a cheto di tutta la ducea di Brabante; e dato ordine a loro reggimento, e fatti uficiali in tutte le terre, e messovi quella guardia ch’a lui parve a conservagione del paese, e fornito Mellina con più sua fermezza e guardia, perchè era propria villa di suo dominio, con allegra e piena vittoria, di letizia e non di sangue, co’ suoi Fiamminghi si tornò in Fiandra, accresciuto altamente il suo onore e la fama de’ suoi Fiamminghi.

CAP. LXXXIII. Perchè si mosse guerra dagli Spagnuoli a’ Catalani.

Era in questi dì il re Petro di Castella giovane, e più pieno di dissolute volontà che d’oneste virtù, e molto era stemperato nella concupiscenza delle femmine; e dilettandosi con una sopra l’altre, non bastandogli le grandi camere e’ nobili verzieri a suo diletto, si mise a diporto con lei in mare in su un legno armato non di gran difesa; e andandosi sollazzando in alto mare, una galea armata di Catalani passava per quella marina, e vedendo il legno armato, si dirizzò a lui, e domandava di cui fosse il legno e la mercatanzia che su v’era carica: il re per isdegno non volea che risposta si facesse; per la qual cosa i Catalani più si sforzavano di volerlo sapere, e non potendone avere risposta, s’appressarono al legno, e cominciarono a saettare; e vedendo [213] da presso che gli uomini erano Spagnuoli, senza mettersi più innanzi si partirono, e seguirono loro viaggio. Il re rimase di questo con grande sdegno; e poco appresso avvenne, che in Sibilia arrivarono galee armate di Catalani, i quali aveano guerra co’ Genovesi, e trovando nel porto alquanti mercatanti di Genova, li presono, e raddomandandoli il re di Spagna, non li vollono rendere. E questa cagione più giusta infiammò più l’animo del re per modo, che immantinente per mare e per terra cominciò a’ Catalani nuova guerra; e incontanente fece armare dodici galee, e mandò scorrendo le marine fino nel porto di Maiolica, ardendo e mettendo in fuoco quanti legni di Catalani poterono trovare per tutta la riviera di Catalogna. E in questi dì, le quindici galee bandeggiate di Genova per la presura di Tripoli, avendo per uscire di bando a guerreggiare tre mesi i Catalani, feciono in Catalogna e nell’isola di Maiolica danno assai. E ’l re di Castella per terra con gran forza di suoi cavalieri venuto alle frontiere di Catalogna improvviso a’ Catalani, fece loro d’arsioni e di prede danno grande. Per la qual cosa d’ogni parte s’apparecchiò grande sforzo di gente d’arme, e catuno richiese gli amici per conducersi a battaglia, come seguendo appresso nel suo tempo racconteremo.

[214]

CAP. LXXXIV. Di gran tremuoti furono in Ispagna.

In questo anno 1356 all’uscita del mese di settembre, e alquanti dì all’entrata d’ottobre, furono in Ispagna grandissimi terremuoti, i quali lasciarono in Cordova e in Sibilia grandi e gravi ruine di molti dificii in quelle due grandi città, e nelle loro circustanze, nelle quali perirono uomini, e femmine, e fanciulli in grandissimo numero, facendo sepoltura delle loro case. E questi medesimi tremuoti feciono nella Magna grandi fracassi, che quasi tutta Basola, e un’altra città feciono rovinare con grande mortalità de’ loro abitanti. In Toscana in questi medesimi dì si sentirono, ma piccoli e senza alcuno danno.

[215]

LIBRO SETTIMO

CAPITOLO PRIMO. Il Prologo.

Chi potrebbe con intera mente nel futuro ricordare i falli, e gli orribili peccati che si commettono per la sfrenata licenza de’ principi e de’ signori mondani (lasciando le minori e le mezzane cose che per loro spesso senza giustizia si fanno) se la brevità del tempo dell’umana vita non togliesse l’esperienza, che per giustizia si dimostra nel mondo? Si maravigliano eziandio i savi quando avvenire veggono traboccamenti di potentissimi re e d’altri grandi signori, de’ quali avendo memoria de’ commessi mali non ammendati per tempo conceduto dalla divina grazia, ma piuttosto aggravati da que’ medesimi signori e da’ loro successori per disordinata presunzione, non recherebbono a maraviglia quello ch’avviene, ma a misericordievole gastigamento dalla divina mansuetudine e giustizia, che per non perdere l’anime eternalmente, temporalmente percuote e flagella, acciocchè per le loro rovine, e pe’ loro trabocchevoli casi si riconoscano, e correggano e ammendino. E apparecchiandosi al nostro [216] trattato il cominciamento del settimo libro, alcuna particella di quello torneremo addietro, per dimostrare esempio delle cose qui narrate, per la successione che seguita a raccontare del grave caso occorso al re Filippo di Francia e al suo reame, e appresso al re Giovanni suo figliuolo.

CAP. II. Come il re di Francia prese la croce per fare il passaggio.

Non è nascoso in antica memoria a’ viventi del nostro tempo, che per l’operazioni inique e crudeli, nate da invidia e da somma avarizia de’ reali di Francia dello stocco anticato nella successione reale, onde fu il re Filippo dinominato il Bello, coll’aggiunta della sfrenata libidine delle loro donne, che a Dio piacque di porre termine a quello lignaggio. Rimasene sola la reina d’Inghilterra madre del valoroso re Adoardo di quell’isola, per la cui successione il detto re d’Inghilterra fece la guerra co’ Franceschi, come per lo nostro anticessore nella sua cronica, e appresso per noi in questa è in gran parte raccontato. Essendo venuti meno tutti i reali, messer Filippo, figliuolo che fu di messer Carlo di Valois detto Carlo Senza terra, prese la signoria, e fecesi coronare re di Francia. E trovandosi re di così grande ricco e potentissimo reame, e senza alcuna guerra, e trovandosi in grande amore del sommo pontefice e de’ cardinali di santa Chiesa, il detto re Filippo, simulando singulare affezione di [217] volere imprendere e fare il santo passaggio d’oltremare per acquistare la terra santa, di suo movimento prese con molti baroni di suo reame la croce in pubblico parlamento, e sommosse a pigliarla altri re, prenzi, duchi e baroni, conti e gran signori, e per esempio di loro molti altri fedeli cristiani presono la croce con animo di seguire il detto re; e per tutta la cristianità, ed eziandio tra’ saracini, si divolgò la novella di questo passaggio; e dando vista il detto re di grande apparecchiamento, avvenne, che negli anni 1334 il detto re di Francia mandò a corte di Roma a Avignone per suoi ambasciadori l’arcivescovo di Ruen con altri grandi baroni a papa Giovanni di Caorsa vigesimosecondo e a’ suoi cardinali, il quale arcivescovo fu poi papa Clemente sesto, e in pubblico concestoro avendo fatto l’arcivescovo predetto un bello e alto sermone sopra la materia del santo passaggio, e confortato il sommo pontefice, e’ prelati di santa Chiesa, e tutto il popolo cristiano che si manifestassono a dare consiglio e aiuto al serenissimo re di Francia, il quale si movea per zelo della fede di Cristo a così alta impresa, per seguire e fare e per accrescere la sicurtà a’ fedeli cristiani, giurò nell’udienza di tutti nella maestà divina, al santo padre, e alla Chiesa di Roma, e a tutta la cristianità, nell’anima del detto re di Francia, che l’agosto prossimamente seguente, gli anni 1335, e’ sarebbe uscito fuori del suo reame in via colla sua potenza, e con gli altri principi del suo reame crociati per andare oltremare al santo passaggio; e per questo impetrò da santa Chiesa le decime del [218] suo reame per molti anni, e altre promissioni del tesoro di santa Chiesa, e quante altre cose domandò per parte del detto re al papa di tutte ebbe da lui piena grazia; e io scrittore, fui presente nel detto consistoro, e udii fare il saramento, come detto a verno.

CAP. III. Le parole disse frate Andrea d’Antiochia al re di Francia.

Essendo divolgata la novella di questo passaggio in Egitto e in Soria, i cristiani del paese che sono sottoposti al giogo de’ saracini, ed eziandio i viandanti mercatanti ch’allora erano in quelli paesi, ricevettono gravi oppressioni e diversi tormenti, e molti ne furono morti da’ signori saracini, e tolto il loro avere sotto false cagioni d’essere trattatori del passaggio; per la qual cosa un valente religioso italiano, il quale era chiamato frate Andrea d’Antiochia, in fervore del suo animo dolendosi dell’ingiuria che riceveano gl’innocenti cristiani, si mosse di Soria e venne a corte di Roma a Avignone; e là giunse, quando il re Filippo di Francia era tornato di pellegrinaggio da Marsilia a Avignone, passato di lungo il termine della sua promessa, e non essendo di ciò nè dal papa nè da’ cardinali ripreso; e già avea presa la licenza dal santo padre, e avea valicato il Rodano, e desinato nel nobile ostiere di sant’Andrea, il quale avea fatto edificare messer Napoleone degli Orsini di [219] Roma a fine di ricevervi il re di Francia e gli altri reali, il re era già montato a cavallo per prendere suo cammino verso Parigi, il valoroso frate Andrea, avendo accattato dagli scudieri de’ cardinali che l’atassono conducere al freno del cavallo del re, com’egli uscì dell’ostiere così li fu condotto al freno. Il religioso avea la barba lunga e canuta, e parea di santo aspetto, e per la reverenza di lui il re si sostenne, e frate Andrea disse: Se’ tu quello Filippo re di Francia, c’hai promesso a Dio e a santa Chiesa d’andare colla tua potenza a trarre delle mani de’ perfidi saracini la terra, dove Cristo nostro salvatore volle spandere il suo immaculato sangue per la nostra redenzione? Il re rispuose di sì; allora il venerabile religioso gli disse: Se tu questo hai mosso, e intendi di seguitare con pura intenzione e fede, io prego quel Cristo benedetto che per noi volle in quella terra santa ricevere passione, che dirizzi i tuoi andamenti al fine di piena vittoria, e intera prosperità di te e del tuo esercito, e che ti presti in tutte le cose il suo aiuto e la sua benedizione, e t’accresca ne’ beni spirituali e temporali colla sua grazia, sicchè tu sii colui, che colla tua vittoria levi l’obbrobrio del popolo cristiano, e abbatti l’errore dell’iniquo e perfido Maometto, e purghi e mondi il venerabile luogo di tutte l’abominazioni degl’infedeli, in tua per Cristo sempiterna gloria. Ma se tu questo hai cominciato e pubblicato, la qual cosa resulta in grave tormento e morte de’ cristiani che in quel paese conversano, e non hai l’animo perfetto [220] con Dio a questa impresa seguitare, e la santa Chiesa cattolica da te è ingannata, sopra te e sopra la tua casa, e i tuoi discendenti e ’l tuo reame venga l’ira della divina indegnazione, e dimostri contro a te e’ tuoi successori, e in evidenza de’ cristiani, il flagello della divina giustizia, e contro a te gridi a Dio il sangue degl’innocenti cristiani, già sparto perla boce di questo passaggio. Il re turbato nell’animo di questa maladizione disse al religioso: Venite appresso di noi; e frate Andrea rispose: Se voi andaste verso la terra di promissione in levante, io v’anderei davanti; ma perchè vostro viaggio è in ponente, vi lascerò andare, e io tornerò a fare penitenza de’ miei peccati in quella terra, che voi avete promesso a Dio di trarre delle mani de’ cani saracini.

CAP. IV. Molte laide cose fece il re di Francia.

Da questo tempo innanzi cominciarono le commozioni del re d’Inghilterra già narrate per lo nostro antecessore; e prima il detto re di Francia vedendo sommuovere gl’Inghilesi contro a sè, con grande armata si mise in arme contro a loro, e di trentadue migliaia d’uomini che reggeano il suo navilio, perduto il navilio, ventotto migliaia d’uomini di sua gente furono morti dagl’Inghilesi. E poi appresso venuto il re d’Inghilterra in Francia con piccolo numero di gente, rispetto della moltitudine de’ cavalieri [221] e di sergenti ch’avea seco il re di Francia a seguitarlo, fu sconfitto, come narrato abbiamo addietro; e campata la sua persona con pochi per grazia della notte, e tornato a Parigi, avendosi veduto nel giudicio di Dio, non ricorse alla virtù dell’umiltà, ma aggiugnendo male a male, per avere moneta assai, in cui era la sua fidanza, licenziò e sicurò tutti gli usurai del suo reame, dando loro licenza di prestare pubblicamente, pagando alla corte cinque per cento di quello che catuno era tassato dagli uficiali del re ogni anno. E aggiugnendo alla sua avarizia, fece battere nuova moneta d’oro e d’argento per tutto suo reame di molto meno valuta che quella che prima correa, e subitamente la fece correre per buona, e la buona fece disfare, in gran danno e confusione de’ suoi baroni, e di tutti i paesani e de’ mercatanti ch’aveano a ricevere mercatanzie nel suo reame; e dopo questo, con ordine dato a’ suoi ministri, per tutto il reame in una notte fece prendere in persona e arrestare l’avere a tutti gli usurieri del reame; e aggiugnendo male a male, fece gridare per tutto, che chi avesse accattato sopra pegno l’andasse a riscuotere per lo capitale, stando del capitale al suo saramento, e così dell’accattato a carta; per la qual cosa coloro ch’aveano accattato, per la larga licenza, vinti da avarizia, si spergiurarono, e pochi furono secondo la fama che stessono in fede; e tutto ciò che pagavano di capitale s’appropriò alla corte, che fu grandissimo tesoro, in disertagione di molte famiglie, ch’ogni cosa s’appropriò alla corte, dicendo, ch’aveano forfatto di [222] aver messi più danari a usura che non doveano. Appresso, dopo la sua affrettata morte per disordinata lussuria, essendo di tempo, e dilettandosi nella sua giovane e bella donna, seguitarono più gravi persecuzioni di guerra nel suo reame, in fine il re Giovanni suo figliuolo e uno de’ suoi figliuoli furono presi nella grande battaglia ch’appresso racconteremo; conchiudendo, che come a inganno fu presa la croce, e promesso il santo passaggio per lo re di Francia, così nel suo reame fu passato per divino giudicio da’ suoi nemici, e com’egli volle arricchire il suo reame indebitamente de’ beni di santa Chiesa, e degli altri stranieri mercatanti e usurieri del suo reame, così per giusta retribuzione impoverì il re, e il reame consumato da’ soldi e dalle prede; e volendosi per ambizione esaltare sopra gli altri signori della cristianità, veduti furono entrare in servaggio di prigione, vinti maravigliosamente da più impotenti di loro, secondo la forza e ’l numero della gente.

CAP. V. Come il re di Francia uscì di Parigi con suo sforzo, e andò in Normandia.

Seguita, tornando a nostra materia, che ’l re di Francia vedendo assalire il suo reame ora dal conte di Lancastro con quelli di Navarra, ora dal duca di Guales coll’aiuto de’ Guasconi, e che per soperchia baldanza aveano preso sopra lui e sopra la gente francesca; vedendo al presente il [223] conte di Lancastro e messer Filippo di Navarra ridotti in Normandia a Bertoglio, come poco innanzi abbiamo narrato, si propose in animo di perseguitarli, e di tutto il reame raunò a Parigi i suoi baroni e tutto il fiore della sua cavalleria, ed eziandio i ricchi borgesi di Parigi e dell’altre buone ville, i quali tutti si sforzarono di comparire bene in arme per accompagnare la persona del re; il quale era già ito in Normandia, e fatto fuggire di notte il conte di Lancastro e messer Filippo di Navarra ch’erano in Normandia a Bertoglio, e il re, come detto è poco addietro, avea vinto il castello, e cacciati i nemici del paese. E stando in Normandia, i baroni, e’ cavalieri e’ borgesi del reame che smossi erano traevano d’ogni parte a lui, e all’entrata del mese di settembre si trovò più di quindicimila armadure di ferro ben montati e bene acconci a’ servigi del re, e con esso gran novero di sergenti in arme. E vedendosi aver vinto il castello, e avviliti i nemici, e cresciuta la sua forza, prese speranza di cacciare gl’Inghilesi al tutto del suo reame innanzi che ritornasse a Parigi. E con tutta questa cavalleria stava alle frontiere de’ suoi nemici per non lasciarli scorrere per tutte le sue terre al modo usato, e per prendere sopra loro suo vantaggio, stando apparecchiato alla fronte de’ suoi avversari.

CAP. VI. Quello faceva il prenze di Guales.

Il valente duca di Cornovaglia prenze di Guales, primogenito del re d’Inghilterra, il quale [224] avea in sua parte per guereggiare tremila buoni cavalieri bene montati, tra Inghilesi e Guasconi, e da duemila arceri inghilesi a cavallo, e altri masnadieri a piè da quattromila tra con archi e altre armadure, tutti bene capitanati; avendo sentito che ’l conte di Lancastro colla sua parte di gente d’arme avea cavalcata la Normandia ed entrato nel reame presso a Parigi a sedici leghe, parendogli avere vergogna se non facesse dalla sua parte, si mosse di Guascogna e vennesene in Berrì, ardendo e divorando con ferro e con fuoco ciò che innanzi gli si parava. E già avea fatta smisurata preda, perocchè assai ville di cinquecento e di mille fuocora, e di più e di meno, avea vinte, e rubate e arse senza trovare contasto; seguitando appresso avea costeggiato il fiume dell’Era infino ad Orliens, e fattole intorno grave danno, passò a Pettieri; e trovandosi presso alla grande oste del re di Francia, fu costretto di fermarsi ivi tra le due fiumora coll’oste e colla preda che raccolta avea, che di quel luogo, avendo di presso la gente del re di Francia ch’andava contro a lui, a salvamento non si potea partire nè con suo onore.

CAP. VII. Come il re di Francia pose il campo presso al prenze.

Il re Giovanni di Francia, ch’era presso colla sua grande oste, e baldanzoso per lo duca di Lancastro che l’avea fuggito, e per la vittoria [225] del castello, sentendo il duca ristretto tra le due fiumare, che l’una tramezzava a volere andare a lui, di presente si mosse con tutta la sua gente e appressossi a’ nemici, e pose il campo suo di costa a Berrì, e’ nemici erano dall’altra parte, la fiumara in mezzo, e’ ponti erano i più rotti, e alcuno ve n’avea rimaso in guardia de’ Franceschi: il duca non potea passare innanzi a prendere suo vantaggio di terreno, e ’l tornare addietro di lungo viaggio, per lo stretto de’ loro nemici, e avendo chi gli perseguitasse, non se ne potea pensare alcuna salute, e però la necessità gli accrescea in quel luogo l’ardire. Il coraggioso duca di Guales vedendosi a questo stretto partito, non dimostrò a’ suoi segno d’alcuna paura nè viltà, ma francamente provvide il suo campo, e mostrossi a tutta sua gente, confortandoli che non dovessono temere di quella gente cui eglino tante volte avevano fatta ricredente, e ammaestrandoli di buona e sollecita guardia il dì e la notte, dicendo, come tosto avrebbono in loro aiuto il valente conte di Lancastro con tutta la sua gran forza. Gl’Inghilesi e’ Guasconi presono gran conforto della valentria e buona voglia del loro signore, e intesono a fortificare loro campo, e a fare buona e sollecita guardia il dì e la notte. E questo fu a dì 17 di settembre anno detto.

[226]

CAP. VIII. Due conti del re di Francia rimasono presi da un aguato.

Saputo che ’l re ebbe la condizione de’ suoi nemici, e come il loro campo stava, segretamente con alquanti de’ più confidenti baroni prese consiglio di valicare alla mezza notte, venendo il sabato, per un ponte della riviera, che gli dava più certo il cammino ad aggiugnersi co’ nemici, e più atto il cammino alla gran gente che l’avea a seguitare. Il duca di Guales, o che sapesse il segreto del re, o che per avviso di guerra avesse che così dovesse seguire, la notte medesima venne con sua gente eletta, e misesi in un bosco presso al cammino che ’l re dovea fare, e veniagli fatto d’avere il re con buona parte della sua compagnia per lo presto avviso. Il re si mosse con duemila cavalieri, e con quelli baroni a cui s’era manifestato: e appressandosi al passo del bosco, mandò innanzi dieci cavalieri sperti e bene montati a provvedere se aguato vi fosse. I detti cavalieri scopersono il guato, e di presente ritornarono al re, il quale conoscendo il pericolo prese una volta, e dilungossi da quel passo, e girò verso Pittieri, e valicò a salvamento con tutta sua cavalleria: ma addietro non mandò all’altra sua gente che ’l seguiva ad avvisarli di quello aguato, onde avvenne, che seguitandolo il conte d’Alzurro, e quello di Clugnì con altri baroni e cavalieri, avendo sentita la sua subita partita, non [227] però con tutta l’oste, ma colle loro masnade facendo la via che dovea fare il re del bosco, credendo che per quella fosse andato, gl’Inghilesi maestri di baratti avendo mandati cavalieri de’ loro a ingegno che tornassono la notte per quel cammino, e dimostrandosi essere de’ Franceschi che seguissono il re, come se per quel cammino fosse passato, e scorgendo i conti questi cavalieri, e facendoli domandare, risposono in Francesco che seguivano monsignor lo re, e però con più sicurtà si misono a cammino; ed entrati nell’aguato senza ordine, essendo d’ogni parte assaliti, non v’ebbe resistenza altro che del fuggire e del campare chi potea; il conte d’Alzurro valente barone, e quello di Clugnì rimasono presi con quattrocento compagni di buona gente, e menati prigioni nel campo, il duca e tutta la sua oste ne presono assai conforto: e questo fu il sabato a dì 17 di settembre del detto anno.

CAP. IX. Puose il re di Francia il campo suo presso agl’Inghilesi.

Valicato il re di Francia con duemila cavalieri a Pettieri, e scoperto l’aguato degl’Inghilesi, come detto abbiamo, di presente tutta l’altra oste de’ Franceschi seguirono il loro re per lo sicuro cammino, e giunti a lui, si trovarono più di quattordicimila cavalieri e molti sergenti, e non v’era però tutta la sua forza, che al continovo vi crescea gente a cavallo e a piè, sperando [228] avere degl’Inghilesi buon mercato; e misonsi a campo presso al campo del duca a meno di due leghe parigine, in parte che gl’Inghilesi non si poteano allargare; ed erano per venire in pochi dì in gran soffratta di vittuaglia, e ancora erano condotti in parte, che ’l conte di Lancastro non li potea venire a soccorrere per lo campo preso per i Franceschi, avvegnachè troppo era di lungi a quel paese; per la qual cosa al re di Francia pareva avere la vittoria in mano, e così era per ragione di guerra, ove fortuna e mala provvedenza non avesse mutata la condizione del fatto, come seguendo immantinente racconteremo.

CAP. X. I legati cercarono accordo tra’ due signori.

Come addietro avemo narrato, in questa guerra la Chiesa di Roma continovo tenea suoi legati che trattassono la concordia e la pace tra’ due re, e al presente era nella compagnia del re il cardinale di Bologna suo confidente, e il cardinale di Pelagorga confidente del duca e degl’Inghilesi, i quali continovo cercavano di recarli a pace; e vedendo la cosa a questo stremo condotta e ultimo partito, acciocchè tra questi due signori de’ maggiori della cristianità non si venisse a mortale battaglia, di concordia furono con lo re di Francia, mostrandoli quanto erano vari e non sicuri gli uscimenti delle battaglie, pregandolo, che dove con suo onore potesse venire [229] a buona pace, non volesse ricercare per vantaggio ch’avere li paresse il dubbioso fine delle battaglie. Il re diede udienza al savio consiglio; e però incontanente il cardinale di Pelagorga cavalcò al duca nel suo campo; e ricevuto da lui graziosamente, con savie parole gli mostrò il pericolo dov’era egli e tutta la sua oste, e ricordogli le grandi ingiurie per lo suo padre, e per lo suo zio, e per lui fatte alla corona di Francia, e conchiudendo disse, che acciocchè Dio non giudicasse la sua causa per disordinata presunzione e superbia in cotanto pericolo quanto egli era di sè e di tutta la sua gente, ch’e’ volea ch’e’ si dichinasse a volere restituire e rendere al re di Francia il suo onore e le terre ch’avea occupate delle sue, e l’ammenda del danno che fatto gli avea nel suo reame, acciocchè buona e ferma pace si fermasse tra loro. Il giovane duca, conoscendo il forte caso dove la fortuna l’avea condotto, e avendo reverenza a santa Chiesa, avvegnaché ’l suo animo fosse fermo e sicuro di grande sdegno, acconsentì innanzi di pigliare concordia, che tentare la pericolosa parte della battaglia; e data speranza al legato, il fece ritornare al re di Francia, per ordinare i patti e le convenenze della concordia.

CAP. XI. I patti che si trattarono e quasi conchiusono.

Tornato il cardinale al re di Francia, il re fece raunare il suo consiglio, per fare assentire a [230] tutte l’offerte che ’l cardinale avea portate al re da parte del duca per avere buona pace; e l’offerta era, ch’e’ volea restituire al re di Francia tutte le terre prese per gl’Inghilesi e’ Guasconi nel suo reame ne’ tre anni prossimi passati, e che renderebbe liberi tutti i prigioni, e che per ammenda de’ danni fatti darebbe al re di Francia dugento migliaia di nobili, che valeano cinquecento migliaia di fiorini d’oro; e domandava per fermezza di buona pace per moglie la figliuola del re di Francia, quando a lui piacesse, e per dote la duchea d’Anghiemem facendosi suo uomo, e a questo non si fermava oltre alla volontà del detto re; e in preghiera domandava, che ’l re di Navarra fosse lasciato e restituito nel suo reame. A queste cose il re e il consiglio s’acconciavano assai bene, e conosceano senza pericolo il loro vantaggio. È vero che queste cose non si poteano fermare senza la volontà del re Adoardo d’Inghilterra suo padre, ma il duca impromettea in termine di pochi dì fargliele attenere e confermare; e andato e rivenuto più volte il cardinali per recare a fine di buona pace questo trattato, e avendo ogni libertà dal duca che domandare si seppe, e che per lui si potea fare, avendo che la concordia fosse fatta, ritornò al re di Francia; ma la cosa ebbe tutto altro fine che non si sperava, come incontanente racconteremo.

[231]

CAP. XII. Come il vescovo di Celona sturbò la pace.

Essendo venuto con pieno mandato il cardinale al re di Francia, il re avendo veduto per esperienza i pericoli della battaglia, e parendogli venire a convenevole ammenda dell’ingiuria ricevuta, si disponea alla pace, e per darle compimento, fece raunare i baroni e ’l suo consiglio: tra gli altri quegli in cui il consiglio del re più si posava per piena confidanza era il vescovo di Celona; costui udite le convenenze e’ patti della pace raccontati per lo cardinale di Pelagorga, e come il re d’Inghilterra gli avea infra certi giorni a confermare, stigato dal peccato non purgato nè ammendato da’ Franceschi si levò in parlamento, e molto arditamente disse al re di Francia: Sire, se io mi ricordo bene, il re d’Inghilterra e ’l duca ch’è qui presso suo figliuolo, e ’l conte di Lancastro suo cugino, v’hanno fatto lungamente grande onta e sconvenevole oltraggio a tutto vostro reame per molte riprese, sconfiggendo in campo vostro padre con perdita di re, e di gran baroni, e in mare hanno tagliate le vostre forze, e arso e dipopolato il vostro reame in diverse parti; ditemi sire, che vendetta v’avete voi fatta, che senza vostra onta, e di tutto vostro reame, questa pace si faccia? Avendo voi qui il vostro corporale nemico, con gran parte de’ baroni e de’ cavalieri inghilesi e guasconi c’hanno contra voi e contro al [232] vostro reame fatti tutti i grandi mali, e oltre a quelli ch’io v’ho contati, e ora gli ha Iddio ridotti e rinchiusi nelle vostre mani per modo, ch’addietro non possono tornare, nè a destra nè a sinistra si possono allargare. Da vivere hanno poco, e soccorso non attendono: voi siete signore di fare altamente la vostra vendetta, e veggovi trattare di lasciarli andare; ed eziandio per non certa fede o fermezza delle loro promesse, ma piene d’aguati e d’inganni, come è loro antica usanza, che sotto i patti di fare confermare la pace al re, intende di subito avere il suo soccorso e quello del conte di Lancastro, ch’è apparecchiato con grande oste, come tutti quanti sapete; e se questo avviene, chi v’accerta che la vostra vittoria non possa tornare in mano de’ vostri nemici, con vituperoso inganno della vostra reale maestà? E però consiglio, che a’ vinti non si dia più dilazione, e che la vendetta delle vostre ricevute offese e la piena vittoria, che Iddio v’ha apparecchiata, non vi scampi per tardamento de’ vostri trattati e de’ vostri consigli. Le parole dell’ardito prelato feciono cambiare la volontà del re e di tutti i baroni del consiglio, e catuno s’inanimò alla battaglia, e al cardinale fu risposto precisamente che più non si travagliasse della concordia; e deliberato fu di strignere il duca alla battaglia la mattina vegnente, e questo consiglio fu preso domenica a dì 18 di settembre anno detto; operando fortuna, per lo franco consiglio di quel prelato, la materia dell’occulto giudicio di Dio contro al detto re di Francia.

[233]

CAP. XIII. Diceria che fece il prenze di Guales a’ suoi.

Il cardinale di Pelagorga avuta la risposta dal re di Francia e dal suo consiglio contradia al suo trattato e alla sua opinione, avendo singulare affezione al giovane duca, in cui avea trovato molta liberalità, parendogli sconvenevole se colla sua bocca non gli rispondesse, il dì medesimo valicò nel suo campo: ed essendo innanzi al duca ch’attendea la fermezza della pace, il cardinale gli disse: Sire, io ho assai travagliato per poterti recare pace, ma non ho potuto per alcuna maniera; e però a te conviene procacciare d’essere valente prenze, e pensare alla tua difesa colla spada in mano, perocchè alla battaglia ti conviene venire co’ Franceschi, rimossa ogni altra speranza d’accordo o di pace. Udendo questa parola il magnanimo duca, non perdè in atto o in segno sua virtù, anzi disse: Voi ci potete essere testimonio, che dalla nostra parte non è mancata la concordia alla quale con pura fede ci recavamo; ora che da’ nostri avversari manca, prendiamo fidanza che Iddio sia dalla nostra parte. E dato con reverenza congio al cardinale, di presente ebbe i suoi baroni e’ suoi capitani de’ cavalieri e degli arcieri inghilesi e guasconi, e manifestò loro l’intenzione del re di Francia e del suo consiglio, e come al mattino attendessono la battaglia, con franche e signorili parole dicendo, come Iddio e la ragione era dalla loro parte, e che però catuno prendesse cuore [234] e ardire, e inanimasse sè e’ suoi a ben fare; e ricordassonsi come i Franceschi vinti e sconfitti più volte da loro, non avrebbono cuore di sostenere la battaglia. E oltre a ciò disse: Signori e compagni, non dimenticate il luogo ove fortuna ci ha inchiusi, nel quale se noi vogliamo stare alla difesa, avendo la forza de’ nemici nostri a petto, in breve ci manca la vittuaglia, e di niuna parte ci può venire, perchè noi e’ nostri cavalli verremo meno di fame, e saremo vilissima preda a’ nostri nemici. E nel partire non si vede salvamento, avendo al fuggire lungo il cammino per le terre de’ nostri nemici d’ogni parte, e così gran forza qui, e de’ nemici alle spalle, anzi possiamo essere molto certi, che dando loro le reni, ci faranno morire a gran tormento; e però niuna speranza di salute rimane dalla nostra parte, se non di combattere francamente, e procurare colla virtù dell’indurata fortezza delle nostre braccia abbattere la delicata e apparente pompa de’ nostri avversari; e quanto la loro potenza e numero di cavalieri e di sergenti è maggiore, tanto conviene in noi più accendere l’animo a dimostrare nostra virtù: e se fortuna ci pur volesse abbattere, facciamo sì ch’a’ nostri nemici rimanga dolorosa vittoria, e a noi eterno nome di valorosa cavalleria. E confortata e inanimata la sua gente, comandò ch’al mattino tutta la preda loro delle cose grosse fosse recata nel campo, e messa fuori tra loro e’ nemici, e fattone tre monti, e che la notte stessono in buona guardia, e confortassono loro e’ loro cavalli, sicchè al mattino si trovassono forti e acconci alla battaglia;

[235]

CAP. XIV. Come i Franceschi s’apparecchiarono alla battaglia.

Avendo il re di Francia preso per partito nel consiglio di combattere la mattina vegnente, fece il dì raunare tutti i suoi baroni e’ capitani della sua cavalleria e dei sergenti, e con allegra faccia manifestò loro il consiglio di combattere la mattina vegnente gl’Inghilesi e’ Guasconi, i quali erano pochi alla loro comparazione, i quali tutti si mostrarono allegri, stimando che non li dovessono attendere conoscendo il soperchio, e che si dovessono fuggire come fatto avea poco innanzi il conte di Lancastro. E diedono ordine alle loro schiere, e la gente che in catuna dovesse essere, e quale andasse prima ad assalire i nemici e quale appresso, e chi fosse nella schiera grossa del re. E avvisato catuno capitano della sua gente e di quello ch’al mattino avea a fare, tutti intesono per quello resto della giornata a provvedere le loro armi e’ loro cavalli, per essere presti la mattina innanzi il giorno alla battaglia.

CAP. XV. Le schiere e gli ordini de’ Franceschi.

Venuto il lunedì mattina, il maliscalco di Dina, a cui toccava il primo assalto, fece per tempo la sua schiera co’ cavalieri di Spagna e d’altri [236] circustanti a quella lingua, ch’erano venuti e condotti al servigio del re, e a questa schiera vi s’aggiunsono masnadieri italiani e spagnuoli, sperti delle battaglie, e buoni assalitori. A costoro fu commesso d’assalire prima i nemici, ed essendo apparecchiati in sul campo, e le spianate fatte, appresso a lui fu fatta la schiera del conestabile di Francia, ch’era il duca d’Atene, e in sua schiera ebbe molti valenti baccellieri di Francia, provenzali e normandi, e questa schiera dovea percuotere appresso i feditori. Dopo questa il Dalfino di Vienna figliuolo primogenito del re di Francia, e ’l duca d’Orliens fratello del re, furono fatti conduttori della terza schiera, ove aveano più di cinquemila cavalieri franceschi e del reame, e questa dovea fedire appresso al duca d’Atene. La quarta e ultima schiera era quella del re di Francia, nella quale avea più di seimila cavalieri con molti grandi baroni, e questa era per fermezza e riscossa di tutte l’altre. Avendo i Franceschi così fornite e ordinate le loro schiere: essendo lungo spazio di terreno tra loro e’ nemici, innanzi che s’aggiungano alla battaglia, ci conviene narrare l’ordine che prese il duca di Guales nella sua gente.

CAP. XVI. L’ordine degl’Inghilesi con le loro schiere.

Avendo il duca di Guales fatto, come detto è, raunare fuori del campo innanzi al suo carreggio, verso la frontiera de’ Franceschi per buono spazio, [237] in tre monti tutto il grosso della loro preda, vi fece aggiugnere legname la mattina innanzi dì e mettervi entro fuoco, acciocchè l’avarizia della preda non impedisse l’animo a’ suoi, e non fosse speranza agli avversari di racquistarla. E fatti i fuochi grandi tra loro e’ nemici, i fummi occuparono la pianura a modo d’una grossa nebbia, sicchè i Franceschi non poteano scorgere quello che gl’Inghilesi si dovessono fare. E in questo tempo il duca e ’l suo consiglio feciono due parti de’ loro arcieri, che n’aveano intorno di tremila, e nascosonli in boschi e in vigne, a destra e a sinistra inverso dove i Franceschi potessono venire per assalirli, sicchè al bisogno d’ogni parte potessono ferire la gente di Francia e’ loro cavalli colle saette; e ordinarono fuori del loro campo innanzi al carreggio una schiera, che sostenesse il primo assalto, e ’l duca con tutta l’altra cavalleria in un fiotto erano armati, e schierati nel campo dentro al loro carreggio, per provvedere il portamento de’ loro nemici. E in questo modo fu apparecchiata l’una e l’altra oste di venire alla battaglia.

CAP. XVII. La battaglia tra il re di Francia, e il prenze di Guales.

Il maliscalco di Dina colla sua schiera de’ feditori, come poco avveduto e assai baldanzoso, vedendo i fuochi che gl’Inghilesi facevano, pensò che ardessono il campo, e che per paura se ne [238] fuggissono, e per questa folle burbanza, non attendendo d’avere appresso la seconda e terza schiera, levato un grido, se ne vanno con matto ardimento, e avacciarono il loro assalto, e dilungaronsi subitamente tanto dall’altre schiere, che per lo lungo terreno non poterono essere veduti da loro, e con grande ardire si misono ad assalire la schiera degl’Inghilesi, ch’era di fuori del carreggio, e fedironli per tal virtù, che li feciono rinculare a dietro, e perdere assai terreno. Il duca e’ suoi, che conobbono la mala condotta che aveano fatta gli Spagnuoli, e che non aveano la riscossa appresso, mandarono per costa millecinquecento cavalieri de’ loro, e inchiusonli, combattendoli dinanzi e di dietro, e sbarattaronli, facendone grande uccisione in poca d’ora. Seguendo appresso l’altra più grossa schiera del duca d’Atene conestabile di Francia, gli arcieri ch’erano riposti uscirono d’ogni parte per costa a saettare a questa schiera, e sollecitando le loro saette, molti uomini e cavalli fedirono e assai n’uccisono; e ’l duca di Guales, vedendo questa schiera già impedita e magagnata dagli arcieri, uscì loro addosso colla baldanza della prima vittoria, e dopo non grande resistenza furano tutti morti e presi, innanzi che ’l re ne sapesse la novella. Il Delfino di Vienna, e ’l duca d’Orliens, che aveano più di cinquemila cavalieri, e il re appresso con seimila in sua compagnia, avendo sentita la rotta delle due prime schiere, come vilissimi e codardi, avendo ancora due tanti e più di cavalieri e di baroni freschi e ben montati, ed essendo i nemici stanchi per le due [239] battaglie, tanta paura entro ne loro animi rimessi e vili, che potendo ricoverare la battaglia, non ebbono cuore di fedire a’ nemici, nè vergogna d’abbandonare il re, ch’era presso di loro sul campo, nè l’altra baronia di Francia, e senza ritornarsi a dietro a far testa col re insieme, e senza essere cacciati, si fuggirono del campo, e andaronsene verso Parigi, abbandonando il padre e’ fratelli nel pericolo della grave battaglia; degni non di titoli d’onore, ma di gravi pene, se giustizia avesse forza in loro.

CAP. XVIII. La sconfitta del re di Francia e sua gente.

Avendo il valoroso duca di Guales già sbarattate le due prime schiere de’ nemici, e veduto che la terza schiera, ov’era il figliuolo e ’l fratello del re con cinquemila cavalieri, per paura s’erano fuggiti senza dare o ricevere colpo, prese speranza dell’incredibile vittoria, e con molta baldanza tutti in uno drappello fatto s’addirizzarono ad andare a combattere la grossa schiera del re. Il quale re, avendosi messe innanzi l’altre schiere, si pensò, per ritenere più ferma la baronia, di scendere a piè, e così fece. E vedendosi venire addosso gl’Inghilesi e’ Guasconi con gran baldanza, e avendo saputa la fuga del figliuolo e del fratello non invilì, ma virtuosamente confortando i suoi baroni che gli erano di presso, si fece innanzi a’ nemici per riceverli alla battaglia coraggiosamente. Il duca co’ suoi [240] franchi cavalieri, e sperti in arme a quel tempo più ch’e’ Franceschi, e cresciuti nella speranza della vittoria, si fedirono aspramente nella schiera del re. Quivi erano di valorosi baroni e di pro’ cavalieri; e sentendovi la persona del re, faceano forte e aspra resistenza, e mantennono francamente lo stormo, abbattendo, tagliando e uccidendo di loro nemici; ma perocchè fortuna favoreggiava gl’Inghilesi, molti Franceschi come poteano ricoverare a cavallo si fuggivano, senz’essere perseguitati; che la gente del duca non si snodava, e la schiera del re al continovo mancava; e ’l re medesimo, conoscendo già la vittoria in mano de’ suoi nemici, non volendo per viltà di fuga vituperare la corona, fieramente s’addurò alla battaglia, facendo grandi cose d’arme di sua persona; ma sentendosi allato messer Gianni suo piccolo figliuolo, comandò che fosse menato via e tratto della battaglia; il quale per comandamento del re essendo montato a cavallo con alquanti in sua compagnia, e partito un pezzo, il fanciullo ebbe tanta onta di lasciare il padre nella battaglia che ritornò a lui, e non potendo adoperare l’arme, considerava i pericoli del padre, e spesso gridava: Padre, guardatevi a destra, o a sinistra o d’altra parte, come vedea gli assalitori; ed essendo appresso del re messer Ruberto di Durazzo della casa reale di Puglia, ch’avea aoperate sue virtù come paladino, e lungamente con altri baroni difesa la battaglia, e morti e magagnati assai di quelli ch’a loro si strigneano, in fine abbattuti e morti intorno al re, il re fu intorniato dagl’Inghilesi e [241] da’ Guasconi, e domandato fu che si dovesse arrendere; ed egli vedendosi intorneato de’ suoi baroni e nimici morti e de’ nemici vivi, e fuori d’ogni speranza di potere più sostenere la battaglia, s’arrendè per sua voce a’ Guasconi, e lasciò l’arme sotto la loro guardia: e ’l suo piccolo figliuolo di corpo, e grande d’animo, non si voleva arrendere, ma pregato, e ricevuto comandamento dal padre che s’arrendesse, così fece; e questo fu il fine della disavventurata battaglia per li Franceschi, e d’alta gloria per gl’Inghilesi.

CAP. XIX. Racconta molti morti e presi nella battaglia.

In questa battaglia furono morti il duca di Borbona della casa di Francia, il duca d’Atene, il maliscalco di Chiaramonte, messer Rinaldo di Ponzo, messer Giuffrè di Ciarnì, il conte di Galizia, messer Ruberto di Durazzo de’ reali del regno di Cicilia, il sire di Landone, il sire di Crotignacco, messer Gianni Martello, messer Guglielmo di Montaguto, messer Gramonte di Cambelli, il vescovo di Celona, cagione di questo male, il vescovo d’Alzurro, tutti alti e gran baroni; e furono morti in sul campo oltre a costoro più di milledugento altri cavalieri a sproni d’oro, e banderesi, e cavalieri di scudo e borgesi, tutta nobile cavalleria, perocchè non v’erano quasi soldati; tutti erano famigli di [242] gran signori, e uomini ch’erano venuti al servigio del loro re. I presi furono messer Giovanni re di Francia, messer Giovanni suo piccolo figliuolo, il maliscalco da Udinam, messer Iacopo di Borbona, il conte di Trincia villa, il conte di Monmartino, il visconte di Ventador, il Conte di Salembrucco Alamanno, il sire di Craone, il sire di Montaguto, il sire di Monfreno, messer Brucicolto, messer Bremont della volta, messer Amelio del Balzo, e ’l castellano d’Amposta, messer Gianni e messer Carlo d’Artese, l’arcivescovo di Sensa, il vescovo di Lingres, e molti altri baroni che qui non si nominano; e oltre a questi caporali, vi rimasono presi più di duemila cavalieri franceschi tutti uomini di pregio, e grandi e ricchi borgesi, e scudieri e gentili uomini. Questa battaglia fu fatta lunedì la mattina, a dì 18 di settembre, gli anni 1356, presso a Pittieri a due leghe, in una villa che si chiama Trecceria, la quale per questo caso piuttosto confermò il suo nome che altra mutazione le desse.

CAP. XX. Come il re di Francia n’andò preso in Guascogna.

Seguita, che vedendosi il giovane duca sì altamente vittorioso, non ne montò in superbia, e non volle come potea mettersi più innanzi nel reame, che lieve gli era a venirsene fino a Parigi, ma avendo la persona del re a prigione. [243] e ’l figliuolo, e tanti baroni e cavalieri, per savio consiglio diliberò di non volere tentare più innanzi la sua fortuna; e però raccolta la preda e tutta la sua gente, e fatto fare solenne uficio per li morti, e rendute grazie a Dio della sua vittoria, si partì del paese, e senz’altro arresto se ne tornò in Guascogna alla città di Bordello. E giunto là, fece apparecchiare al re nobilemente il più bello ostiere, ove largamente tenea lui e ’l figliuolo, facendo loro reale onore, e spesse volte la sua persona il serviva alla mensa. È vero che lo volle al cominciamento menare in Inghilterra per più sua sicurtà, ma i Guasconi, a cui il re s’era accomandato, non acconsentirono, e però si rimase in Guascogna alcun tempo innanzi che condotto fosse in Inghilterra, che si fece con grande ingegno, come innanzi racconteremo.

CAP. XXI. I modi tenne il re d’Inghilterra sentendo la novella di sì gran vittoria.

Corsa la fama dell’incredibile vittoria in Inghilterra, e avendo il re Adoardo di ciò lettere dal figliuolo che li contavano il pericolo dov’egli con tutta la sua oste era stato, e l’alta e la grande vittoria che Iddio gli avea data, il savio re contenente nella faccia e negli atti, senza mostrare vana allegrezza, di presente fece raunare i suoi baroni e ’l suo consiglio, e con belle e savie parole dimostrò a tutti che questo non era [244] avvenuto per virtù nè operazione di sua gente, ma per singulare grazia di Dio, e comandò a tutti che niuna vana gloria o festa se ne mostrasse; ma per suo dicreto fece ordinare e mandare per tutta l’isola, che in catuna buona terra, castello e villa, otto dì continovi si facesse in tutte le chiese ogni mattina solenne sacrificio per l’anime de’ morti nella battaglia, e che si rendesse a Dio grazia della vittoria ricevuta. E fuori di questi esequi non si udì nè vide alcuna festa in tutta l’isola, strignendo catuna l’esempio e il comandamento del re. La quale mansuetudine fu al re maggiore laude, che al figliuolo la non pensata vittoria.

CAP. XXII. Battaglia fra due cavalieri, e perchè.

Fu vero, avvegnachè non in questi dì ma poi, che due grandi e valorosi cavalieri, l’uno Guascone e l’altro Inghilese, vennero a quistione, perocchè catuno si vantava ch’avea preso il re. E venne tanto montando la loro riotta, che s’appellarono per questo a battaglia, la quale con grande pompa e riguardo feciono a Calese, e il Guascone fece ricredente l’Inghilese. E al Guascone ch’ebbe la vittoria furono fatti gran doni dal re di Francia e dal prenze di Guales, ma poco appresso gl’Inghilesi per invidia il feciono morire. Avendo raccontate l’oltramontane fortune, le italiane con sollecitudine addomandano il debito alla nostra penna.

[245]

CAP. XXIII. Processo fatto contro a’ signori di Milano per lo vicario dell’imperadore.

Narrato abbiamo nel sesto libro, come messer Marcovaldo vescovo augustinese vicario in Pisa per l’imperadore, era fatto capitano della compagnia, e dell’altra oste de’ Lombardi ch’erano collegati contro a’ signori di Milano; ed essendo raunati tutti in Lombardia e acconci d’andare verso Milano, il vescovo fece esaltare nell’oste l’insegna imperiale ne’ campi di Modena, e ivi dichiarò a tutti, com’egli era vicario dell’imperadore, e formò un processo sotto il titolo del vicariato contro a messer Bernabò e a messer Galeazzo signori di Milano, il quale in effetto contenea: come in derisione e in contento della santa Chiesa e’ davano l’investiture de’ beneficii ecclesiastici a cui voleano, togliendoli a cui la santa Chiesa gli avea investiti, e a’ legati del papa non lasciavano in tutta loro tirannica giurisdizione fare uficio, e alquanti n’aveano fatti morire crudelmente; e come aveano trattato con messer Palletta da Montescudaio di tradire l’imperadore, e di torgli la città di Pisa, e come per loro violenta tirannia aveano occupate le città e’ popoli di Lombardia pertinenti al santo imperio, e come in vergogna della maestà imperiale, tornandosi l’imperadore in Alamagna, valicando per Lombardia, gli feciono serrare le porte delle città e castella di loro distretto, e guardare [246] le mura con gente d’arme, come da loro nemico, avendo titolo di suoi vicari; e formato il processo, mandò per sue lettere a richiedere i tiranni, che a dì 11 del presente mese d’ottobre del detto anno comparissono personalmente dinanzi da lui a scusarsi del detto processo, altrimenti non ostante la loro contumace contro a loro pronunzierebbe giusta sentenza. E di quella, coll’aiuto di Dio, e del santo imperio e del suo potente esercito, tosto intendea fare piena esecuzione.

CAP. XXIV. Risposta fatta per li signori di Milano al vicario.

«Avendo per alcuni nostri fedeli notizia delle tue superbe e pazze lettere, colle quali noi, come fanciulli, col tuo ventoso intronamento credi spaurire, noi, avvegnachè dell’età giovani, molte cose avendo già vedute, al postutto il mormorio delle mosche non temiamo. Tu immerito del preclarissimo nome del santo imperio ti fai vicario, dei quale noi fedeli vicari ci confessiamo. Contro dunque a te non vicario dell’imperio, ma capo de’ ladroni, e guida di fuggitivi soldati, infra’ l termine che ci hai assegnato, acciocchè non t’affatichi venendo sopra il milanese, piagentino ovvero parmigiano tenitorio, pe’ nostri precussori idonei, acciocchè non ti vanti ch’a tua volontà le nostre persone abbi mosse, co’ tuoi guai, forse ti risponderemo. Noi adunque [247] promettiamo a te, che con nefaria mano di ladroni a depopolare e ardere i nostri pacifichi confini con pazzo campo se’ mosso, non come vescovo ma come uomo di sangue, se la fortuna ministra, della giustizia nelle nostre mani ti conducerà, non altrimenti che come famoso ladrone, e incendiario ti puniremo.»

CAP. XXV. Risposta fatta, per lo vicario, alla detta lettera.

«Rallegriamo delle lettere che mandate ci avete, quali mostrano la superbia della quale voi vi gloriate. Della nostra ingiuria intendiamo soprassedere, ma della bugia scritta nelle vostre lettere non ci possiamo contenere. Scriveste dunque, che co’ vostri precursori, innanzi ch’entrassimo nel vostro tenitorio, ci rispondereste minacciandone di battaglia. E ora con la grazia di Dio e col suo aiuto, nel quale solo è la nostra speranza, non occultamente a modo di predoni, ma palesi, passati Parma, siamo in sul campo presso a cinque miglia a Piacenza, e col detto divino aiutorio intendiamo procedere innanzi, e co’ vostri precursori non ci avete ovviati, in vituperio della vostra vana superbia. Data a Ponte miro, a dì 10 d’ottobre.»

[248]

CAP. XXVI. Come i soldati de’ tiranni non vollono venire contro all’insegna dell’imperadore.

Era in questo mezzo avvenuto, ch’e’ signori di Milano, temendo l’avvenimento de’ sopraddetti loro avversari, aveano mandato a Parma il marchese Francesco con quattromila barbute di gente tedesca e Borgognoni ivi raunati altri cavalieri e gran popolo per uscire a campo, e non lasciare i nemici entrare sul terreno de’ signori di Milano, e di combattere con loro. Quando il marchese volle uscire fuori a campo, i conestabili de’ Tedeschi e de’ Borgognoni tutti di concordia dissono al marchese loro capitano, che contro al vicario dell’imperadore e alla sua insegna non anderebbono, nè in campo non farebbono resistenza contro al loro signore. Questo fu il titolo della scusa, ma più li mosse non volere fare resistenza alla compagnia, perocchè aveano parte in quella non istandovi, e il refugio e il soldo quand’erano cassi in altre parti; ma dissono, ch’erano apparecchiati di stare alla guardia delle città e delle castella lealmente. I signori sentendo l’intenzione de’ soldati, ch’acconsentivano d’essere cassi innanzi che uscire contro al vicario dell’imperadore, pensarono che a cassarli era aggiugnere forza a’ loro nemici, e pericolo di loro stato: e però dissimularono con loro, e ritrassonli a Milano, lasciando in Parma e in Piacenza buona guardia per difendere le mura.

[249]

CAP. XXVII. Come il vicario puose campo.

Il vescovo d’Augusta, ch’era prod’uomo in fatti d’arme e bene avveduto, sentendo ch’e’ soldati de’ signori di Milano non erano per uscire in campo contro a lui, con più ardire valicò Parma, cavalcando con tutta sua oste presso alle porti, e così Cremona, e ristette alquanto in sui Piacentino, ove fece la risposta della lettera sopraddetta. E predando il paese d’intorno per alcuno dì, si partì di là, ed entrò sul contado di Milano; e facendo in quello grandissime prede, trovando la gente male provveduta, si mise a fermare suo campo a una grossa villa che si chiama Rosario, presso a Milano a quattordici miglia di piano, intorno alla quale a due, e a tre, e quattro miglia sono altre grosse villate, raccolte a modo di casali, piene di molta vittuaglia e bestiame, e per l’abbondanza l’oste vi stette a grande agio; e indi cavalcarono per tutto il Milanese, facendo danno grave a’ paesani, che per lungo tempo non aveano sentito che guerra si fosse; e con tutta la forza de’ signori di Milano, niuna resistenza trovarono in campo in molti giorni: e però lasceremo alquanto questa materia, tanto che le grandi cose che ne seguirono abbiano il tempo loro, non partendoci però dall’italiane tempeste, che prima si vogliono raccontare.

[250]

CAP. XXVIII. Ordine del re d’Ungheria alla guerra con i Veneziani.

Tornato il re in Ungheria, avvisato che la moltitudine degli Ungheri non si può mantenere in Italia come ne’ diserti, ebbe suo consiglio, ed elesse trenta suoi grandi baroni per capitani, ciascuno di cinquemila Ungheri a cavallo, con ordine che catuno il servisse tre mesi, come sono tenuti per omaggio. E per questo modo deliberò di continovare la guerra a’ Veneziani, succedendo l’uno barone all’altro di due in due mesi, perocchè ’l terzo aveano per la venuta e pel ritorno. E a dì 15 d’ottobre del detto anno giunse l’uno de’ baroni a Colligrano con quattromila Ungheri, i quali di presente si misono a scorrere e a predare il paese infino a Trevigi. In campo non trovavano contasto, perocchè come questo signore era sopra Trevigi, così altri signori erano a Giara e nella Schiavonia sopra le terre de’ Veneziani, sicchè i Veneziani aveano tanto a fare a guardare le mura delle loro terre, che non sapeano come pur quello si potessono fornire, sicchè gli Ungheri al tutto signoreggiavano i campi di Trevigiana, e assediavano le castella.

[251]

CAP. XXIX. L’aguato misono gli Ungheri a gente de’ Veneziani.

Il doge di Vinegia col suo consiglio, vedendo la soperchia baldanza degli Ungheri, per tenerli più a freno si sforzarono di conducere un gran barone della Magna con seicento cavalieri tedeschi, per mandarli a Trevigi, e pagaronlo per quattro mesi innanzi; e datogli a compagnia un gentile uomo di Vinegia, all’uscita d’ottobre li mandarono a Trevigi, e per loro la paga per gli altri soldati a cavallo e a piè ch’erano a Trevigi. Costoro con poca provvedenza de’ loro nemici faceano la via per lo Vicentino. Gli Ungheri da Colligrano sentirono la via che costoro faceano; e di subito eletti mille Ungheri, li feciono cavalcare la notte contro a’ Tedeschi; e venne loro si contamente fatto, che innanzi ch’e’ Tedeschi avessono novella di loro, gli ebbono addosso nel cammino; ed essendo male armati, chi si mise a difendere fu morto, gli altri tutti ebbono a prigioni, e tolti loro i danari, e l’arme, e’ cavalli; e le robe, in camicia gli rimandarono a Vinegia. Per questo i Veneziani perderono molto vigore, e a’ nemici baldanza grande ne crebbe, e quasi come paesani sicuravano i villani, e faceano lavorare le terre per la nuova sementa.

[252]

CAP. XXX. Come il re Luigi trattò d’avere Messina in Cicilia.

Addietro avemo fatta memoria nel quarto libro, come messer Niccola di Cesaro rientrò in Messina e caccionne i suoi nemici, e con assentimento del re Luigi riprese Melazzo, e fecesene maggiore, ma non tanto ch’avesse ardire di scoprirsi a’ Messinesi, se non si sentisse più forte. E però s’accostò alla setta di que’ di Chiaramonte, e fece tornare da Firenze a Messina certi cavalieri ch’erano stati cacciati quando fu cacciato egli. E vedendo morto colui che dovea essere loro re, si mise in trattato col gran siniscalco del re Luigi di dargli Messina, e per questa cagione il re Luigi, e la reina Giovanna andarono in Calavria, e stettono parecchi mesi a Reggio, innanzi che l’accordo avesse il suo effetto. E facendo suo sforzo d’avere galee armate a questo servigio, con gran fatica ve n’erano sette, e alquanti legni armati in questo tempo. Lasceremo al presente questa materia tanto che venga a perfezione, e seguiremo quello che prima ci occorre a raccontare.

[253]

CAP. XXXI. Come si trattò pace fra il conte di Fiandra e i Brabanzoni.

I Brabanzoni vedendosi sottoposti al conte di Fiandra e a’ Fiamminghi, cosa molto strana al loro costume, non potendo più sostenere il giogo, e non volendosi rimettere in guerra, che n’erano mal capitati e mal destri, per savio avvisamento presono consiglio tutte le comuni di Brabante, fuori che la villa di Mellina ch’appartenea al conte, che la duchessa, ch’era cognata carnale del conte, tornasse in Brabante: e fattala venire, la ricevettono in Loano, affinchè tra lei e ’l conte si trovasse accordo. E per questa cagione, niuna vista o sentimento mostrarono di pigliare arme: e ’l conte, sentendo tornata la cognata in Brabante, non ne prese turbazione come avrebbe fatto del duca. E di presente che la duchessa fu in Brabante, si levarono baroni e amici di catuna parte, a trattare tra loro concordia per riposo de’ Fiamminghi e Brabanzoni. Per lo quale trattato, avvegnachè durasse lungamente, in fine, come trovare si potrà appresso nel suo tempo, vennero a final pace e concordia; ma questo principio fu del mese d’ottobre del detto anno.

[254]

CAP. XXXII. Come i Fiorentini si partirono da Pisa, e andarono a Siena con le mercatanzie.

Seguita, per non lasciare in silenzio lo sdegno preso pe’ Fiorentini contro a’ Pisani, i quali, come narrato è addietro, aveano loro rotta la pace, togliendo a’ Fiorentini la franchigia, della quale appresso seguitò grande materia di guerra, come leggendo per li tempi si potrà trovare. I Fiorentini avendo ritratta la loro mercatanzia e’ danari, in calen di novembre anno detto, tutti i cittadini e distrettuali di Firenze furono partiti di Pisa; e come questo fu fatto, e le strade sbandite per divieto fatto a tutte le mercatanzie, arnese e roba, i Genovesi, e’ Provenzali, e’ Catalani, e tutti altri mercatanti se ne partirono, e rimase la città di Pisa ne’ luoghi della mercatanzia solitaria; e allora si cominciarono a avvedere i Pisani che non aveano fatta buona impresa, e grande repetio ebbe nella città de’ loro maggiori nel reggimento, che dato avea a intendere, che per gravezze ch’e’ facessono a’ Fiorentini non se ne partirebbono, tant’era l’agiamento del porto, e la comodità del cammino e dell’altre cose, e’ non pensavano che lo sdegno dell’ingiuria ponderasse contro alla loro comodità. La cosa andò tutto per altro modo. I Fiorentini presono porto a Talamone, e pertinacemente si disposono a volere vedere se fare potessono la mercatanzia senza i Pisani. Per questo i Pisani [255] ch’erano amici di Simone Boccanegra doge di Genova, si misono a fare lega con lui, e armare galee, per impedire che la mercatanzia non ponesse a Talamone. Onde seguitarono non piccole e disusate novità, come leggendo innanzi a loro tempo si potrà trovare.

CAP. XXXIII. Come il capitano di Forlì si provvide.

Essendo la compagnia valicata in Lombardia, il legato intendea a riprendere la guerra contro al capitano di Forlì il signore di Faenza, e apparecchiavasi d’assediare la città di Forlì. Il capitano ch’era coraggioso e avvisato, innanzi che l’assedio gli venisse addosso, ebbe trecento suoi cavalieri e cinquecento masnadieri, e di subito e improvviso a’ Malatesti cavalcò con questa gente a Rimini, e accolse una grande preda d’uomini, e d’arnesi, e di bestiame, e data la volta, senza contasto con tutta la preda si tornò in Forlì; e fatto questo, fece ardere e disfare tutti i casali e terre da non potersi bene difendere, e intese a votare la terra di tutta la gente disutile alla guerra, e a fornirsi copiosamente di vittuaglia, acciocchè più lungamente potesse fare sua difesa contro al legato, ch’era per farlo assediare, come appresso avvenne, ma più tardi ch’e’ non s’avvisava.

[256]

CAP. XXXIV. Come Faenza s’arrendè al legato, e’ patti.

Messer Giovanni di messer Ricciardo de’ Manfredi signore di Faenza, conoscendo la sua forza debole a resistere a santa Chiesa, si mise a trattare accordo col legato, mediante gli ambasciadori del re d’Ungheria, che a stanza di messer Giovanni se ne travagliavano, e in fine del mese di Novembre anno detto, a dì 10, vennero a questi patti: che al legato si dovesse rendere liberamente la signoria di Faenza, e delle castella e del contado, e messer Giovanni dovesse avere tutto suo patrimonio salvo, e la terra di Bagnacavallo. E per attenere i patti diede due suoi figliuoli stadichi, e mandolli co’ detti ambasciadori alla guardia del signore di Padova. E appresso, del mese di dicembre vegnente, il legato attesi d’ogni parte i patti, fece prendere la tenuta della città di Faenza e di tutte le castella. E innanzi che la terra si desse al legato, il tiranno fece a’ cittadini gravi oppressioni, e tolse loro molti danari, e di quelli cui egli odiava per sospetto fece uccidere. E a questo modo prese fine la tirannia di messer Giovanni sopraddetto, la quale per lo suo principio fu cagione, come addietro avemo contato, di molti mali avvenuti in Italia.

[257]

CAP. XXXV. Che fece la gente della lega de’ Lombardi in questo tempo.

Tornando a’ fatti di Lombardia, essendo stato lungamente il vicario dell’imperadore colla gente della lega e della compagnia a oste in sul contado di Milano senza avere trovato contasto, si ridussono a una villa chiamata Margotto in sul Tesino, e ivi si rassegnarono tremilacinquecento cavalieri bene armati e bene a cavallo, senza l’altra cavalleria da saccomanno, e seimila masnadieri: costoro prendeano molta fidanza, non temendo ch’e’ soldati tedeschi e borgognoni venissono contro a loro. Il marchese di Monferrato trasse dell’oste cinquecento cavalieri per un trattato ch’egli avea tenuto della città di Novara, e a dì 9 di novembre anno detto entrò nella terra, e presela, e assediò il castello, ch’era grande e forte e bene fornito di gente alla difesa, e di molta vittuaglia da potere lungamente attendere il soccorso, e francamente manteneano la difesa.

CAP. XXXVI. Della materia medesima.

Avvenne, che presa Novara per lo marchese prosperamente, avendo egli e messer Azzo da Correggio un altro trattato in Vercelli, si sforzarono [258] d’avacciare la cavalcata, e per tema di riparo che pensavano vi si metterebbe per esempio di Novara; e per questo messer Azzo trasse dell’oste anche settecento barbute di buona gente, e andando per entrare in Vercelli, a dì 11 di novembre detto, quelli che v’erano dentro per lo signore di Milano avendo udita la novità di Novara ripararono alla guardia di Vercelli, sicchè la cavalcata fu invano. Nondimeno pensando il marchese e messer Azzo che da Milano non potesse venire loro soccorso, vi si misono a oste, ove stettono più dì; e in questo mezzo fortuna cambiò la faccia a coloro che troppo si fidavano, come spesso avviene in fatti di guerra, che fa vinti i vincitori avere a schifo il suo nemico.

CAP. XXXVII. Come l’oste della lega fu rotta dalla gente di Milano.

I signori di Milano che riceveano cotanto oltraggio per la malizia de’ loro soldati, non si ruppono da loro, ma carezzaronli in vista e in opere, e massimamente certi conestabili più confidenti, e tanto seppono fare, che una parte ne recarono a loro volontà; e nondimeno per tutte loro città raccolsono arme de’ soldati de’ loro sudditi e degli altri Italiani intorno di quattromila cavalieri, e altrettanti n’ebbono de’ loro soldati; e questo fu fatto per modo, che poco avvisamento n’ebbono i loro nemici. E sentendo tratti dell’oste del vicario milledugento barbute per lo [259] fatto di Novara e di Vercelli, subitamente feciono capitano messer Loderigo de’ Visconti valente cavaliere, ma di grande età. Costui uscì subito con bene seimila cavalieri e molto gran popolo di Milano, e andatosene verso i nemici, ch’erano col loro campo a Margotto in sul Tesino, puosesi a campo a dì 12 di novembre predetto, presso a’ nemici a tre miglia, e mandò a richiedere il vescovo di battaglia, la quale richiesta il vicario mostrò d’accettare allegramente, e ’l termine fu per la domenica mattina vegnente, a dì 13 del mese. Ma vedendosi il vescovo sfornito il campo di milledugento buoni cavalieri, si provvide la notte di fare valicare il Tesino a tutta la sua oste, a fine di riducersi con essa presso a Pavia, per avere il sussidio della città, che troppo gli parea avere grande disavvantaggio. In questo movimento prigioni si fuggirono ch’avvisarono messer Loderigo del fatto: il quale di subito la notte mandò messer Vallerano Interminelli, figliuolo che fu di Castruccio, con trecento cavalieri, e comandogli che si strignesse co’ nemici francamente, sicch’egli impedisse la partita loro, tanto ch’e’ giugnesse colla sua oste, della quale incontanente ordinò le battaglie, e seguitò appresso. Messer Vallerano fece coraggiosamente il suo servigio, e innanzi dì assalì il campo ora dall’una parte ora dall’altra, per li quali assalti molto impedì il valico del Tesino alla gente del vicario. Ma schiarito il giorno, per lo soperchio della gente del vicario fu preso colla maggiore parte de’ suoi cavalieri. Nondimeno il carreggio del campo, e la salmeria, e ’l popolo, e parte de’ cavalieri valicavano continovamente, [260] e di qua alla riscossa erano rimasi col vicario dell’imperadore il conte di Lando capitano della compagnia, e messer Dondaccio di Parma, e messer Ramondino Lupo, e quasi tutti i migliori conestabili dell’oste con millecinquecento barbute e co’ sopraddetti prigioni. E avendosi messa innanzi tutta l’altra oste, innanzi che potessono conducersi al passo, messer Loderigo colla sua cavalleria, tutti schierati e ordinati alla battaglia, fu loro addosso la mattina al chiaro dì. I cavalieri del vicario, ch’erano uomini di gran virtù in fatti d’arme, vedendosi allo stretto partito, tutti s’annodarono insieme, e feciono testa, e ricevettono l’assalto de’ nemici francamente, non lasciandosi di serrare, facendo d’arme gran cose contro al soperchio ch’aveano addosso: e combattendo continovamente per spazio di tre ore sostennero l’assalto d’ogni parte, danneggiando molto i nemici loro. Infine la fatica e ’l soperchio della moltitudine de’ loro avversari li ruppe. Allora molti, che temettono più la paura che la vergogna, si misono alla fuga e camparono. In sul campo ne rimasono presi seicento e più, tra’ quali fu il vescovo già detto, vicario dell’imperadore, e ’l conte di Lando, e messer Ramondino Lupo, e messer Dondaccio. È vero che ’l conte venne a mano de’ Tedeschi, che ’l celarono e camparono, e due cavalieri tedeschi camparono messer Dondaccio, e fuggironsi con lui, e fidaronsi alle sue promesse, e per diversi cammini il condussono a Firenze, e poi in Lombardia. Tutta l’altra oste, che avea valicato Tesino, sani e salvi si ricolsono in Pavia con tutto il carreaggio e l’altro arnese. [261] E questa fu la fine della nuova impresa del nuovo vicario dell’imperadore, ma non de’ fatti della lega.

CAP. XXXVIII. Il consiglio prese il capitano di Forlì.

Veduto che Francesco degli Ordelaffi ebbe, che Faenza, e tutta l’altra Romagna, e la Marca, e ’l Ducato era venuta all’ubbidienza di santa Chiesa, e che al legato ch’avea gran potenza di danari e d’uomini d’arme, non restava a fare altra guerra che contro a lui, ragunò a consiglio tutti i buoni uomini di Forlì, e domandò consiglio da loro di quello ch’avesse a fare. Costoro consigliati insieme, di concordia feciono dire al capitano in quel consiglio, che la fede e l’amore ch’e’ Forlivesi aveano sempre portato alla sua casa e a lui non era in loro mancata; e come altre volte de’ loro propri beni nelle fortune loro gli aveano atati e mantenuti, tanto ch’elli erano ritornati nella signoria; così intendeano di fare quando il bisogno incorresse, di che Iddio il guardasse. Nondimeno conoscendo al presente la gran forza della Chiesa contro a lui solo, e niuno soccorso, consigliavano che col legato si trattasse accordo il migliore che avere si potesse. E di questo avverrebbe, ch’eglino suoi amici non perderebbono i loro beni, e potrebbonlo sovvenire e atare. Quando egli ebbe udito il loro consiglio, disse: Ora voglio che voi udiate la mia intenzione. Io non intendo fare accordo colla Chiesa, se Forlì e [262] l’altre terre ch’io tengo non mi rimangono, e quelle intendo mantenere e difendere fino alla morte. E prima Cesena, e le castella di fuori, e Forlimpopoli, e appresso perdute quelle, le mura di Forlì, e perdute le mura, difendere le vie e le piazze, all’ultimo questo mio palazzo, e in fine l’ultima torre di quello, innanzi che per suo assentimento alcuna n’abbandonasse; e però volea che tutti sapessono in palese la sua intenzione, pregandoli con minacciamento di gravi minacce che catuno li fosse fedele amico e leale: e di presente mandò la moglie e’ figliuoli con buona compagnia di gente d’arme a cavallo e a piè, e raccomandolle la guardia di Cesena; e fornì di vantaggio tutte le castella, e di Forlì trasse da capo femmine e fanciulli, e gente disutile in tempo d’assedio, e soldati mise nelle case e masserizie di certi cittadini meno confidenti; e così disposto, intendea a difendersi dal legato.

CAP. XXXIX. Messer Niccola prese Messina per lo re Luigi.

Tornando nostra materia a’ fatti di Messina, essendo il re Luigi a Reggio, messer Niccola di Cesaro avea procurato d’avere in sua guardia il castello di Sansalvadore in sulla marina, e aggiuntosi i cavalieri di sua setta, ch’avea fatti ritornare da Firenze, si provvide che non era sicuro a fare sua impresa col re Luigi, s’e’ non avesse il castello di Mattagrifone sopra Messina, che era fortissimo, e dava l’entrata e l’uscita [263] della città per la montagna; questo procacciò per ingegno, che per forza non avea luogo. Il castellano non prendea guardia de’ suoi cittadini, e’ cavalieri tornati da Firenze erano amici, e per modo d’andarlo a vicitare con alquanti loro famigli, furono con festa ricevuti da lui; e tenendolo in novelle, com’era ordinato, messer Niccola sopravvenne con altri suoi compagni, e non gli fu contradetta l’entrata per mala provvisione del castellano; e trovandosi dentro forte, cortesemente ne trasse il castellano, ch’era male provveduto alla difesa. Fornito questo messer Niccola vi mise il castellano e le guardie a suo modo; e avendo fermo il trattato col re Luigi, il re del mese di novembre vi mandò messer Niccola Acciaiuoli da Firenze ch’avea menato questo trattato, con sette galee e un legno armato cariche di grano, e con lui cinquanta cavalieri e trecento masnadieri di Toscana; e giunti a Messina, furono ricevuti da messer Niccola di Cesaro e da’ suoi seguaci a grande onore; e ’l popolo ch’avea necessità grande di vittuaglia, sentendo le galee cariche di grano, fu molto contento, e incontanente per sicurtà del re fu consegnato al gran siniscalco la guardia di Sansalvadore, ch’è la forza del porto, e Mattagrifone, ch’è la guardia della città; e fatto questo, e lasciato in catuno masnadieri e balestrieri alla guardia, fu condotto il gran siniscalco e l’altra sua gente d’arme all’abitazione del re, ove trovò due figliuole del re Petro, le quali ritenute cortesemente mandò poi al re e alla reina ch’erano a Reggio, e da loro furono ricevute [264] graziosamente, come appresso racconteremo, e la reina le ritenne con seco onorevolemente. Qui si desti la memoria della reale eccellenza del re Ruberto: qui s’agguagli la sua sollecitudine, la sua grande potenza, l’armata di cento, e di centosessanta, e di dugento galee per volta, e di molte armate colla forza grande de’ suoi baroni, e della sua cavalleria e delle sue osti, per acquistare alcuna terra nell’isola di Cicilia non che Messina, ch’è la corona dell’isola, e non potutolo fare, acciocchè per esempio si raffreni l’impotente ambizione degli uomini, e non si stimi alcuna cosa per forza avere fermezza, nè potere fuggire a tempo le calamità innate nelle mortali e cadevoli cose del mondo.

CAP. XL. Come si ribellò Genova a que’ di Milano.

Seguitasi, che in questi dì i Genovesi, i quali di natura sono altieri, vedendosi sì vilmente sottoposti a’ tiranni di Milano, e che vendicati s’erano de’ Veneziani e de’ Catalani, per la cui fortuna s’erano sottoposti al tirannesco giogo, avendo sentito che ’l marchese di Monferrato avea rubellato a’ tiranni Asti in Piemonte, e che i signori di Pavia s’erano accostati con lui, e ’l vicario dell’imperadore era colla gente della lega e colla compagnia a oste in sul Milanese, innanzi che sapessono della sconfitta del vicario, parendo loro avere tempo da rubellarsi senza pericolo, a dì 15 di novembre anno detto, il popolo [265] si levò a romore, e prese l’arme, e corse la terra, gridando: Viva libertà, e muoiano i tiranni; e corsi al palagio, dov’era il vicario de’ signori, senza contasto furono messi dentro, e trassonne il vicario e tutta sua famiglia, e tutte le masnade de’ soldati a cavallo e a piè con lui misono fuori della città e del loro distretto, senza fare loro villania o altro male. E incontanente mandarono a Pisa per messer Simone Boccanegra, ch’era prima stato doge di Genova, il quale essendo molto amico de’ Pisani, e avendo secondo l’opinione di molti trattata questa rivoltura, coll’aiuto de’ cavalieri di Pisa e per loro consiglio si mise per terra, e andò a Genova, e prese la signoria dal popolo. E per questo modo fu libera la città di Genova dalla signoria de’ Visconti di Milano, della qual cosa i signori di Milano rimasono indegnati contro al comune di Pisa, aggiugnendo allo sdegno, ch’aveano dato aiuto al vicario dell’imperadore quando andò contro a loro, e la morte di messer Paffetta loro confidente amico; ma tutto comporta nel tempo l’animo della parte.

CAP. XLI. Come fu disfatta la chiesa di santo Romolo.

Era la chiesa di santo Romolo in sulla piazza de’ priori, e impedia molto la piazza; entrò un uficio al priorato ch’aveano poco a fare, e però, come fu loro messo innanzi di rallargare e dirizzare la piazza, preso di concordia tra loro [266] il partito, subitamente la sera e la notte feciono mettere in puntelli la chiesa e le case sue, e a dì 20 di novembre tutto feciono rovinare, e ivi presso volgendo le loggie verso la piazza, ordinarono che si redificasse maggiore e più bella, e ordinaronvi i danari, e fu fatto. Costoro, a dì 3 di dicembre del detto anno, volendo fare una gran loggia per lo comune in sulla via di Vacchereccia, non bene provveduti al beneficio del popolo, subitamente feciono puntellare e tagliare da piè il nobile palagio e la torre della guardia della moneta, dov’era la zecca del comune, ch’era dirimpetto all’entrata del palagio de’ priori in sulla via di Vacchereccia, e quella abbattuta, e fatta la stima delle case vicine fino al chiasso de’ Baroncelli e de’ Raugi (biasimati dell’impresa, e che loggia si convenia a tiranno e non a popolo) vi rimase la piazza de’ casolari, e la moneta assai debole e vergognosa a cotanto comune. Questo medesimo uficio comperò da’ Tornaquinci la grande e bella torre ch’aveano sul canto di mercato vecchio e in sul corso del palio, la quale strignea e impediva la via del corso; questa feciono abbattere e cadere in sul mercato all’uscita del loro uficio; e fu molto a grado a’ cittadini, e utile alla via e al mercato.

[267]

CAP. XLII. Quello fece messer Filippo di Taranto e di Vercelli.

Era in questi dì a corte di Roma a Avignone messer Filippo di Taranto fratello carnale del re Luigi, il quale aspettava che ’l papa dispensasse con lui e con la moglie che s’avea tolta, sirocchia della reina Giovanna, quella che fu moglie del duca di Durazzo e appresso di Ruberto del Balzo, ed era sua nipote, figliuola del fratello carnale; e ’l papa, per l’irreverenza ch’ebbono al sagramento matrimoniale di copularsi prima ch’avessono la dispensagione, tardava di farla, e mostrava di non volerla fare: e in questo aspetto messer Filippo sommosse certi baroni e cavalieri provenzali, e raunò quattrocento barbute, e tenne segreta la sua cavalcata, avendo boce ch’andava in aiuto a’ signori di Milano o al marchese; ma egli ch’avea suo trattato cavalcò a Carasco in Piemonte, e ripresesi la terra, e lasciolla in ordine di guardia, e se ne tornò a Avignone del detto mese di novembre. In questo medesimo mese, non ostante la sconfitta del vicario dell’imperadore, il marchese di Monferrato, e messer Azzo da Correggio, e ’l conte di Lando, ch’era lasciato, accolsono tutto il rimanente della loro gente, e que’ di Milano, avendo la vittoria, ne cassarono, e assediarono di fuori il castello di Novara, e anche dalla parte della città, e assediarono Vercelli, e [268] tutto il verno mantennero gli assedi, tanto che vinsono la punga del castello di Novara, come seguendo nostro trattato al suo tempo diviseremo.

CAP. XLIII. Come si fuggì di Milano la donna che fu di messer Luchino col figliuolo.

Di messer Luchino Visconti tiranno di Milano era rimaso uno figliuolo nudrito per la madre, ch’era di quelli dal Fiesco di Genova. I tiranni di Milano, per tema della signoria, l’aveano assottigliato delle possessioni e del tesoro che ’l padre gli avea lasciato, e il giovane crescea in aspetto d’essere valoroso e in amore de’ cittadini, e questo gravava l’animo a’ signori per gelosia dal loro stato. La madre, ch’era savia e accorta, temea forte che messer Bernabò e messer Galeazzo nol facessono morire, i quali teneano lui e lei in guardia, ch’uscire non poteano di Milano. La donna ordinò molto saviamente con danari e con grandi promesse, con certi conestabili di cavalieri ch’aveano a fare la guardia, che ’l dì ch’ella disse loro la donna fu provveduta, e montata in su buoni cavalli, e con parte di loro tesoro furono tratti di Milano, e avviati con cavalieri in verso Pavia. La cosa fu tosto manifestata a’ signori; i quali li feciono perseguitare insino presso a Pavia, e arebbonli ritenuti, se non che gente uscì di Pavia, e ricevettonli, e tutti condussonli sani e salvi nella città di Pavia.

[269]

CAP. XLIV. Come il Re Luigi e la reina andarono a Messina.

Dappoichè per la gente del re Luigi fu presa la tenuta delle fortezze della città di Messina e del porto, i cittadini ordinarono di comune consiglio di mandare per lo re e per la reina a Reggio, acciocchè venissono in Messina a ricevere il saramento e la reverenza come loro signori; ed elessono undici cittadini i maggiori per ambasciadori, i quali tutti si vestirono di scarlatto foderato di vaio, e con le due figliuole di don Petro valicarono a Reggio, del mese di dicembre anno detto; e giunti là, e fatta la reverenza al re e alla reina, furono da loro ricevuti con grande allegrezza e festa; e sposta la loro ambasciata, e pregato il re e la reina che dovessono andare a Messina, incontanente mandarono a far tornare le loro galee: e ricevute le damigelle a grande onore, la reina l’ordinò di sua compagnia, trattandole caritatevolmente in tutte le cose; e venute le galee, il re e la reina e le damigelle vi montarono suso con tutti gli ambasciadori, e valicarono a Messina, a dì 24 di dicembre la vigilia di Natale, ove furono ricevuti con grande solennità di festa, fatta per tutti i cittadini, e collocati nelle case reali: e fatta la solenne festa del Natale, ricevettono il saramento e l’omaggio da tutti i cittadini, e a richiesta de’ cittadini promise il re di risedere colla corte di là, cosa che poi non attenne.

[270]

CAP. XLV. Come fu murato il borgo di Fegghine.

Ricordandosi i cittadini di Firenze, come in tutte le gravi guerre ch’al loro comune erano sopravvenute, il borgo di Fegghine ricevea le percosse, e veggendo quanto il porto di quel luogo era utile al fornimento della città, per la grande abbondanza della vittuaglia che a quello mercato continovamente venia, diliberarono che ’l borgo si murasse di grosse mura e di buone torri, e facessevisi una grossa terra alle spese del comune con l’aiuto delle circustanti vicinanze; e dato l’ordine del mese di dicembre del detto anno, e chiamati gli uficiali del mese di gennaio, cominciarono a fare i fossi e le porte principali, e appresso a fondare le mura e le torri. Penossi a compiere questa terra lungamente, ma fornita fu d’essere circundata di mura da difesa l’anno 1363, e compiuta e perfetta del mese di.....: Furono le mura in fondamento grosse braccia .... e sopra terra grosse braccia ... e alte con merli braccia ... con un corridoio dentro in beccatelli largo braccia ... e con torri alte braccia .... senza le porte, catuna alta sopra le mura braccia ... E con due porte maestre, l’una verso Firenze chiamata porta fiorentina, e l’altra verso castello Sangiovanni chiamata porta aretina, catuna Con gran torri, alte sopra le mura braccia ... la faccia delle mura di verso Firenze è per lunghezza [271] braccia ... e diverso l’Arno è braccia ... e quella verso castello Sangiovanni è braccia ... e quella di verso il poggio è braccia ... E così in tutto girano le mura di quella terra braccia ... E innanzi che la terra fosse murata, fu ripiena di molte case nuove edificate da’ cittadini di Firenze, e da’ paesani d’intorno. Costò al comune di Firenze fiorini .... e a’ terrazzani e circustanti fiorini.... E in questo medesimo tempo ne fece porre il comune una di nuovo al Pontassieve di costa ove si dice Filicaia, la quale è più per ridotto d’una guerra, che per abitazione o per mercato che vi si potesse allignare.

CAP. XLVI. D’un parlamento fece l’imperadore in Alamagna.

L’imperadore Carlo convocati i prelati e’ baroni d’Alamagna alla festa della natività di Cristo a Mezza nello Reno, vi si trovò con bene ventimila cavalieri, e in abito della maestà imperiale fu servito a mensa dal duca di Brandimborgo, e dagli altri baroni ordinati per consuetudine a quel servigio. E a quella festa vennero ambasciadori del re d’Inghilterra, e due figliuoli del re di Francia per trattare pace intra ’l re di Francia e ’l re d’Inghilterra, ma gli Alamanni poco vi seppono trovare modo, ma trattovvisi la concordia, che poi ebbe compimento, tra ’l conte di Fiandra e ’l duca di Brabante per l’opera di Mellina. In quella festa fu molto ubbidito e [272] reverito l’imperadore da’ prencipi d’Alamagna, e con tutti si mostrò in buona pace. In questi medesimi dì, a dì 23 di dicembre, papa Innocenzio sesto fece più cardinali di suo movimento, fra’ quali fu il vescovo di Firenze, ch’avea nome messer Andrea da Todi valente uomo, il cancelliere di Parigi uomo di grande autorità, e il generale de’ frati minori e quello de’ predicatori, che niuno l’avea procurato.

CAP. XLVII. Come il marchese di Monferrato ebbe il castello di Novara.

Il Marchese Francesco di Monferrato, come narrato abbiamo addietro, avea assediato il castello di Novara, ma per via d’assedio o per forza non si potea avere, ch’era inespugnabile e fornito per molti anni: ma il valente marchese avea presi e facea guardare i passi del Tesino per modo, che ’l soccorso più volte mandato pe’ signori di Milano più volte ributtò addietro, e la rocca fece cavare; e avendo gli assediati recati a partito, che le mura erano in puntelli nella maggiore parte, e non attendeano altro che d’arrendersi o di mettervi entro il fuoco; la gente de’ signori di Milano passò Tesino, per andare a soccorrere quelli del castello. Il marchese colla sua gente francamente si fece loro incontro, e nella prima affrontata gli mise in rotta, e fece loro danno ma non grande. E tornato colla vittoria, fece vedere a quelli del castello le cave e le mura tagliate, e [273] il loro soccorso sconfitto: e però, a dì 21 di gennaio s’arrenderono al marchese, salve le persone, e diedongli il castello fornito d’armadura, e di saettamento, e d’ogni bene da vivere maravigliosamente. Ed è da notare, non senza ammirazione, come la famosa potenza de’ signori di Milano, essendo vittoriosi, come avemo contato, in termine di due mesi e mezzo non poterono soccorrere il castello di Novara; e tutto avvenne per la franca e buona sollicitudine del buono marchese. Di questo mese, a dì 22, in sull’ora della terza trapassò di verso settentrione in meriggio un grande bordone di fuoco, e valicato per l’aria alla vista de’ nostri occhi, essendo il tempo chiaro e cheto, s’udì a modo d’un tuono tremolante avvisato dal movimento del grosso vapore. Videsi la state singulare e grandissimo caldo, e lungamente secco e sereno, e molte terzane nell’arie grosse e presso alle fiumare, con seguito di morti oltre al consueto modo; altro non ne sapemmo notare se da lui procedette.

CAP. XLVIII. Come messer Bernabò volle uccidere messer Pandolfo Malatesti.

Messer Pandolfo figliuolo di messer Malatesta da Rimini giovane cavaliere, franco e ardito e di grande aspetto, era andato per esperimentare in arme sua virtù a Milano, fatto capitano di tutta la cavalleria di messer Galeazzo Visconti: ed era venuto tanto nel piacere del suo signore, che [274] tutto il consiglio e la confidanza di messer Galeazzo riposava in messer Pandolfo. Avvenne di questo mese di gennaio, essendo messer Galeazzo malato di podagre e d’altro, comandò a messer Pandolfo che cavalcasse per Milano colla sua cavalleria, e messer Pandolfo fece come comandato gli fu dal suo signore. Questa cosa parve che generasse sdegno a messer Bernabò, ma non lo volle dimostrare contro al fratello; ma ivi a pochi dì mandò per messer Pandolfo, il quale di presente andò a lui e per reverenza gli s’inginocchiò davanti. Messer Bernabò, avendo in mano una spada dentro alla guaina, il percosse con essa senza dirgli la cagione: il giovane sostenne alquanto, ma menandogli sopra la testa, parò il braccio, e in quella percossa il fodero della spada uscì del ferro; e rimase il ferro ignudo nelle mani del tiranno, incrudelì forte, e menogli un colpo di punta, che l’avrebbe passato dall’uno lato all’altro (e fu bene l’intenzione del tiranno d’ucciderlo) ma per schifare il colpo, il giovane cavaliere si lasciò cadere in terra, e ’l colpo andò in vano. Intanto la moglie di messer Bernabò, ch’era presente, con gli altri circostanti cominciarono a riprenderlo, dicendo, che non era suo onore in casa sua colle sue mani volere uccidere un gentile uomo. E per questo si ritenne, e fecelo prendere e legare, e comandò che fosse decapitato. Messer Galeazzo sentendo il furore del fratello, mandò a lui prima la moglie, e appresso due suoi cavalieri, pregandolo che gli rimandasse il suo capitano. Allora disse messer Bernabò: Dite al mio frate, che questi ha offeso lui [275] come me, e io gliel rimando, acciocchè ne faccia giustizia, e non perdoni a costui la nostra onta. Come messer Galeazzo il riebbe, senza alcuno arresto in quell’ora il fece accompagnare per le sue terre, e rimandollo in suo paese. La cagione che messer Bernabò disse palese della sua ingiuria fu, che ’l giovane dovea usare con una donna colla quale usava egli, e che conobbe a messer Pandolfo in dito un suo anello. La cagione segreta, a che più si diede fede, fu, perchè gli parea che costui facesse troppo montare il suo fratello nella consorte signoria. Pochi dì appresso si mostrò di ciò un altro segno; che essendo venuti a parole due scudieri, l’uno di messer Bernabò, e l’altro di messer Galeazzo, e dalle parole a mischia, ove fu fedito il famiglio di messer Bernabò, e quello di messer Galeazzo rifuggito in casa il suo signore, di presente messer Bernabò vi cavalcò in persona; e vedendo il fratello alle finestre, gli disse, che gli mandasse giù quello scudiere che avea fedito il suo. Messer Galeazzo glie le mandò; e lo scudiere gli si gettò a’ piedi domandandogli misericordia. La misericordia che gli fece fu, che negli occhi del fratello il fece tutto stampanare, e lasciolli il corpo senza anima così forato all’uscio, e tornossi a casa. Avvenne ancora in questi dì, che un giovane di buona famiglia di Bergamo, essendo richiesto da uno messo per la signoria, il prese per la barba, e confessato in giudicio il fallo suo, fu condannato in venticinque libbre. Sentendolo messer Bernabò, scrisse al potestà che gli facesse tagliare la mano. E avendolo il potestà preso per seguire il comandamento, i [276] buoni cittadini della città comparenti del giovane, parendo loro troppa dura cosa questo giudicio, operarono tanto con il potestà, che sostenne l’esecuzione tanto ch’eglino andassono per avere grazia dal signore. Come il tiranno sentì per questi ambasciadori ch’al giovane non era tagliata la mano, comandò che al giovane le due, e al potestà l’una fossono tagliate, e a fare questo vi mandò gli esecutori. La potestà sentendo il crudele comandamento, col giovane ch’avea preso si fuggirono in uno castello ribello al tiranno. E non molto di lungi da questi dì uno lavoratore uccise con una mazza una lepre, che gli occorse per caso tra le mani, e portolla all’oste suo, ch’era grande cittadino di Milano, e dimestico di messer Bernabò. Vedendola costui sformatamente grande e grassa la presentò a messer Bernabò; il quale veduta la lepre, si maravigliò, e domandò ov’ell’era nudrita: fugli detto, ch’ell’era stata presa per lo cotale lavoratore. Mandò per lui, e domandollo come l’avea presa. Il lavoratore lietamente gli raccontò il caso intervenuto. Il tiranno, perchè avea comandato che il salvaggiume non si pigliasse con alcuno ingegno, fuori che co’ cani o uccelli, non avendo compassione alla semplicità del villano, nè al caso occorso, incrudelì contro al semplice; e mandato per li suoi cani alani, nella sua presenza il fece morire e dilacerare a quelli. Le crudeltà sono poco degne di memoria, ma alquanto ci scusa averne raccontate delle molte alcune, per esempio del pericolo che si corre sotto il giogo della sfrenata tirannia.

[277]

CAP. XLIX. Come i Genovesi racquistarono Savona.

Messer Simone Boccanegra doge di Genova, avendo ripresa la signoria per lo popolo, mandò per avere tutte le terre e castella della riviera di levante e di ponente e fra terra, e in breve tutti feciono i suoi comandamenti, fuori che Savona, Ventimiglia, e Monaco; i quali essendo in forza de’ Grimaldi, e d’altri gentili uomini di Genova, non vollono ubbidire il doge. E però il doge commosse il popolo, e per mare e per terra fece assediare Savona, e strignerla per modo, che tosto venne in soffratta; e quelli che la teneano avendola di poco rubellata al Biscione, non erano provveduti a potere avere soccorso, e però trattarono certi patti, e del mese di febbraio del detto anno feciono i comandamenti del doge, e ricevettono la sua signoria e del popolo di Genova.

CAP. L. Guerra dal re di Castella a quello d’Araona.

Pella guerra incominciata, come addietro è narrato, tra ’l re di Castella e quello d’Araona, il re di Castella essendo apparecchiato con sua gente, improvviso al suo avversaro cavalcò sopra le terre di quello d’Araona, e danneggiò assai il paese, e per forza vinse e prese la città di Saragozza, e arse la terra, e ritennesi la rocca, e misevi [278] gente alla guardia. Di questo nacque l’abboccamento che appresso ne seguitò de’ due re con tutto loro sforzo, come seguendo al tempo racconteremo. E questo avvenne del mese di febbraio del detto anno.

CAP. LI. Come messer Filippo di Navarra cavalcò presso a Parigi.

Messer Filippo fratello carnale del re di Navarra, ch’era preso dal re di Francia, si mise in compagnia del conte di Lancastro, e con molti cavalieri e arcieri cavalcarono verso Parigi, scorrendo e predando il paese, senza trovare in campo alcuno contasto, e accostaronsi presso a Parigi a quindici leghe, e di là elesse messer Filippo mille cavalieri Franceschi, navarresi e normandi, e con essi cavalcò all’uscita di gennaio del detto anno infino presso a Parigi a tre leghe, ardendo ville casali e manieri in grande quantità, e uccidendo e predando bene alla disperata; e sì avea in quell’ora in Parigi cinquemila cavalieri armati, e non ebbono ardire d’uscire della città, tanto erano inviliti. E avendo per questo modo danneggiato il paese, e fatto onta e vergogna al vilissimo Delfino, raccolta sua preda, con tutta sua gente sano e salvo si tornò al conte, e di là tutti insieme carichi degli arnesi e de’ beni de’ Franceschi, e di loro prigioni si tornarono, senza vedere viso di nemico, in loro paese. In questi dì il Delfino s’era rimesso nel consiglio e [279] nelle mani di certi borgesi, i quali erano stati eletti per comune consiglio del popolo di Parigi, e avea giurato nelle loro mani di fare pace e guerra come per loro si diliberasse. E molti stimarono che questa fosse la cagione perchè non uscì contro a messer Filippo di Navarra, potendolo fare con molta maggiore forza per numero di cavalieri che non avea egli.

CAP. LII. Come si cominciò le mulina del comune di Firenze.

Del mese di marzo, anno 1356 all’entrante, diliberò il comune di Firenze di far fare la gran pescaia in Arno sopra la città, dalla torre del Renaio alla porta di san Niccolò, e ’l canale che prende di sopra a san Niccolò infino al Ponte rubaconte da san Gregorio, nel quale ordinarono e poi fornirono due case a traverso al canale, l’una di sopra e l’altra di sotto, catuna con sei palmenta per lo comune molto bene edificate, e ancora per ordine vi se ne dovea fare quattro penzole. Provvide questo il comune per fatti delle guerre di fuori, che faceano alcuna volta venire di farina la città in gran soffratta, e queste vengono nella guardia dentro alle mura della città, e spesso hanno d’acqua grande abbondanza.

[280]

CAP. LIII. Come il reame di Francia ebbe gran divisione.

Detto abbiamo poco addietro come i borgesi di Parigi doveano guidare il Delfino e ’l reame, ma il mestiere di tanto fascio non era loro; e per la presura del re Giovanni, e per la codardia del Delfino suo figliuolo, l’ordine del consueto corso del reame era rotto, e’ baroni e’ popoli si governavano a loro senno, e’ borgesi di Parigi non poteano nè sapeano riparare. Gl’Inghilesi tennono con loro trattati d’accordo, e a mano a mano gli cavalcavano, facendo loro gran danni; e però, credendosi potere meglio riparare, ordinarono di comune concordia del reame che la balía e ’l consiglio del reggimento in quelle fortune fosse di tre prelati, e di tre baroni, e di tre borgesi, con piena balía di potere fare pace e guerra, e leggi e comandamenti come a loro paresse; e convenne che ’l Delfino acconsentisse a questo reggimento, e promettesse reggersi per loro consiglio. Dall’altra parte tutti quelli di Linguadoca feciono loro conducitore il conte d’Ormignac, dandoli due altri cavalieri per suo consiglio per certo termine, e ’l Delfino convenne che glie le confermasse; della qual cosa nacque lo sdegno del conte di Fucì, che fu poi cagione di gran guerra tra loro, come innanzi si potrà trovare. Nel principio di questo nuovo reggimento al tutto si mostrarono strani di non volere udire trattato di pace, e cominciarono [281] a dare ordine d’accogliere danari per fornirsi di cavalieri soldati, e parve in questi principii dovessono fare gran cose; ma in poco di tempo, come catuno ebbe fornite sue spezialità per virtù dell’uficio, lasciarono in abbandono il consiglio del comune reggimento, e senza ordine trascorsono alla figura della ruina dello sviato regno. I Piccardi prima avvedendosi di questo, presono da loro di reggersi per sè, e non conferire nè ubbidire alle colte, nè agli ordini de’ detti uficiali, e così feciono molte altre provincie e ville del reame; e di questo nacquono poi cose di gravi danni di tutto il reame, come seguendo nostra materia si potrà trovare.

CAP. LIV. Morte del conte Simone di Chiaramonte in Cicilia.

Essendo il re Luigi in Messina, vi venne il conte Simone di Chiaramonte; e parendogli avere fatto al detto re gran cose, perocchè era principale cagione d’avergli fatto avere Messina, e l’altre terre e castella dell’isola, parendogli dovere avere dal re ogni grazia, gli addomandò di volere per moglie dama Bianca una delle figliuole di don Petro che fu re di Cicilia, e oltre a ciò si mostrava in atto e nel suo parlare più superbo che altiero. Al re e al suo consiglio non parve convenevole la sua domanda, che tant’era come dargli il regno, e però entrò in trattato con lui di volergli dare la figliuola del duca di Durazzo. E in [282] questo stante al conte venne male, che in sette dì si trovò morto. Sospetto fu, che ’l consiglio del re avesse aoperato nella sua morte, per tema ch’e’ non movesse novità grandi nell’isola, come potea, non avendo dal re la sua intenzione. Se natural fu, assai fu a grado al re e al suo consiglio. E questo avvenne di marzo, anno detto 1356.

CAP. LV. Come si liberò il Borgo a Sansepolcro da tirannia.

Francesco di Nieri da Faggiuola essendo come tiranno signore del Borgo a Sansepolcro, e per tenere quello avea perdute certe delle sue proprie castella, e vedendosi debole in quello reggimento, trattò co’ terrazzani d’avere da loro seimila fiorini d’oro, e lasciarli in libertà; e avendone già avuti tremila, e data la fortezza a guardia de’ terrazzani, certi Boccognani, ch’erano in bando di Perugia e riparavansi con lui, il ripresono di viltà, e dissono che nol dovea fare, ma se avarazia di danari il movea, elli gli farebbono dare quindicimila fiorini in tre dì al comune di Perugia dando loro la terra. Costui stretto dalla cupidigia della moneta diè il suo consentimento a que’ Perugini. Ed egli avea ancora il titolo della signoria, e le masnade de’ forestieri a piè da poter mettere i Perugini nella terra, s’e’ borghigiani non se ne fossono accorti, ma sentirono il fatto; e senza attendere il dì, la notte furono tutti sotto l’arme, e per forza trassono Francesco e tutti i soldati [283] del Borgo, e accompagnandoli, gli ebbono condotti in sul terreno di Città di Castello. Ivi il lasciarono co’ suoi soldati, i quali il ritennono tanto, ch’e’ tremila fiorini ch’avea avuto da’ borghigiani vennono nelle loro mani; e avuti i danari, e de’ suoi arnesi, il lasciarono andare povero e mendico, com’egli avea meritato. I borghigiani usciti delle mani del tiranno ghibellino si riformarono a popolo e a parte guelfa, tenendo di fuori tutti i Boccognani ghibellini ch’aveano tradita la loro terra, come addietro contammo, e’ loro seguaci.

CAP. LVI. Come l’abate di Clugnì succedette al cardinale di Spagna.

Avea, come si può vedere addietro, il cardinale di Spagna legato del papa con prospera fortuna racquistato a santa Chiesa tolte le terre, ch’erano state occupate lungamente a santa Chiesa nel Patrimonio, nella Marca, nel Ducato e in Romagna, salvo quelle che tenea il signore di Forlì, e contro a quelle s’era apparecchiato di vincerle. In questo il papa, o che fosse movimento suo o de’ cardinali, o fatto a richiesta o a motiva del legato, la Chiesa mandò successore a fornire le guerre, che restavano, e a mantenere le ragioni di santa Chiesa in Italia, per successore del valoroso cardinale di Spagna l’abate di Clugnì con piena legazione; il quale giunse a Faenza all’entrante d’aprile anni 1357. E come l’abate fu [284] giunto, la gente della Chiesa in una cavalcata fatta sopra Forlì, alla quale il capitano uscì incontro per riscuotere la preda, e’ cadde in un aguato ove perdè da cento uomini di suo i più a cavallo. E come il nuovo legato fu posato, il legato fece venire a Fano tutti i maggiori caporali del Patrimonio, e del Ducato, e della Marca e di Romagna, e ambasciadori delle comunanze, e in quel parlamento il cardinale fece suo sermone, commendando coloro ch’avea trovati fedeli e leali a santa Chiesa, e ammonì e pregò tutti generalmente che dovessono stare in ubbidienza e in fede di santa Chiesa, e a servire il nuovo legato lealmente come aveano fatto lui, commendando largamente in tutte le virtù il suo successore, e dicendo come sua intenzione era di voler tornare a corte di Roma di presente; e questo fu a dì 27 d’aprile del detto anno. I savi uomini ch’erano in quel parlamento, che conoscevano il pericolo che correa il paese ancora in guerra partendosi il legato cardinale, ch’avea l’amore di tutti e le cose aperte nelle mani, il pregarono di comune consiglio che non si dovesse partire del paese insino al settembre prossimo: l’abate medesimo con ogn’istanza per sua parte e per beneficio di santa Chiesa il ne richiese: ond’egli conoscendo la necessità, affinchè l’acquisto fatto per lui prendesse più fermezza, acconsentì di stare alle loro preghiere questo tempo. E quello che principalmente più l’indusse, fu l’impresa ch’avea ordinata contro all’aspra rubellione del capitano di Forlì, che per vantaggio che ’l cardinale gli [285] avesse voluto fare, non volea a santa Chiesa restituire in pace le città di Forlì e di Cesena.

CAP. LVII. Come il re di Francia fu menato in Inghilterra.

Tornando nostra materia a’ fatti del re di Francia, ch’era in prigione a Bordello in Guascogna, i Guasconi, a cui e’ s’era accomandato, non volendo acconsentire al re d’Inghilterra di mandarglielo nell’isola com’e’ volea, si pensò il re di fare per ingegno quello che per sua autorità, senza indegnazione de’ Guasconi co’ quali avea vinta la sua guerra, nol potea fare. E però fece venire i legati al figliuolo in Guascogna, e mandovvi i maggiori de’ suoi baroni a trattare la pace colla persona del re e co’ legati. E recata la cosa per lungo dibattimento a concordia, per dare più fede al fatto, fu ordinata e bandita nell’uno reame e nell’altro triegua per due anni; e’ patti della pace recati in iscritture private, con patto, che per fare onore al re d’Inghilterra, e per maggior bene della pace, il re dovesse andare nell’isola, e con lui i legati di santa Chiesa e tutti i baroni ch’erano presi, acciocchè la pace nella presenza de’ due re e de’ legati avesse la sua intera e piena fermezza. E per questo ingegno, acconsentendo i Guasconi alla volontà del re e de’ legati, fu il re di Francia e gli altri baroni liberati al duca di Guales, i quali con gran compagnia di baroni e di cavalieri inghilesi gli condussono [286] in Inghilterra, dove furono ricevuti con quella festa e onore ch’al suo tempo innanzi diviseremo: e questa partita da Bordello fu fatta d’aprile del detto anno.

CAP. LVIII. Come la gente della Chiesa entrò in Cesena.

Dappoichè il cardinale legato ebbe preso partito di rimanere a fornire la guerra di Romagna, come detto è, ordinò la sua gente d’arme a cavallo e a piè, e tutti i sudditi richiese d’aiuto; e fece pubblicare la sentenza contro al capitano di Forlì e contro a chi gli desse aiuto o favore, e a dì 24 d’aprile anno detto fece scorrere la sua gente intorno a Forlì, e presono Castelvecchio, e predarono il paese facendo assai danno, e il capitano a questa volta si stette dentro alle mura. Avea, come detto è, Francesco Ordelaffi, detto capitano, mandato alla guardia di Cesena la valente sua donna madonna Cia, figliuola di Vanni da Susinana degli Ubaldini, con dugento cavalieri e con assai masnadieri, e comandato a tutti che l’ubbidissono come la sua persona; e per suo consiglio l’avea dato Sgariglino di.... suo intimo amico. Questa mantenea la guardia della città con grande sollecitudine: ma i cittadini sentendo la molta gente d’arme ch’avea il legato, e che contro a loro s’apparecchiavano le percosse, e non si vedeano potenti alla difesa, quasi in subito movimento ordinarono di ricevere nella terra di sotto la gente del legato; il quale subitamente [287] vi mandò millecinquecento cavalieri, e senza contasto furono messi pe’ terrazzani nelle prime cinte delle mura. La donna colla sua forza per l’improvviso caso non potè riparare a’ nemici, ma ridussesi in quella parte più alta della terra che si chiama la murata e nella rocca, all’uscita d’aprile predetto, con tutte le sue masnade da piè e da cavallo. E presi tre cittadini ch’erano stati al trattato, in sulla murata li fece decapitare e gittarli di sotto a’ nemici; e con animo ardito e franco più che virile prese la difesa del minore cerchio e della rocca con sollecita guardia di dì e di notte, mostrando di poco temere cosa ch’avvenuta le fosse.

CAP. LIX. Come il legato con sua forza andò a Cesena.

Come il legato ebbe la sua gente in Cesena, di presente mandò tutta l’altra sua cavalleria e fanti a piè a Cesena per assediare la donna e la sua gente nella murata e nella rocca, innanzi ch’ella potesse avere altro soccorso, e fece pigliare un monistero ch’era in un colle al pari della rocca, e fecevi stare gente a cavallo e a piè sì forte, che da quella parte la rocca non potesse essere soccorsa, e nella terra di sotto provvide d’afforzarsi per modo che maggior forza che la sua non gli potesse nuocere: e’ soldati del cardinale avendo contro a’ patti rubati i terrazzani, avea fatto cambiare loro gli animi, per la qual cosa la guardia della terra convenia essere grande e forte, e [288] in questo per tenerli forniti ebbe il legato somma sollecitudine. La valente madonna Cia dalla sua parte facea francamente dì e notte buona guardia, tenendosi in grande ordine alla difesa.

CAP. LX. Abboccamento e triegua fatta dal re di Spagna al re d’Araona.

Del mese d’aprile anno detto, il re di Castella avendo oltraggiato in mare e in terra quello d’Araona, come abbiamo contato, temendo che il re d’Araona non venisse sopra le sue terre colla sua oste, s’avacciò, e accolse tra Spagnuoli, e infedeli Giannetti, e Mori, cinquemila cavalieri e grandissimo popolo, e vennesene in sulle terre d’Araona; e pose campo intorno a Samona, la quale poco innanzi avea tolta a’ Catalani, e ivi attese il re d’Araona affine di combattersi con lui. Il re d’Araona avea fatto suo sforzo, e venne contro a lui con tremilacinquecento cavalieri catalani, e con moltitudine di mugaveri a piè con loro dardi, e pose il suo campo assai presso a quello degli Spagnuoli; e catuno s’ordinava per venire alla battaglia. E perchè il re d’Araona non avesse tanta gente a cavallo quanta il re di Spagna, non avea minore speranza nella vittoria, perocchè avea buoni cavalieri, e tutti d’una lingua, e animosi contro gli Spagnuoli, e dove abboccati si fossono, non era senza effusione di sangue grande, ma, come a Dio piacque, baroni di catuna parte si misono in mezzo, e mostrarono a’ signori come [289] di lieve cagione non si convenia a’ due re essere operatori di tanto male, e presono ordine di trattare la pace, e in quello stante feciono fare loro due anni di triegua; e del mese di maggio del detto anno catuno si tornò addietro con tutta sua gente nel suo reame.

CAP. LXI. Come Rezzuolo si diede a’ Fiorentini.

I terrazzani del castello di Rezzuolo, dappoichè furono liberati dall’assedio del conte Ruberto da Battifolle per comandamento del comune di Firenze, s’intesono insieme, e recaronsi in guardia e ubbidiano male Marco di messer Piero Sacconi, perchè si pensava non poterlo tenere. Nondimeno vi mandò, gente d’arme per guardare la rocca, dando boce che ’l volea dare al comune di Firenze, perchè sentiva della volontà de’ terrazzani; ma quelli del castello non li vollono ricevere, ma feciono loro sindaco con pieno mandato, a darsi liberamente e farsi contadini di Firenze, e Marco mandò ancora suo procuratore a Firenze colle ragioni ch’avea nel castello per darle al comune. I Fiorentini presono prima le ragioni di Marco, e appresso quelle degli uomini del castello, e questo fu fatto a dì 29 d’aprile anno detto. E recato Rezzuolo col suo contado a contado di Firenze, e aggiunto colla montagna fiorentina con cui confinava, e già per questo Marco non si fece amico de’ Fiorentini, nè i Fiorentini, di lui.

[290]

CAP. LXII. Come i Pisani vollono torre Uzzano a’ Fiorentini.

I Pisani veggendosi privati del porto, e della mercatanzia, e de’ mercatanti forestieri, della qual cosa seguitava alla loro città mancamento delle rendite del comune, e incomportabile danno agli artefici e a’ mercatanti, e scandalo e riprensione tra’ cittadini, coloro che reggeano lo stato con grande astuzia pensavano di trovare modo con loro vantaggio, ch’e’ Fiorentini si movessono contro a loro in guerra, stimando, se guerra si movesse, i cittadini di Pisa, che sono animosi contro a’ Fiorentini, dimenticherebbono ogni altra cosa di mercatanzia e di loro mestieri; e però cominciarono certo trattato in Uzzano di Valdinievole per torlo al comune di Firenze, non avendo il detto comune per tutta l’ingiuria della franchigia tolta a’ loro cittadini voluta rompere la pace. Il trattato si scoperse, e Uzzano e tutte l’altre terre si rifornirono pe’ Fiorentini di migliore guardia, e presesi per consiglio di dissimulare l’ingiuria. È oltre a questo usarono un altro scalterimento. Il doge di Genova era singulare loro amico, e sotto la sua baldanza mandarono ambasciadori a Genova, i quali fermarono compagnia e lega col doge per un anno, e co’ Genovesi, a tenere certe galee in mare per non lasciare andare mercatanzia a Talamone, ma farla scaricare in Porto pisano; e dierono [291] a intendere a’ Genovesi, che quest’era di volontà de’ Fiorentini ch’aveano voglia di tornarsi a Pisa, ma non voleano mancare a’ Sanesi per loro fatto la promessa del porto di Talamone. E fornita la lega, con moltitudine di stromenti la feciono bandire, e nel bando dire, che i Fiorentini potessono colle persone e colle loro mercatanzie andare, stare, e navicare, e mettere e trarre del loro porto, e della città e distretto, sani e salvi, e franchi e liberi d’ogni dazio, e gabella e dirittura. E con questa loro provvisione credettono levare i Fiorentini dalla loro impresa di Talamone, ma trovaronsi ingannati, come appresso diviseremo.

CAP. LXIII. Come i Pisani armarono galee per impedire il porto.

I Fiorentini sentendo i maliziosi agnati de’ Pisani, infinsono, come detto è il fatto d’Uzzano, e mandarono ambasciadori a Genova per avvisare il consiglio e il popolo di quella città l’inganno col quale i Pisani gli aveano indotti a fare lega contro al comune di Firenze. Il doge per la singolare amistà ch’avea co’ Pisani non lasciò avere loro il consiglio, sicchè non poterono fare quello perchè andati v’erano, e tornaronsi addietro non senza mormorio de’ cittadini che ’l seppono contro al doge. I Fiorentini conoscendo quanto danno tornava a’ Pisani il perdimento del porto e della mercatanzia più l’un dì che l’altro, aggravarono l’ordine del divieto, e aggiungono, [292] che chi consigliasse, o procurasse o trattasse, o in segreto o in palese, che a Pisa si tornasse, fosse condannato nell’avere e nella persona; e mandarono in Proenza a fare armare galee per conducere la mercatanzia, e’ mercatanti si procacciarono cammino di Fiandra a. Vinegia ed a Avignone per terra, non curandosi, di maggior costo, e ogni cosa comportavano lietamente, acciocchè ’l comune mantenesse l’impresa. I Pisani si sforzarono tanto ch’ebbono sei galee armate, e più volte cercarono di prendere e ardere Talamone; la cosa si rimase in questi termini lungamente, tanto, ch’e’ Fiorentini, procurarono di ributtarli in mare.

CAP. LXIV. L’aiuto mandò messer Bernabò al capitano di Forlì.

Il capitano di Forlì, sentendo le masnade del legato in Cesena, e posta la bastita alla rocca, e racchiusa la moglie e i figliuoli nella murata, mandò per soccorso a messer Bernabò signore di Milano in cui riposava tutta sua speranza, il quale incontanente intese ad apparecchiarli il soccorso. Ma perchè scoprire non si volea allora nemico di santa Chiesa, trattò col conte di Lando caporale della compagnia, e segretamente si convenne con lui per li suoi danari; e fece servigio a se del levargli a’ nemici, e mandogli in Romagna contro al legato, perchè atassono il capitano di Forlì suo amico. E innanzi che la compagnia si partisse, [293] per dare speranza agli amici, e raffrenare le imprese del legato, mandò in sul Modenese duemila barbute della sua propria cavalleria, e ivi si stavano senza fare guerra, tenendo in sospetto i Lombardi e ’l legato. In questo tempo il legato si studiava di strignere e forte quelli della murata di Cesena, dando loro il dì e la notte gravi assalti, e rittivi più trabocchi, gli fracassava d’ogni parte; e oltre a ciò, tentava con trattati e con spendio d’avere la murata innanzi che la compagnia venisse. Di questo nacque, che madonna Già avendo alcuno sentore, che senza sua saputa l’antico amico del capitano, il quale era in sua compagnia, Sgariglino, trattava alcuno accordo col legato per salvezza di tutti gli assediati, di presente il fece prendere e tagliargli la testa, del mese di maggio anno detto. Ella sola rimase guidatore della guerra e capitana de’ soldati, e il dì e la notte coll’arme indosso difendea la murata dagli assalti della gente del legato sì virtuosamente, e con così ardito e fiero animo, che gli amici e’ nemici fortemente la ridottavano, non meno che se la persona del capitano fosse presente.

CAP. LXV. Come il conte d’Armignacca da Tolasana per gravezze fu cacciato.

Di questo mese di maggio, essendo venuto il conte d’Armignacca capitano di quelli dei reame di Francia di Linguadoca, ed essendo venuto alla [294] città di Tolosa, e trattando di fare gravezze per accogliere danari per la comune bisogna della guerra, il popolo si levò a romore e furore contro al conte, dicendo, ch’egli era sturbatore della pace, e voleali mettere in disusate gravezze; e corsono al palagio ov’egli abitava, e non potendovi entrare per forza, l’assediarono, e cominciarono ad affocare le porte. E soprastando la difesa, i gentili uomini di Tolosana si misono in mezzo, e feciono promettere e giurare al conte, che non renderebbe mal merito al popolo di Tolosa di ciò ch’aveva fatto contro a lui, e che non farebbe alcuna gravezza alla villa. E fatti i patti, il conte s’assicurò nelle mani de’ gentili uomini: e quetato il popolo, sano e salvo il condussono in suo paese colla sua gente.

CAP. LXVI. Conta dell’onore fatto al re di Francia in Inghilterra.

Avendo il duca di Guales e gli altri baroni d’Inghilterra condotto il re di Francia, e ’l figliuolo, e gli altri baroni presi nella battaglia, nell’isola d’Inghilterra, feciono assapere al re Adoardo la loro venuta. Il re di presente fece assembrare in Londra di tutta l’isola baroni, e cavalieri d’arme, e gran borgesi per volere fare singulare festa in onore del re di Francia per la sua venuta; e fece ch’e’ cavalieri si vestissono d’assisa, e li scudieri e’ borgesi, e per piacere al loro re catuno si sforzò di comparire orrevole e [295] bello; e ordinato fu che tutti andassono incontro al re di Francia, e facessongli reverenza, e onore, e compagnia, e ’l re Adoardo in persona vestito d’assisa, con alquanti de’ suoi più alti baroni, avendo ordinata sua caccia a una foresta in sul cammino fuori di Londra, si mise là co’ detti suoi baroni; e mandato innanzi incontro al re di Francia tutta la sopraddetta cavalleria, com’egli s’approssimò alla foresta, il re d’Inghilterra uscito dalla foresta per traverso s’aggiunse col re di Francia in sul cammino, e avvallato il cappuccio, inchinatolo con reverenza, gli disse salutandolo: Bel caro cugino, voi siate il ben venuto nell’isola d’Inghilterra. E ’l re avvallato il suo cappuccio gli rispose, che ben foss’egli trovato. E appresso il re d’Inghilterra l’invitò alla caccia, ed egli lo merciò dicendo che non era tempo: e ’l re disse a lui: Voi potete e a caccia e riviera ogni vostro diporto prendere nell’isola. Il re di Francia glie ne rendè grazie. E detto, addio bel cugino, si ritornò nella foresta alla sua caccia, e ’l re di Francia con tutta la compagnia degl’Inghilesi con gran festa fu condotto nella città di Londra, essendo montato in sul maggiore destriere dell’isola spagnuolo adorno realmente, e guidato da’ baroni al freno e alla sella, con dimostramento di grande onore fu guidato per tutte le buone vie della città, ordinate e parate a quello reale servigio, acciocchè tutti gl’Inghilesi piccoli e grandi, donne e fanciulli il potessono vedere. E con questa solennità fu condotto fuori della terra all’abitazione reale; e ivi apparecchiata la desinea con magnifico paramento d’oro, e d’arnesi, e di argento, [296] e di nobili vivande, fu ricevuto e servito alla mensa realmente, e tutti gli altri baroni, e il figliuolo del re, ch’erano prigioni, furono onorati conseguentemente in questa giornata, che fu a dì 24 di maggio del detto anno. Per questa singolare allegrezza e festa si diede più piena fede che la pace fosse ferma e fatta; ma chi vuole riguardare la verità del fatto, conoscerà in questo processo accresciuta la miseria dell’uno re e esaltata la pompa dell’altro, e quello che si nascose nella simulata festa si manifestò appresso ne’ fatti che ne seguirono, come seguendo, ne’ tempi racconteremo.

CAP. LXVII. Trattato tenuto per li Fiorentini in accordare il capitano di Forlì con il legato.

In questi medesimi dì, vedendo i Fiorentini la durezza del capitano di Forlì, e temendo che l’avvenimento della compagnia e d’altra nuova gente d’arme in Romagna non rimbalzasse in loro dannaggio, mandarono ambasciadori allegato, i quali voleano essere mezzani a trovare accordo e pace intra lui e ’l capitano di Forlì; e intesisi col legato, il trovarono grazioso per amore de’ Fiorentini alla concordia, e con buona speranza andarono al capitano di Forlì, il quale li ricevette onorevolmente; e udita l’ambasciata, ringraziò gli ambasciadori, e disse ch’era contento d’avere pace col legato e con santa Chiesa, rimanendo egli signore di Forlì, e di [297] Cesena, e di tutte le terre che tenea, volendole riconoscere da santa Chiesa, e per omaggio pagare ogni anno quel censo alla Chiesa che fosse convenevole; per altro modo non voleva che se ne parlasse, e a questo era fermo; e per questo modo si tornarono a Firenze senza frutto alcuno.

CAP. LXVIII. Come il legato ebbe la murata di Cesena.

Trapassate le parole del trattato, il legato, ch’avea l’animo sollecito a vincere sua punga, innanzi che ’l soccorso giugnesse a’ nemici, a dì 28 di maggio anno detto, ordinata sua gente e molti dificii da combattere la murata, fece d’ogni parte cominciare la battaglia aspra e forte, e avendo provveduto alcuna parte del muro si poteva per cave abbattere, il fece rovinare, e que’ dentro subitamente ripararono con steccati; e aggravando la battaglia d’ogni parte, rinfrescandosi spesso per quelli di fuori nuovi combattitori, e dove il muro era caduto, quivi senza arresto si continova va sì aspra battaglia, che quelli ch’erano alla difesa, per lo soperchio affanno di loro corpi, senza potere avere rinfrescamento, conobbono di non potere sostenere, e l’altre parti erano ancora sì strette da’ combattitori che non poteano soccorrere alle più deboli parti; e vedendosi non potere più resistere, benchè assai avessono morti e fediti e magagnati de’ loro avversari, diedono segno tra loro, e abbandonarono la murata, e ridussonsi nella rocca, e la [298] gente del legato di presente vittoriosamente la si prese. Madonna Cia avendo fatto maravigliosamente d’arme e di capitaneria alla difesa, si ridusse con quattrocento tra cavalieri e masnadieri nella rocca, acconci a’ comandamenti della donna per singulare amore infino alla morte.

CAP. LXIX. De’ fatti di madonna Cia donna del capitano di Forlì.

Racchiusa madonna Cia nella rocca con Sinibaldo suo giovane figliuolo, e con due suoi nipoti piccoli fanciulli, e con una fanciulla grande da marito, e con due figliuole di Gentile da Mogliano e cinque damigelle, ed essendo cinta stretta d’assedio, e combattuta da otto dificii che continovo gittavano dentro maravigliose pietre, non avendo sentimento d’alcuno soccorso, e sapendo che le mura della rocca e delle torri di quella per li nemici si cavavano, maravigliosamente si teneva, atando e confortando i suoi alla difesa. E stando in questa durezza, Vanni da Susinana degli Ubaldini suo padre, conoscendo il pericolo a che la donna si conducea, andò al legato, e impetrò grazia d’andare a parlare colla figliuola, per farla arrendere al legato con salvezza di lei e della sua gente. E venuto a lei, essendo padre, e uomo di grande autorità, e maestro di guerra, le disse: Cara figliuola, tu dei credere ch’io non sono venuto qui per ingannarti, nè per tradirti del tuo onore. Io conosco e veggo, che tu e la [299] tua compagnia siete agli stremi d’irremediabile pericolo, e non ci conosco alcuno rimedio, altro che di trarre vantaggio di te e della tua compagnia, e di rendere la rocca al legato. E sopra ciò l’assegnò molte ragioni perch’ella il dovea fare, mostrando, ch’al più valente capitano del mondo non sarebbe vergogna trovandosi in così fatto caso. La donna rispose al padre, dicendo: Padre mio, quando voi mi deste al mio signore, mi comandaste, che sopra tutte le cose io gli fossi ubbidiente, e così ho fatto infino a qui, e intendo di fare infino alla morte. Egli m’accomandò, questa terra, e disse, che per niuna cagione io l’abbandonassi, o ne facessi alcuna cosa senza la sua presenza, o d’alcuno segreto seguo che m’ha dato. La morte, e ogni altra cosa curo poco, ov’io ubbidisca a’ suoi comandamenti. L’autorità del padre, le minacce degl’imminenti pericoli, nè altri manifesti esempli di cotanto uomo poterono smuovere la fermezza della donna: e preso comiato dal padre, intese con sollicitudine a provvedere la difesa e la guardia di quella rocca che rimasa l’era a guardare, non senza ammirazione del padre, e di chi udì la fortezza virile dell’animo di quella donna. Io penso, che se questo fosse avvenuto al tempo de’ Romani, i grandi autori non l’avrebbono lasciata senza onore di chiara fama, tra l’altre che raccontano degne di singulari lode per la loro costanza.

[300]

CAP. LXX. Novità fatte in Ravenna.

Essendo venuta in Ravenna la novella, come la gente del legato aveano per forza vinta la murata di Cesena, il signore di Ravenna, ch’allora era all’ubbidienza del legato, comandò che i cittadini ne facessono festa di fuoco e di luminaria. E però domenica, a dì 28 di maggio, i cittadini si radunarono insieme per le contrade e per le piazze, e festeggiavano: e nelle loro radunanze cominciarono a mormorare contro a messer Bernardino da Polenta loro signore per le gravezze che faceva, perocchè in breve tempo avea fatto pagare dell’estimo loro in tre paghe libbre sette soldi dieci per libbra, onde generalmente i cittadini erano mal contenti. E cominciato il bollore negli animi, riscaldato col fuoco della festa, e facendosi alcuno caporale, cominciò a gridare: Viva il popolo, e muoia l’estimo, e le gabelle. E crescendo la boce, e multiplicando la gente al romore, il popolo corse all’arme, e cominciossi a riducere in sulla piazza, e multiplicare le grida. Il signore sentendo le grida mandò là due suoi famigli, l’uno appresso l’altro, i quali giunti alla piazza furono morti dal popolo. Il tiranno sentendo procedere la cosa da mala parte s’armò con sua famiglia, e montato a cavallo corse alla piazza. Il popolo si rivolse coll’arme contro a lui per modo, che per campare la persona si ritornò nel castello; e accolto maggiore aiuto, da capo tornò [301] alla piazza per modo di volere acquetare il popolo: ma crescendo più il furore, fu costretto per altra via ritornare a una postierla del castello; ma i vili servi di quello popolazzo, avendo la libertà nelle proprie mani, non la seppono per propria pigrizia seguitare, che al tutto erano signori. E però, come si venne facendo notte, senza ordine e senza capo cominciarono ad abbandonare la piazza, e tornarsi a casa, come si tornassono da uno giuoco, e pochi furono quelli che vi rimasono, e male provveduti. Per la qual cosa nella mezza notte uno fratello bastardo del signore con venticinque masnadieri sì fedì di subito in quel popolo stordito, e il signore con pochi a cavallo stava alla porta del castello per riscuotere i suoi; ma i vili popolari, essendo ancora in grande numero, senza fare resistenza si lasciarono percuotere, e uccidere, e cacciare da que’ pochi assalitori, e abbandonata la piazza, si tornarono a casa. La mattina vegnente il signore mandò per certi cittadini, i quali come usciti d’ebrietà, e assicurati v’andarono; e avendo i primi, mandò per anche, e raunonne in sua forza, centoventi e più, i quali messi in prigione corse la terra; e appresso per diversi modi gran parte ne fece morire, e degli altri fece danari. E da indi innanzi fu più fortemente dal suo popolo ubbidito, temuto, e ridottato.

[302]

CAP. LXXI. Novità di Grecia, e presura di loro signori.

In questo medesimo tempo, Orcam grande signore de’ Turchi, avea lasciato in Gallipoli un suo figliuolo primogenito per guardare le terre dell’imperio di Costantinopoli, ch’egli avea acquistate quando furono i grandi tremuoti nel paese. Il giovane prendendo vaghezza di vedere pescare, follemente si mise in una barca, e valicando legni armati di Greci, presono la barca; e conosciuto il figliuolo d’Orcam, il condussono a Foglia vecchia, una terra che l’imperadore avea data a un suo barone, e ’l figliuolo l’avea tolta al padre; capitando questi Greci a lui, e sapendo cui eglino aveano preso, il ritenne a se, e a’ marinai diede cinquemila perperi. L’imperadore volle il prigione, e non lo potè avere. E però prese accordo col Cerabì, uno de’ signori de’ Turchi, che ’l verno appresso venisse per terra con sua forza ad assediare la città di Foglia, ed egli vi verrebbe per mare, con patto, che racquistata la terra l’imperadore farebbe rendere a Orcam il suo figliuolo che ivi era preso. Il Cerabì vi venne con grande oste, e l’imperadore con sei galee e con assai legni armati. E stati lungamente all’assedio, e non potendo vincere la terra, l’imperadore per consiglio di messer Francesco di.... di Genova suo cognato, a cui egli avea dato in dota l’isola di Metelino, stando l’imperadore in un’isoletta che fa porto a Foglia, invitò il Cerabì [303] ed egli fidandosi dell’imperadore andò a lui; e trovandosi tradito, innanzi che altra novità gli fosse fatta, disse all’imperadore: Io so ch’io sono prigione, ma tu non fai quello che fare ti credi se tu non seguiti il mio consiglio. Se questo s’intende tra’ miei Turchi, uno mio fratello prenderà la signoria, e sarà contento ch’io sia prigione, e troppo più ch’io fossi morto; ed io so che tu hai bisogno di moneta, e per questo modo non avresti mai una dobla. Ma fa’ com’io ti dirò, e arai la tua intenzione. Fa’ palese ch’io abbi tolta la tua sirocchia per moglie, e facciamo di ciò festa; e io manderò per lo mio fratello e per otto miei grandi baroni, i quali si sforzeranno di venire alla festa per farmi onore, e come ci saranno, terrai loro tanto ch’io ti mandi i danari di che saremo in accordo. E fatta la convegna della moneta, l’imperadore conoscendo ch’e’ diceva il vero, fece come il Cerabì il consigliò, ed ebbe di presente gli stadichi venuti sotto il titolo della festa del parentado, e lasciato il Cerabì, come fu nelle terre della sua signoria di presente mandò la moneta promessa, e liberò il fratello e’ suoi baroni dall’imperadore, e per savio provvedimento liberò se dal fortunevole caso di perdere la sua signoria, e per lo poco senno della sua confidanza, aggravando però nondimeno la vergogna dell’infedele imperadore.

[304]

CAP. LXXII. Come il re Luigi assediò Catania in Cicilia.

Essendo il re Luigi a Messina, per attrarre a sè gli animi de’ paesani, diede loro intendimento di dimorare nell’isola sei anni, e di tenervi la corte di tutto il Regno; e per dimostrare, coll’opera quello che promettea colla bocca, richiese i baroni del Regno per volere assediare il figliuolo di don Petro, ch’era in Catania, per riducere tutta l’isola in sua signoria, e prenderne la corona. I baroni furono ubbidienti per modo, che del mese di maggio detto col debito servigio de’ suoi baroni si trovò nell’isola millecinquecento cavalieri, e commise la bisogna a messer Niccola Acciaiuoli di Firenze suo grande siniscalco; il quale co’ cavalieri e col popolo cavalcò a Catania e misesi ad assedio, strignendola fortemente per modo, che senza gran forze non potevano gli assediati per terra avere entrata o uscita d’alcuna gente, e per mare fece stare nel porto quattro galee armate e due legni le quali assediavano la città per mare, e nondimeno recavano ogni dì rinfrescamento all’oste, perocchè, per, terra non v’era modo d’andarvi la vittuaglia per lo cammino ch’era lungo, e’ passi malagevoli e stretti. Nella terra avea centocinquanta cavalieri catalani di buona gente d’arme, i quali bene apparecchiati si stavano nella città senza fare alcuna vista o sentore a’ loro nemici di fuori. La gente del re Luigi non trovando [305] contasto, baldanzosamente cavalcavano il paese, e mantenevano loro assedio.

CAP. LXXIII. Della materia medesima.

Stando l’assedio di Catania in questo modo, occorse per caso non provveduto che due galee di Catalani ch’andavano in corso arrivarono a Saragozza in Cicilia, e sentendo ivi come quattro galee e due legni del re Luigi erano nel porto di Catania, come valenti uomini, e grandi maestri de’ baratti del mare, innanzi che lingua venisse di loro a quelli dell’oste, di subito feciono armare due legni ch’erano in quel porto, e fornirli di trombe, e di trombette, e nacchere e altri stromenti più che di gente da combattere, e fatta la notte si mossono, e improvviso con gran baldanza le due galee de’ Catalani, lasciatosi dietro i due legni che facessono gran rumore e grande stormeggiata, entrarono nel porto, e con molto romore cominciarono ad assalire le galee del re: le due ch’erano del Regno, temendo del romore di fuori che non fossono assai galee, senza intendere alla difesa uscirono del porto, e andaronsene a Messina, e l’altre due ch’erano genovesi stettono alla difesa; ma perocch’e’ non erano provveduti nel subito assalto furono vinte, e presi le galee e’ legni; e questo fu la notte della Pentecoste, a dì 29 di maggio del detto anno.

[306]

CAP. LXXIV. Come l’oste del re Luigi si levò da Catania in isconfitta.

L’oste del re Luigi più baldanzosa che provveduta, sentendo prese le due galee e’ legni, e l’altre fuggite, per le quali veniva loro il fornimento della vittuaglia, ed essendo di lungi da Messina quaranta miglia per terra, e i passi stretti in forza de’ nemici, sbigottirono forte, e conobbono che se’ soprastessono quivi tanto che i nemici mandassono gente a’ passi elli erano senza rimedio tutti perduti; e vivanda non aveano da mantenere il campo, tanto che il re li potesse soccorrere, e però diliberarono d’abbandonare il campo e gli arnesi, e di campare le persone; e a dì 30 del detto mese si misono a cammino senza ardere il campo, a fine di non essere da’ cavalieri incalciati. I centocinquanta cavalieri catalani di presente uscirono fuori, e avvrebbono avuto de’ nemici ogni derrata, ma la cupidigia della preda del campo li ritenne alquanto. I nemici che fuggivano avanzavano loro cammino per quella via ond’erano venuti, nondimeno i Catalani li danneggiarono alquanto alla codazza. Ma quello che peggio fece loro furono i villani ridotti a’ passi colle pietre, ch’altr’arme non aveano. In questa caccia fu morto il figliuolo del conte di Sinopoli, che per l’antichità del padre si dicea conte, e preso il conte camarlingo, e morti da quaranta a cavallo e assai di [307] quelli da piè. Il gran siniscalco campò per lunga fuga sopra di un buono destriere, perduto grande tesoro di suoi gioielli e arnesi, e così tutti gli altri baroni e cavalieri, che molto v’erano pomposi. E nota, come un’oste reale di più di millecinquecento cavalieri e gran popolo, con quattro galee in mare e due legni armati, per troppa baldanza, e mala provvedenza intorno alle cose che si richieggono a un’oste, dal provveduto scalterimento di due corsali con due galee furono sconfitti e rotti, abbandonando il campo a’ nemici vituperevolmente.

CAP. LXXV. Come la compagnia venne sul Bolognese.

La compagnia del conte di Lando mossa di Lombardia co’ danari di messer Bernabò Visconti e con quelli del capitano di Forlì, per venire al soccorso di Cesena, a dì 18 di giugno del detto anno venne in sul Bolognese con licenza del signore di Bologna, senza far danno al paese di ruberie o di prede, ma prendeano derrata per danaio, e accampati al Borgo a Panicale, intendeano più a’ loro propri fatti che ad andare a soccorrere la rocca di Cesena, perocchè vi sentivano il legato forte da non potere vincere la punga; e stando quivi, accrescevano la loro brigata, che secondo l’usanza d’ogni parte vi veniano uomini d’arme a mettersi in quella per vaghezza della preda, e non di trovare nemici in campo, che quasi tutti i soldati d’Italia v’aveano parte; e [308] stando coperti di loro movimenti, feceano paura a tutti i popoli di Toscana e dell’altre provincie circustanti, e attraevano a loro ambasciadori da quelli per prendere accordo; e così sospesi usavano la loro mercatanzia molto sagacemente. E bench’e’ tiranni e’ popoli d’Italia avessono la compagnia in odio, tant’era la divisione delle parti e la gelosia de’ popoli contro a’ tiranni, che catuno volea piuttosto ubbidire al servigio della compagnia co’ suoi danari che contastare con quella, e però ora era condotta per l’uno ora per l’altro, rimanendo continovo l’ordine della compagnia. E in questi dì era già durata più di quindici anni questa tempesta in Italia.

CAP. LXXVI. Come il comune di Firenze afforzò lo Stale.

I Fiorentini vedendo che la compagnia era in parte che in un dì potea valicare l’alpe ed entrare nel Mugello, per certa piaggia dell’alpe assai aperta che si chiama la via dello Stale, richiesono gli Ubaldini, i quali s’impromisono d’essere co’ Fiorentini alla guardia del passo; il comune vi mandò di presente tremila balestrieri, e bene altrettanti fanti e ottocento cavalieri, e gli Ubaldini vi vennono con millecinquecento fanti di loro fedeli, e diedono il mercato abbondantemente a tutta l’oste, e co’ capitani insieme de’ Fiorentini feciono fare una tagliata che comprendea i passi di quello Stale per spazio d’un miglio e mezzo tra’ due poggi, e sopra la tagliata [309] feciono barre di grandi e grossi faggi a modo di steccato, e vi feciono loro abitazioni, e stettonvi alla guardia de’ passi mentre che la compagnia dimorò sul Bolognese, desiderando ch’ella si mettesse nell’alpe per volere passare, com’erano le loro minacce, ma sentendo la provvisione de’ Fiorentini, conceputo maggiore sdegno tennono altro cammino.

CAP. LXXVII. Come s’arrendè la rocca di Cesena al legato.

Sentendo il legato la compagnia soggiornare in sul Bolognese, abbandonato ogni altra cosa, con sommo studio si diè a volere vincere la rocca di Cesena, facendola cavare per abbattere le mura e le torri, e traboccarvi dentro grandi pietre con otto trabocchi, e oltre a ciò spesso la faceva assaggiare di battaglia; ma tanto era la severità di madonna Cia, e la sua sollecitudine di dì e di notte alla difesa, che per cosa che si facesse quell’animo non si cambiava; e già essendo per le cave caduto parte delle mura e l’una delle torri, la donna in persona facea riparare con isteccati e con fossi, oltre alla considerazione de’ più fieri e de’ più valenti uomini del mondo, non dimostrando alcuna paura. Ma i valenti conestabili ch’erano con lei, sapendo che la mastra torre della rocca si mettea in puntelli, e vedendo la pertinace costanza della donna, ebbono madonna Cia a consiglio, e dissono: Madonna, e’ si può sapere e conoscere manifestamente che per voi è mantenuta la difesa della murata e [310] della rocca infino agli ultimi stremi, e di noi avete potuto conoscere intera e pura fede, mentre che alcuna speranza s’è per voi e per noi potuta conoscere, ma ora non ne resta via da potere campare la sepultura de’ nostri corpi sotto la ruina di questa rocca. E perocchè questo non dobbiamo comportare per alcuna ragione, siamo disposti, o di vostra volontà, o contro al vostro volere, rendere la rocca per salvare le nostre persone. La valente donna per questo non cambiò faccia, nè perdè di sua virtù, e conobbe ch’e’ soldati aveano ragione di così fare, e però disse a’ conestabili: Io voglio che lasciate fare a me questo accordo; e i conestabili conoscendo il grande animo della donna, dissono che di ciò erano contenti; e mandato al legato, e avuti da lui uditori con pieno mandato secondo la sua volontà, trattò che tutti i conestabili colle loro masnade, e tutti gli altri soldati fossono franchi e liberi, e potessonne portare ciò che volessono in su’ loro colli: ed ella rimanesse prigione del legato col figliuolo, e con una sua figliuola, e con due suoi nipoti madornali e uno bastardo, e con due figliuole di Gentile da Mogliano, e cinque sue damigelle. Per sè e per la sua famiglia non cercò grazia, potendo salvare i soldati che lealmente l’aveano atata. E fatti e fermi i patti, a dì 21 di giugno gli anni domini 1357 rendè la rocca al legato, e fu signore di tutto con gran gloria della sua punga, ma non con mancamento di chiara fama del forte animo di quella donna: la quale per alcuno caso avverso, per alcuna intollerabile fatica, mentre ch’era in sua libertà, mai non cambiò [311] faccia, o mancò di consiglio o d’ardire. E menata in prigione dov’era il legato nel castello d’Ancona, così contenne il suo animo non vinto e non corrotto, e in aspetto continente come se la vittoria fosse stata sua. E il legato maravigliandosi della costanza di questa donna, benchè la ritenesse prigione a fine di piuttosto domare l’alterezza del capitano, assai la fece stare onestamente, e bene servire.

CAP. LXXVIII. De’ fatti di Costantinopoli.

L’imperadore di Costantinopoli avendo perduta la speranza di vincere la città di Foglia vecchia, mutò consiglio, e trattò con quello Greco che la tenea, e confermogliele in feudo, e aggiunseli alla baronia, e diegli sessantamila perperi; e la primavera vegnente ebbe da lui il figliuolo d’Orcam signore de’ Turchi, il quale egli avea prigione, come addietro abbiamo contato. E per costui l’imperadore riebbe tutte le terre che Orcam gli avea tolte, e oltre a ciò molti danari, e stadichi per mantenere la pace che feciono insieme quando gli rendè il figliuolo.

[312]

CAP. LXXIX. Come il legato prese Castelnuovo e Brettinoro.

Vinta la punga di Cesena, i cavalieri del legato baldanzosi per la vittoria di subito cavalcarono a Castelnuovo di Cesena, e trovandolo male provveduto alla difesa, vi s’entrarono dentro. E appresso si dirizzarono al nobile castello di Brettinoro, il quale era fornito di suoi terrazzani, e d’assai soldati a cavallo e a piè, e di molta vittuaglia, sicchè poco se ne potea sperare o per forza o per assedio. Nondimeno la gente del legato vi s’accampò intorno: e poco stante vi si cominciò un badalucco tra quelli della terra e la gente della Chiesa, della quale messer Galeotto Malatesta era capitano; il badalucco durò molto, e per questo s’ingrossò da ogni parte, e per lo soperchio della gente della Chiesa, quella del castello fu rotta. Messer Galeotto, ch’era in ordine co’ suoi cavalieri, perseguitò quelli che fuggivano verso la terra, e mescolossi con loro per modo, che giunti alle porte, entrarono con quelli del castello insieme, combattendo continovamente; e avendo seguito presso de’ loro cavalieri e masnadieri, presono la porta e le guardie di quella, per la qual cosa la loro gente vi s’ingrossò di subito, e venne bene a bisogno, perocchè tutti i terrazzani e’ soldati che v’erano francamente li combatteano, e colle pietre delle case per difendere la terra. Ma il soperchio che vince ogni cosa, dopo la lunga [313] e aspra battaglia, essendo multiplicata la gente della Chiesa, e molti morti dall’una parte e dall’altra, i terrazzani e i loro soldati furono costretti a fuggire nella rocca; e la gente del legato presa la terra e rubata, la tennero vittoriosamente, essendo tenuta grande maraviglia per la fortezza del castello. Alcuni dissono, che tra’ terrazzani ebbe divisione, che se fossono stati interi alla difesa non si potea perdere. E questo fu l’ultimo dì di giugno detto. Presa la terra, il legato mandò di presente molti dificii a tormentare la rocca, e cavatori per cavare e abbattere le mura, com’altra volta avea fatto il capitano; ma avea molto rafforzati i fondamenti con gran pietre, e molte stanghe e cinghie di ferro, ma poco valse, che in assai breve tempo quelli della terra feciono i comandamenti del legato, come appresso racconteremo.

CAP. LXXX. Di processi fatti contro la compagnia per lo legato.

Avendo a questi dì la compagnia tentato di volere entrare in Toscana, e trovati tutti i passi dell’alpe occupati e in guardia de’ Fiorentini, e il più largo dello Stale afforzato da non mettersi a prova, con molto sdegno contro al comune di Firenze valicarono in Romagna, e a dì 6 di luglio furono a Villafranca a tre miglia di Forlì con quattromila cavalieri, i più bene armati e bene montati, e milleseicento masnadieri e balestrieri, e grandissimo [314] numero di ribaldi e di femmine al comune servigio, seguitando la carogna della compagnia, e ivi a pochi dì si misono al ponte a Ronto e posono il campo e afforzarlo. Il legato vedendosi la compagnia presso, ristrinse tutta la sua gente in Cesena e in Brettinoro, senza mettersi a campo o fare assalto contro a loro. E per avere aiuto da’ fedeli di santa Chiesa, fece sopra la compagnia il processo ch’avea fatto sopra il capitano di Forlì come suoi fautori, e pronunziolli incorsi in quella medesima sentenza; e fece in Italia bandire la croce sopra loro con maggiore istanza, e con maggior mercato dell’indulgenza, e con minore termine del servigio che dato avea contro al capitano, e mandò di nuovo i predicatori e gli accattatori a sommuovere i popoli, e fece grande commozione, e raunò tesoro e gente assai, come al debito tempo racconteremo,

CAP. LXXXI. Della gravezza facea il tiranno a’ Bolognesi.

Quando la compagnia fu valicata in Romagna, i duemila cavalieri che messer Bernabò tenea sul Modenese, e appresso a Sassuolo in su quello di Bologna, senza fare alcuna novità di guerra pur facea stare i collegati in sospetto, e anche il legato, e però i Lombardi della lega accolsono gente, e ’l tiranno bolognese fece a’ suoi Bolognesi, per avere danari, sconvenevoli gravezze sopra l’usate. Perocchè ogni mese volea da catuno de’ suoi sudditi soldi cinque di bolognini per [315] bocca di sale, e soldi quattro per macinatura la corba del grano, oltre all’usata mulenda, e per ogni tornatura di terra soldi venti di bolognini l’anno sopra l’altre gabelle delle porti, e del vino, e dell’altre cose ch’entravano con some e con carra, che tutte erano gabellate, e per questo modo traeva loro delle coste e de’ fianchi libbre seicentomila di bolognini l’anno. E oltre a ciò, avendo tolto loro l’arme, in questo tempo mandò bando, che chiunque l’amava andasse nell’oste. Il popolo sottoposto al duro giogo, per ubbidire il tiranno, si mosse con bastoni e con lanciotti in mano, ch’altr’arme non avea, e andò dove fu il comandamento del tiranno, e nel campo stette due dì senza mercato di vittuaglia a grande stretta di loro vita, e non osò fiatare. La gente della lega era uscita fuori, e ingrossatasi, per contastare la cavalleria di messer Bernabò, che si stava a Sassuolo, avvenne, a dì 21 di luglio del detto anno, che trovandosi insieme parte dell’una gente e dell’altra per scontrazzo, si combatterono tra loro, e furono rotti quelli di messer Bernabò; gli altri suoi cavalieri, sentendo quella rotta, si partirono, e tornarsi sani e salvi a Milano. Dappoichè furono partiti si scoperse un trattato, che dovea essere data loro la porta del castello di Bologna, e furono presi i traditori, e giustiziati.

[316]

CAP. LXXXII. Come i Veneziani domandarono pace al re d’Ungheria.

I Veneziani vedendo che il re d’Ungheria gli guerreggiava in Trevigiana, e in Ischiavonia e in Dalmazia con grave guerra, e ch’egli avea preso ordine da poterla senza spesa e senza pericolo della moltitudine degli Ungheri, usati di generare confusione, continuare, conobbono che a loro era cosa incomportabile; e però elessono solenni ambasciadori, e mandarli al re per addomandare pace, volendosi ritenere Giadra, e renderli l’altre terre della Schiavonia, e darli per tempi danari assai per l’ammenda; e fra l’altre terre che dare gli voleano, nominarono Trau e Spalatro. I cittadini di quelle terre sentendo ch’e’ Veneziani gli voleano dare al re d’Ungheria per loro vantaggio, si accolsono insieme, e presono per consiglio di volere accattare la benivolenza del re, e non attendere ch’e’ Veneziani ne volessono fare loro mercatanzia; e però liberamente si diedono al re, e ricevettono la sua gente e’ suoi vicari con grado in pace, e’ rettori e la gente che v’era pe’ Veneziani rimandarono a Vinegia sani e salvi, e il re con gli ambasciadori non volle accordo se non riavesse Giadra e l’altre terre del suo reame.

[317]

CAP. LXXXIII. Come il legato ebbe la rocca di Brettinoro.

Il legato, ch’avea presa la terra di Brettinoro, e stretti quelli della rocca per modo che poco si poteano tenere per la molta gente che dentro v’era racchiusa, non ostante che vedessono l’oste della compagnia da cui attendeano soccorso presso a tre miglia, feciono accordo, e diedono stadichi, che se la domenica vegnente, a dì 23 di luglio anno detto, e’ non fossono soccorsi, s’arrenderebbono, salvo le persone, e l’arme e ’l loro arnese. Il capitano che v’era per lo legato, messer Galeotto, provvide sì sollicitamente il dì e la notte che ciò non si potesse fare, che non valse ingegno del capitano di Forlì, nè forza ch’avesse la compagnia, che fornire o soccorrere la potessono; e valicato il giorno, la sera medesima, ch’era il termine, s’arrenderono, con onorevole vittoria del legato, e abbassamento della fallace fama della compagnia, e della pertinace superbia del capitano.

CAP. LXXXIV. Come si bandì la croce contro la compagnia.

Seguita, che per tema della compagnia, la quale ogni dì crescea, il legato avea oltre al processo della croce bandita mandato a richiedere aiuto contro alla compagnia a tutti i Toscani, e [318] più confidentemente dal comune di Firenze, e mandovvi suo legato un vescovo di Narni Fiorentino chiamato frate Agostino Tinacci de’ frati romitani, buono Altopascino; costui con grande solennità fece tre dì ogni mattina in Firenze processione, e acconsentitagli da’ signori, per reverenza della Chiesa sonate tutte le campane del comune a parlamento, in sulla ringhiera de’ priori fatta sua predica, pubblicò il processo fatta contro alla compagnia, e pronunziò l’indulgenza a chi prendesse la croce, e allargò che dodici uomini potessono concorrere al soldo d’uno cavaliere, e raccorciò il tempo del servigio in sei mesi ov’era in dodici; e ancora più, che prenderebbe ciò che gli uomini e le femmine gli volessono dare, e dispenserebbe con loro; e divolgato il fatto, tanto fu il concorso degli uomini e delle donne della nostra città, che senz’altra provvisione di suo mandato gli portavano i danari per modo, ch’e’ non potea resistere di potere ricevere e di porre la mano in capo: e trovossi di vero, ch’e’ ricevea per dì mille, e milledugento, e millecinquecento fiorini d’oro, e in non molti dì raunò più di trentamila fiorini d’oro, i più dalle donne e dalla gente minuta. Il comune per sè avea diliberato di volere mandare aiuto al legato, ma avvedendosi tardi per gli suoi cittadini ch’aveano già piene le mani agli accattatori, vide co’ savi, che ’l comune per tutto il popolo potea avere l’indulgenza, volendo servire di prendere l’aiuto della Chiesa, per avere il beneficio dell’indulgenza; e però convertì la sua gente a fare il servigio per tutto il comune, [319] acciocchè ogni uomo avesse il perdono; e così fatto, il detto vescovo, a dì 26 di luglio anno detto, pronunziò il perdono a tutti i cittadini, e contadini e distrettuali di Firenze, i quali fossono confessi e pentuti de’ loro peccati, o che fra tre mesi avvenire si confessassono. E nota, che in nove anni tre volte si concedette questo perdono; nel 1343, quando fu la generale mortalità, e l’anno del cinquantesimo, e in questa guerra romagnuola.

CAP. LXXXV. Aiuti mandarono i Fiorentini al legato.

Il comune di Firenze, a dì 20 di luglio anno detto, fatto capitano messer Manno di messer Apardo de’ Donati, e datogli il pennone del comune, il mandarono in Romagna con settecento barbute di buona gente, e con ottocento balestrieri, affinchè la battaglia si prendesse colla compagnia; e oltre a ciò v’andarono singulari masnade di cittadini e’ contadini crociati, che furono dugento a cavallo e duemila a piè. E contando la raccolta de’ danari, e la spesa del comune e de’ singulari uomini, più di centomila fiorini costò la beffa al comune di Firenze a questa volta. È vero che ’l tutto s’intendea a combattere la compagnia, e però vi mandò il comune un confidente cittadino popolare, il quale in segreto si dovesse strignere col legato, e con autorità di promettere ventimila fiorini d’oro per lo comune a’ soldati se vincessono la compagnia; ed era tanta la buona gente ch’avea il legato, e quella [320] del comune di Firenze, e de’ crociati che v’erano di volontà, ch’assai se ne potea sperare piena vittoria. Il legato n’avea dato di prima al comune buona speranza, e ancora poi il suo ambasciadore, ma appresso, o che il legato invilisse, impaurisse di mettersi a partito, o che non si confidasse de’ soldati, dissimulò il fatto, e tennelo pendente, e mantennesi in riguardo, dando ardimento agli avversari, e viltà alla sua parte che gli tornò in poco onore.

CAP. LXXXVI. Come i Genovesi ebbono Ventimiglia.

Di questo mese di luglio, tenendosi la città di Ventimiglia per i figliuoli e consorti di messer Carlo Grimaldi, e non ubbidivano il comune nè ’l doge di Genova, per la qual cosa il doge diede boce di volere fare guerra a’ Catalani, e per questo fece armare venti galee: e avendo alcuno trattato in Ventimiglia, costeggiando la riviera, come furono a una punta di mare presso alla terra di Ventimiglia feciono scendere masnade e balestrieri con un capitano, il quale gli menò copertamente sopra la città da quella parte dove era il trattato, e dove non si prendea piena guardia, e le galee andarono per mare; e giunte nel porto, volendo prendere una galea armata di quelli di Monaco che v’era dentro, i terrazzani per difendere la galea tutti trassono alla marina; e in questo, l’aguato de’ Genovesi ch’erano smontati sopra la terra scesono alla porta, e senza [321] contasto entrarono nella città, e presono la guardia della porta, e feciono il cenno ordinato alle galee, le quali si strinsono alla terra. I cittadini di presente conobbono ch’alla difesa non avea riparo, e però ricevettono i Genovesi come maggiori, ed eglino, senza alcuna novità fare nella città, presono la signoria della terra per lo comune di Genova e per lo doge, e’ Grimaldi che la teneano se n’andarono colle persone e coll’avere a Monaco, e le galee si ritornarono a Genova.

CAP. LXXXVII. Come l’arciprete con compagnia entrò in Provenza.

Essendo in alcuno sollevamento delle guerre il reame di Francia per la presura del re e de’ baroni, molti uomini d’arme non avendo soldi, per alcuna industria, secondo che la fama corse, del cardinale di Pelagorga zio del figliuolo del duca di Durazzo, i quali erano dal re Luigi e da’ suoi fratelli male stati trattati, essendo messer Filippo di Taranto fratello del re Luigi in Provenza, mosse l’arciprete di Pelagorga, uomo bellicoso e di mala fama, il quale si fece capo d’una parte de’ Guasconi acconci a fare ogni male, e di volgo il nome di fare compagnia. E con lui s’accostò messer Amelio del Balzo e messer Giovanni Rubescello di Nizza, e molti uomini d’arme ch’aveano voglia di rubare s’accozzarono con loro, sicchè in pochi dì accolsono ed ebbono [322] nelle contrade di Ponte di Sorga di là dal Rodano più di duemila cavalieri, e stesonsi inverso Oringa e Carpentrasso, standosi per le villate e a campo senza rubare o far danno al paese, ma per paura i paesani davano loro vittuaglia. Messer Filippo di Taranto, ch’era in Provenza, volendo riparare che non entrassono nella Provenza del re di qua dal Rodano, accolse suo sforzo di Provenzali, e fece, capo a Orgona, e stese la guardia sua su per lo fiume della Durenza. Ma la sua gente era poca, e mancava, e la compagnia cresceva, perchè il papa e tutta la corte ne cominciò forte a temere. Ma i capitani della compagnia ammaestrati della corte medesima, mandarono ambasciadori al papa per assicurarlo, che contro della corte e alle terre della Chiesa non intendeano fare alcuno male, e per sicurtà offeriano i saramenti de’ caporali, e stadichi, se gli volesse, ma la loro intenzione era d’andare contro a messer Filippo di Taranto, il quale aveano per loro nemico, e di guerreggiare le sue terre e del re Luigi. E ivi a pochi dì valicarono il Rodano ed entrarono in Provenza, che messer Filippo, non avea forza da campeggiare con loro, e cominciarono a correre il paese, e a guastarlo, e a uccidere e a predare in ogni parte; e presono Lallona buona terra e piena d’ogni bene, e poi andarono infino a san Massimino, e anche il presono, e più altre castella. Le buone terre s’armarono alla difesa, e ’l papa fece afforzare Avignone, e guardare la città, e d’altro non s’intramise: e così tutta la state consumarono quel paese.

[323]

CAP. LXXXVIII. Come il conte di Fiandra rendè Brabante alla duchessa facendo pace.

Noi dicemmo poco addietro che la duchessa di Brabante era tornata, e ’l conte di Fiandra pazientemente l’avea comportata, perocchè era sua cognata, e perchè sapea la natura de’ Brabanzoni, che non si potrebbono tenere sotto la signoria de’ Fiamminghi, e già parecchi buone ville aveano accomiatati gli uficiali del conte; e avvegnachè fortuna l’avesse fatto signore di Brabante, la sua intenzione non era di volere altro che Mellino, ch’egli s’avea comperata con giusto titolo. E però, essendo trattato della pace nella festa che fece l’imperadore, il conte si dichinò benignamente alla cognata, e rendelle la signoria di tutto Brabante, con patto, ch’alcuno lieve omaggio ella ne facesse alla compagna sua sirocchia, e che a lui rimanesse libera la signoria di Mellino. E fermata la concordia, con gran piacere de’ Fiamminghi e de’ baroni si pubblicò la pace del mese di luglio del detto anno.

CAP. LXXXIX. Come il legato s’accordò colla compagnia per danari.

Tornando a’ fatti della compagnia, seguita a contare poco onore di santa Chiesa e di due comuni [324] di Toscana. Messer Egidio cardinale di Spagna legato avendo, com’è detto, da sè molta buona gente d’arme, e accoltane per l’indulgenza della croce maggior quantità, sicchè assai si trovava più forte che non era la compagnia per poterla combattere, e promesso l’avea alle comunanze di Toscana e nelle prediche della croce, e se alla fortuna della battaglia non si volea abbandonare per senno, almeno standosi a riguardo si conoscea manifesto, che dov’elli erano poco poteano soggiornare che non aveano vivanda, e volendosi partire, avendo tanti nimici a petto, male il poteano fare senza loro gran danno. Tanto invilì la loro vista l’animo del legato, che infino allora era da pregiare sopra gli altri baroni, ch’e’ si mise in trattato col conte di Lando capitano della compagnia, e fecelo più volte venire a sè: e in fine prese accordo, ch’e’ si dovesse partire colla sua compagnia e tornarsene in Lombardia, e liberare tre anni le terre della Chiesa, e la città di Firenze, di Pisa, di Perugia, e di Siena, avendo la compagnia dal legato e da’ detti comuni cinquantamila fiorini d’oro, e cominciasse il termine di calen di novembre 1357. Il comune di Perugia e quello di Siena se ne feciono beffe, e non vollono attenere quello che il legato n’avea ordinato. I Fiorentini furono contenti, e pagarono per la loro rata sedicimila fiorini: e’ Pisani anche s’acconciarono, e pagarono la loro rata e il legato la sua. E avuto il tributo della Chiesa, e de’ maggiori comuni di Toscana, ove si conoscevano essere a mal partito, baldanzosi e lieti si tornarono in Lombardia, in grande abbassamento [325] dell’onore del legato; e se senno fu, troppa codardia vi si nascose dentro.

CAP. XC. Ricominciamento dello studio in Firenze.

Del mese d’agosto del detto anno, i rettori di Firenze s’avvidono, come certi cittadini malevoli per invidia, trovandosi agli ufici, aveano fatto gran vergogna al nostro comune, perocchè al tutto aveano levato e spento lo studio generale in Firenze, mostrando che la spesa di duemila cinquecento fiorini d’oro l’anno de’ dottori dovesse essere incomportabile al comune di Firenze, che in un’ambasciata e in una masnada di venticinque soldati si gittavano l’anno parecchie volte senza frutto e senza onore, e in questo si levava cotanto onore al comune; e però ordinarono la spesa, e chiamarono gli uficiali ch’avessono a mantenere lo studio; e benchè fosse tardi, elessono i dottori, e feciono al tempo ricominciare lo studio in tutte le facoltà di catuna scienza. E di questo mese nacquono in Firenze due leoni.

CAP. XCI. Come si trovarono l’ossa di papa Stefano in Firenze.

In questo mese d’agosto, cavandosi a lato all’altare di san Zanobi nella chiesa cattedrale di Firenze, per fare uno de’ gran pilastri per la [326] chiesa nuova, vi si trovò uno monumento verso tramontana, nel quale erano l’ossa di papa Stefano nono nato di Lotteringia, e così diceano le lettere soscritte nella sua sepoltura; e in sul petto gli si trovò il fermaglio papale con pietre preziose e con lo stile dell’oro, e la mitra in capo e l’anello in dito; e raccolto ogni sua reliquia, si riserrarono appo i canonici per fargli al tempo onorevole sepoltura. Questi sedette papa mesi dieci; e morì gli anni 1088.

CAP. XCII. Leggi fatte sopra i medici.

Cominciossi di questo mese d’agosto nel Valdarno di sotto, e in Valdelsa, e in Valdipesa, e in molte parti del contado di Firenze e nel suo distretto, un’epidemia d’aria corrotta intorno alle riviere che generò molte malattie, le quali erano lunghe e mortali, e grande quantità d’uomini e di femmine mise a terra, e assai cavalieri di Firenze stati in contado morirono, che fu singolare cosa, e durò fino a mezzo ottobre; e in Firenze morirono assai uomini e donne, ma de’ cinque i quattro tornati di contado malati. Fece allora il comune per riformagione, che niuno medico dovesse andare a vicitare alcuno malato da due volte in su, se il malato non fosse confessato, avendo di ciò degna testimonianza, sotto pena di libbre cinquecento, e che di ciò catuno medico dovesse fare ogni anno saramento alla corte dell’esecutore. La legge fu buona, [327] ma l’avarizia de’ medici e la pigrizia de’ malati, mescolata colla cattiva consuetudine, fece perdere l’esecuzione di quella, che se fosse messa in pratica, e tornata in consuetudine, era gran beneficio dell’anime e santa de’ corpi.

CAP. XCIII. Come i Genovesi ebbono Monaco.

Avendo avuto il doge di Genova onore d’avere racquistata la città di Ventimiglia, fece armata di quattordici galee, e sei ne mandarono i Pisani ch’erano in lega col loro comune; e queste venti galee misono nel porto ch’è sotto il castello, e sopra Monaco di verso la montagna misono quattromila fanti armati, tra’ quali avea di molti balestrieri, che di notte guardavano i passi della montagna; e tenutolo così assediato un mese, e tentatolo con loro danno alcune volte di battaglia, perocch’era troppo forte, vi si stavano. I Grimaldi che ’l teneano pensarono che a lungo andare e’ non potrebbono contastare al comune, ed essendo preso in Genova un figliuolo di messer Carlo Grimaldi, trattarono di volere dare il castello di Monaco al doge e al comune per danari, e riavere il figliuolo di messer Carlo libero di prigione, ed essere ribanditi; e venuti a concordia, ebbono contati fiorini sedicimila d’oro, e quattromila ne scontarono per la prigione, e renderono Monaco al comune di Genova; il quale aveano tenuto trentadue anni in loro balía, che rade volte aveano ubbidito al loro [328] comune, e sempre corseggiato e tribolato i navicanti di quel mare, e fatto del luogo spilonca di ladroni; e questo fu il dì di nostra Donna a mezzo agosto del detto anno.

CAP. XCIV. Come il cardinale assediò Forlì.

Avendo, come detto è, il cardinale fatta partire la compagnia di Romagna, e trovato il capitano di Forlì ostinato e indurato di non volere venire all’ubbidienza di santa Chiesa, e volendo il cardinale tornarsene a corte; innanzi la sua partita ordinò coll’altro legato, ch’era l’abate di Giugni, d’assediare la città di Forlì, e all’uscita d’agosto vi posono il campo con duemila cavalieri e con gran popolo, e cominciarono a dare il guasto intorno alla città, e ’l capitano con grande animo si ristrinse con pochi soldati a cavallo, e co’ suoi cittadini alla guardia della terra, e provvedutosi delle cose bisognevoli alla vita, si mise francamente alla difesa: e spesso a sua posta usciva fuori con sua gente, e assaliva i nemici al campo e danneggiavali, e per savia condotta si ricoglieva a salvamento. E a suo diletto inducea i giovani garzoni all’esercizio della guerra, e tornando nella terra, tutti li facea venire innanzi, e giocandosi con loro dicea delle loro valantrie, e raccontava com’eglino avien fatto, e a quelli ch’erano più iti innanzi dava a catuno uno grosso, o due o tre bolognini. E per queste lusinghe, e per queste lievi provvisioni, movea [329] i giovani a seguitarlo senza richiesta di grande volontà, e per sperimentarli nell’arme. E con questo si faceva tanto amare da loro, che non gli bisognava guardia per alcuno sospetto, e ’l tedio dell’ozio degli assediati mitigava con alcuno diletto del continovo esercizio; e guida vali sì saviamente, ed era sì ubbidito da loro, che niuno ne perdea, e poca speranza dava a’ nemici di vincere la città.

CAP. XCV. Come il re d’Inghilterra ruppe i patti della pace.

Tornando alquanto nostra materia al fatto de’ due re, ed avendo narrata la festa che fu fatta a Londra quando vi giunse il re di Francia, credendosi per tutti che la pace fatta tra’ legati e ’l duca di Guales a Bordello per lo re Adoardo si dovesse confermare, essendo però valicati nell’isola i cardinali e molti baroni di Francia, strignendo il re e ’l suo consiglio a dar fine e fermezza all’opera, il re d’Inghilterra, mostrandosi a ciò volonteroso, mantenea la cosa sospesa, oggi con una cagione e domani con altra, e però non rompea il trattato; e spesso infingea cagione a’ Franceschi, e dimostrava che ’l fallo fosse loro, e poi l’acconciava, a facevane muovere un’altra. E per questo modo maestrevolmente e per sua astuzia ritenea il re e ’l figliuolo, e’ baroni e’ cavalieri ch’avea prigioni in Inghilterra, come egli desiderava; e tanto avvolse questa materia, che straccò i legati e i baroni [330] ch’erano di là valicati; i quali vedendosi menare al re con queste simulazioni senza frutto, all’uscita del mese d’agosto anno detto abbandonarono il trattato, e tornarsi nel reame di Francia, e per tutto la boce corse che la pace era rotta, e che al primo tempo il re d’Inghilterra dovea venire a Rems e farsi coronare del reame di Francia, e non fu senza cagione revelata del segreto: ma indugiossi più, e il trattato della pace senza il suo effetto poco appresso si riprese, e tornarono nell’isola i legati.

CAP. XCVI. Della mostra fatta a Avignone di cortigiani per tema della compagnia.

Di questo mese d’agosto, nella compagnia dell’arciprete di Pelagorga, ch’era in Provenza, s’aggiunse il conte d’Avellino e cinque nipoti di papa Clemente sesto, e trovaronsi più di tremila barbute, e scorsono predando e guastando la Provenza infino a Grassa, e non trovarono contasto fuori delle terre murate. Vedendo il papa crescere questa tempesta, volle vedere in arme tutti i cortigiani, e fece ordinare di fare la mostra, che fu grande e bella, perchè catuno si sforzò di comparire in arme, e trovaronsi in questa mostra quattromila Italiani tutti bene armati, ch’erano due cotanti o più che tutti gli altri cortigiani. E come furono armati e raunati insieme, gridavano e volevano correre sopra i cardinali nipoti di papa Clemente, dicendo, ch’erano autori di [331] quella compagnia, che conturbava la corte e tutta la mercatanzia, e a gran pena furono ritenuti da’ loro capitani. Il papa, veduta la mostra, ordinò di fare rifare le mura e’ fossi d’Avignone, e riparare le porti per tenere la città sicura; altro rimedio di fuori contro alla compagnia non prese, ma stava continovo la corte in gran paura, e in vergognosa vacazione di tutti i mestieri.

CAP. XCVII. Come il re Luigi da Messina tornò a Napoli.

Il re Luigi avendo con danno e con vergogna levata l’oste sua da Catania, come narrato abbiamo, e non trovandosi in mare nè in terra potente da rifare oste, e i suoi avversari aveano ripreso ardire della loro vittoria; e sentendo il regno di qua dal Faro in molta discordia per la ribellione di messer Luigi di Durazzo e del conte di Minerbino, i quali teneano in guerra la Puglia, e molti caporali di ladroni rompevano le strade e’ cammini; non ostante ch’egli avesse promesso a’ Messinesi di stare alcun tempo risedente a Messina, cambiò proposito, per non correre in peggio, e a dì 30 d’agosto del detto anno si partì da Messina in su una galea d’Ischia, e pose a Reggio, ov’era prima venuta la reina. E in Messina lasciò suo vicario un figliuolo del gran siniscalco con trecento cavalieri alla guardia della terra, confidandosi sopra tutto in messer Niccolò di Cesaro e nel suo seguito, ch’aveano cura alla guardia per loro medesimi, ch’aveano di fuori i [332] loro avversari. E poi da Reggio per Calavria e per Puglia se ne tornarono a Napoli, del mese di settembre del detto anno.

CAP. XCVIII. Come si perdè Governo a’ Mantovani.

I signori da Gonzaga, essendo uomini savi di guerra, avendo lungamente tenuta la signoria di Mantova, vicini e in mezzo tra’ signori di Milano e quelli di Verona, avean provveduto di tenere salvo gran parte del loro contado in questo modo. La loro città è posta nel mezzo d’un lago di fiumi correnti, e di questo lago di verso levante alla città esce un fiume, che si stende correndo verso mezzo dì ed entra in Po; e dov’egli entra in Po è un castello e un ponte: il castello si chiama Governo: e dall’uscita del fiume al detto castello ha dieci miglia di terreno, e per i Mantovani è alzato e fortificato un argine sopra il fiume dal lato d’entro, e fattovi forti steccati e molte bertesche a potere fare ogni gran difesa. E dall’altra parte del lago, di verso ponente alla città e di lungi tre miglia, esce un altro fiume, e corre verso mezzo dì anche al Po, e stendesi ancora per dieci miglia di terreno, e l’argine di questo fiume è fatto maggiore e più forte che l’altro, e steccato e imbertescato a ogni difesa, e in sul Po s’aggiugne a un forte castello de’ Mantovani che si chiama Borgoforte, e anche a questo castello è un ponte sul Po. Tra queste due fiumare si stende un gran contado [333] tutto piano, e di buono terreno da lavorare, e ubertuoso di frutti e di vittuaglia. Questo contado per infino a qui per forza ch’avessono i tiranni vicini non avien mai potuto noiare, e viveanne i Mantovani in grande sicurtà, e chiamavano questo contado la Serraia. In questi dì era guerra tra’ signori di Milano e quelli di Mantova, e però i Mantovani avieno mandate masnade di fanti a piè alla guardia del ponte e anche di Governo, e anche de’ loro soldati a cavallo, tra’ quali era un conestabile che avea ricevuta ingiuria da’ signori da Gonzaga. Costui ordinò, che là venisse la gente de’ signori di Milano per suo trattato, e diede loro il passo del ponte, mostrando a’ suoi, che come ne fosse passati una parte darebbono loro addosso, e tutti gli avrebbono a mansalva; ma innanzi che il traditore si mettesse al contasto ve ne lasciò tanti venire, che a’ suoi per necessità convenne abbandonare il campo e ’l castello; e per questo modo fu preso il forte passo di Governo, da potere correre ed entrare nella Serraia; e questo fu all’uscita del mese d’agosto anno detto.

CAP. XCIX. Come i signori di Milano presono Borgoforte, e assediarono Mantova.

Messer Bernabò e messer Galeazzo di Milano, avendo novelle come ’l ponte e ’l castello di Governo era preso per la loro gente, ebbono grande allegrezza, e lasciandosi addietro i fatti [334] di Pavia e di Novara, subitamente accolsono tremila cavalieri di loro soldati e gran popolo, e l’una parte mandarono a Governo, e l’altra per la riva del Po a Borgoforte. Quelli ch’andarono a Governo feciono di loro due parti; l’una si dirizzò, verso Mantova, e misonsi a campo in capo del ponte onde i Mantovani della terra veniano nel contado della Serraia, e ivi di presente dirizzarono una bastita con torri e con bertesche, e tolsono il passo e la speranza a’ Mantovani, che per forza ch’avessono nella Serraia non poterono entrare per soccorrere Borgoforte, e l’altra parte cavalcò per la Serraia dentro a Borgoforte, e così dentro e di fuori subitamente fu assediato Borgoforte. E vedendo coloro ch’aveano la guardia della terra che soccorso non poteano avere da niuna parte, s’arrenderono salve le persone; e così in pochi dì ebbono i signori da Milano l’uno castello e l’altro, e la signoria di tutto il contado della Serraia, infino al lago che cigne la città di Mantova. Avuto Borgoforte, feciono maggiore e più forte la bastita a capo del ponte del lago, e mantennonvi l’oste grande, perocchè per niente avevano loro vita; e dall’altra parte fuori della Serraia misono l’oste presso della città, il lago in mezzo, e tutto l’altro paese mantovano corsono e rubarono. E per questo assedio speravano tosto avere libero la signoria di Mantova, e sarebbe venuto fatto, se non fosse il soccorso degli allegati, come nel suo tempo diviseremo. I signori di Milano, ch’aveano il castello e ’l passo di Borgoforte ch’era verso il loro terreno, abbandonarono Governo ch’era molto lontano [335] al loro soccorso e presso a’ nemici, e’ Mantovani il ripresono, e fecionlo più forte, e misonvi buona guardia.

CAP. C. Come il cardinale Egidio passò per Firenze.

Il cardinale di Spagna messer Egidio legato, avendo lasciato successore l’abate di Clugnì, e assediata la città di Forlì, a dì 14 di settembre anno detto fu ricevuto in Firenze a grande solennità, andandoli incontro a processione tutto il chericato, e le religioni, e ’l popolo, sonando le campane del comune e delle chiese a Dio laudiamo, e messo sopra la sua persona fuori della città un ricco palio di baldacchini di seta e d’oro adorno intorno riccamente, tutti i cavalieri di Firenze gli furono intorno, ed addestrarlo al freno e alla sella, e’ grandi cittadini portavano il palio; e guidatolo con questo onore per la città, il condussono al luogo de’ frati minori, ove fece suo albergo; e ivi fu visitato con grande reverenza da’ priori e da tutti i collegi, e dagli altri buoni cittadini; e dopo la vicitazione i priori gli mandarono doni di cera lavorata e di confetti d’ogni ragione in gran quantità, e uno grande e ricco destriere fornito di nobili arredi e coverto di scarlatto, e per vestire la sua persona due pezze di fini panni scarlatti di grana, e una cappella doppia di baldacchini d’oro e di seta fini. Il cardinale ricevette graziosamente ogni cosa, e poi fatto suo sermone, magnificò molto il comune [336] di Firenze e sopra tutti gli altri di divozione e di fede alla santa Chiesa, offerendosi sempre protettore del comune; e fatto un solenne convito a’ signori e a’ collegi e a molti altri gran cittadini, a dì 19 di settembre si partì di Firenze e mandato a’ Pisani per la licenza di potere passare per la città di Lucca, i Pisani vi mandarono dugento barbute e molti balestrieri alla guardia, e feciono serrare le porte, e per loro ambasciadori gli feciono dire, che se la sua persona con alquanti compagni senz’arme volesse entrare per la città, ch’egli il potea fare; il cardinale non volle quella grazia, e cavalcando di fuori, vide le porte serrate e le mura fornite di molti balestrieri colle balestra tese, per la qual cosa si dilungò dalla città, sdegnato forte della vergogna che da’ Pisani gli parve ricevere. Questo legato per suo senno, e per grande e sollecita provvisione di guerra, racquistò a santa Chiesa il Patrimonio e Terra di Roma, e ridusse il prefetto occupatore alla sua misericordia. Vinse per forza e per ingegno tutte le terre della Marca d’Ancona, abbattendo la signoria di messer Malatesta da Rimini, e di Gentile da Mogliano, e ’l nuovo tiranno d’Agobbio; e per forza vinse in Romagna Cesena e Brettinoro e racquistò Faenza, e lasciò Forlì assediata, e’ Malatesti tutti riconciliati all’ubbidienza di santa Chiesa; e contastò assai colla compagnia, avvegnachè nell’ultimo, o per paura, o per fretta ch’avesse della sua partenza, s’accordò a levarlisi d’addosso con danari, con poco suo onore e di santa Chiesa; e tutte queste cose fece in termine [337] di quattro anni e un mese dal suo avvenimento in Italia.

CAP. CI. Come per i cardinali non si fè nulla della pace de’ due re.

Chi potrebbe senza fallare scrivere le movitive degl’Inghilesi? il re d’Inghilterra da capo fece tornare i legati per dare termine al trattato della pace, e dichiararono i patti e le terre che al re d’Inghilterra si doveano dare, e la quantità de’ danari e’ termini quando per diliberare il re, e ’l figliuolo, e’ baroni, e rimanere in buona pace; e questo accordo si divolgò per tutto, per conferma fatta del mese di settembre. Questa concordia tornò addietro, perocchè per sicurtà delle cose il re all’ultimo domandò di volere tenere per stadichi il Delfino di Vienna, e l’altro figliuolo del re di Francia e ’l conte di Fiandra, tanto che ’l re di Francia tornato nel suo reame fornisse le cose promesse; la qual cosa non potea aver luogo, che ’l Delfino per lo fallo commesso non si fidava, e ’l conte di Fiandra non era debito al re di Francia di cotanto servigio; e però rotto il trattato, il re di Francia e ’l figliuolo con altri baroni furono mandati in prigione a Guindifora, per addietro detta la Gioiosa guardia. In questo medesimo tempo il re d’Inghilterra avea anche in prigione nell’isola il re David di Scozia; sicchè di tenerli prigioni non abbassava l’ambizione della vanagloria alla quale i mortali volentieri attraggono, e ’l tenere i [338] trattati della concordia rompea gli animi de’ Franceschi dell’apparecchio della guerra, e riteneali in divisione e fuori del loro antico reggimento, e di ciò pensava non meno che dell’arme il re d’Inghilterra potere avere suo intendimento. E però traendo sperienza dal fatto, piuttosto si può ritrarre ch’e’ trattati sono stati fatti finti, che di vero intendimento.

CAP. CII. Come fu impiccato il conte di Minerbino.

Il conte di Minerbino, detto Paladino, di cui tanto avemo addietro parlato, essendo da natura incostante e senza fede, tratto egli e ’l fratello di prigione dopo la morte del re Ruberto, appresso come fu morto il duca Andreasso se n’andò in Ungheria, e col re d’Ungheria tornò nel Regno, e col re stette mentre che gli mise bene, e non gli tenne fede. E venuto alla misericordia, e ricevuto perdonanza da lui, dopo la partita del re si riconciliò più volte col re Luigi, e da lui ebbe provvisione e doni per tenerlo in pace: ma la sua incostanza non glie le consentia, ma stava in rubellione, e accogliea rubatori e soldataglia, e correa in Puglia per pazzia non meno che per ruberia; e vedendo messer Luigi di Durazzo in discordia col re, s’accostava con lui; altra volta il lasciava, e prendea a suo vantaggio, e stava sì forte e avvisato, che in palese non potea ricevere impedimento. Il prenze di Taranto, chiamato l’imperadore, vedendo quanto costui tribolava la [339] Puglia, commise a messer Betto de’ Rossi suo cavaliere, che segretamente avesse cura a’ suoi andamenti. Costui sentendolo in Matera, trattò con certi masnadieri che ’l seguitavano alla sua provvisione, e corruppeli per moneta per modo, che cavalcatovi colla gente dell’imperadore, di subito fu lasciato entrare nella terra. Il conte vedendosi tradito da’ suoi, ricoverò nel castello. Il prenze vi fu di presente intorno con molta gente, e cinselo dentro e di fuori per modo che non poteva uscire della fortezza, e da vivere non v’avea, sicchè fu costretto da necessità d’uscirne in camicia con uno capestro in collo, e gittossi a’ piè del prenze, come altra volta avea fatto a Trani al re d’Ungheria; ma la cosa non succedette a quel modo. Il prenze il fece prendere, e menollo ad Altemura; e fattosi dare il castello, a uno de’ merli il fece impendere per la gola nel detto castello.

CAP. CIII. Come fu preso Minerbino.

Sentendo messer Luigi fratello del conte come il prenze avea morto il fratello, essendo uomo di grande ardire e di seguito, di presente accolse soldati e caporali di ladroni, e misesi in Minerbino loro castello, il quale era forte a maraviglia, e credette poterlo tenere in rubellione. I terrazzani sapendo che il conte loro principale signore era morto, non assentirono di volere prendere arme contro a’ reali; e però messer Luigi [340] elesse i compagni che volle, e fornita la rocca, ch’era inespugnabile, vi si racchiuse dentro, senza paura di forza che noiare lo potesse di fuori. Ma la fede corruttibile de’ soldati tosto l’ingannò. Che avendo seco dentro un conestabile lombardo, per danari e per larghe impromesse ricevette dentro, nella rocca colle sue mani uccise messer Luigi, e il corpo suo e la rocca diede al prenze, del mese di dicembre del detto anno. L’altro fratello, ch’era conte di Vico, con poca virtù e semplice uomo, vedendo lo sterminio de’ fratelli si partì del Regno, abbandonando le sue castella e la sua giurisdizione. E così prese fine ne’ successori il dominio di messer Gianni Pipino, il quale di piccolo notaio per la sua industria fatto de’ maggiori signori del reame al tempo del re Carlo vecchio, e colui ch’avea maggiore mobole fatto dell’avere de’ saracini di Nocera, quand’egli con sagacità e con inganno trasse i saracini del Regno, e acquistò al re Carlo la forte città di Nocera in Puglia. Costui comperò a’ figliuoli, e poi i figliuoli a’ nipoti, grandi e larghi baronaggi, miserabili per la loro fine.

CAP. CIV. Come i Genovesi mandarono in Sardigna venti galee per racquistare la Loiera, e non poterono.

Avendo il doge di Genova con l’armata di venti galee racquistato al comune Ventimiglia e Monaco, come poco innanzi abbiamo contato, [341] coll’empito di quella vittoria le mandò di subito in Sardigna, acciocchè per forza vincessono la Loiera. E giunti là improvviso, scesono con molti balestrieri e con altri dificii a combattere la terra, sforzandosi di vincerla con ogni forza e ingegno che seppono. Ma i Catalani che dentro v’erano alla guardia valentemente si misono alla difesa, e ripararono sì francamente, che i loro nemici perderono ogni speranza d’acquistarla per forza. E lasciatovi di loro morti, e molti fediti e magagnati, raccolti a galea si tornarono a Genova, e disarmarono di novembre anno detto.

[343]

TAVOLA DEI CAPITOLI

Qui comincia il quinto libro della Cronica di Matteo Villani; e prima il Prologo Pag. 5
Cap. II. Come messer Carlo di Luzimborgo fu coronato imperadore de’ Romani 7
Cap. III. Come messer Ruberto di Durazzo prese per furto il Balzo in Provenza 9
Cap. IV. Come i Provenzali s’accolsono per porre l’assedio al Balzo 10
Cap. V. Come si cominciò l’izza da messer Galeazzo Visconti a messer Giovanni da Oleggio 11
Cap. VI. Come il capitano di Forlì sconfisse gente della Chiesa 12
Cap. VII. Come messer Filippo di Taranto prese per moglie la figliuola del duca di Calavria 13
Cap. VIII. Come Massa e Montepulciano non ricevettono i vicari del patriarca 14
Cap. IX. Come i Visconti tolsono a messer Giovanni da Oleggio il suo castello 15
Cap. X. Andamenti della gran compagnia 16
Cap. XI. Come il re di Tunisi fu morto 16
Cap. XII. Come messer Giovanni da Oleggio rubellò Bologna 17
Cap. XIII. Come il doge di Vinegia fu decapitato 23
[344]
Cap. XIV. Come l’imperadore tornò coronato a Siena 26
Cap. XV. Come il legato parlamentò a Siena con l’imperadore 27
Cap. XVI. Come l’imperadore ebbe la seconda paga da’ Fiorentini 28
Cap. XVII. Come il nuovo tiranno di Bologna mandò a Firenze ambasciatori a richiedere i Fiorentini 19
Cap. XVIII. Come fu sconfitto e preso messer Galeotto da Rimini da’ cavalieri del legato 30
Cap. XIX. Come la fama della liberazione di Lucca si sparse 32
Cap. XX. Come l’imperadore diede Siena al patriarca 33
Cap. XXI. Come i capi de’ ghibellini d’Italia si dolsono all’imperadore 34
Cap. XXII. Come l’imperadore si partì da Siena e andò a Samminiato 36
Cap. XXIII. Come il cardinale d’Ostia fu ricevuto a Firenze 37
Cap. XXIV. Come la gente del legato presono quattro castella de’ Malatesta 38
Cap. XXV. Come morì il duca di Pollonia 39
Cap. XXVI. Come fu coronato poeta maestro Zanobi da Strada 41
Cap. XXVII. Come fu morto messer Francesco Castracani da’ figliuoli di Castruccio 42
Cap. XXVIII. Come i Fiorentini mandarono tre cittadini all’imperadore a sua richiesta 44
Cap. XXIX. Come i Sanesi ebbono novità 44
Cap. XXX. Come i Pisani per gelosia furono in arme 46
Cap. XXXI. Ancora gran novità di Pisa 47
Cap. XXXII. Come furono in Pisa presi i Gambacorti 49
Cap. XXXIII. Come fur arse le case de’ Gambacorti 51
Cap. XXXIV. Di novità seguite a Lucca 53
Cap. XXXV. Come nuovo romore si levò in Siena 55
Cap. XXXVI. Come i Sanesi feciono rinunziare la signoria al patriarca 56
[345]
Cap. XXXVII. Come furono decapitati i Gambacorti 57
Cap. XXXVIII. Dello stato de’ Gambacorti passato 60
Cap. XXXIX Come l’imperadore prese in guardia Pietrasanta e Serezzana 61
Cap. XL. Come l’imperadore si partì di Pisa 62
Cap. XLI. Come i Sanesi domandarono vicario all’imperadore, e non l’accettarono 63
Cap. XLII. Come i Sanesi presono e rubarono la Massa 64
Cap. XLIII. Come l’imperadore domandò menda a’ Pisani 65
Cap. XLIV. Come i Sanesi vollono fornire la rocca di Montepulciano, e non poterono 66
Cap. XLV. Come i Veneziani feciono pace co’ Genovesi senza i Catalani 67
Cap. XLVI. Come si fè l’accordo dal legato a messer Malatesta da Rimini 68
Cap. XLVII. Come i Genovesi appostarono Tripoli 69
Cap. XLVIII. Come i Genovesi presono Tripoli a inganno 71
Cap. XLIX. Di quello medesimo 73
Cap. L. Come la gente del marchese di Ferrara fu sconfitta a Spaziano 74
Cap. LI. Come l’imperadore ebbe l’ultima paga da’ Fiorentini, e fè la fine 75
Cap. LII. Come il figliuolo di Castruccio fu decapitato 76
Cap. LIII. D’una fanciulla pilosa presentata all’imperadore 77
Cap. LIV. Come l’imperadore e l’imperadrice si partirono per tornare in Alamagna 78
Cap. LV. Come il minuto popolo di Siena prese al tutto la signoria di quella 79
Cap. LVI. Come la compagnia del conte di Lando cavalcò a Napoli 80
Cap. LVII. Come Fermo tornò alla Chiesa e si rubellò da Gentile da Mogliano 81
Cap. LVIII. Come il re di Francia mandò gente in Scozia per guerreggiare gl’Inghilesi 82
[346]
Cap. LIX. Come i prigioni d’Ostiglia presono il castello 83
Cap. LX. Come i Genovesi venderono Tripoli 84
Cap. LXI. Come gli usciti di Lucca tentarono di far guerra 85
Cap. LXII. Conta della gran compagnia di Puglia 86
Cap. LXIII. Come il gran siniscalco condusse mille barbute contro alla compagnia, ond’ella s’accrebbe 87
Cap. LXIV. Come gli usciti di Lucca s’accolsono senza far nulla 88
Cap. LXV. Come il re di Cicilia racquistò più terre 89
Cap. LXVI. Novità di Padova 90
Cap. LXVII. Come i Visconti tentarono di racquistare Bologna 91
Cap. LXVIII. Come in Firenze nacquono quattro lioni 91
Cap. LXIX. Novità fatte per gli usciti di Lucca 92
Cap. LXX. Come i Catalani non vollono la pace co’ Genovesi fatta per i Veneziani 93
Cap. LXXI. Come messer Ruberto di Durazzo lasciò il Balzo 94
Cap. LXXII. Come arse la bastita da Modena 95
Cap. LXXIII. Come fu fatto il castello di Sancasciano 95
Cap. LXXIV. Come in Firenze s’ordinò la tavola delle possessioni 97
Cap. LXXV. Come il re d’Inghilterra con grande apparecchio valicò a Calese 98
Cap. LXXVL Come il re Luigi s’accordò colla compagnia del conte di Lando 99
Cap. LXXVII. Come il conte da Doadola fu sconfitto e morto dal capitano di Forlì 100
Cap. LXXVIII. Come la gente del Biscione prese le mura di Bologna e furono cacciati 101
Cap. LXXIX. Novità state in Udine 102
Cap. LXXX. Come abbondarono grilli in Cipri e in Barberia 103
Cap. LXXXI. Come messer Maffiolo Visconti fu morto da’ fratelli 103
[347]
Cap. LXXXII. Come messer Bernabò ebbe la Mirandola 105
Cap. LXXXIII. Come i Perugini presono a difendere Montepulciano 106
Cap. LXXXIV. Come il re d’Inghilterra tornò in Francia 107
Cap. LXXXV. Come il re d’Inghilterra cavalcò il reame fino ad Amiens 108
Cap. LXXXVI. Della materia degl’Inghilesi medesima 109
Cap. LXXXVII. Come morì il re Lodovico di Cicilia, e l’isola rimase in male stato 111
Cap. LXXXVIII. Come in Napoli fu romore 111
LIBRO SESTO
Cap. I. Il prologo 113
Cap. II. Come nacque briga da’ Visconti a que’ di Pavia e di Monferrato 114
Cap. III. Come si rubellarono terre di Piemonte 117
Cap. IV. Come i Fiorentini feciono lega contro la compagnia 118
Cap. V. Come gli Scotti presono Vervic 119
Cap. VI. D’un trattato fatto per racquistare Bologna 121
Cap. VII. Come si scoperse il trattato di Bologna, e fevvisi giustizia 122
Cap. VIII. Come il signore di Bologna fece lega 125
Cap. IX. Come l’oste del Biscione ch’era a Reggio si levò in isconfitta 125
Cap. X. Come i Chiaravallesi di Todi tenevano trattato col prefetto 127
Cap. XI. Come morì messer Piero Sacconi de’ Tarlati 127
Cap. XII. Come scurò tutto il corpo della luna 128
Cap. XIII. Come la gran compagnia presono Venosa 130
Cap. XIV. Come il legato bandì la croce contro al capitano di Forlì 130
Cap. XV. Come il conte Paffetta fu da’ Pisani messo in prigione 132
Cap. XVI. Come gli Aretini riposono certe fortezze 133
[348]
Cap. XVII. Di nuove rivolture della gran compagnia 134
Cap. XVIII. Di grandi gravezze fatte dal re di Francia nel suo reame 135
Cap. XIX. Come i Pisani facevano simulata guerra 136
Cap. XX. Come il capitano della Chiesa assediò Cesena 138
Cap. XXI. Come ’l conte da Battifolle assediò Reggiuolo 138
Cap. XXII. Come il conticino da Ghiaggiuolo racquietò Ghiaggiuolo 139
Cap. XXIII. Come i Visconti assediarono Pavia 140
Cap. XXIV. Come il re di Francia prese il re di Navarra 141
Cap. XXV. Come il re di Francia fece decapitare il sire di Ricorti e altri quattro cavalieri normandi 143
Cap. XXVI. Di un grosso badalucco fu a Pavia- 144
Cap. XXVII. Come i Visconti assediarono Borgoforte 145
Cap. XXVIII. Come i Visconti feciono contro a’ prelati di santa Chiesa 145
Cap. XXIX. Come i Visconti feciono tre bastite a Pavia 147
Cap. XXX. Come i Turchi con loro legni feciono gran danno in Romania 147
Cap. XXXI. Come gl’Inghilesi guerreggiarono il reame di Francia 148
Cap. XXXII. Come gl’Inghilesi furarono un forte castello 150
Cap. XXXIII. Come il zio del conte di Ricorti si rubellò al re di Francia 151
Cap. XXXIV. Come messer Filippo di Navarra si rubellò al re di Francia 151
Cap. XXXV. Come il popolo di Pavia prese le bastite, e liberossi dall’assedio 152
Cap. XXXVI. Il movimento del re d’Ungheria per assediare Trevigi 155
Cap. XXXVII. Come per l’avvenimento del re d’Ungheria si temette in Italia 156
[349]
Cap. XXXVIII. Come la cavalleria del re Luigi sconfissono i nemici, e furono vinti 157
Cap. XXXIX D’appelli fatti per lo conte di Lando di tradigione 159
Cap. XL. Come i Sanesi per paura ricorsono a’ Fiorentini 160
Cap. XLI. Come l’oste si levò da Borgoforte 161
Cap. XLII. Principio della guerra da’ Fiamminghi a’ Brabanzoni 162
Cap. XLIII. Come il conte di Fiandra andò su quello di Brabante 164
Cap. XLIV. Come si fece accordo sul campo da’ Fiamminghi a’ Brabanzoni 165
Cap. XLV. Come la città d’Ascoli s’arrendè al legato 166
Cap. XLVI. Come il legato procacciò tenere il Tronto alla compagnia 167
Cap. XLVII. Come i Pisani ruppono la franchigia a’ Fiorentini 168
Cap. XLVIII. Come i Fiorentini deliberarono partir si da Pisa e ire a Talamone 170
Cap. XLIX. Come fu disfatta la città di Venafri in Terra di Lavoro 171
Cap. L. Come l’oste del re d’Ungheria cominciò a venire a Trevigi 172
Cap. LI. De’ parlamenti che di questo si feciono in Lombardia 173
Cap. LII. Come il re d’Ungheria ebbe Colligrano 174
Cap. LIII. Come il re d’Ungheria venne a oste a Trevigi 175
Cap. LIV. Come si reggeano gli Ungheri in oste 176
Cap. LV. Come l’oste si mantenea a Trevigi 180
Cap. LVI. Come la gran compagnia passò nella Marca 182
Cap. LVII. De’ fatti dell’isola di Cicilia 183
Cap. LVIII. Come il conte di Lancastro cavalcò fino a Parigi 184
Cap. LIX. Come il re di Francia andò in Normandia 185
[350]
Cap. LX. Come il papa e l’imperadore diedono titolo al re d’Ungheria 186
Cap. LXI. Come i Fiorentini s’acordarono di fare porto a Talamone 187
Cap. LXII. Come messer Bruzzi cercò di tradire il signore di Bologna 189
Cap. LXIII. Come i Veneziani cercarono accordo col re d’Ungheria 190
Cap. LXIV. Come il signore di Bologna scoperse un altro trattato contro a sè 192
Cap. LXV. Di certa novità che gli Ungheri feciono nel campo a Trevigi 193
Cap. LXVI. Come il re d’Ungheria si levò da oste da Trevigi 194
Cap. LXVII. Raccoglimento di condizioni e movimento del re 195
Cap. LXVIII. Come la gente della lega di Lombardia sconfisse il Biscione a Castel Lione 190
Cap. LXIX. Trattati de’ Ciciliani 197
Cap. LXX Come la compagnia stette sopra Ravenna 198
Cap. LXXI. Come i Fiorentini ordinarono di fare balestrieri 199
Cap. LXXII. L’ordine ch’e’ Fiorentini presono per mantenere i balestrieri 200
Cap. LXXIII. Come i Trevigiani furono soppresi dagli Ungheri con loro grave danno 201
Cap. LXXIV. Come il Regno era d’ogni parte in guerra 202
Cap. LXXV. Come i collegati condussono la compagnia al loro soldo 203
Cap. LXXVI. De’ fatti de’ collegati di Lombardia 204
Cap. LXXVII. Come i Brabanzoni ruppono i patti a’ Fiamminghi 205
Cap. LXXVIII. Come il conte di Fiandra andò sopra Brabante 206
Cap. LXXIX. Come il duca di Brabante si fè incontro a’ Fiamminghi 207
Cap. LXXX. Come i Fiamminghi sconfissono i Brabanzoni 208
Cap. LXXXI Come il conte di Fiandra ebbe Borsella 209
[351]
Cap. LXXXII. Come il conte di Fiandra ebbe tutto Brabante a suo comandamento 211
Cap. LXXXIII. Perchè si mosse guerra dagli Spagnuoli a’ Catalani 212
Cap. LXXXIV. Di gran tremuoti furono in Ispagna 214
LIBRO SETTIMO
Cap. I. Il Prologo 215
Cap. II. Come il re di Francia prese la croce per fare il passaggio 216
Cap. III. Le parole disse frate Andrea d’Antiochia al re di Francia 218
Cap. IV. Molte laide cose fece il re di Francia 220
Cap. V. Come il re di Francia uscì di Parigi con suo sforzo, e andò in Normandia 222
Cap. VI. Quello faceva il prenze di Guales 223
Cap. VII. Come il re di Francia pose il campo pressò al prenze 224
Cap. VIII. Due conti del re di Francia rimasono presi da un aguato 226
Cap. IX. Puose il re di Francia il campo suo presso agl’Inghilesi 227
Cap. X. I legati cercarono accordo tra due signori 228
Cap. XI. I patti che si trattarono e quasi conchiusono 229
Cap. XII. Come il vescovo di Celona sturbò la pace 231
Cap. XIII. Diceria che fece il prenze di Guales a’ suoi 233
Cap. XIV. Come i Franceschi s’apparecchiarono alla battaglia 235
Cap. XV. Le schiere e gli ordini de’ Franceschi 235
Cap. XVI. L’ordine degl’Inghilesi con le loro schiere 236
Cap. XVII. La battaglia tra il re di Francia, e il prenze di Guales 237
Cap. XVIII. La sconfitta del re di Francia e sua gente 239
Cap. XIX. Racconta molti morti e presi nella battaglia 241
Cap. XX. Come il re di Francia n’andò preso in Guascogna 242
Cap. XXI. I modi tenne il re d’Inghilterra sentendo la novella di sì gran vittoria 243
[352]
Cap. XXII. Battaglia fra due cavalieri, e perchè 244
Cap. XXIII. Processo fatto contro a’ signori di Milano per lo vicario dell’imperadore 245
Cap. XXIV. Risposta fatta per li signori di Milano al vicario 246
Cap. XXV. Risposta fatta per lo vicario alla detta lettera 247
Cap. XXVI. Come i soldati de’ tiranni non vollono venire contro all’insegna dell’imperadore 248
Cap. XXVII. Come il vicario puose campo 249
Cap. XXVIII. Ordine del re d’Ungheria alla guerra con i Veneziani 250
Cap. XXIX. L’aguato misono gli Ungheri a gente de’ Veneziani 251
Cap. XXX. Come il re Luigi trattò d’avere Messina in Cicilia 252
Cap. XXXI. Come si trattò pace fra il conte di Fiandra e i Brabanzoni 253
Cap. XXXII. Come i Fiorentini si partirono da Pisa e andarono a Siena con le mercatanzie 254
Cap. XXXIII. Come il capitano di Forlì si provvide 255
Cap. XXXIV. Come Faenza s’arrendè al legato, e’ patti 256
Cap. XXXV. Che fece la gente della lega de’ Lombardi in questo tempo 257
Cap. XXXVI. Della materia medesima 257
Cap. XXXVII. Come l’oste della lega fu rotta dalla gente di Milano 258
Cap. XXXVIII. Il consiglio prese il capitano di Forlì 261
Cap. XXXIX. Messer Niccola prese Messina per lo re Luigi 262
Cap. XL. Come si ribellò Genova a que’ di Milano 264
Cap. XLI. Come fu disfatta la chiesa di santo Romolo 265
Cap. XLII. Quello fece messer Filippo di Taranto e di Vercelli 267
Cap. XLIII. Come si fuggì di Milano la donna che fu di messer Luchino col figliuolo 268
Cap. XLIV. Come il Re Luigi e la reina andarono a Messina 269
Cap. XLV. Come fu murato il borgo di Fegghine 270
[353]
Cap. XLVI. D’un parlamento fece l’imperadore in Alamagna 271
Cap. XLVII. Come il marchese di Monferrato ebbe il castello di Novara 272
Cap. XLVIII. Come messer Bernabò volle uccidere messer Pandolfo Malatesti 273
Cap. XLIX. Come i Genovesi racquistarono Savona 277
Cap. L. Guerra dal re di Castella a quello d’Araona 277
Cap. LI. Come messer Filippo di Novara cavalcò presso a Parigi 278
Cap. LII. Come si cominciò le mulina del comune di Firenze 279
Cap. LIII. Come il reame di Francia ebbe gran divisione 280
Cap. LIV. Morte del conte Simone di Chiaramonte in Cicilia 281
Cap. LV. Come si liberò il Borgo a Sansepolcro da tirannia 282
Cap. LVI. Come l’abate di Clugnì succedette al cardinale di Spagna 283
Cap. LVII. Come il re di Francia fu menato in Inghilterra 283
Cap. LVIII. Come la gente della Chiesa entrò in Cesena 286
Cap. LIX. Come il legato con sua forza andò a Cesena 287
Cap. LX. Abboccamento e triegua fatta dal re di Spagna al re d’Araona 288
Cap. LXI. Come Rezzuolo si diede a’ Fiorentini 289
Cap. LXII. Come i Pisani vollono torre Uzzano a Fiorentini 290
Cap. LXIII. Come i Pisani armarono galee per impedire il porto 291
Cap. LXIV. L’aiuto mandò messer Bernabò al capitano di Forlì 292
Cap. LXV. Come il conte d’Armignacca da Tolasana per gravezze fu cacciato 293
Cap. LXVI. Conta dell’onore fatto al re di Francia in Inghilterra 294
Cap. LXVII. Trattato tenuto per li Fiorentini in accordare il capitano di Forlì con il legato 298
[354]
Cap. LXVIII. Come il legato ebbe la murata di Cesena 297
Cap. LXIX. De’ fatti di madonna Cia donna del capitano di Forlì 298
Cap. LXX. Novità fatte in Ravenna 300
Cap. LXXI. Novità di Grecia, e presura di loro signori 302
Cap. LXXII. Come il re Luigi assediò Catania in Cicilia 304
Cap. LXXIII. Della materia medesima 305
Cap. LXXIV. Come l’oste del re Luigi si levò da Catania in isconfitta 306
Cap. LXXV. Come la compagnia venne sul Bolognese 307
Cap. LXXVI. Come il comune di Firenze afforzò lo Stale 308
Cap. LXXVII. Come s’arrendè la rocca di Cesena al legato 309
Cap. LXXVIII. De’ fatti di Costantinopoli 311
Cap. LXXIX. Come il legato prese Castelnuovo e Brettinoro 312
Cap. LXXX. Di processi fatti contro la compagnia per lo legato 313
Cap. LXXXI. Della gravezza facea il tiranno a’ Bolognesi 314
Cap. LXXXII. Come i Veneziani domandarono pace al re d’Ungheria 316
Cap. LXXXIII. Come il legato ebbe la rocca di Brettinoro 317
Cap. LXXXIV. Come si bandì la croce contro la compagnia 317
Cap. LXXXV. Aiuti mandarono i Fiorentini al legato 319
Cap. LXXXVI. Come i Genovesi ebbono Ventimiglia 320
Cap. LXXXVII. Come l’arciprete con compagnia entrò in Provenza 321
Cap. LXXXVIII. Come il conte di Fiandra rendè Brabante alla duchessa facendo pace 323
Cap. LXXXIX. Come il legato s’accordò alla compagnia per danari 323
Cap. XC. Ricominciamento dello studio in Firenze 325
[355]
Cap. XCI. Come si trovarono l’ossa di papa Stefano in Firenze 325
Cap. XCII. Leggi fatte sopra i medici 326
Cap. XCIII. Come i Genovesi ebbono Monaco 327
Cap. XCIV. Come il cardinale assediò Forlì 328
Cap. XCV. Come il re d’Inghilterra ruppe i patti della pace 329
Cap. XCVI. Della mostra fatta a Avignone di cortigiani per tema della compagnia 330
Cap. XCVII. Come il re Luigi da Messina tornò a Napoli 331
Cap. XCVIII. Come si perdè Governo a’ Mantovani 332
Cap. XCIX. Come i signori di Milano presono Borgoforte, e assediarono Mantova 333
Cap. C. Come il cardinale Egidio passò per Firenze 335
Cap. CI. Come per i cardinali non si fe’ nulla della pace de’ due re 337
Cap. CII. Come fu impiccato il conte di Minerbino 338
Cap. CIII. Come fu preso Minerbino 339
Cap. CIV. Come i Genovesi mandarono in Sardigna venti galee per racquistare la Loiera, e non poterono 340

ERRORI CORREZIONI
TOMO III.
p. 57 v. 21 dimostare dimostrare
124 6 e a avuti e avuti
257 27 si sfo (In alcune copie) si sfor-
275 24 stamapanare, e stampare, e
277 24 avversaro avversario

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate in fine libro sono state riportate nel testo.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.