The Project Gutenberg eBook of Capelli biondi This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Capelli biondi romanzo Author: Salvatore Farina Release date: February 16, 2023 [eBook #70053] Language: Italian Original publication: Italy: Brigola Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CAPELLI BIONDI *** CAPELLI BIONDI ROMANZO DI SALVATORE FARINA MILANO LIBRERIA EDITRICE G. BRIGOLA Corso Vittorio Emanuele, 26 1876 Proprietà letteraria Milano — Tipografia Sociale — S. Radegonda, 6. _Quando queste pagine, che ora raccolgo in volume, si presentavano al pubblico nelle appendici d’un giornale, Caio, mio buon amico, mi scriveva: «questa volta si dirà che hai voluto far del realismo» e mi consigliava.... indovinate?... una prefazione!_ _Io risposi a Caio che mi bastava la coscienza di aver fatto questa volta niente di più o di meno delle altre: «avuta, cioè, un’idea, essermi ingegnato di esporla accettando i personaggi acconci a darle un po’ d’evidenza, accettando le scene necessarie a far muovere i personaggi, accettando i colori indispensabili al vero.»._ _Risposi a Caio: «la parola_ realismo _non mi spaventa... anche perchè non la comprendo, ed ho visto con vera consolazione che coloro i quali più l’hanno in bocca essi pure non sanno bene che significhi._ _Risposi a Caio: «un’arte sola esiste, quella che cerca di unire il bello al vero, ed ha braccia più larghe della misericordia di Dio che dicono sterminata (qualche volta non parrebbe proprio, vedendo la confusione che lascia nei cervelli degli umani); nell’amplesso di quest’arte ci sta l’idealismo, forma esso pure del vero, chè l’uomo è per lo meno metà matematico, metà sognatore; ci sta la scuola dell’arte utile, ci sta quella dell’arte per l’arte, ci stanno il sentimento, la poesia, la satira, in una parola l’uomo intero; solo l’affettazione, l’esagerazione, il partito preso di trovar tutto bello o tutto brutto, di cercar sempre l’ottimo o di cercar sempre il pessimo, solo questo non ci sta»._ _Risposi a Caio che le prefazioni le avevo in orrore tutte quante, che non ne volevo fare per nissun conto._ _E l’ho fatta._ S. FARINA. CAPELLI BIONDI I. Sette eretici festeggiano un Santo. «.... Un Santo buon figliuolo, che ha saputo collocarsi per benino nel calendario; un Santo a cui piacciono la baldoria, le mascherine, il veglione, le cene dopo il veglione e il resto dopo cena; un Santo che gongola tutto se per poco il suo giorno esce dalla sessagesima per entrare nella settimana grassa! Mi par di vederlo: stamattina è sceso dalla sua nicchia ed è andato a ringraziare Sant’Ambrogio, a cui deve se oggi gli è rimasto un cantuccio del mondo cattolico dove sottrarsi alla predica ed al digiuno. Sant’Ambrogio gli ha stretta la mano e gli ha risposto che tra Santi....» Vedendo che nessuno ride, Aniceto interrompe la sua ghiotta eresia, crolla le spalle, vuota d’un fiato un lungo bicchiere di sciampagna e si lascia andare sulla poltroncina, dicendo in un’ottava più bassa: «Viva San Corrado!...» — Evviva! risponde una voce femminina, poi tutto tace. L’ampia sala è piena di luce; un’idra di bronzo, che pende dalla vôlta, cava da cinque teste altrettante lingue di gas che bisbigliano confuse parole; quattro grossi ceppi abbracciati nell’ampio camino, si dibattono, sfavillano, barcollano con un rotto gridìo come fanciulli che prolunghino un giuoco. Sulla mensa, fra i rottami d’una torta e le piramidi rovinate di frutta e di confetti, scintillano bicchieri di varie foggie, esili e tarchiati, grossi e piccini, alcuni tuttavia ricolmi; e le bottiglie allineate sulla credenza, come tante personcine svaporate ed impettite, hanno l’aria di credere immortale il quarto d’ora di gloria che hanno passato. In ogni angolo della ricca sala gli stipiti dorati si accendono di allegri riflessi; intorno alle pareti coperte di tappezzeria bianca ed oro si schierano mobili preziosi, divani coperti di ricche stoffe, a colori vivaci, d’un disegno allegro: amorini panciuti che si appendono a frasche e fiori. Quella turba irrequieta di monelluzzi ignudi si arrampica su tutte le seggiole, si scalda intorno al camino, va su e giù per le larghe cortine che coprono i vani delle finestre. E come per rallegrare vie più la gioconda fisonomia della sala, si ode ad ogni tanto il muggito sordo del vento che vaga per le vie deserte, e si vede la neve bianca che passa nel nero vano delle finestre e picchia discretamente alle vetrate quando il vento la sospinge. Ogni cosa domanda ai commensali una risata sonora, un frizzo mordace, una graziosa oscenità, brindisi, versi, aneddoti..., parole. Più nulla; hanno dato tutto. Poc’anzi era per l’aria un incrociarsi di botte e risposte, un volar di motti spiritosi. Filiberto e Felice avevano preso a far solenne esperimento della forza persuasiva dei loro polmoni, in proposito di bionde e di brune, e con tale fervore, che Aniceto s’era invano provato a lanciare sette volte un suo bisticcio che nessuno aveva raccolto. Barbara e Fanny, brune entrambe, per salvare il decoro, pigliavano straordinariamente a cuore le sorti delle sciarpe scozzesi, che incominciano a passar di moda, e del cappellino a scodella spuntato or ora sull’orizzonte del bel mondo. Domenico, il _Domenichino_, come lo chiamano un po’ perchè piccino ed un po’ perchè ha fama di sapersi sporcare le dita col carbone da disegno, non sonnecchiava ancora sopra la seggiola; e Corrado, da buon anfitrione, per incuorar gli amici coll’esempio, aveva il lampo dell’orgia nello sguardo. Poi quel lampo si è nascosto dietro un nugolo e la ciancia amena è scesa di un tono; ci è stato un momento, quando Corrado si è posto a sedere dinanzi al focolare, che i commensali si sono accorti della propria musoneria ed hanno provato coscienziosamente ad uscirne. Si è sparato ancora qualche razzo di buon umore, Aniceto ha finalmente smaltito il suo bisticcio, e incuorato dalla riuscita si è messo coraggiosamente in viaggio per andare a dire le sue quattro impertinenze saporite a San Corrado. Si è visto per quale deplorevole indifferenza del suo pubblico egli abbia dovuto arrestarsi a mezza via. Ed ora tutto tace, tranne il vento che svolta alle cantonate, i grossi ceppi che s’acciuffano nel camino, e le cinque lingue beffarde dell’idra. La trista figura la fa Corrado. Non s’invitano gli amici a cena per smorzar nel meglio l’allegria; tanto varrebbe spegnere i lumi e dire: «buona notte» — ma l’oppressione del silenzio la sentono tutti, il Domenichino eccettuato. Ora Aniceto, il quale, essendo il più maturo, si crede in certe occasioni obbligato a mostrar più senno degli altri, trova che non ci è scampo, che bisogna sfidar la _situazione_ corpo a corpo ed uscirne trionfante. Oh! se il genio dei bisticci non gli si ribella!... Non gli si ribella, no — ha trovato! Ma non basta concepire un bisticcio, bisogna anche metterlo al mondo, ed è spesso il più difficile. Dovrebbe far dire a qualcuno: «che cosa ha Corrado?» Si prova. — Eh! io lo so che cosa ha Corrado... — Che cosa ha Corrado? domanda costui, rialzando il capo distrattamente. — Un’_erre_ gli ha fatto un brutto tiro. Ma Corrado non lo ascolta più. Aniceto interroga il volto degli altri suoi compagni — nessuno gli bada. Filiberto guardava in fondo ad un bicchiere, ed è il solo che abbia sentito la proposta dell’enigma, ma ahi! non si mostra punto curioso di averne la chiave, alza gli occhi, li riabbassa, sorride compassionando.... Felice, fingendo di star pensoso, ascolta le ciancie sommesse di Barbara e Fanny. Fanny dice: .... «Sarà un mese, no, tre settimane..., no, un mese..., doveva essere la vigilia di non so che..., sì, certo, era la vigilia di non so che. — Corrado, gli dico, da un pezzo non mi regali nulla. — È vero, risponde lui. — Ebbene, comprami qualche cosa. — Che cosa? — Una treccia, una bella treccia tutta di capelli..., il parrucchiere..., quel parrucchiere famoso.... (come si chiama? l’ho sulla punta della lingua) ne ha una in vetrina, che par fatta apposta per me — è un pochino più nera, ma tu sai, tu devi sapere che i capelli finti perdono un po’ il colore.... — E lui? domanda Barbara gettando uno sguardo fuggitivo a Corrado. — E lui: — Che bisogno hai tu di altri capelli, se n’hai tanti? — Vedi Bice, la bionda Bice, dico io; ne ha meno di me, è quasi calva quella poveretta, e pure ne porta il doppio. — Già, già, entra a dire Felice a voce alta, ne porta il doppio. Ecco, aggiunge imitando l’accento nasale di un predicatore, ecco in due parole lo stato delle teste dell’umanità femminina: _ne portano il doppio!_... e non già il doppio di quelli che hanno, ma bensì il doppio di quelli che avrebbero, se ne avessero. Non par vero che il silenzio glaciale sia rotto. Filiberto si rizza, e mandandosi innanzi un grosso sospiro in forma d’esordio, aggiunge colla stessa voce nasale: — Sissignore, ne portate il doppio, è la sentenza sotto il cui peso curvate le belle testine.... Non ve l’abbiamo detto per non farvi inorridire, ma siete state condannate a portare i capelli della gente morta, a portarli per le vie, nei teatri, fin fra gli amplessi del vostro innamorato. È tempo che lo sappiate, poichè ciò che doveva essere orrore e supplizio è diventato argomento d’una sacrilega gara di vanità.... Aniceto vede in Filiberto un formidabile ostacolo al suo bisticcio; egli solo par che gli legga sotto il cranio la voglia di dirlo, egli solo ha udito la frase sacramentale che deve annunziarlo, ed ahi! egli forse l’ha indovinato! Aniceto vuol farsene un alleato e dichiara che Filiberto ha detto una verità sacrosanta. Barbara si stringe nelle spalle, Fanny ride. — Ah! tu ridi! Fanny, disgraziata Fanny! irrompe Aniceto levandosi in piedi; ebbene apprendi tutto l’orrore della tua sorte: sappilo, tu porti i capelli d’una vergine.... — Oh! oh! dice Filiberto; abbasso il lirismo! — D’una fanciulla, corregge docilmente Aniceto, d’una fanciulla morta all’ospedale; la tubercolosi le aveva disfatto le membra, rispettò i capelli; ma ciò che rispettano la tubercolosi e la morte, la vanità non rispetta. Non vi è cinismo che eguagli quello della spensieratezza: Fanny crolla la vaga testina e continua rivolgendosi a Barbara: — Sì, insisto io, la Bice che è quasi calva.... — Avrai la treccia, dice Corrado. — Bravo Corrado! — Aspetta.... perchè ho aspettato anch’io, e ancora non l’ho avuta! Eh sì, Corrado non è avaro! Ma sai tu che cosa mi sono messa in capo? Si guarda intorno, e vedendo che nessuno l’ascolta e che il tono della conversazione è alto, non si cura d’abbassar la voce per far la sua confidenza. Se non che proprio in quella la conversazione tace, e si odono distintamente queste parole: «Temo che mi pianti!... — Chi? domanda Felice. — Nessuno. — Bada Fanny, se ti pianta lui ci sono io, dice Aniceto. Disponi del mio cuore. — Ed io, soggiunge Filiberto. — Prima io.... Felice non può dir nulla, perchè è sotto gli occhi gelosi di Barbara. — Grazie, dice Fanny ridendo; e prosegue alzando la voce: nella mia vita ho sempre sentito il presentimento del biondo; già non vi voglio dare a credere che Corrado sia il primo.... — Nobile schiettezza! osserva Filiberto. — Lo sappiamo, lo sappiamo..., protestano gli altri. — Ho una certa esperienza io ed ho sempre visto le brune piantate per le bionde, e le bionde per le brune, e quando è il momento, mi capite, ho il presentimento del biondo.... Allora.... — Allora per non essere piantata.... pianti; dice Aniceto. — Vecchio mio, non sempre; a volte è necessario aspettare. — Già, non si può buttarsi nelle braccia del primo venuto, il decoro di casta lo vieta. Filiberto si fa innanzi solennemente: «Io non sono il primo venuto e ti offro un cuore. — Vergine? — Vedovo, perpetuamente vedovo, ed una capigliatura bionda.... Corrado è bruno. Aniceto si volta bruscamente a guardare dalla parte di Corrado: gli batte il cuore, non osa sperare.... Filiberto s’arrende. — Che diancine ha Corrado? domanda egli sorridendo. — Te l’ho detto, un’_erre_ gli ha fatto un brutto tiro. — Un’_erre_! — Un tiro! — Sì, dice Aniceto fissando gli occhi sul melanconico anfitrione ed alzando la voce: io denunzio solennemente la colpevole: è la seconda _erre_ del suo nome, la quale ha scavalcato l’a, infastidita di vivere al fianco della sua gemella.... E così di Corrado ha fatto _Cor_... _ardo_. Domenico si è svegliato, ed arriva in tempo a consigliare sbadigliando: — Accoppatelo! — No, poveretto, dice Barbara, fa quello che può.... — Barbara, tu sei pietosa, esclama Aniceto, ma Corrado è innamorato. — È innamorato! — È innamorato! — È innamorato! — E se non è innamorato, si spieghi. — Si spieghi. Corrado rizza la bruna testa arrossata dal calore, guarda gli amici, e per unica risposta, vuota d’un fiato un bicchiere ricolmo che aveva accanto alla seggiola. Poi si leva in piedi, e si pianta ritto, colle braccia incrociate, in faccia al crocchio ridente. — Udite! udite! — grida Filiberto. II. Ciancie. — Udite! udite! — Che cosa? Io non ho nulla da dire, esclama Corrado con bizzarro accento; non ho spiegazioni da dare; ci siamo divorati una cena squisita.... tutte le cene sono squisite.... Abbiamo vuotato parecchie bottiglie; il mio dovere d’anfitrione era di consigliarvi di stapparne delle altre — l’ho fatto; il resto sarebbe un’insipida commedia in cui dovrei essere io il protagonista, il mio santo il suggeritore. Vi annoiate? Peggio per voi. Anfitrione, invitati — parole, fra gente come noi; vino, baci, spirito quando ne troviamo, il buon umore quando viene — ecco la vita. Non vi accomoda?... Invertiamo le parti, tanto torna lo stesso: siate voi gli anfitrioni, sarò io l’unico invitato.... Mi annoio.... Barbara, Fanny, Aniceto, Filiberto, Felice, Domenichino, mi abbandono a voi.... tenetemi allegro. Ciò detto, Corrado si lascia andare sopra un seggiolone nano, allunga le gambe sul tappeto, spenzolando le braccia, e prende un aspetto istupidito per raffigurare colla maggiore evidenza possibile l’incarnazione della noia. Una risata sonora echeggia nella sala, ma nessuno parla, e quando il sonnacchioso Domenichino apre la bocca ad uno sbadiglio, Aniceto, errando sulla sua intenzione, gliela tappa dicendo: — Sta zitto, ce n’è ancora. — Ce n’è ancora? ripete Corrado senza muoversi, guardando fisso innanzi a sè e strascicando le parole — ce n’è ancora?... Io non so se ce ne sia ancora; so che tu, Aniceto, mi hai lasciato dire cento volte senza contraddirmi: «la mia casa è la tua» — ed ecco, alla prima occasione mi mostri che non m’hai preso sul serio e mi avverti di non pigliarti sul serio quando dirai che la tua casa è la mia. Un’altra risata, non universale nè schietta, una risata inesplicabile accoglie queste ultime parole. Tutti gli occhi sono rivolti ad Aniceto. Costui non si sgomenta, si accarezza la faccia rasa, raduna tutte le forze che può mettere in armi e risponde con disinvoltura: — Non te lo dirò mai, perchè la buon’anima del droghiere che m’ha messo al mondo, non mi ha lasciato che _generi coloniali_ da liquidare, qualche debito privato e un po’ di debito pubblico — il tanto da campare sotto la tutela dello Stato — castelli e case niente. Non monta; quello che potrò sempre dire, lo dico subito: «Le mie tre camere mobigliate in via Solferino sono tue, sono vostre, signori e signore». I signori e le signore rispondono in coro: «Grazie». — Grazie! ripete Corrado; tu non sei ricco e non ne hai colpa; è così facile esser ricchi! — Protesto, dice Aniceto, io sono ricco, perchè mi contento. Non le posso proporre le partite, le lascio proporre agli altri; non posso invitare, aspetto che mi si inviti; non mi è lecito pagarle le cene, le mangio. Vi trovate bene con me, mi trovo bene con voi; combattiamo lo stesso nemico — la vita — voi avete più denaro da spendere in questa guerra, io più coraggio e più esperienza — siamo commilitoni. — Bravo! gridano i compagni. Ma le due donne zitte; quasi quasi hanno l’aria di vedere nel maturo Aniceto una concorrenza alle loro grazie giovanili. E Fanny dice a Barbara: — Devono rendergli molto i suoi bisticci! Ti pare? E Barbara dice a Fanny: — Molto.... tutto quello che non valgono. — La mia casa! ripiglia a dire Corrado con una singolare fatuità d’accento; la mia casa! Che c’è di mio in questa casa? Ci hanno messo dei mobili, dei tappeti — ce li ho lasciati mettere, mi hanno detto quel che mi sono costati.... mille, duemila, diecimila.... totale zero; e perchè non mi costano nulla, li trovo scipiti e volgari. — A me piacciono — dice Barbara volgendo lo sguardo in giro. — Sono di buon gusto — dice Fanny. — Anche questo buon gusto non è mio, è il gusto del tappezziere che me li ha venduti. — E qual era il tuo? — Quello del tappezziere!... — È un indovinello! — Può essere.... Una notte torno tardi, ho dimenticato la chiave.... picchio.... il portinaio si leva da letto per aprimi, si sberretta e si scusa d’avermi fatto aspettare, mi fa lume e mi dà la buona notte tremando dal freddo. Io, che ho bevuto lo sciampagna ed ho quasi caldo, penso: «gliel’ho fatta, non se n’è accorto, nessuno ancora gli ha detto che egli ed il mio vecchio Antonio sono i padroni di casa e che fanno male a sopportare un inquilino bisbetico come me!» Quella fantasia mi ritorna qualche volta.... allora attraverso le stanze come se mi fosse vietato fermarmi, tocco gli oggetti appena, mi guardo negli specchi alla sfuggita e sono tentato di ringraziarli dell’incomodo che si pigliano di riflettermi; le pareti mi paiono fredde, le vôlte sorde, i tappeti muti.... gli amorini delle tappezzerie aspettano ch’io sia passato per farmi le beffe, e ripigliano la loro positura se mi volto colla faccia buia.... passo oltre, e mi gridano dietro: «vattene, vattene, vattene!» Me ne vado. Esco all’aperto, respiro — sono finalmente in casa mia! Corrado ha parlato con una leggierezza di tono, che contrasta colla melanconica gravità del suo sguardo, e quando ha finito prova una risata secca, nervosa, che non inganna l’amicizia indagatrice d’Aniceto. — Caro mio, dice costui dopo un istante di silenzio, lo vedi: nessuno ride; gli è che la tua risata non ha il numero delle vibrazioni che fa le risate genuine. Lasciatelo dire: tu manchi di sincerità; ti annoi, protesti di non mettere divario tra anfitrione ed invitati, e poi per tenere allegri gl’invitati ti credi in dovere di fare una contrazione delle labbra ed un rumore, e darceli per un impeto di.... — No, no, no, interrompe Corrado, tu sbagli, non è per voi ch’io rido. Che ne sai tu se questo riso, che per te è solo il rumore di una moneta falsa, non eccheggi come una musica qua dentro?... Si comincia dallo spirito di convenzione, dal riso che non è riso, dalla ciancia sbadata, e qualche volta si arriva allo spasimo dell’allegria. Mi provo, ecco. — Ebbene, sarò io schietto, prorompe Aniceto con voce solenne; tu ci nascondi qualche cosa, realtà o fantasima, non so bene, ma inclino a credere fantasima. — Non ho mai visto un fantasma, dice Fanny; vecchio mio, fammi vedere quello di Corrado.... — Vediamo il fantasma! — Vediamo il fantasma! — Salvo errore, prosegue Aniceto, senza badare alle interruzioni, tu hai trentasette anni sonati; ne dimostri trentadue quando sei di buon umore, ma in questo momento per esempio i tuoi trentasette li hai tutti quanti... è l’età della crisi; io che l’ho passata felicemente.... — Venti anni sono, aggiunge una voce.... — Io che l’ho passata felicemente, ne so qualche cosa, e ti dico che è l’età della crisi matrimoniale. — Orrore! dice Filiberto. — Orrore! ripetono gli altri in coro. — Sissignori, quando sarete giunti a quell’età, come il mio amico Corrado, sentirete nel sangue, nei nervi, nel cervello, una smania, una prurigine che non saprete comprendere: il falso bisogno di prender moglie; udrete nella musica d’ogni teatro, d’ogni pianoforte, d’ogni organetto, nel soffio d’ogni vento, nel crepitìo d’ogni tizzone, nel bisbiglio d’ogni fiamma di gas, nel ronzìo d’ogni zanzara lo stesso perfido consiglio: «piglia moglie!» Voi lotterete, s’intende, vi acciufferete corpo a corpo con queste idee che, dopo avervi fatto ridere tanto, per la prima volta vi annuvoleranno la fronte; penserete alle vostre innamorate d’allora, a quelle d’oggi, a quelle di ieri l’altro... invocherete i baci disinteressati del bicchiere, i consigli di un buon amico, e se la Provvidenza non vi abbandona, sarete guariti. Ma.... — C’è un ma? domanda Felice, il più giovine della comitiva e naturalmente il più avverso alle _giuste nozze_. — Ragazzo mio, sì, ce n’è uno. Ma se a trentasette anni ti sei buscato un primo reuma che ti prometta un’artritide, se sei ingrassato troppo e temi la gotta, allora sei spacciato; le pareti della tua casa ti paiono fredde, le volte sorde, i tappeti muti; temi di disturbare il portinaio, il servitore e gli specchi; la tua casa non ti par più tua; odi la beffa delle tappezzerie, gli amorini ti dicono: «vattene....» e tu te ne vai, corri dall’ebanista, gli ordini un talamo di palissandro, fai la tua scelta nella veglia, ed il mattino successivo mandi ad offrire la tua mano ad un’educanda che tutta notte ha sognato un angelo sotto le cortine bianche del lettuccio del dormitorio. Fai quel che si dice un «matrimonio per paura.» — Baje! dice Filiberto, quel matrimonio si fa alla tua età, quando si mette il piede nella sessantina. — Ti avverto che ho quarantasei anni. — È la tua opinione, non la discuto: dispero di convincerti. — Così, conchiude Aniceto fingendo di non udire, così per guarire la gotta si accetta il matrimonio. — Come per guarire la tisi si piglia l’arsenico, nota il Domenichino sbadigliando. — Colla differenza, aggiunge Felice, che chi piglia l’arsenico per guarire la tisi muore di tisi.... — Mentre chi fa matrimonio per guarire la gotta, si ammala di matrimonio, dice Barbara. Fanny non dice nulla, ha gli occhi fissi in volto a Corrado, il quale guarda ad uno ad uno gli ospiti suoi, Fanny eccettuata. — Che cosa vuoi concludere con queste ciancie? domanda l’anfitrione. — Conchiudo, ripiglia Aniceto colla solennità di prima, che tu devi avere un reuma in una spalla od in un ginocchio. — Calunnie! egli non ha reumi; dice Fanny. — Grazie, Fanny; Aniceto mio, tu invecchi, si vede, perchè cominci a regalare i tuoi malanni agli amici. Io non ho reumi, e prego le signore qui presenti di farlo sapere alle loro amiche che non cercano marito. Io non ho reumi, e non avrò mai moglie. Le mie idee sul matrimonio le sapete.... — Le sappiamo, dice Barbara, il matrimonio è un’istituzione immorale; se non ci fosse il matrimonio, non ci sarebbe l’adulterio. — Il matrimonio è contro natura, aggiunge Fanny, vedete gli animali.... Dove ho letto questo?... ah! sì, in quel romanzo che s’intitola?... come s’intitola?... di quel francese... come si chiama?... non importa; vedete gli animali, perchè seguono l’istinto non pigliano moglie. — Il matrimonio, aggiunge Felice, levandosi in piedi col volto raggiante, è un’indecenza! — Un’indecenza! — Un’indecenza! — Può essere, dice Aniceto, io lo credo capace di tutto il matrimonio.... ho sempre sospettato che fosse un’indecenza. — Sì, o signori, il matrimonio è un’indecenza.... ed offende il pudore!... — Il pudore! — Il pudore! — Zitti, state a sentire.... Vi dico io che ne è capace. — Che cosa è la donna? Il simbolo della grazia, della bellezza, della bontà, un pezzo di paradiso coperto di lana e cotone, o di velluto misto di cotone (il cotone ci entra sempre). Che cosa è l’uomo? Il simbolo di tutto ciò che è forte, coraggioso, generoso — appaiate un uomo ed una donna, e non vi è più possibile vederli insieme senza pensare che.... senza portarvi coll’immaginazione a.... insomma senza perdere di vista tutto ciò che è paradiso. Vi siete mai provati, camminando alle spalle d’una bella signora coperta di velluto e di pelliccie, a levarle col pensiero la pelliccia ed il velluto, e via via ridurvela, senza che se ne avveda, nello stato della Venere.... di quella Venere.... sapete di quella tal Venere.... insomma mi capite.... È una festa intima di cui non esala nulla al di fuori; i tangheri, che vi passano rasente, che vi urtano i gomiti senza destarvi dal sogno, vi credono un tanghero come loro, mentre siete un Dio, il Dio più audace dell’Olimpo.... Ebbene, se mai quella signora incontra il marito, vi consiglio di svoltare alla prima cantonata.... Felice vede balenare in ogni volto un sorrisino, che non sa come prendere, comincia a temere di non far tutto l’effetto sperato, e s’interrompe: «Insomma, per me il marito è l’essere più brutale che sia al mondo; gli domandate: «Come stai?» vi risponde: «Ho dormito male stanotte, ho patito l’insonnia, non ho fatto che voltarmi sul letto....» Voi pensate.... La moglie pensa che voi pensate.... si fa rossa, finge di non sentire.... Voltate discorso.... eh! sì.... voltatelo pure, fatica perduta, perchè tutte le parole che escono dalla bocca di quell’uomo brutale, di quell’uomo cinico che è il marito, sono altrettante indecenze. Una risata unanime, una di quelle risate solenni, accompagnate da smorfie, da contorcimenti, da tutta la mimica grottesca del buon umore smodato fa ammutolire il disgraziato Felice. Manca una voce al concerto, quella di Corrado. E a lui si rivolge l’oratore per sapere che significhi il riso. — Significa che hai vent’anni, dice Filiberto. — E tu ne hai ventidue! — Ventidue non sono venti; leggi i poeti classici e romantici, ma specialmente romantici; quando vogliono ricordare un’età ingenua, parlano di _vent’anni_, mai di ventidue. — Significa, dice Aniceto, che tu delle camere matrimoniali delle signore coperte di velluto e di pelliccie fai la regola, mentre sono l’eccezione. — Significa, dice Barbara, che il signorino quand’è dinanzi alle belle donne fantastica come un collegiale.... me ne congratulo con lei. — Non ha detto _dinanzi_, osserva Domenico. — Significa, entra a dire Corrado, rispondendo finalmente alla domanda di Felice, e tenendo gli occhi fissi nei fiorami del tappeto, significa che tu comprendi ancora quell’esagerazione di pudore, che di solito si perde a sedici anni e che ai diciotto è diventata un geroglifico... Ora il nascondere gli avanzi della tua delicatezza di senso dietro le apparenze del cinismo fa ridere i tuoi buoni amici, che non sanno piangere. Io no, Felice mio, non rido! — To’, to’! risponde con petulanza Felicino, mi faresti la morale per caso? — Me ne guardi il cielo. — E allora perchè non ridi? — Mi annoio. — E ci annoi! esclama Aniceto. — Me l’immagino, non so che farci. — Lo so io, ora taglio il collo ad una bottiglia.... — Taglia. Aniceto s’alza, afferra una bottiglia e si pianta sulle due gambe in atteggiamento solenne, brandendo un coltello, corrugando la fronte ad un’espressione di ferocia burlesca. — Attenti: uno, due.... tre! Un brivido da burla agita le membra degli spettatori inorriditi: poi succede un tumulto di bicchieri che cozzano, di sciampagna spumante che trabocca sul tappeto, di risa argentine, di motti, di ahi! di ohi!... Le due donne tirano in dietro le vesti, gli uomini si curvano per farsi colmare il bicchiere senza arrischiare i calzoni. Aniceto muove serio serio verso Corrado e gli dice tragicamente: «bevi!» Corrado accetta e beve d’un fiato, poi ripete strascicando le parole: — Mi annoio, sì m’annoio, devo essere stanco della mia ricchezza, sazio di intingoli, di sciampagna, d’amoretti; mi pare che vorrei provare ad essere povero e potervi dire: «Aniceto, Filiberto, Domenico, Felice, prestatemi una lira,» e che mi doveste rispondere: «Amico, domandaci la vita, questa l’abbiamo, non dimandare una lira.» Mi pare che troverei gusto ad essere consigliato da un amico pittore, dal Domenichino per esempio, a tingere di nero le calze perchè non si vedessero le scarpe rotte, ma tanto tanto si vedessero e fossi costretto a meditare melanconicamente, prima d’uscir di casa, sul cuoio degenere dei vitelli contemporanei; credo che vorrei provare ogni tanto a far colazione con castagne secche, come è accaduto a quel romanziere.... Questo vorrei.... mi pare, ed in cambio di tutto ciò.... — Innamorarti sul serio? — No, scrivere anch’io un libro che facesse piangere le donne e gli uomini nervosi. — E poi morire a trent’anni. — Questo pericolo è passato la bagatella di sette anni, nove mesi e diciannove giorni sono. — Giusto, dice Aniceto; se ti annoi perchè non fai un romanzo? — Bravissimo!... soggiunge Filiberto, chi non fa romanzi? — Farli è facile, nota Domenico, scriverli è noioso; mi sono provato, è una seccatura; disegnare il paesaggio o la figura è meglio.... in mancanza di meglio. — Da bravo, scrivi un romanzo, abbiamo tanta pratica del mondo noi altri! Tutto quel che succede a Milano fa capo al circolo.... tutta la filosofia sociale che s’agita nella vita quotidiana, io la vedo venire a galla nel mio bicchiere d’assenzio. Una volta o l’altra mi ci metto io, se non ti ci metti tu; ma è meglio che ti ci metta tu; credi alla mia esperienza: quando un uomo come te si annoia, non ha altro rimedio che far gemere i torchi.... un piccolo capolavoro nella vita non guasta.... — Hai ragione, dice Corrado. E lo dice con tanto impeto, che Aniceto sbalordito domanda: — Ne sei sicuro? — Sì, hai ragione; conosciamo il mondo noi, tocca a noi scrivere i romanzi e le commedie, hai messo il dito sul vivo; prima d’ora ci ho pensato, è tutta sera che ci penso.... — Davvero? — Davvero. E vedete bizzarria: quando Domenichino dormiva, a me, che lo guardavo, è venuto il capriccio di leggergli il suo sogno.... ho sognato per lui ad occhi aperti. Il mio romanzo era a buon punto, Domenichino prometteva di lasciarmi andare alla fine, quando me l’avete svegliato.... allora mi sono destato anch’io. — Sentiamo il sogno del Domenichino. — Sì, il sogno del Domenichino! — Il mio sogno? dice costui con un riso spento, sentiamo il mio sogno! III. Il sogno del Domenichino. Corrado sorride, scuote la bruna capigliatura, poi guarda intorno come titubante, e finalmente pianta gli occhi in volto a Domenico. Costui non batte ciglio, e l’altro incomincia: «Mi stavi dinanzi; la vampa del focolare ti dava sul volto pennellate di rosso e di nero, e tu, impassibile, lasciavi fare; ogni tanto chiudevi un occhio e mi guardavi coll’altro ammiccando, poi li chiudevi tutti e due, poi li riaprivi tutte e due, e di nuovo li chiudevi. Aspettavo. La processione d’ombre che ti passava sulla fronte, scavalcando il naso, ti indicava il cammino; tu voltavi il capo leggiermente a dir di no, lo curvavi sul petto a dir di sì, lo rialzavi con un moto brusco, ed ancora sbarravi gli occhi, ammiccavi, dicevi di no e di sì. Finalmente un sospiro lungo.... Eccoti in viaggio verso la regione dei sogni. Ed io dietro. «Sulle prime stavi dubbioso entro un portico; nevicava, come ora, e poco mancava all’alba. Alle spalle udivi il suono d’una musica gaia, che sembrava richiamarti: «Domenichino! Domenichino!...» Tutti gli amici tuoi erano al veglione della Scala, nelle sale del ridotto; dopo d’aver speso la notte ad indovinare sotto la maschera il segreto dei sorrisi giocondi e degli occhi lucenti, cenavano. Un cocchiere, un cavallo, una carrozza — un solo sgorbio nero nella luce scialba — ti stavano dinanzi; il cocchiere riceveva stoicamente la neve e ti offriva i suoi servigi con un cenno del capo, che tu ti ostinavi a non vedere e che egli s’ostinava a ripetere. Pensavi. Qualche volta accade anche a te di pensare, povero Domenico. — Tira innanzi, non mi compassionare. «Pensavi!... Eri in uno di quei momenti, rari per buona sorte, in cui il veglione ti sembra infinitamente più tetro di una sepoltura; saresti andato non so dove, pur di non rientrare nella platea. Non avevi appetito, eri stanco, assonnato, come ti succede spesso, e (miracolo!) non volevi dormire.... probabilmente perchè dormivi. In quella dormiveglia ti si acuivano i sensi, ti si centuplicavano le sensazioni, e.... non so proprio come, e non lo sai neppur tu.... — No davvero. «Raccoglievi in un fascio solo tutte le fila del tuo passato, tutte le fila del tuo avvenire. Al presente non badavi, perchè il presente era un punto nero nel fondo di neve, un atomo di creta che sognava. Tu hai trentasei anni, povero Domenico; non sei più un giovinetto — io te lo posso dire che ne ho trentasette suonati. Trentasei volumi di vita come la mia e la tua sono lunghi a sfogliarli giorno per giorno, ma tu li sfogliavi con impazienza febbrile in pochi minuti, e quando giungevi al volume bianco, ti coglieva un bizzarro terrore, e un desiderio pazzo di scrivervi qualche cosa che non assomigliasse a nessuna delle pagine precedenti. — È bizzarro il Domenichino, dice Barbara a Fanny.... l’avresti sospettato tu? Fanny appoggia l’indice attraverso le labbra e non risponde. «Fuggivi da quella immagine, vagavi coll’occhio nelle vie deserte, per tornare là donde eri partito; e allora t’ostinavi in quell’idea, la volgevi da tutti i lati, cercando di darti ragione dei terrori segreti che ti ispirava, per combatterli, per vincerli, per dimenticarli, e dimenticare insieme la tua vita, il tuo mondo, te stesso, per adagiarti nel quieto sonnambulismo, che è il fondo bigio della tua esistenza. — Verissimo, dice Aniceto, verissimo; io faccio una mozione d’ordine e propongo di cambiare a Domenico il nomignolo di Domenichino e dargli quello più proprio di «sonnambulo.» Chi approva alzi le mani. — Approvato. — Approvato. — E tu Fanny non approvi? — Approvo tutto quello che volete, a patto che non interrompiate più Corrado. Corrado ripiglia a dire nel generale silenzio: «Vuoi vincere gli stolti terrori, ma eccone uno più stolto che ti piglia alla sprovveduta; ti guardi intorno, vedi la piazza e ti pare una pagina bianca, vedi le vie allungarsi come striscie di carta che attendano le strofe, e dici a te stesso che tutta la tua vita passata era scritta in quei fogli, e guardi paurosamente la neve che a poco a poco va cancellando ogni cosa. Soffri, e quel pensiero ti dà un brivido che il freddo non ti aveva dato; vorresti, ma non sai come fare, vorresti sì, scrivere una pagina a caratteri così profondi, che la neve non potesse cancellarli mai.... e in questa lotta immaginaria contro la fredda, insensibile natura, ti dibatti come in una lotta vera.... intanto è venuta l’alba. — Mancomale! «È venuta l’alba. Alcune frotte di ballerine stanche ti passano rasente, ti lanciano occhiate lampegganti dal fondo del cappuccio e di sotto la maschera, si attaccano al braccio dei loro cavalieri, si sparpagliano, entrano nelle carrozze che aspettano. Poi la pace, rotta un istante dalle voci acute, ritorna. Sei solo, innanzi alla tua bella pagina bianca; non sai chi, ma qualcuno ti ha detto che tu pure devi andartene; ti fai innanzi, ricevi un battufolo di neve sul naso e ve lo lasci; facendoti precedere dal paracqua aperto, come da uno scudo di guerra, sfidi coraggiosamente tu pure la nevicata, che ti s’avventa al volto e ti si attacca alle falde del pastrano. Cammini spedito, cacciando il piede dove la neve è più intatta. Così, in un quarto d’ora lirico, povero poeta mio, sciupi una pagina bianca in cui non sai che cosa scrivere. Poi ti vien suggerita una cosa bizzarra; un’arcana voce ti dice all’orecchio che un’impresa memorabile è quella di rubare l’innamorata ad un amico.... A chi?.... Pensi subito a me.... Grazie. — Dici: «Fanny è bella. Io da una settimana ho il cuore disoccupato. Corrado usurpa una fama d’uomo di belle avventure; se riesco, è un trionfo, o almeno lo diranno, ed è tutt’uno.» E subito, ricordando come Fanny mi avesse chiesto in regalo una treccia di capelli un po’ più neri dei suoi, che aveva visto nelle vetrine del famoso _come si chiama_, ti pare supremamente curioso ed ardito legare al tuo carro la bella con una treccia di capelli un po’ più neri de’ suoi. Sorridi: la gaia idea, entrata colle movenze sfacciate d’un monello, mette lo scompiglio nella turba d’idee nere; affretti il passo. — Fa tu altrettanto. «Eccoti innanzi alla bottega, è chiusa: ma il veglione ti favorisce; l’officina famosa lavora notte e giorno per accontentare gli avventori. Un filo di luce ti si rivela a traverso la toppa. Volti nella cantonata, infili il primo portone.... Un cerbero freddoloso ti domanda chi cerchi. Tu nomini _come si chiama_, e tiri diritto. Non puoi sbagliare.... sei nel vestibolo del tempio. — _Deo gratias_, dice Domenico. — _Deo gratias_, ripetono gli altri in coro. Fanny soltanto tace. «Entri.... due persone, al lume d’una lampada, pettinano capelli inchiodati sopra una testa di legno.... si alzano vedendoti, ti chiedono che vuoi.... non lo sai; la presenza d’una donnina graziosa, che ti mette in volto gli occhi stanchi dalla veglia, ti pone in imbarazzo; fai un cenno all’uomo e vai nella bottega. Il parrucchiere ti raggiunge con un lume, si scusa, fa mille ciancie inutili e sconnesse per debito di professione; gli esponi il fatto tuo con una faccia seria seria. Se anco egli ha voglia di ridere, ha molto più voglia di stringere il negozio. Non ride. Dice solo che l’ora non è la più adatta...., ma che si adatta benissimo.... che bisogna vedere i capelli alla piena luce del giorno, ma che con un lume si vedono egualmente, senza dire, e lo dice, che una volta comprati si cambiano se non accomodano.... la bottega è sempre là, non si muove.... e poi ora toglierà le impannate e ci si vedrà a meraviglia.... «Tu porgi orecchio a quel ronzio, sorridi distratto, pensi alla gioia che prepari a Fanny ed alle gioie che Fanny ti prepara. Due busti di cera ti sorridono dalla vetrina, altri due dalla mensola. «In quella intendi nella retrobottega voci femminili che parlano, una indolente e monotona, rotta l’altra, sommessa e dolce. Poi tacciono le voci, e all’improvviso tu vedi un busto di più affacciarsi alle cortine e l’odi dire con voce alquanto commossa: «Puoi venire un momento?» — Vedi bene che non posso! «Ma il busto non scompare. La muta insistenza mette in pensiero il parrucchiere, il quale ti guarda.... — Fate i vostri comodi, gli dici, aspetterò.» «Sei solo, ti accosti alla vetrina, che tra poco sarà spinta nel vano dell’uscio aperto, a tentare la povera creta femminina che passa alle otto del mattino coi piedi nella neve!.... Quanti misteri là dentro! Attraversando il mondo colla nostra sbadataggine e colla tua sonnolenza per giunta, tu hai diviso le donne in due gran categorie: le brune e le bionde; i capelli castagni ed i rossi per te sono sottoclassi — i bianchi una degenerazione del bulbo capillare. Eccoti capelli color di piombo, verdi, color d’arancio, color di limone.... Dove vivono le donne che li portano? Ci sono treccie lunghissime in vetrina, come non ti è avvenuto mai di vederne scendere sulle spalle d’una bella. Pur qualcuna deve averli portati questi tesori! Ritorni filosofo; tutte quelle chiome annodate o disciolte ti propongono un indovinello melanconico, ti gettano in cuore un senso di mestizia che il continuo riso dei due mozziconi di Venere non basta a diradare; passeggi, tocchi le spazzole, ti guardi nello specchio, contempli le piramidi di saponi, di scatole, di boccette.... pensi a far provvista.... quando, ah!.... che è stato? ascolti, qualcuno piange.... ti avvicini al vano chiuso dalla cortina..... sì, qualcuno piange soffocando i singhiozzi, e due voci parlano sommesse con accento di bontà; non sai resistere, allontani la cortina.... e vedi.... oh! spettacolo che vince ogni bellezza! e vedi..... non vedi nulla, non vedrete nulla, siete tutti indegni di vederlo — Beviamo.» — Protesto, dice Domenichino, non ti è lecito di farmi sognare come ti piace e svegliarmi quando ti accomoda; ho visto uno spettacolo che vince ogni bellezza.... e voglio sapere almeno di che si tratta. Sono nel mio diritto. — È nel suo diritto! — Beviamo, ripete Corrado con un riso singolare. — Impossibile, fa conto d’essere nel deserto di Sahara. — Vogliamo sapere che cosa ha visto Domenichino. — Io lo so che cosa ha visto, dice Fanny con indolenza. Ha visto una bionda. — Non una bionda — dice Corrado con impeto mal celato dall’enfasi beffarda; non una bionda, ma un angelo coi capelli d’oro disciolti. — Siede la bella colla faccia rivolta a te, ma le lagrime le fanno velo agli occhi, non ti vede; la luce bianca del mattino le si affaccia alle spalle, gelosa della lampada che guarda quel portento dall’alto; ed al contrasto delle due luci, i capelli, che quasi toccano terra, mandano i riflessi dell’oro e del fuoco; il visino pallido e gentile mostra le impronte di doglie crudeli ma innocenti; se il dolore è bello, come dicono, quella fanciulla ne è l’immagine viva: la vedi piangere, senti il freddo d’una mano d’acciaio che ti stringe il cuore.... Il parrucchiere è un buon diavolo, sua moglie una buona donna, ma il buon diavolo è prima di tutto un parrucchiere, e la buona donna è sua moglie.... Ascolti: «Credetelo, piccina, dice l’uomo, non vi possiamo dare di più; sono una meraviglia i vostri capelli, sono lunghi, sono abbondanti, sono morbidi, d’un bellissimo biondo, ma venti lire fanno una sommetta.... una sommetta.... ci abbiamo l’afflizione della concorrenza — una volta, non dico... ma ora! — mi direte che tutte oggi comprano treccie finte, ma tutte pure ne vendono, e gli ospedali sono una miniera per certi parrucchieri.... mi direte che il biondo dei vostri capelli è raro e perciò devono valere di più; verissimo, ma è anche più difficile incontrare chi li comperi — parola d’onore: faccio uno sforzo a darvi venti lire — direte.... La meschina non dice nulla, lagrima, e quando il compratore tace, essa balbetta con una vocina straziante: «venti lire!» Tu non puoi reggere oltre a quello spettacolo, il cuore ti dà uno scampanìo inusato, ti mostri e dici: «compero io i capelli della signorina!» Tre esclamazioni ti rispondono; la fanciulla nasconde la faccia fra le mani e piange più forte; tu le vedi solo la fronte imporporata dal rossore — ti senti venir meno, non credevi che una buona azione, la tua prima buona azione, ti dovesse costare tanto eroismo; stai per dire alcune parole generose e senti che nel dirle avrai il tremito nella voce: «Signorina, ripeti, li compero io i suoi capelli, e li pago cento lire.» I due parrucchieri, maschio e femmina, ti guardano sbalorditi; la fanciulla piange sempre più forte; e quando tu apri il portafogli e ne cavi un biglietto da cento lire e glielo cacci fra le dita, senti che piange ancora più forte — ma non rialza il capo. Fai un cenno al parrucchiere, ed egli si avanza colle forbici, ma gliele pigli di mano, e cacci tu stesso le dita in quel fiume d’oro; senti allora che tutta la leggiadra personcina trema; scegli una ciocca, una piccola ciocca, e la recidi rasente la nuca, poi te l’attortigli intorno al dito, e balbetti commosso: «è fatto!» I due spettatori credono venuto il momento di ridere. E tu pensi che vi hanno risate che sono un’opera buona, e che è bello rasciugare le lagrime ridendo. La giovinetta comprende, scopre il bel viso e ti fissa con due occhioni, che hanno il colore e la limpidezza profonda d’un cielo senza nubi. — Provi un risolino, ed avendo preso a balbettare, continui balbettando: «Signorina, i suoi capelli mi appartengono, me li conservi, io non saprei come farli servire meglio.» Un sorriso melanconico getta un baleno di luce nel volto angelico. — Grazie, dice poi la giovinetta con un accento mestissimo, grazie; come si chiama lei? — Le dici il tuo nome e le domandi perchè lo voglia sapere, ed allora, con una voce che ti par l’eco d’un destino inesorabile, essa ti risponde: «la mia mamma morrà stanotte, lo ha detto il medico, non vi è più speranza; io le dirò che quando sia lassù preghi il Signore di compensarla della sua generosità! «Lo senti, sei generoso tu! E te lo dice essa, essa che sacrificava l’orgoglio della sua bellezza per comprare forse l’ultima medicina inutile ad una madre che muore!... Ciò detto, si leva in piedi, si accomoda alla meglio i capelli; tu segui estatico le movenze d’un corpo degno della testolina di fata, e ti stupisci di poter contemplare tanta bellezza senza desiderio. Ma già... sei sbalordito. E quando la fanciulla sta per andarsene, e qualche cosa dentro di te vorrebbe trattenerla, non ti muovi; con un’occhiata, con un sorriso mestissimo, ella ti dice ancora una volta «grazie»; non parla, chè l’ansia le mozza la favella: si muove per andarsene, si ferma titubante, si volta ancora. «Mi chiamo Grazietta....» Ha detto... è scomparsa. «Il parrucchiere ha un volume di ciancie sulla punta della lingua, non gli lasci aprir bocca; mentre eri di là hai esaminato i capelli neri. Sono troppo neri, troppo neri. Ordini un repertorio di pomate, di polveri; dai il tuo indirizzo ed esci all’aperto, col cuore gonfio d’un orgoglio che t’era ignoto; ti senti più giovane, più bello, e stringi fra le dita la ciocca di capelli d’oro che produce l’incantesimo. La neve ti batte sul viso, ti si appiccica al pastrano... non ci badi; scenda pure la neve, essa non può giungere fino al cuore!....» Corrado, che è andato accalorandosi a poco a poco, ammutolisce d’un tratto, e guarda ad uno ad uno i suoi uditori. Per un istante nessuno parla. Aniceto è il primo a dire: «E poi?» — E poi, nulla — me l’avete svegliato, mi sono svegliato anch’io, ci siamo trovati entrambi fra volti, vezzi, bicchieri e giuochi di spirito conosciuti... non è vero Domenico? — Io non ne capisco niente, entra a dire Barbara. — Nemmeno io, dice Domenico. Barbara ha sentito dire che i sonnambuli non ricordano mai quello che hanno sognato. — Sarà vero? — Sarà vero, risponde Domenico; io non lo so, ma non sono un sognatore io, sono un uomo positivo e non faccio nulla se non ci ho le mie ragioni, nemmeno dei sogni; quando non ho altro da fare, dormo, ma non sogno. Questa volta però ho sognato, e mi ricordo benissimo di che. — Di che? — Di che? — Ho sognato che non potevo cavarmi una scarpa troppo stretta; tra me ed il mio servitore sudavamo a goccioloni, senza riuscirvi. E la causa di questo brutto sogno (perchè ci ho sempre una causa quando sogno) era che il mio piede serviva di sgabello al piede di Corrado, il quale non si accorgeva dell’equivoco. La spiegazione pare a tutti trionfante. — Dunque? domanda Barbara, che ora capisce un po’ meno di prima. — Dunque, il romanzetto, Corrado se l’è fabbricato tutto lui. — Allora sentiamo la fine. — Sì, la fine, vogliamo la fine. — La fine, dice Corrado con un riso nervoso, la fine? Siate voi altri i miei collaboratori; togliete un novelliere dall’imbarazzo.... A te, Aniceto... di’ su... la fine? — Per me è chiara come il sole, dice Aniceto, tu rimandi il protagonista alla bottega del parrucchiere per pagare il conto dei saponi e delle boccette; il parrucchiere, che è un parrucchiere, non aspetta nemmeno che il suo generoso avventore apra la bocca per interrogare come ne ha voglia, e si cava addirittura la voglia che egli ha di rispondere: è venuto a sapere sotto quali tegole abita Grazietta, e quanti gradini più di cento separano quel miracolo biondo dalla folla bruna e nera; la mamma è guarita — per virtù dell’ultima medicina; Grazietta è riconoscente in grado superlativo assoluto. Consacri un capitolo ad un altro incontro — è impossibile farne di meno — e il tuo protagonista si persuade sempre più che i capelli neri, castani, rossi, color di piombo e di limone e d’altro, sono tutti degenerazioni del bulbo capillare, come i bianchi; che i soli capelli tollerabili sono i biondi, che Eva era bionda, che il biondo più vago di tutti i biondi ha i riflessi misti dell’oro e del fuoco, e che capelli di quel colore e con quei riflessi non ce n’è al mondo se non sulla testina della sua fata. Una volta che tu me l’abbia fatto ben convinto di questo, vedrai che nessun lettore troverà a ridire se invece della catastrofe metti il matrimonio. — Bravo! esclama Fanny. — A te Filiberto, ripete Corrado collo stesso riso nervoso; la fine?... — A me non piacciono i romanzi che lasciano indovinare la fine; quello di Aniceto è inesorabile come il destino nella sua verosimiglianza: se fossi in te, farei qualche cosa di nuovo, per esempio che il parrucchiere tradisse la vezzosa donnina dagli occhi stanchi dalla veglia, s’innamorasse di Grazietta, e ne assediasse la virtù in regola colle sue ciancie, trascurando le parrucche e gli avventori. La gelosia del nobile e ricco protagonista darebbe luogo ad un contrasto di tinte comiche e feroci... un duello col rasoio per esempio sarebbe di molto effetto.... La tela di Filiberto non piace a nessuno e glielo dicono tutti; egli dichiara che non gliene importa un fico. — A te Felice, la fine? — Ecco, io sto con Aniceto fino alla catastrofe matrimoniale, e giunto lì mi fermo, perchè non voglio catastrofi. — Dà retta a me: la mamma lasciala morire, non ci si guadagna nulla a tenerla in vita, è un impaccio e nulla più; fai offrire alla fata quattro belle stanze ammobigliate, una scrittura lunga, magari un vitalizio se resiste; il tuo protagonista farà servire la bionda per far disperare le brune e pigliarle col dispetto. Vedrai che non avrà più paura della neve. Pensaci.... — Ci penserò, risponde Corrado con accento lievemente beffardo, ci penserò, fanciullo mio. Poi si fa un istante di silenzio. Battono le ore ad un orologio lontano, un altro più vicino le ripete; è tardi, sono le due. — La festa di San Corrado è passata, dice Aniceto, abbiamo rubato due ore a San..., che Santo è domani, cioè oggi?... nessuno lo sa? non monta, abbiamo rubato due ore al Santo che viene dopo, ho sonno — ce ne andiamo? — Andiamcene. — Addio, Corrado. — Addio. Escono tutti, Fanny soltanto rimane; ha lo sciallo sul braccio e dondola il cappellino tenendolo pei nastri; si accosta a Corrado, il quale, seduto accanto al fuoco, le volge le spalle. — Me ne vado... dice con voce sommessa dopo un istante di silenzio. — Te ne vai? domanda Corrado senza voltarsi. Fanny indugia a rispondere. — Devo rimanere? — Fa come vuoi. — Addio, dunque. Corrado si volge e guarda un istante quella donna fatua e leggiadra, che per la prima volta trova un accento melanconico. «Avevi il cuore buono, dice come parlando a sè stesso, meritavi d’essere amata — ma chi di noi può amarti? — Vado con Domenico. Corrado vede spuntar due lagrime sugli occhi nerissimi della bella, le piglia le manine che l’ozio ha lasciate candide ed eleganti, poi la bacia in volto con trasporto, l’abbandona e si lascia ricadere sulla seggiola. — Grazie, balbetta Fanny. E non esce, fugge. In anticamera trova Aniceto e gli altri, che l’aspettano, — si attacca al braccio di Domenico, ridendo. — Povero Corrado! dice per le scale; aveva indovinato che tu mi facevi la corte e che io me la lasciavo fare... però ci siamo separati da buoni amici... Era un pezzo che gli volevo bene... due mesi credo, no, cinque settimane, anzi più... dal giorno del... non mi ricordo. — E a me fino a qual giorno vorrai bene? — A te?... sempre! IV. Un mazzolino di viole nel buio. Corrado fissò nelle vetrate nere gli occhi spalancati, e mentre una parte di lui accompagnava i passi di Fanny, e stava ad ascoltare se mai dalla via deserta gli giungesse ancora una voce dell’allegra brigata, l’altra parte di sè stava muta, fredda, indifferente, come immemore od inconscia della vita. Una carrozza rotolò nella neve, proprio sotto alle finestre, si tenne pochi istanti ferma, e di nuovo si mosse; il sordo rumore s’allontanò, si spense... succedette il silenzio profondo — e Corrado continuava a seguire con sguardi intenti i fiocchi di neve che, passando dietro le vetrate, alla viva luce della camera si tingevano un istante di riflessi rossigni e sprofondavano nel buio. La porta, da cui poc’anzi era uscita la comitiva ciarliera, girò sui cardini senza rumore; apparve una testa canuta, in cima ad un corpicciolo mingherlino. Corrado non si mosse, non profferì parola, non staccò gli occhi dai vetri. Allora la testa canuta parve barcollare sulla sua base, il corpicciolo sembrò volersi fare più piccino per non recar disturbo, e la porta, che non era chiusa intieramente, si riaprì. «Antonio... disse Corrado, senza voltarsi. — Scusi.... — Spegni i lumi. E siccome il servitore esitava, ripetè con voce raddolcita: «Spegni i lumi, Antonio. — Tutti? — Tutti. Il vecchio non disse più nulla, prese dalla credenza un lumicino che accese ad una fiamma di gas, allungando il braccio, poi salì sopra uno sgabello. L’idra ritrasse ad una ad una le sue cinque lingue, divenne mutola. Antonio scese, raccolse da terra non so che, pose le mani qua, là, cercando un pretesto per non andarsene alla muta, tre volte guardò verso il suo padrone, ed altrettante aprì la bocca per sprigionare un sospiro discreto, ed altrettante tentennò il capo, e finalmente mosse un passo incerto... un altro... eccolo presso all’uscio. — Antonio, disse Corrado. Il servitore accorse frettoloso. — Povero Antonio! Un breve silenzio. — Perchè non sei andato a dormire? Te l’ho pur raccomandato di non star su. — Non avevo sonno. — Al solito, e Proto invece dormiva in piedi... al solito. — Non ce n’ha colpa, è tanto giovane!.... — E tu l’hai mandato a letto? — Si dorme male sulle sedie.... — L’hai provato? Il vecchio arrossì lievemente senza rispondere. — Va a letto, povero Antonio, soggiunse Corrado. — Il signor conte non ci va? — Ci andrò a momenti. — E vuol rimanere qui... all’oscuro? — Sì. Antonio non ribattè parola, ma curvandosi dinanzi al caminetto, ai piedi del suo padrone, prese ad accomodare i tizzoni colle molle e ad aggiungere legna. Non fu pago se non quando vide una fiammata. Allora disse: — La fa allegria! Stette un istante irresoluto, e si battè la fronte come a punirla di una imperdonabile smemorataggine: «Ah! il mazzolino! disse, ed uscì frettoloso per ritornare subito dopo. Corrado non s’era mosso, guardava sempre la fiamma. Lungamente Antonio fece girare fra le dita un mazzolino di viole, aspettando che gli fosse fatta una domanda; alla fine pigliò una determinazione eroica, depose il mazzolino sulla caminiera dicendo: «Non si sa chi lo abbia mandato. Il giovane rialzò la testa bruna, accarezzata dai riflessi della fiamma, guardò sbadatamente i fiori, e ponendo nell’accento una dolcezza maggiore dell’usato, disse: «Grazie! — Di che? Non è mio quel mazzolino. Certo... se ci avessi pensato... se avessi creduto di farle piacere... ma che vale? Non ci ho pensato. Alla mia età non si crede neppure che d’inverno vi siano fiori. — E chi dunque li ha mandati? — Non si sa. Il vecchio pronunziò le parole quanto più misteriosamente gli fu possibile, e alle parole aggiunse un atto misteriosissimo, che doveva suscitare un febbrone di curiosità a dir poco. Ma il disgraziato Corrado non badò all’accento, non vide l’atto, e chinò di nuovo la testa sul petto. Poco dopo, si scosse e ripetè: — Va a dormire, Antonio. — Vado.... Vado.... Non andava. — Porta via il lume. Il vecchio volle provare a resistere, radunò tutte le sue forze per disobbedire, ma non ci fu verso; gli bisognava andarsene, lasciare il padrone solo, all’oscuro, nella pessima compagnia di quattro tizzoni, capaci di mettergli in capo Dio sa che.... Sospirò forte, disse sotto voce che padrone e tiranno sono sinonimi, fece un passo verso l’uscio, ne fece un altro, altri due, e se ne andò portando via il lume. Corrado, rimasto solo, rovesciò il corpo sulla poltroncina, curvò il capo sul petto e fissò gli occhi nel focolare. Fra le strette di quattro tizzoni, una gran fiamma irrequieta si dibatteva, lamentandosi, senza potersi sprigionare; si faceva piccina per accarezzare le braccia nere che la trattenevano; poi irrompeva con uno splendore di rivolta, e di nuovo si contorceva, si ripiegava gemendo, tacendo, sprizzando scintille — piccoli fulmini di collera — invano; i quattro tizzoni, che parevano sbadati, all’improvviso aprivano un occhio, due, tre, dieci occhi, piegavano un istante per ripigliare una positura più salda. Corrado seguiva le vicende della lotta, chiudendo tutto sè stesso in quel picciolo vano, incapace di staccarsene un istante per vagare nel buio che non ha confini, trasognato, senza pensiero, senza desiderio, senza ansia, come uno spettatore indifferente, come un ebbro di noia, il quale barcolli solo perchè dimentico dell’equilibrio. Forse alcuna cosa dentro di lui lottava, come la fiamma, contro braccia invincibili; forse quel focolare gliene raffigurava un altro in cui ardeva una parte di sè stesso... forse — non ne aveva coscienza. A certi guizzi della fiamma, correva per la volta bigia un tremolio d’ombre; bagliori di luce si avventavano nel buio dell’ampia camera, e sulle pareti, ora qua, ora là, s’affacciava un amorino. Corrado non aveva occhi per la scena fantastica; continuava a stare immobile, col mento appoggiato sul petto e l’occhio fisso nella fiamma. A poco a poco, una sensazione quasi impercettibile lo tolse a quella specie di dimenticanza di sè medesimo; e allora nell’infinito vuoto, nel buio infinito della sua mente, si fece strada qualche cosa che assomigliava ad un pensiero. Una voce domandò dentro di lui: «Che è questo? E un’altra dentro di lui rispose: «È un profumo di viole, è un profumo venuto da lontano. Corrado si sollevò sulla poltroncina, allungò una mano e trovò tentoni sulla caminiera il mazzolino di viole, lo guardò un istante alla luce della fiamma, poi spenzolò il braccio a terra, così che le viole parvero aggiunte ai fiorami del tappeto. E la stessa voce di prima si arrischiò a domandare: «E chi mai ha pensato a te? quale delle tante, che ti hanno portato via un brandello del cuore e due mesi della vita, si ricorda ancora del tuo Santo? L’Angelica no certo, la Candida nemmeno, e nemmeno la Bice.... Le altre sono troppo remote.... Ah! forse Nina, la fantastica Nina; essa sola può andar soggetta a tenerezze postume.... oppure.... ma già l’Angelica no certo, la Candida nemmeno, e nemmeno la Bice.... Un brontolio prolungato della fiamma fece ammutolire quella ciarliera, poi un’altra voce spropositò timidamente: «povera Fanny!» — Che cosa ci entra ora Fanny? sta zitta.... non può esser stata che la Nina. Te la rammenti, la Nina? Era bella la Nina!... Ti ricordi di quel giorno?... di quell’altro?... e quella volta.... e quell’altra?... Povera Nina!... La Candida, che te la fece dimenticare, non valeva quanto lei, ma era un’_altra_. Ah! le _altre_, Corrado, _le altre_!... Un mazzolino di viole.... quest’anno sono i soli fiori che tu abbia ricevuto! Hai delle amiche, quest’anno, che ridono dei fiori come i tuoi amici. Fanny sola ama i fiori.... Se te ne fossi innamorato un mese più tardi, ella te l’avrebbe mandato il suo mazzolino. L’hai amata troppo presto! Il tuo Santo non ha potuto anticipare.... e ci hai perduto un mazzolino.... Ma insomma, a chi può essere venuta l’idea delle viole? alla Candida no certo, all’Angelica nemmeno e nemmeno alla Bice.» Corrado, che udiva quel chiacchierio senza ascoltarlo, levò lentamente il braccio e tenne un istante il mazzolino dinanzi al focolare; le viole si staccavano nere nere dal fondo di fiamma. Ma d’improvviso rotolò un tizzo e balenò una luce più viva; fu per tutta la stanza una lunga processione di ombre; a quel bagliore, Corrado vide fra le dita un luccichio a cui non aveva posto mente; strappò ad una ad una le viole del mazzolino, e dai gambi recisi sciolse, come istupidito, una lunga ciocca di capelli biondi. Un lampo, balenandogli negli occhi, gli accese il volto spento; volle guardar meglio, ma proprio in quella un altro ceppo rotolò dagli alari, e la fiamma, non più trattenuta che da due braccia impotenti, si sprigionò con un guizzo e fuggì via. L’istinto fu più ratto del pensiero. Corrado aveva appena tirato il cordone del campanello, che già era pentito; e ad Antonio, il quale entrò recando un lume: — Non sei andato a letto? chiese impacciato. — Ci andavo ora — balbettò il vecchio, e non sapendo che altro dire, guardava tutt’intorno. — Ieri hanno portato un mazzolino.... — Sissignore, un mazzolino di viole.... dove è andato?... l’avevo messo sulla caminiera, e.... Ammutolì, vedendo a terra le viole strappate dai gambi. — E chi l’ha portato quel mazzolino? — Non so, fu consegnato al portinaio. — Da chi? — Da chi? è vero, bisognava chiedere da chi; chiederò stamane. — Non chiederai nulla. — Non chiederò nulla. — E andrai a dormire subito, povero Antonio, non voglio che tu mi venga ammalato. — Anche lei.... — Io no, non ho sonno. — E che significa il non aver sonno alla sua età? Lei ha qualche cosa. — Sì, ho qualche cosa... qualche cosa che non ho mai avuto... ma non ho sonno, e tu non puoi tenere gli occhi aperti; va a letto, povero Antonio! Il povero Antonio radunò, come era solito fare, tutte le sue forze per provarsi ancora a disobbedire, riattizzò il fuoco nel caminetto, mandò in giro per la stanza certe occhiate ribelli e se ne andò ripetendo fra i denti «che non c’è rimedio, che deve essere così, che è sempre stato e sarà sempre così... cioè che tiranno e padrone sono sinonimi.» Corrado, rimasto solo, raccolse ad una ad una le viole recise, e stette a guardarle alla luce della fiamma, finchè l’alba si affacciò alle vetrate. V. Qui il tiranno è costretto a far colazione. Il sonno, che Corrado aveva respinto come un importuno, lo prese a tradimento, e quando dopo il mezzodì un sole allegro infilò un raggio fra i nugoli e lo spinse sui tetti a scherzare colla neve intatta e coi diacciuoli delle gronde, la festa di luce, che rianimava l’ampia camera, non bastò a far schiudere le palpebre al dormente. Ci volle proprio che il vecchio servitore entrasse sulla punta dei piedi, e chiudesse le imposte nè troppo nè poco, e se n’andasse facendo il possibile per sopprimere il proprio peso specifico: ci volle tutto questo perchè Corrado si dibattesse sulla poltroncina come un ribelle. Antonio, il quale stava afferrando la maniglia dell’uscio colle arti d’un borsaiuolo, colto sull’atto, si fermò di botto, trattenne il respiro... invano... dalla poltroncina sepolta nell’ombra partì un oh! che gli mise i brividi. Ahi! povero Antonio! è proprio vero: i padroni fanno come vogliono, padrone e tiranno sono sinonimi.... anche quando dormono! Corrado si scosse, allungò le braccia al soffitto con un atto energico, sprigionò uno sbadiglio sonoro e balzò in piedi. «Buon segno» pensò il servitore, e un po’ di mala voglia mosse verso la finestra per lasciar entrare il sole. Ma una domanda lo trattenne a mezza via: — Quante ore sono? — È presto; il mezzodì è suonato da poco.... il suo letto è ancora caldo. — E tu hai dormito, Antonio? — Sissignore.... ma lei.... — Ho dormito anch’io. — Male.... — T’inganni. — Non dico di no. Devo aprir le finestre? — Apri. Entrò il sole. — Che festa! disse Corrado, che festa, Antonio! — Sissignore. — Senti; dirai a Proto che prepari i rasoi, mi raderà. — Or ora? — Or ora. — Sissignore. E Antonio si tenne impettito, dandosi l’aria di una vittima che sopporti nobilmente la sua sciagura. — A letto non ci va proprio? domandò facendosi un gran coraggio. — No, vecchio mio, non ci vado, non ho sonno. «Vecchio mio» era un appellativo irresistibile; vano il tentare di ribellarvisi. Il disgraziato sentiva un tuffo inesplicabile dentro di sè, come se il cuore affogasse in un’onda di tenerezza; gli veniva una gran voglia di scavalcare il decoro, il rispetto, le convenienze, il resto e di tirarsi fra le braccia il suo padrone legittimo, il figlio legittimo del suo generale; ma in buon punto ricordava il suo grado di caporale, gli pareva d’aver ancora i galloni cuciti alle braccia e le braccia cucite ai fianchi.... s’impalava duro più del solito. Corrado prese a misurare la camera a gran passi, ed Antonio, stando fermo nel mezzo, mandava lo sguardo su e giù per accompagnarlo. All’improvviso, il giovane s’arrestò, stette un istante in pensiero, e via per l’uscio socchiuso. Il vecchio dietro.... Aveva fiutato un pericolo. Un quarto d’ora dopo, il padrone stava per indossare il pastrano, quando il servitore entrò e disse colla solennità d’un trionfatore modesto: — La colazione è pronta. Corrado guardò la faccia seria del vecchio, ebbe pietà della sua canizie e si arrese. — Vecchio mio, è impossibile fartela!... Berrò un brodo. Buttò sopra una seggiola il pastrano e venne nella sala da pranzo, dove la mensa era imbandita. Proto, un giovinetto smilzo e dinoccolato, con un sorriso perpetuo fra le grosse labbra, entrava portando una zuppierina fumante. Ma la vittoria del vecchio servitore non potè vantare trofei di sorta, oltre una ciotola di brodo caldo; bevuta la quale, Corrado si levò di tavola ed andò difilato nelle sue camere. Il vecchio dietro. — I rasoi sono pronti, disse. — Non mi faccio radere.... ho fretta.... via non farmi il broncio, sono di buon umore stamane.... te ne sei accorto? — Sissignore. — Non sai dirmi altro? Hai torto. — Sissignore. Già Corrado aveva infilato il pastrano e stava per uscire; entrò Proto coi rasoi e coll’acqua calda. — Non serve, gridò Antonio, e siccome l’altro voltava le spalle per andarsene, lo richiamò. — Non vedi che il signore esce? Proto sbarrò tanto d’occhi, stette coscienziosamente a guardare il padrone, brandendo la cogoma d’acqua calda che gli fumava sotto il naso. Quello spettacolo, quel fumo, quel tepore e la solennità del servitore canuto, il quale passando gli avventava un piccolo fulmine collo sguardo, sembravano dare un bagliore insolito alla perenne luminaria della sua faccia. Quando Corrado se ne fu andato, Antonio tornò frettoloso verso Proto, il quale gli mandò incontro il suo più amabile sorriso. — Proto, disse il vecchio sollevando una mano con solennità, Proto son io che te lo dico, tu non farai mai nulla di buono; tu metti il piede in fallo dal principio della tua carriera; tu parti col piede destro invece che col piede sinistro; pensaci bene. Proto sorrideva sempre. — Pensaci bene e cambia mestiere; a fare il servitore non ci hai vocazione; se non hai un po’ di soldato nel sangue, sei un servitore da _riformare_; se, vedendo da lontano il tuo padrone, non senti dentro di te qualche cosa, come la voce del caporale, che ti grida _guard’avoi_, sei un servitore che si mangia la pagnotta a tradimento. Proto si provò a protestare tra il serio ed il faceto, ma il vecchio lo fece ammutolire con queste parole memorande: — Proto, tu sei nato per fare il milionario. Dopo di che, gli volse le spalle in atto di suprema commiserazione. VI. _Come si chiama_ nell’esercizio delle proprie funzioni. Camminava spedito, colla fronte alta, accompagnato da uno stormo di pensieri alati, che gli facevano intorno un turbinio di festa. Se un solo istante fermava la mente in un’idea, se ne affacciavano dieci, e dietro a quelle altre dieci, altre cento; allora scrollava la testa per gettarvi uno scompiglio delizioso, per stordirsi, per dimenticarsi, udiva dietro di sè mille vocette tentatrici che lo chiamavano a nome: «Corrado! Corrado!» — ma faceva il sordo e camminava spedito, colla fronte alta, gigante in mezzo alla folla nana. Nel tumulto del suo cuore era entrato un sentimento generoso, che consigliava la pace. Quale? Ancora egli stesso non lo sapeva comprendere, ma se lo sentiva giganteggiare ad ogni istante. Era certo un sentimento, che non assomigliava agli altri, che nulla aveva del passato; non febbre di senso, non spasimo di noia e nemmeno amoroso delirio; nulla era ed era tutto. Ogni tanto, gettava uno sguardo sulla folla nana e qualcuno gli diceva: «non bisogna perder tempo; si tratta di fare il bene.» Quando fu presso alla bottega del parrucchiere famoso, rallentò la foga, cercando di rivestire la spigliatezza d’ogni giorno, e passò dinanzi alla nota vetrina senza degnare d’uno sguardo i capelli appesi in fila secondo una savia gradazione di tinte. Duro, impettito, si trattenne un momento sulla soglia fingendo di guardare o guardando davvero una bella ragazza che passava, poi spinse l’uscio vetrato e barattò un «buon giorno» che non valeva un quattrino col «buon giorno» di prima qualità del parrucchiere venutogli incontro sorridente. Si spogliò del pastrano, che buttò sulle braccia di non so chi, e sedette in una poltrona dinanzi allo specchio. Alla muta, con una solennità sacerdotale, il famoso _Come si chiama_ in persona spruzzò sulle mani e sulla faccia del suo avventore un’essenza odorosa, poi gli cacciò sotto il mento un panno di bucato e disse: — La barba? — La barba. Quel laconismo era bugiardo, come al solito, perchè si leggeva in faccia a tutti e due la voglia d’appiccare discorso. Dopo un istante di silenzio, il barbiere pigliò delicatamente per il naso il suo muto interlocutore e gli fece notare che non bisognava fidarsi a quel raggio di sole, e che il tempo pessimo minacciava di durare. Pagato questo tributo alla metereologia, ogni conversazione fra due galantuomini si può dire avviata. «Sissignori, il tempo pessimo minaccia di prolungarsi, è caduta tanta neve sugli Apennini, che il corriere è in ritardo — e si è curiosi di leggere la discussione della Camera sulla questione religiosa. — _Come si chiama_, liberale fino all’eresia, fa la sua professione di fede. — Oh! la questione religiosa, non ci è che Bismark che la intenda come va; che ometto Bismark! Ma guai a fidarcisi.... Sta per l’alleanza italo-germanica il signor Corrado? Ah! voleva ben dire! l’alleanza italo-tedesca, ci inimicherà la Francia. Parlategli d’un patto fra le razze latine a _Come si chiama_ e vi intenderete; il suo giornale dice questo e dice quest’altro; ha ragione fin qui, al di là ha torto.... La Francia è la nostra amica migliore ed ha ancora un grande avvenire; la Francia è la regina del buon gusto e della moda — essa è che ci manda la _tournure_ e lo _chignon_ — che farebbero i parrucchieri senza la Francia?... Che farebbero? dica lei signor Corrado.» Il signor Corrado, il quale non sapeva come mettere il piede in quel territorio, fu felice d’esservi arrivato quando meno se l’aspettava, e convenne di buon grado che minacciare lo _chignon_ era tutt’uno come minacciare l’avvenire dei parrucchieri d’Italia e del mondo. Ma chi lo minacciava? una moda tanto comoda! — E pure ogni tanto ci si fa la burletta d’annunziare che la famosa principessa _Ipsilonne_ o la duchessa _Ighisse_ si sono messe a far la guerra ai capelli finti; per fortuna, la maggioranza è calva! Corrado zitto; teneva gli occhi fissi nella vetrina, e l’altro pronto: «Veda un po’, la mia vetrina è delle meglio fornite; la può cercare in tutta Milano senza trovar la compagna — abbiamo le tinte più rare, andiamo dal nero carbone al bianco di neve, passando per tutte le gradazioni del castano (che è una degenerazione del nero), del rosso (che deriva dal castano), del biondo (che è una degenerazione del rosso)... Corrado lo fermò: non gli pareva che il biondo fosse una degenerazione. _Come si chiama_ non la pretendeva a scienziato, anzi svelò al signor Corrado ch’egli era un ignorante... «questione d’opinioni; del resto si sa, vi sono dei biondi... dei biondi....» Corrado aveva un giornale a tiro ed allungò la mano per pigliarlo. «Ma non è questo che voleva dire _Come si chiama_» — e Corrado lasciò il giornale dov’era. _Come si chiama_ voleva dire come qualmente la propria vetrina, che era la vetrina dell’abbondanza per tutti, per lui solo rappresentasse la carestia dell’_articolo_ — «E quante fatiche a trovar capelli che valgano la spesa di poche lire! Dalla massima parte delle teste femminine non si saprebbe proprio che cosa tagliare; non hanno il tanto da dare due colpi di forbice... Ma sa come è raro il caso che si presenti una giovinetta con una capigliatura....?» Corrado aveva ripreso il giornale, e _Come si chiama_, temendo d’essere indiscreto, pregò il suo avventore d’alzare la testa per lasciarsi radere la barba sotto il collo. «Ecco fatto.» «To’! il sole è scomparso! Lo dicevo io? il brutto tempo non è finito.» Non è finito — e il monologo del parrucchiere, appena interrotto o ravviato ogni tanto dall’avventore, ricomincia con nuova foga durante il lavorìo dei pettini e delle spazzole; ci passano mille cose: il veglione d’ieri, il carnevalone ed il suo comitato, i coriandoli, le orgie, e per amore di antitesi le miserie di tanta povera gente, che soffre, che ha molto freddo e poco pane e niente companatico.... Se il signor Corrado sapesse! ne capitano di quelle! ma già anche il signor Corrado sa.... Corrado credette giunta l’ora di pigliare una determinazione eroica; afferrò una terza volta il giornale, ed alla sbadataggine dell’atto unì l’indifferenza dell’accento per dire: «Ah! mi viene in mente! Che ne è stato di quella signorina? — Della signorina Grazietta? della bionda, di quella bionda? si affrettò a dire il parrucchiere per parare ogni possibile equivoco. — Appunto. Le era poi morta la madre? — Sissignore.... il giorno successivo.... a quel giorno, cioè a quel mattino. _Come si chiama_ smozzicava la frase, trascinava le parole, evidentemente non pensava a quel che diceva. — Ed è.....? ed è?.... Ci era nel giornale qualche cosa di molto attraente, che venne proprio allora sotto gli occhi di Corrado, il quale parve distrarsi. Finalmente rialzò il capo e ripetè: «Ed è....? ed è rimasta sola quella povera ragazza? _Come si chiama_ non sapeva nulla. — E chi sa come vive? Chi lo sa? _Come si chiama_ no certo. — Sarebbe un peccato che la miseria portasse quel tributo al vizio. Sicuro che sarebbe un peccato. Insomma, il parrucchiere, oltre che non era informato di nulla, stentava a cavarsi di bocca le parole. Finalmente, Corrado interrogò: «Dove è andata a stare la signorina Grazietta? — Non gliel’ho chiesto. — L’avete vista?.... — Sì.... ma lei non l’ha più vista? — Io no. — È curioso! — Che c’è di curioso? — Ci è che ieri la signorina Grazietta è venuta in bottega a chiedere dove stava lei, e mi sono stupito che non lo sapesse già, e mi stupisco.... — Non sapete nemmeno dove stava prima che morisse la mamma? — Nemmeno. Dopo questa parola, Corrado cominciò a trovare che il via vai dei pettini sulla sua testa si prolungava troppo, accettò per degnazione un po’ di pomata, non volle cosmetico ai baffi; la poltroncina di velluto gli pareva divenuta uno strumento di tortura. Il parrucchiere, dopo aver risposto a tante interrogazioni, avrebbe avuto caro di farne un paio alla sua volta. Non ci fu verso, e checchè gli costasse, dovette pur dirla la frase sacramentale: «Il signore è servito.» Il sole era scomparso, e anche la gioia di Corrado; ritto sulla cantonata, egli guardava di qua e di là, senza pensiero; poi fissava l’occhio nel cielo bigio, dove a poco a poco sfumavano i contorni d’una cara visione. VII. Morti del giorno 9.... Quando si staccò come a malincuore da quella cantonata, che parevagli avesse serbato qualche cosa del biondo fantasma, pensava: «Come presentarmi a lei? che cosa dirle?» E cercava pretesti, scuse, come se l’incontro fosse imminente. Poi si ravvedeva, guardava al cielo bigio, alla folla affaccendata. Quanta gente! Si fermava a contemplare le finestre di una casupola lungo il naviglio e diceva: «Forse è là! forse pochi passi mi separano da lei; doveva stare da queste parti.» E pensava che il caso, dopo averlo tormentato, gliela mostrerebbe all’improvviso alla svolta d’una via: allora spingeva l’occhio innanzi, e vedendo lontanamente una figura femminile vestita a bruno, il cuore gli batteva. Perchè gli batteva il cuore? Giunse così a casa sua, salì le scale, entrò nel salotto, girò intorno uno sguardo sbadato, come si fa quando fra gli oggetti noti d’una stanza si cerca un suggeritore. Il suggeritore fu l’ultimo numero del giornale a cui era associato. «Antonio! chiamò. E pensando che la sua voce non poteva essere udita, suonò il campanello. Il servitore apparve. — Dove metti i giornali quando li ho letti? Dicendo: «dove metti?» gli pareva di escludere la possibilità della distruzione. — Li metto, rispose Antonio, uno sull’altro, in un fascio, e alla fine dell’anno.... — Bravo! bravissimo! trovami i numeri dal 10 al 15 gennaio e dico che sei la perla dei servitori. Per così poca cosa il compenso era tanto generoso, che Antonio volle almeno meritarsene una parte colla prontezza; un minuto dopo, egli tornava coi sei giornali domandati a riscuotere il prezzo esorbitante, che non gli fu pagato. Corrado parve misurare cogli occhi le ultime colonne del primo giornale, che buttò via e che Antonio raccolse; ne prese un altro, misurò e lesse: «Morti del giorno 9 — a domicilio.... Tomaso.... niente.... Giovanni, niente.... Lina Dolci, 30 anni — troppo giovane, Arturo.... pensionato.... Sofia.... 68 anni — troppo vecchia — Valeria Nobili, agiata, 38 anni, via de’ Fiori Chiari, N. 8. Si lasciò cadere di mano gli altri giornali, che Antonio raccolse scrupolosamente. — È lei! ripeteva il padrone, non vi è dubbio, è lei! la via dei Fiori Chiari non è molto vicina al parrucchiere, ma questo non fa nulla... anzi, to’, è naturale che abbia voluto andare in una bottega in cui non fosse conosciuta... e poi non ci sono parrucchieri di gran lusso vicino alla via dei Fiori Chiari... Non è vero? — Verissimo, rispose il servitore non comprendendo nulla. — Valeria Nobili, agiata, 38 anni, via dei Fiori Chiari N. 8, ripetè Corrado, e lasciò cadere anche quel giornale. Antonio raccolse anche quello ed annunziò che andava a rimetterli tutti a posto. Vedendo il suo padrone camminar su e giù per la camera senza badargli, invece di uscire, stette immobile come fa chi voglia spiegare un indovinello, pensando a mille cose ed arrischiando ogni tanto un’occhiatina indagatrice. «A me non sta bene l’andarci, diceva Corrado parlando a sè stesso; no, non sta bene, dovrei interrogare il portinaio, destar sospetti, dar luogo a maldicenze; e poi che fare se mi dicesse laconicamente: «la scala a dritta, 3º piano, uscio in faccia?» Non ci potrei andare così alla libera; no, a me non sta bene. Ci andrai tu, vecchio mio, soggiunse rivolgendosi al servitore. — Sissignore. — Sai dove? — Sissignore.... Via dei Fiori Chiari.... numero.... Così dicendo riaprì il giornale. «Valeria Nobili, d’anni 38, agiata, via Fiori Chiari, N. 8; Felicita Garulli, d’anni 42, agiata, via del Conservatorio, numero 10.... — Che dici? — È scritto qui.... «Ermenegildo Luvini.... Corrado gli venne dietro l’omero e lesse: «Felicita Garulli — è vero — Ermenegildo.... Sempronio.... Caterina, d’anni 96 — Minori di 7 anni: 3 — manco male, è finito. E stette un momento in pensiero. Antonio entrò a dire: «Andrò in via Fiori Chiari, N. 8. — Ed anche in via del Conservatorio, N. 10. — Agli antipodi. — Farai attaccare i cavalli. — Sissignore. — Domanderai al portinaio in via Fiori Chiari, se sta colà la signora Valeria Nobili; in via del Conservatorio t’informerai della signora Felicita Garulli. — Sissignore, e mi diranno che sono morte. — Appunto, e tu dirai che _i tuoi padroni_, nota bene _i tuoi padroni_, hanno bisogno di conoscere gli eredi, e domanderai se le poverette hanno lasciato figli; hai capito? — Sissignore. — Una delle due ha lasciato una figlia; chiederai dove sta, che fa, com’è, dove si può vederla. — E poi? — Poi null’altro; torni ad informarmi del tutto. — Sissignore. — Ci vai subito, non è vero? — Sissignore. Non si muoveva. — La figliuola c’è proprio? domandò. — Lo spero. — E questa figliuola è giovane? — Ha 17 anni. — Bella età! io ne ho sessanta suonati! E qui un sospiro troppo lungo. — Ho capito, hai degli scrupoli.... non ci vuoi andare.... — Le pare?... ci vado.... ci vado.... se mi ci manda. — Non ti capisco.... di’ tutto il tuo pensiero. — Se me l’ordina proprio, lo dico.... non mi ci mandi. Antonio sorrideva per temperare la ribellione. — Sta bene, disse Corrado, farò da me. — Non mi mortifichi.... mi sono spiegato male.... non sono scrupoli, è timore di non saper far bene; quando si hanno i capelli bianchi.... — Senti, vecchio mio, interruppe Corrado, non dirmi di no. Si tratta di far del bene ad una povera creatura, che non crederebbe alle mie intenzioni, e darà fede ai tuoi capelli bianchi. Vacci col cuore tranquillo, non avrai da arrossire di nulla, te lo prometto; aiutami a fare una buona azione; è così difficile per uno che non ci ha pratica come me. A quel linguaggio, Antonio si sentiva il cuore grosso e si tormentava i mustacchi come nelle gran commozioni. Andando a far attaccare i cavalli, pensava: «Ecco quel che si guadagna a ribellarsi! Finchè dite di sì, la va bene.... provatevi a dir di no al tiranno, e dovrete dir di sì, balbettando, coll’anima piena di rimorsi e colle lagrime agli occhi.... Vergogna! un caporale!» Proto giunse in tempo a ricevere gli sgoccioli della raccomandazione d’obbedienza che il vecchio faceva a sè medesimo. La carrozza fu pronta in pochi istanti. Bisognava veder Proto, lo sbarbatello Proto, quando aveva cacciato le braccia nelle maniche della livrea ed infilato i guanti, che sussiego! Appena il vecchio Antonio fu a cassetta, seduto al suo fianco, non si potè trattenere dal dirgli: «state a vedere che bella voltata!» E col corpo impettito, l’occhio fisso, le redini tese, fece scoppiettare la lingua; i cavalli si mossero. — Che voltata, eh! — Vanerello! non c’è male. — Avreste fatto meglio voi? — Forse sì, se avessi voluto, ma non ho voluto. — Lo so a memoria: vi sarebbe toccato radervi i mustacchi per accettar la carica di cocchiere e vi è mancato il coraggio del sagrifizio. Ci tenete molto ai vostri mustacchi? — Ti risponderò fra qualche anno, quando li avrai anche tu, se li avrai.... Bada che sbagli. — Dove si va? — Via del Conservatorio N. 10 — e zitto, impara a tacere quando sei a cassetta. VIII. Qui si incontrano molti portinai ed una bionda. Da mezz’ora almeno Corrado ascoltava ogni rumore di carrozza, quando finalmente udì, al fischio di Proto, aprirsi la cancellata del portone, i vetri tremare. Il primo suo istinto fu di muovere incontro al servitore, di tempestarlo di domande; ma seppe esser forte, non si mosse, stette ad aspettarlo sopra una poltroncina e quando il vecchio fu dinanzi all’uscio: «Sei qui?» gli disse. Non altro. — Sissignore; rispose Antonio. Non altro. — Perchè non parli? — Aspettavo che me l’ordinasse. Nei modi e nell’accento del vecchio era qualche cosa di quella passività asciutta con cui i caporali rispondono al sergente, quando il buon senso dà torto al sergente e la disciplina darebbe torto al caporale. — Si va prima in via del Conservatorio, N. 16. Proto rimane a cassetta — io scendo. — La signora Felicita Garulli sta qua? — Morta! risponde una voce di dietro un paravento; appare una donna. — Morta! dico io. — Morta! dice lei, da più d’un mese, d’un mal di costa. — I suoi parenti sono rimasti qui? — No, hanno sloggiato; sua sorella è andata a stare in Corso Garibaldi, N. 4 — Non ha figli? — Sì, ne ha uno. — Ad ogni risposta la portinaia diventa sempre più asciutta, l’ultima non l’accompagna nemmeno con un gesto. È proprio come dirmi «non mi seccate.» Non so come fare ad insistere.... Insisto. — Bravo! — Sarà inconsolabile il figlio? Che fa? — La portinaia non sa se sia inconsolabile, sa che fa il bersagliere ed è di guarnigione a Lucca. Vengo via per non perder tempo. — Bravo. — Si va in via Fiori Chiari, N. 8. Sta qui la signora Valeria Nobili? — No, risponde un gobbetto nano che qualcuno ha messo sopra una sedia altissima, dinanzi ad una tavola, a lavorar di cucito, no, sta fuori mura, tra porta Garibaldi e porta Tenaglia.... Capisco, ma fingo di non capire. — Dice lui: eh! lo sapete meglio di me che è in cimitero; siete il quarto che viene ad informarsi della morta per sapere dove sta di casa la viva; datevi la pena di guardare sul quadro, v’è un indirizzo: «Via dell’Orso, N. 5. — Siccome non mi muovo, il gobbetto si volta, mi guarda e mi dice: «Sareste proprio venuto per la madre voi? uhm! siete vecchio, vi si può credere — scusate, ma tutti vengono per la biondina.» Balbetto qualche parola: «Già la povera signora è morta di mal sottile — potete dire a chi vi manda che non ha più bisogno di nulla.» Volta le spalle, le volto anch’io, salgo a cassetta, sono qui. Era impossibile non vedere che Antonio faceva il broncio. Corrado, rimasto un istante in pensiero, rialzò il capo e leggendo sotto i mustacchi dell’ex-caporale, fu costretto a chiedergli: «Che hai? — Se me l’ordina, lo dico: ho che non ho fatto una gran bella figura; quella biondina è una delle tante biondine con cui gli ex-caporali canuti non hanno più nulla da fare. — Ti lagni? — Non mi lagno, obbedisco. Corrado non gli badava più; poco stante prese il cappello ed il pastrano e sul punto d’uscire: «Via dell’Orso hai detto? — Già, numero 5. Ci va? — Ci vado. E via. Affrettando il passo, pensava alle parole d’Antonio; non vi poteva credere. Oibò! la malignità d’un nano non poteva arrivare fino ad una creatura celeste. Ed era poi veramente lei?.... Oh! sì era lei....! Che ronzassero i mosconi intorno ad una biondina e seccassero la pazienza d’un portinaio gobbo, si capiva; ma Grazietta era onesta, era pura, la più onesta e la più pura di tutte le biondine. Nessun’altra avrebbe mai fatto quello che aveva voluto far lei; se si rassegnava a spogliarsi dell’unico ornamento del suo visino da madonna, era segno che aveva fatto proposito di far perdere il tempo ai farfalloni e di serbare il proprio profumo virginale. Ma era veramente lei? Perchè non aveva egli detto il nome ad Antonio?.... lo aveva trattenuto una vergogna.... Stupida vergogna! Non si trattava forse di fare un po’ di bene? Vergogna stupida! Ed ora?.... Oh! ma era lei la biondina! Qual’altra poteva essere? Il signor Garulli, bersagliere, no, per esempio! Sicuramente era lei! «La signorina Grazietta Nobili sta qua?» La portinaia di via dell’Orso, N. 5 — un donnone tanto fatto, rispose con voce di toro. «Nossignore» e stette impalata a guardare con un sorriso malizioso. — Come! non è venuta a star qui da poco più d’un mese una giovinetta? — Bionda? — Bionda. — Bella? Corrado volle provarsi a ridere, ma gli parve una vigliaccheria. Si trattenne. — Sì, è venuta, è stata qui otto giorni e se n’è andata.... ha pagato tutto il mese, cioè non è stata lei a pagare.... ma un signore vecchiotto.... Corrado era morso dal dispetto, dall’impazienza, dal dolore. «Poi sono venuti a prender la roba.... poca roba, poca.... la corsa d’un facchino è bastata, come può immaginare.... — Vi peserà quel cassone? domando — Oibò, è quasi vuoto.... e non è distante.... — Dov’è?.... Via Solferino, N. 9. — E la signorina Grazietta? — Aveva nome Grazietta? Io non lo so; la chiamavano la _Biondina_.... non riceveva lettere.... ah! aspetti.... sì.... no.... mi pare che la chiamassero anche Agnese, non ne sono sicura; la sua padrona di casa deve saperlo.... Vuole che vada a domandarle? — No, grazie. Corrado pagò la mancia e via di corsa fino alla cantonata. Colà si fermò. Era sbigottito, come se gli fosse toccata una sciagura. Gli passavano innanzi alla mente mille mozziconi d’idee. «Via Solferino, N. 9. Ci devo andare? Agnese! dunque non è lei. — È bionda, è bella, le è morta la madre in quel giorno; è lei! — Grazietta era una menzogna, oppure Agnese è un nome di guerra — Peccato!» Dietro a questo accento di rammarico, veniva una visione: Grazietta in abiti succinti, coi capelli biondi e sciolti, da cui la faccia pallida e gentile si stacca come un visino di Madonna dal fondo dorato di un tritico; la luce d’una lampada, che la copre d’uno scintillio di fuoco e l’albore scialbo d’un mattino d’inverno che si affaccia dai vetri. «Ah! gli gridava una voce; troppo hai tardato! Che poteva far essa, abbandonata, sola in un mondo in cui mille lacci insidiano i diciotto anni d’una bella fanciulla? ah! troppo hai tardato! Poi ripigliava amaramente: «Via Solferino, N. 9. Ci vai, la vedi, ti lasci amare, la fai tua. Tanto meglio. Il suo mazzolino di viole non è una memoria, un saluto, un augurio gentile — è un invito; tanto meglio. Agitò la testa per allontanare un pensiero importuno, si mosse a gran passi coll’audacia della spensieratezza, giunse alla casa indicata, entrò. — La signora Agnese? — Al secondo piano, a dritta; la porta in faccia. Sali le scale, suonò il campanello: e allora solo stupì della propria audacia. Fu aperta la porta, apparve una ragazza giovane, non bella. — La signora Agnese? domandò Corrado. — La signora non riceve, si è alzata appena. — Provate a dirle che vengo da parte della signorina Grazietta. La cameriera diè un’occhiata curiosa al visitatore e sparve dicendo: «proverò, si accomodi.» Tornò quasi subito e fece un cenno a Corrado. Costui, non ancora rinvenuto dallo stupore della propria condotta, la seguì. Il cuore gli batteva concitato. Giunto nel mezzo d’un ricco salotto, coperto di tappeti, di gran quadri ad olio, di mobili di valore, si fermò, volse uno sguardo sbadato tutt’intorno, poi fissò gli occhi in un uscio a stipiti dorati: una bella cornice che aspettava una tela più bella. L’uscio si aprì: una leggiadrissima donna si trattenne un breve istante nel vano. La copriva interamente una ricca veste da camera di lana azzurra; i capelli lunghi le cadevano inanellati sulle spalle; era bionda, diafana, splendida come una visione. Mosse un passo.... Corrado, che guardava attonito, non potè trattenere un’esclamazione di stupore e di piacere.... Non era Grazietta! IX. Scena di commedia. La bella creatura si fece innanzi senza staccar gli occhi dal visitatore ignoto; aveva il volto composto a quel seriume bizzarro, che accompagna la curiosità quando è così intensa da far dimenticare la dissimulazione; protendeva lievemente il corpo, stringeva le labbra. Fra i dieci propositi, che balenarono in mente a Corrado, ce n’era uno savio troppo: balbettare quattro parole per iscusarsi dell’equivoco, volger le spalle e darsi alla fuga. Ma Corrado non aveva mai avuto paura di una bella donna. Radunò tutti gli elementi di cui si componeva la sua moribonda fatuità di zerbinotto, fece un inchino e rialzò il capo con disinvoltura, lasciando balenare sulla faccia un sorriso che chiedeva perdono. La signora Agnese era e non era disposta a perdonare, secondo i casi; lo diceva l’atto con cui sedette ed additò all’incognito una poltroncina. Era questione di scioltezza e d’audacia, non bisognava incepparsi in una frase, nè prolungare il silenzio — pena il ridicolo. — Corrado non aveva la scelta, sapeva di far la parte d’un adoratore appigliatosi ad un partito eroico per dichiarare la sua fiamma, parte bizzarra d’una commediola piena di attrattive, perchè era proprio bella la signora Agnese. — Non domando scusa, diss’egli arditamente; una colpa come la mia non conosce pentimento, non si accontenta di perdono. — Che colpa è la vostra? domandò Agnese. — Quella di essere qui, di guardarvi, di resistere al vostro sguardo, di dirvi che siete bella, che.... — E che mi amate?.... È una volgarità; me la dicono tutti. Pronunziando queste parole, la leggiadra creatura incrociava uno sguardo intento con uno petulante di Corrado, il quale, senza chinar gli occhi, ribattè: — Mi fate dire ciò che ancora non ho detto. E siccome Agnese faceva una smorfietta, proseguì: — Nossignora, io non ho detto d’amarvi; se vi amassi anche, non lo direi.... È una volgarità.... ve la dicono tutti. Siete bella, tanto bella, tanto bella!.... Ecco. Agnese, sebbene avezza ad altro linguaggio, non pareva stupita. Sorrise. Le belle donne hanno sorrisi che disarmano i più destri nella scherma della galanteria; ma nulla può far ammutolire un commediante che abbia studiato la parte. Corrado proseguì imperterrito: — Siete bella, e ve lo ripetono tutti; è ciò che ho detto a me stesso; ci vivo anch’io nel mondo, ed ecco me pure a dirvi che siete bella. Non sono pazzo, rassicuratevi, e nemmeno troppo savio. — Lo credo, disse Agnese ridendo. — Non vi ho dunque offesa? — Vi pare? Di che? È un modo di presentarsi come un altro, cioè un modo che non assomiglia a nessun altro.... mi piace. Sono lieta di far la vostra conoscenza. E vi chiamate? — Conte Germinati, scapolo, l’età che dimostro. Agnese gettò indietro i capelli con un lieve movimento del capo e rise forte. — Trentadue anni dunque? — Speravo d’essere più giovane. — Trentadue anni non sono troppi.... — Specialmente quando se n’ha di più. Volete dir questo? — Appunto; sono troppi venticinque quando non se n’ha che ventidue. — A voi ne davo venti. — Grazie, signor conte. — Non mi chiamate signor conte, gli amici e le amiche mi chiamano Corrado. Certo quella parola _amiche_ veniva una settimana, un giorno od un quarto d’ora troppo presto; l’audacia fin qui fortunata aveva messo il piede in fallo. Paradosso dinamico: in faccia ad una bella donna, e un po’ in faccia a tutte le tentazioni della vita, quando si cessa d’andare innanzi, si retrocede. A Corrado parve densa di soverchio la nube che abbuiò la fronte alabastrina della signora Agnese. E pensava al rimedio, quando la bella, fissandogli in volto quel suo sguardo insistente di prima, e lasciando cader le parole ad una ad una col sussiego d’un’annoiata, disse: «Per farvi ricevere avete nominato Grazietta.... La conoscete voi.... Grazietta? Ricondotto al pensiero dell’altra, Corrado esitò a rispondere, e vedendosi guardato fisso, levò gli occhi al soffitto, dandosi l’aria di pensare. Poi disse: — Di Graziette ne ho conosciute; ma confesso che ho pronunziato il primo nome venutomi sulle labbra, tanto per rompere la consegna e farvi annunziare la mia visita.... il primo passo per farmi ricevere. Agnese pareva sbadata; era sceso un riccio di capelli ad accarezzarle la guancia, ed essa lasciava fare; poi lo ricacciò indietro con un moto brusco, il volto color di rosa apparve un istante circondato da un tremolìo d’oro — le tornò il sorriso. — È curioso, disse; Grazietta era una mia amica. — Davvero? — Davvero.... non la conoscete proprio? Una bruna matronale, adorabile, come dicono i suoi adoratori.... un po’ fatua, capricciosa.... come un idolo..., ma bella.... vanta il suo codazzo d’innamorati, una processione, a crederle.... ha il fascino, dice lei.... nessuno le resiste. A Corrado, cui il nome di Grazietta aveva ricondotto innanzi il suo fantasma prediletto, ogni parola d’Agnese pareva gliene portasse via un pezzo; prima se n’andarono i capelli, la carnagione, la statura, poi l’indole, poi i modi — all’ultima parola non ne rimaneva più nulla. Vi sopravviveva il dispetto di sapere il nome di lei portato da un’altra. — Ditelo su, aggiunse Agnese con un vezzo leggiadro, le brune non vi piacciono.... questa galanteria mi appartiene, la voglio. — Non mi piacciono le matrone fatue, non mi piacciono gli idoli enormi e vuoti. — Non conoscete Grazietta — vi piacerebbe.... Ma giusto, come fate a conoscer me, se non v’ho mai visto? Corrado non esitò dinanzi ad una piccola menzogna. — Sono uno della folla, ve l’ho detto; quando si è belle come voi non si è padrone di attraversar la via o d’affacciarsi alla finestra senza trovar l’ammirazione appostata alla svolta d’una cantonata od al balcone dirimpetto. Vedete in me uno dei tanti che hanno commentato il roseo delle vostre guancie, il passo affrettato o lento, l’ora, il luogo delle vostre passeggiate, il taglio e la stoffa della vostra veste.... uno dei tanti che avete tentato senza volerlo. Assolutamente Agnese pareva sbadata, e quando Corrado, avvedendosi di ciò, non trovò più parole, ella disse come parlando a sè stessa: «È singolare!» E sorrise a fior di labbro. — Che cosa? domandò Corrado. — Quello che dite. Corrado cominciava a non saper più che dire; la distrazione inesplicabile della signora Agnese minacciava di prolungarsi, accrescendo le difficoltà sceniche della sua parte. Balbettò ancora qualche moncherino di frase, e non ricevendo in risposta che moncherini di parole, ammutolì anch’egli, e stette a guardare la bella languidamente negli occhi. Quell’adorazione scherzosa fu più fortunata, strappò uno scoppio di risa alla donna leggiadra. «Scusate, disse, ho un pensiero importuno per il capo, ve ne siete accorto, non lo nascondo — ma vi ascoltavo, ho inteso tutto; mi trovate bella, mi avete vista dal balcone dirimpetto, cioè no alla svolta della cantonata, vi piacque il taglio della mia veste, vi ho tentato senza volerlo.... non avete resistito alla tentazione, ed eccovi. Non ho perduto nulla, come vedete.... E quando vi siete arrestato stavate per dire.... che cosa stavate per dire? — Non avevo più nulla a dire; temevo di sembrarvi impertinente.... Suonarono le quattro ad una pendola. Agnese volse in giro uno sguardo un poco turbato. Corrado fu in piedi d’un balzo; bisognava farsi perdonare l’ardimento non riuscendo importuno; era questo il significato palese del suo atto; il vero è ch’egli non vedeva l’ora di trovarsi solo, all’aperto, di troncare quella commedia. — Mi permettete di venire a ringraziarvi della cortesia con cui mi avete accolto? — Oh! sì, sì, ve lo permetto; tanto trovereste ben modo di far di meno del mio permesso.... Agnese, ridendo, metteva in mostra i dentini uguali, stretti, lucenti; gli occhi lampeggiavano, le anella dei capelli d’oro mandavano scintille; il bel volto era una luminaria. Corrado non rispose, strinse fra le sue una manina delicata, salutò ed uscì a ritroso. Non provò egli sul limitare di quel salotto un rimorso, un desiderio? Se pure lo provò, era già in anticamera, la cameriera lo aiutava ad infilare il pastrano — non era più tempo. Nel mentre si volgeva di qua, di là, cercando l’uscio d’ingresso, e la fanciulla con un risolino singolare gli diceva: «da questa parte,» udì il tintinnio del campanello proprio sul suo capo. Aperto l’uscio, apparve una giovinetta vestita a bruno. Corrado non seppe trattenere un atto di stupore. Quella giovinetta mostrava un volto bianco come neve, sotto un vivo rossore, due occhi grandi, sbigottiti, color del cielo, due labbruzzi gentili, un’espressione tra titubante e sorridente, leggiadrissima — e sul visino da madonna un cumulo di capelli del più bel biondo. Era lei! Era lei! Corrado si trasse in disparte per lasciarla passare, e Grazietta passò, senza dir parola, levando un istante gli occhi e chinandoli tosto, con impaccio vezzoso, attraversò la stanza, battè due colpi all’uscio dirimpetto, scomparve. E Corrado che, accompagnando coll’occhio la sua visione, si distraeva orribilmente, si ravvide, sorrise alla cameriera, pose il piede fuor della soglia. L’uscio gli si richiuse alle spalle. X. Grazietta. Si volse; e immobile, senza pensiero, senza volontà, Corrado stette lì un istante a fissare senza sguardo la porta che chiudeva il bel sogno. Il bel sogno! prima la splendida bellezza di Agnese, il suo riso squillante, i suoi sguardi profondi, il tremolìo dei ricci dorati intorno ad un volto diafano e voluttuoso — e poi una personcina gentile, una vesticciuola bruna e modesta, che non sa nascondere forme, modi e visino di fata — un sogno, un bel sogno! Volse l’occhio in giro, poi lo abbassò; ai suoi piedi c’erano le scale — scese lentamente. E quando fu sull’ultimo pianerottolo, levò il capo a guardare in alto, stette ad ascoltare se mai qualcuno scendesse, e non potendo prolungare quell’aspettazione senza dar troppo spasso a due occhietti che scintillavano nel camerino del portinaio, finse di ravvedersi ed uscì. Sulla via si fermò; guardando là dove supponeva fossero le finestre della bella, gli parve di scorgere qualcuno dietro i vetri, ma non ne era sicuro; ad ogni modo, si mosse, diritto innanzi a sè, con passo celere. Alla svolta della cantonata si arrestò come giunto alla sua meta; fece prova di radunare le idee, di pigliare una determinazione, vide un caffè lì presso e fu tentato d’entrarvi; ma ebbe paura, se in quel mentre Grazietta uscisse, di perderla un’altra volta. Che cosa era andata a far Grazietta in casa della cortigiana? Come era bella nella sua vesticciuola nera! Così l’aveva evocata — pallida, dilicata, gentile — così gli riappariva. Eragli bastato uno sguardo a leggerle in volto il breve tempo passato, ed ora ritesseva colla mente la picciola tela del suo gran dolore. Sì, ma che cosa era andata a fare Grazietta in casa della cortigiana? Quanti passavano vicino a Corrado, e lo vedevano lì, attaccato alla cantonata come un pilastro, si voltavano a guardarlo ed a guardare dove egli guardava. Vedendosi fatto segno alla curiosità, si mosse lentissimamente, fermandosi dinanzi a tutti i manifesti, a tutte le mostre, ma coll’occhio lontano. Alla fine si staccò da una vetrina ed affrettò il passo. Un breve tratto innanzi aveva visto all’improvviso una vesticciola nera, una capigliatura bionda annodata stretto, ma non così che una ciocca non si fosse sprigionata per ricadere sulle spalle — aveva riconosciuto Grazietta. Costei si volse un paio di volte e non parve vederlo, perchè, invece di camminar più spedita, rallentò il passo. Così pensava Corrado, il quale ora che poteva raggiungerla senza dar nell’occhio alle gente, si trattenne, regolando l’andatura su quella della fanciulla. Intanto la misurava coll’occhio. Non era piccina Grazietta, non era nemmeno di quelle fanciulle che promettono matrone; aveva il corpo snello senza sottigliezza, e nel camminare, le sue forme eleganti si muovevano con leggiadria. Ognuno, giovane o maturo, che le passasse accanto, figgeva occhi meravigliati su quella testina di neve e d’oro, che si staccava dalla veste bruna; i più audaci provavano a sorriderle, a dirle qualche parola; allora Corrado muoveva due passi più affrettati.... ma già Grazietta era lontana dall’impertinente, il quale, rimasto un istante a bocca aperta ad accompagnarla cogli occhi, tirava diritto per la sua via, dicendo a voce alta per consolarsi: «che bocconcino!» od altro orrore simile. Quando li aveva a tiro, Corrado fulminava i sacrileghi collo sguardo, ma senza perder d’occhio la leggiadra creatura, che gli camminava dinanzi a passo di gazzella. Allo svolto d’una cantonata, Grazietta si volse ancora, così ad un altro, finalmente infilò una stradicciuola solitaria ed affrettò il passo camminando con maggior scioltezza, come se fosse uscita dalla folla, dal mondo. «Qui deve essere il suo nido,» pensò il conte, e sicuro di non poterla oramai perder d’occhio, non si curò di affrettare anch’egli il passo. La fanciulla sparve in una porticina, nell’ultima casa; al di là erano gli ippocastani del bastione; non passava alcuno nella via, faceva freddo e non vi era anima viva alle finestre. Corrado, dopo breve incertezza, tirò innanzi. Giunto in faccia alla porticina, sollevò il capo per cercare il numero, e ad una finestra del primo piano, fra due vasi di violeciocche, vide un volto sorridente. Parve a Corrado che il raggio di sole, che doveva scaldare le pianticelle, non avesse baci se non per la splendida testina. Fu breve l’incertezza; non era quel venire alla finestra e sorridere un invito? Ahi! Grazietta era una bella ragazza come tante altre, e solo più bella di tante! Nel cacciarsi per entro il piccolo vano buio, Corrado lasciava sulla via un’illusione cara. I battiti del suo cuore non avevano più nulla di generoso, ma erano frequenti come a vent’anni; pure, quando fu solo dinanzi ad una scala che si disegnava appena nel buio, si arrestò titubante, e in un lungo sguardo rivolto alla porta, parve ricercare l’illusione che vi aveva abbandonato. E se fosse stato certo di poterla trovare, sarebbe forse uscito all’aperto — ma no, era proprio scomparsa. Tornò a fissar la scala, che andava su ripida e diritta, e quando ebbe avvezzato gli occhi all’oscurità, vide in alto, sull’ultimo gradino, un corpo più nero dell’ombra nera, e su quel corpo un volto biancheggiante. — Grazietta.... signorina! E una voce d’argento rispose: — Badi a non inciampare. Corrado si trovò sul pianerottolo a fianco della fanciulla, e poi dietro a lei in un corridoio più scuro della scala, seguendo un filo di luce, che passava attraverso la toppa d’un usciolino, come una guida discreta, e poi in una cameruccia piena di sole. Gli pareva di sognare. Guardò Grazietta. La vaga creatura aveva il volto acceso e si turbava lievemente sotto l’occhiata curiosa, ma non mostrava nè l’impaccio della vergogna, nè la falsa disinvoltura delle donne che non si vergognano. — Perdoni.... — Perdoni.... L’aver incominciato insieme e colla stessa frase li fece ammutolire e ridere entrambi. — Perdoni, ripetè Corrado, perdoni, signorina, se l’ho spiata, se l’ho seguita per la via, se ho osato venire fin qui.... E la guardava fisso. — Sono io, disse la fanciulla, provandosi a reggere quello sguardo, ma chinando poi gli occhi a terra; sono io che devo scusarmi se la ricevo in queste camerette.... ma già lei è tanto buono!.... Favorisca di accomodarsi. Così dicendo, gli mostrava un divano. Corrado sedette. Egli ancora non sapeva che pensare, dubitava ancora, ma non si fermava già più a contemplare il suo dubbio. Quando Grazietta vide l’ospite seduto, sciolse i nastri del modesto cappellino, domandò scusa con infinita grazia e sparve frettolosa dietro un uscio, dal cui vano socchiuso entrò subito il gorgheggio festoso di un canarino. Tacque il gorgheggio, riapparve Grazietta senza lo scialletto nero e col capo scoperto, più bella che mai. — Sono da lei, mi perdoni. E sedette anch’essa sopra una seggiola. Corrado, volendo essere proprio schietto, avrebbe dovuto scongiurare la signorina di non badare a lui, di fare come se fosse sola e di lasciarlo lì, su quel divano, un quarticino d’ora, a contemplare una cosa che non aveva visto mai e che pure gli pareva di riconoscere: l’innocenza, o la sua immagine più somigliante. E come accade, non sapendo egli stesso che fosse venuto a fare in quella casa, immaginò che la fanciulla lo avesse indovinato. — Lei ha compreso?.... — Sissignore, appena sono scesa nella via e l’ho visto in distanza, ne ho avuto il primo dubbio; quando mi sono accorta che mi veniva dietro, allora ho compreso che lei aveva bisogno di parlarmi, ed ho detto: «il signor Corrado ha qualcosa da dirmi; lo aspetto? non lo aspetto?» Ma pensando che uno come lei non accompagna in pubblico una poveretta come me, ho tirato dritto.... anche perchè non sta bene che le fanciulle si fermino coi signori a discorrere sulla via. Mi sono però voltata due volte per vedere se lei perdeva la pazienza o se affrettava il passo per raggiungermi, che allora mi sarei fermata lo stesso. Ho fatto male? E rinfrancata dal suono della propria voce, Grazietta fissò in volto a Corrado due occhioni azzurri e sereni. Come non rimanere estatico dinanzi alla purezza di quegli orizzonti? Dove erano i dubbi, dove erano i nugoli neri? Diradati, fuggenti. — Ha fatto benissimo, rispose Corrado, ha fatto benissimo. E non sapeva come andare innanzi. — Sono contenta! rispose la fanciulla; a fare come detta il cuore, non è vero che si sbagli sempre. — Non si sbaglia mai quando si ha il cuore retto. Chi avesse annunziato che Corrado si sarebbe lasciato uscir di bocca col massimo sussiego questa frase solenne, avrebbe fatto ridere di cuore gli amici; ma chi avesse pronosticato che in faccia ad una leggiadra fanciulla, egli si sarebbe, in un bel giorno di febbraio, arrabbiato di parer troppo giovane e troppo mondano, costui avrebbe fatto morir dalle risa lui stesso. Corrado non rideva; meditava proprio sul serio al fatto che i suoi abiti erano troppo di moda, la sua camicia troppo lucida e troppo sfacciata, i bottoncini di brillanti troppo civettuoli, e passava una mano sui capelli per sprigionarli dai cosmetici di _Come si chiama_, dolente di non potersi far crescere, per forza di volontà, almeno almeno la barba di due giorni. — Ha fatto benissimo, soggiunse, il mondo è maligno e, sebbene tra me e lei ci sia un abisso di età.... sebbene io possa essere suo padre.... Corrado era in buona fede dicendo queste parole, ma non le ebbe appena profferite, che in buona fede si aspettava pure di essere contraddetto. Invece la fanciulla stette ad ascoltare guardandolo con occhio sereno. Infin dei conti era vero: poteva esser suo padre. Tanto meglio. Ma non lo ripetè; spieghi chi può questa debolezza. «Sebbene tra me e lei ci sia una bella distanza di età, ripigliò, la maldicenza non si ferma a queste inezie. E poi si sa.... Che stava per dire? Si turbò. Grazietta lo guardava sempre con una specie d’attenzione estatica, tra rispettosa ed amorevole. A Corrado, stringendo le pugna, poi allargandole e piantando le palme delle mani sulle ginocchia, riuscì di ricomporsi alla meglio. — Ella ha indovinato che io aveva qualche cosa da dirle, e non sarei qui se fosse altrimenti. Ciò che ho da dirle, signorina, può sembrarle curioso; ho fatto un voto. — Un voto! — Il giorno che la vidi afflitta, sofferente, disposta a sacrificare il solo ornamento della sua gioventù per.... per fare un’opera santa.... quel giorno mi sono sentito migliore, ho cominciato a credere a qualche cosa a cui non credevo.... — A che cosa? — All’esistenza degli angioletti in terra, rispose Corrado sorridendo. Grazietta chinò gli occhi e si fece rossa. — E lieto di ritrovare questa fede, ho fatto il voto di rappresentare la Provvidenza della buona figlia rimasta senza madre. Le manine della fanciulla non furono così ratte da soffocare un singhiozzo. Corrado ammutolì un istante. Poi con voce più lenta e più sommessa: — Mi duole d’aver svegliato memorie che l’affliggono, che la fanno piangere.... che le fanno male. — Non fanno male le memorie, disse Grazietta sollevando il capo lievemente, mi hanno fatto tanto bene le lagrime.... mi perdoni.... è passato.... veda non piango più. E scostando la mani bianche, mostrò il volto arrossato, e gli occhioni lucidi da cui spuntavano ancora due lagrime ribelli.... le ultime. Provò a sorridere; una lagrima cadde, ma Corrado giunse in tempo a raccoglierla colla propria pezzuola, che porse alla fanciulla. Grazietta accettò arrossendo, asciugò gli occhi, restituì la pezzuola e finalmente sorrise. — Mia madre è morta in quello stesso giorno, prese a dire senza titubanza, è morta ripetendo il suo nome, benedicendola. Io era ricca, perchè avevo le mie cento lire; le feci porre una corona sulla bara, la feci seppellire all’aperto in un giardinetto a 10 anni, e sulla tomba, con certi sassolini a mosaico, feci scrivere «mamma!» Sarà contenta, non è vero? Le parrà di sentirsi chiamare; a primavera le porterò i fiori che le piacevano tanto. Corrado avrebbe ascoltato un pezzo, senza stancarsi, la bella musica di quella vocina; ma Grazietta disse: «Scusi» e tacque. — Non mi annoia, s’affrettò a dire Corrado, mi parli pure di sua madre, me ne parli. — Grazie, disse la fanciulla sorridendo, ella mi legge nel cuore. Aspetti, prima gliela farò conoscere. Attraversò la camera, sparve dietro l’uscio dirimpetto e tornò; aveva in mano una piccola cornice, e mentre era stata ratta nell’uscire, ora si faceva innanzi a passi lenti; ripulì colla manica del vestito il vetro, prima di porre il quadro sotto gli occhi a Corrado, e si tenne ritta al fianco di lui per non abbandonare dello sguardo le amate sembianze. La madre della fanciulla appariva giovane e bella; aveva uno di quei visini tutt’occhi, patiti e buoni, che fanno pensare al cielo. Corrado guardò a lungo il ritratto con una dolce gravità, e involontariamente provò a ricercar la somiglianza nel volto della fanciulla, la quale continuava a figgere nelle sembianze della povera morta quello sguardo profondo che è pietà e desiderio. Finalmente si ravvide, sorrise a Corrado ed alla mamma e depose il quadretto sul tavolino. — Povera donna! quanto doveva essere buona! — Anche lei se ne è accorto! Lo dicono tutti. Oh! se era buona! Voleva bene ai fiori, agli uccelli, alla gente cattiva perfino, a me più di tutti. Soffrì molto; il pensiero di lasciarmi sola le faceva sembrare orribile il morire. E all’ultimo momento mi disse con un filo di voce: «Grazietta, me ne vado, ma verrò a vederti.» Il suo bacio lungo me lo sento ancora sulle labbra. Ha mantenuto la promessa; alla notte la chiamo prima di addormentarmi, ed essa viene in sogno; si vola insieme pella campagna, si va lontano, lontano.... Grazietta parlava ora della morta senza lagrime, senz’affanno, con accento di mestizia dolce e confortata; e quando tacque, nessuna nube le oscurò la fronte. — E vive sola? domandò Corrado. — Mario mi fa compagnia..., rispose la fanciulla. — Chi è Mario? Grazietta si fe’ forza per trattenere il riso. — Un famoso tenore, dicono.... E sprigionò un’allegra risata, a cui Mario in persona rispose dalla stanza vicina con una fioritura di vecchio stile. — Lo sente? disse Grazietta ridendo più forte. — E il suo canarino le basta proprio? — Mario mi fa buona compagnia; ma poi ho la mamma: una mamma morta è ancora una mamma; se non l’avessi conosciuta, come non ho conosciuto mio padre, non mi basterebbe ora pensarci per sentirne la presenza: anche in questo momento mi pare che sia qui, che ascolti tutto, che veda tutto.... non è lo stesso come vederla e udirla e farle i baci e nascondere la testa fra le sue ginocchia, ma tanto fa bene. Corrado non osò dir parola, quasi timoroso che l’accento della propria voce dovesse guastare quella fede ingenua. Dopo un istante di silenzio, fece una nuova domanda: — Perdoni la curiosità: come fa a conoscere la signora Agnese? Un vivo rossore tinse le guancie della fanciulla. Non rispose. Corrado, per non ripiombare in un suo dubbio amaro, insisteva col silenzio e collo sguardo. E allora Grazietta disse: «La signora Agnese non vuole che si sappia ch’io la conosco; mi ha raccomandato di non dirlo a nessuno. — Ma io lo so. — È vero. — Dunque è inutile nascondermelo.... e poi non ha detto che ha fiducia in me? — È vero. Ma non rispondeva alla prima domanda. — Ci va spesso in casa della signora Agnese? — Spesso.... vado a prendere del lavoro ed a riportarlo quando l’ho finito. Non ha voluto che andassi a giornata in una bottega, e così sto in casa. Mario canta ed io lavoro. Se la curiosità di Corrado non era sazia, il dubbio almeno era placato; non volle insistere di soverchio. — E che lavoro fa? Quella domanda, che avviava altrove la conversazione, gettò una luce sul visino della fanciulla, la quale, senza nascondere la propria contentezza, sollevò l’indice della mano sinistra e fece vedere il polpastrello punzecchiato dall’ago. «Veda. A Corrado quell’atto parve troppo repentino, quasi civettuolo. Perchè non aveva essa detto semplicemente «lavoro di cucito?....» Ah! Perchè l’ingenuità ha talvolta le sembianze della malizia? Pure, vedendo quella mano affilata e candida e quel ditino levato in alto come una minaccia scherzosa, lo scettico incorreggibile non si potè trattenere dal dire: «peccato!» — Non è nulla, rispose Grazietta, ci sono avvezza, non fa male. Nello spirito di Corrado era un’altalena di dubbio e di fede; dopo quarant’anni passati con certe fanciulle, poco si crede alla fanciulle, non si crede punto al candore. Solitamente le innocentine sono civette mal destre — si sa a memoria. Grazietta no; tutta l’anima le splendeva negli occhi, la sua stessa bellezza era il testimonio d’una virtù immacolata. Bastava guardare l’ammattonato roso e sconnesso, le pareti nude, i travicelli del soffitto ed i mobili modesti, che circondavano tanto lusso di forme, di gioventù, di grazia. Così faceva Corrado. E la fanciulla, seguendone lo sguardo curioso, fissava anch’essa sorridendo l’ammattonato roso ma pulito, i travicelli da cui non pendeva nemmeno un ragnatelo, le pareti nude ma imbiancate di fresco; e vedendo sul canterano un bruscolo, che non ci doveva essere, si levò in fretta per toglierlo. Corrado sbadatamente si rizzò anch’esso, e non l’aveva fatto, che già era pentito ed avrebbe voluto sedersi per prolungare la sua visita. La fanciulla, non comprendendo l’intenzione, gli domandò con un sorriso: «Vuol vedere tutto il mio alloggio, vuol conoscere Mario? Corrado la seguì. — Ecco, disse Grazietta, come fu nella camera attigua, non c’è altro, ma io ne ho di troppo. Era una stanzuccia gentile nella sua povertà; Corrado si arrestò sul limitare come in un santuario, vide il lettuccio in fondo, il tavolino da lavoro accanto alla finestra, e nel vano la gabbietta di Mario. Non disse parola; quella semplicità gli dava come uno stordimento; pensava a mille cose. E quando un trillo lungo, squillante, finito con un salto audacissimo d’ottava, lo svegliò dalla sua estasi, appena appena seppe dir «bravo!» al piccolo _virtuoso_. Pochi istanti dopo, metteva il piede sul pianerottolo per andarsene, quando si battè la fronte e ripassò il limitare. «Senta, disse pigliando le due mani della fanciulla nelle proprie, senta, io potrei esserle padre, ho diritto alla sua fiducia e la pretendo. Me la conceda intera. Grazietta lo guardava senza dir parola. — In questa casa, proseguì Corrado, ella non può starci. — Come? — No.... non può starci, alla sua età non si deve star soli.... — Ci sono dei vicini.... — Gente curiosa, maligna, indifferente. — No, signore.... — Sì, signorina, la lasci dire a me che me ne intendo.... lei deve andare ad abitare in casa di buona gente, dove sia come una figlia, dove non le manchino le cure dovute alla sua età. Mi permetta di occuparmi di questo.... non mi dica di no.... Grazietta non sapeva che rispondere, le si dipingeva in volto un gran turbamento. Corrado ripigliò a dire con dolcezza, pronunciando le parole lentamente: «Quel giorno che la vidi per la prima volta fu un bel giorno succeduto ad una notte orribile; ella mi diede una consolazione grande, una gioia sincera, la prima, la sola forse; ho fatto voto di aiutarla ad esser felice.... perchè si può anche esser felici.... Ed aveva l’aria di darle una notizia importante. — Io sono felice, rispose semplicemente Grazietta. — Per ora sì; ma in avvenire? Grazietta non rispose, ma levò gli occhi sbigottiti e li fissò in volto a Corrado con una serenità non scevra di baldanza; quello sguardo lungo diceva: «A sedici anni l’avvenire è un bel sogno che non fa paura. Non mi toccate l’avvenire.» Ma Corrado non seppe leggere in quello sguardo. Componendo il volto e la persona alla massima gravità, chiese titubando: — Dubita forse di me? — E perchè dovrei dubitare? — Grazie; non mi dica altro; prima di accettare, bisogna che anch’io sappia che cosa proporle.... Addio. — Verrà ancora? — Probabilmente no. — No? — Ma penserò a lei. — Era questo che aveva a dirmi? — Questo. Ah! mi dimenticavo di ringraziarla del mazzolino.... — Gliel’hanno dato?.... Ha capito che erano mie le viole? — Ho riconosciuto i suoi capelli.... Grazietta si fece rossa. — L’ho legato così per farmi conoscere.... e poi perchè i miei capelli erano suoi.... sono suoi — aggiunse sorridendo — quando li voglia, non ha che a dirlo. — Per ora mi basta questo; disse Corrado, e curvandosi sulla leggiadra testina, pose sulle treccie d’oro un bacio casto. Poi scese le scale con una nuova festa nel cuore. Solo allo svoltar della via, poichè fu certo che nessuno poteva vederlo, si volse a guardare la nota finestra. Fra le violeciocche era ancora il bel viso baciato dal sole. XI. La signora Valentina fa gli onori di casa sua. Corrado non sapeva ancora il come, ma era saldo sul che e sul quando: collocare Grazietta in qualche buona famiglia, dove stesse come figliuola, e ciò il più presto possibile. Di buone famiglie egli ne conosceva poche, ma bastava una. La doveva essere una famiglia senza figli, di gente sul tramonto, che si sentisse allegrare il cuore tirandosi in casa una cara fanciulla di sedici anni, l’aurora; sopratutto, non ci dovevano bazzicare nipoti bruni, di primo pelo, per far girare la testina bionda. Cercava, cercava, e non trovando nulla, pur sorrideva fra sè e sè come un fanciullo al quale venga proposto un quesito difficile, di cui abbia la chiave un babbo sorridente, che s’arrenderà alla fine. Già, siamo tutti fanciulli dinanzi al destino, ed è sempre un babbo arrendevole, quando si tratta di lasciarci fare il bene, quel destino tanto calunniato dai poeti. A Corrado, giunto appena in casa sua, la testa canuta del vecchio servitore fece svegliare una memoria addormentata. — Dimmi un po’, Antonio; tu avevi una sorella una volta.... disse egli con accento ilare. — Ce l’ho ancora, rispose Antonio, considerando l’ilarità del padrone colla diffidenza d’un servitore che sa il fatto suo. — Quanti anni ha? — È stagionata; la vien giù dalla cinquantina, ma senza fretta. — E si chiama? — E si chiama Valentina. — Un bel nome.... ed ha marito? — L’aveva, le è morto. — Figli? — Nemmeno l’ombra. — Non le piacciono dunque i figli? Quel _dunque_ fece balenare sulla faccia del vecchio un sorriso discreto, che subito si cancellò; come per correggere la mala impressione che poteva destare una simile debolezza nell’esercizio delle sue funzioni, il servitore rispose gravemente in chiave di basso profondo: — Non è dipeso da lei il non aver figli; è anzi appassionata per i fanciulli. — E vive sola? — Sola.... coi gatti, col cagnolino, coi passeri, colle tortorelle.... — E dov’è la sua arca? Questa volta non solo era lecita una risata, ma sarebbe stata insubordinazione non ridere. Antonio rise. — In capo al mondo; all’estremità di Porta Vittoria, in due scatolini da zolfanelli, che chiamano camere. — Due camere sono poche: dovrà averne almeno quattro. Antonio sbarrò tanto d’occhi. — E come vive tua sorella? — Ha una pensioncina, perchè il marito buon’anima era militare; cuce colla macchina, guadagna i suoi trenta soldi al giorno, e siccome lavora anche la domenica, la può scialarla. — E una volta veniva a trovarti, non è vero? — Oh! raramente.... — Mal fatto.... dovrebbe venire spesso. — Se il signore lo comanda, verrà; la non chiede di meglio, sebbene il giorno in cui viene lei, non guadagni che venti soldi.... per questo alla domenica ci vo io. — Oggi è sabato, e ci vai. — Ci vado.... — Ed io ti accompagno. Vedendo lo stupore del vecchio, Corrado gli battè sull’omero amichevolmente a rischio di dargli scandalo. E Antonio, senza aprir bocca, senza fiatare nemmeno: «Caro fanciullone! è proprio di buon umore: ne vuol fare qualcheduna delle sue!.... ha tanto di cuore questo ragazzo!» — Hai capito? domandò Corrado. — Ho capito.... e.... — E che cosa? — Se il signore me l’ordina, lo dico.... non ho capito. — Non importa; fai preparare il calesse e si va da tua sorella; il resto lo saprai dopo.... E Corrado uscì ancora a ridere, da quell’allegro fanciullone che era sempre stato. Antonio non aveva esagerato nulla; la signora Valentina, cucitrice, viveva come in due scatolini da zolfanelli, chiamati _camere_ per una di quelle iperboli audaci che i padroni di casa spacciano agl’inquilini sbigottiti. Il primo scatolino faceva uffizio di salotto, di camera da pranzo e di cucina; conteneva una tavola a tre piedi, quattro sedie, l’embrione d’un divano, e dietro un paravento, un fornelluzzo; nella strombatura d’una finestra era una gabbia troppo piccola pel numero sterminato di uccelli che la popolavano; sopra gli sporti dei due usci si tenevano quasi sempre immobili due copie di tortore, e nelle ore di ricevimento, riparato fra le gambe di questa o quella sedia, un gatto pensoso della sorte minacciata alla sua coda. L’altro scatolino conteneva un letto derivato in linea retta da quello di Procuste, un canterano, una poltroncina imbottita, due quadri, uno specchio ed una macchina da cucire. Peccato che l’abitatrice dei due scatolini non avesse quella natura fosforica che avrebbe fatto tanto onore alla similitudine del suo signor fratello! Era invece una donnetta tonda, grassoccia, vispa negli occhi, ma nelle parole, nei modi placida, solenne. Veniva giù dalla cinquantina, proprio, come aveva detto Antonio, senza fretta; non rotolava a precipizio, non faceva gli scalini a quattro a quattro, e non si arrabbiava nemmeno, come certune, puntellandosi alla balaustrata per non staccarsi dal pianerottolo; scendeva un passo dietro l’altro, colla faccia liscia e lucida, rallegrata dal sorriso bonario. Antonio avrebbe voluto che lo stupore della sorella per la visita del signor conte fosse all’altezza dell’avvenimento straordinario; ma sapendo che Valentina era capacissima di non stupirsi menomamente, s’era fatto ordinare dal padrone di andare innanzi ad avvertirla, «perchè non perdesse la testa,» diceva lui. Giunto innanzi all’uscio, nell’atto di afferrar la maniglia, si fermò udendo la nota voce della sorella. Con chi parlava essa? Pareva facesse un discorsetto, e lo rompesse ogni tanto con interiezioni e con interrogazioni che non avevano risposta; il tono d’amorevole rimbrotto, le inflessioni della voce, davano a credere che parlasse ad un fanciullo imbronciato, il quale si puntigliasse a non rispondere. Diceva: «Ha lasciato la zuppa per rubare la carne: peccato doppio: ghiottoneria e ladroneccio; non mi fiderò più di lei, signorino. Ha capito? Non finga di non badare, li apra un po’ bene quegli occhi furbi, mi guardi in faccia se osa.... Ah! non osa, si vergogna.... tanto meglio.... Antonio era lì lì per indovinare qual fosse l’interlocutore mutolo della sorella, quando udì su per le scale il passo del padrone; allora spinse l’uscio e penetrò come una bomba nel primo scatolino. La signora Valentina levò gli occhi senza scomporsi, e un gatto nero, che le stava sulle ginocchia, approfittò di quella distrazione per balzare a terra e porsi al sicuro tra le gambe d’una seggiola. «Qual buon vento? domandò Valentina sorridendo al fratello.» — Non è un vento, è il mio padrone che mi ha detto: «va innanzi, io ti seguo»; egli mi segue, capisci, egli vien su per le scale, egli è qui.... eccolo.... Chi sa! forse si sarebbe stupita la buona donna se gliene avessero dato il tempo, perchè tutto è possibile a questo mondo, ma quando Antonio diceva «eccolo», il signor conte appariva sul limitare; dunque la padrona di casa si rizzò in piedi, dissimulando benissimo la commozione, se ne aveva, per dire col più amabile sorriso: «Signor Corrado, si accomodi....» Antonio guardava la sorella collo sbalordimento con cui si guarda un fenomeno. Corrado sedette, ma Antonio no, non ci fu verso di farlo sedere: e quando la signora Valentina ebbe insistito con grazia, senza accalorarsi troppo, per fargli prendere una seggiola, la si lasciò andare sulla sua dichiarandogli che era padrone di stare in piedi, se così gli piaceva. Il vecchio aguzzava lo sguardo e lo piantava in faccia alla sorella; ma invano la punzecchiava cogli occhi, invano la copriva di pizzicotti colla sola forza della volontà; la signora Valentina non gli badava, tutta intenta a far gli onori di casa. «Il signor Corrado, a sentir lei, doveva aver qualche gran cosa a dirle, poichè s’era incomodato a salire tante scale; se il signor Corrado l’avesse mandata ad avvertire, sarebbe subito venuta lei in casa del signor Corrado....» Ogni volta che la sorella pronunziava il nome di Corrado, buttandogli sopra quel cencio di signore che sta sulle spalle di tutti i mascalzoni, Antonio sentiva lui uno di quei pizzicotti che avrebbe voluto dare alla sorella. Al terzo pizzicotto, non seppe resistere, si fece innanzi dimenticando ogni regola di disciplina domestica, a costo di farsi schiacciare sotto un’occhiata severa del tiranno, e non interrogato entrò a dire: «Il signor conte, mio padrone, ha avuto il capriccio di salire le scale; volevo venire io solo ad avvertirti, ma il signor conte aveva detto «vengo,» ed è venuto; il signor conte quando dice non disdice. Il signor conte dentro di sè rideva. Antonio tacque, ma non staccò gli occhi dalla sorella. Quell’occhiata lunga, insistente, ma dolce, voleva dire: «Cara mia, scusami se ti ho mortificata, ma mi ci hai tirato pei capelli, le fai tanto grosse!.... da brava, bada a quello che dici.» «Signor Corrado.... ripigliò a dire la buona donna. La risata, non più trattenuta, balzò dalle labbra del conte; il vecchio servitore lasciò spenzolare le braccia lungo i fianchi; Valentina ammutolì un istante, guardò l’uno e l’altro, e quand’ebbe domandato che c’era da ridere, senz’ottener risposta, riattaccò il filo: «Signor Corrado, sono contenta di vederla di buon umore; segno che quello che ha da dirmi non le fa pena e non mi farà pena; tanto meglio.... e suvvia, lo dica pure, disponga di me; se è cosa possibile, faccia conto che le abbia detto «sissignore;» si sa, al mondo siamo in tanti per farci servizio a vicenda.... Questa volta ciò che era scritto negli sguardi di Antonio, commentato ed esplicato dai moti convulsi del suo corpo, raggiungeva quasi l’evidenza; ma la signora Valentina non aveva stima della mimica, ed era d’opinione che la lingua ci fu messa in bocca perchè ce ne abbiamo a servire nelle occorrenze più dilicate. «Mi guardi, stringi le spalle, crolli il capo, fai segnucci e segnacci.... non ci capisco nulla, disse ella, oh! perchè vuoi che il tuo pensiero ti esca dagli occhi e dalle dita, mentre non hai che ad aprir la bocca?.... To’! eccoti immobile, ora.... la mi faccia la grazia, signor Corrado, gli dica un poco di parlare come lei ed io. Antonio volle resistere, non ci fu verso; poichè anche il suo padrone pigliava la cosa ridendo, bisognava ridere. Quando la signora Valentina ebbe ottenuto questo risultato coll’uso savio della propria lingua, tacque per non abusarne. E Corrado, premettendo che la domanda che stava per fare alla signora aveva bisogno d’esser preceduta da una storiella, narrò ad un ascoltatore sempre più sbigottito e ad una ascoltatrice inalterabile, tutto l’episodio di Grazietta. — Mi pare di volerle bene a quella povera creatura.... disse Valentina. — Io non dovrei parlare perchè non c’entro, s’arrischiò ad osservare Antonio, ma sono sicuro d’adorarla. Non ci fu bisogno di negoziazioni per il rimanente. Ecco le idee del signor conte approvate senza discussione: «La signora Valentina doveva lasciare i due scatolini per andar ad abitare una casetta, rustica ma pulita, che Corrado possedeva in via Lesmi, in mezzo alle ortaglie: due camere al primo piano, la cucina ed il salotto al piano terreno, l’uso del giardinetto, il godimento dell’orto. Grazietta sarebbe venuta a stare colla signora Valentina; la fanciulla doveva credere di guadagnarsi la vita lavorando; in realtà, il signor conte avrebbe provveduto ad ogni cosa.... Solo quest’ultimo periodo non pareva chiaro; la signora Valentina era certa che il signor Corrado aveva intenzioni onestissime; non già lei gli avrebbe posto ostacolo a fare una buona azione, di quelle che spalancano le porte del paradiso.... ma.... ma non sapeva se.... come.... insomma, voleva pagar la pigione. — La pagherà! disse Corrado, io stesso le farò la trattenuta sullo stipendio.... — Quale stipendio? — Quello di governante di Grazietta. — Le pare? mamma sì, governante no; e le mamme non pigliano salario. Le parole erano scelte senza cautele, ma il tono le faceva dolci come tutte quelle che uscivano dalla stessa bocca. Quando ogni cosa fu intesa, Antonio, il quale guardava paurosamente le labbra della sorella, che gli pareva dovessero da un momento all’altro schiudersi per lasciar venir fuori un’_impertinenza_ più grossa delle precedenti, respirò come un mantice e scese le scale col cuore leggiero. Il giorno dopo la casetta in via Lesmi era pulita come uno specchio e non aspettava più che i nuovi inquilini. E Antonio, incaricato dell’ambasciata solenne, si diresse verso l’abitazione di Grazietta. La confidenza del suo padrone gli toglieva dieci anni di dosso; camminava dritto come ai bei tempi in cui era caporale. Giunse innanzi alla casa indicatagli, ne riconobbe le finestre, la porta, l’androne scuro, le scale, il pianerottolo.... si fermò un istante incerto, poi picchiò ad un uscio.... Ma invece della testina bionda, se ne affacciò una canuta e rugosa. — La signorina Grazietta? — Era l’altr’uscio. — Grazie.... — Era l’altr’uscio, era, ma non ci sta più; ha sloggiato stamane all’alba. — Stamane! balbettò Antonio sbigottito ed incredulo. — Provi a bussare, provi e vedrà. — Oh! quando me l’assicura.... E dove è andata a stare? — Non l’ha lasciato detto. Appena la vecchia ebbe rinchiuso l’uscio, Antonio andò difilato a quello dirimpetto e picchiò una volta, due.... Nulla. Allora si curvò a guardare dalla toppa. Non altro vide che la finestra disegnata obliquamente dal sole sull’ammattonato. Picchiò di nuovo e stette ad ascoltare.... Silenzio perfetto. XII. Una partita di scherma. Corrado lesse una brutta notizia sulla faccia del vecchio amico, e non trovando parole per interrogare, arrischiò collo sguardo una domanda muta, a cui il servo fece una risposta muta, spenzolando le braccia lungo i fianchi. — Non vuol venire? domandò Corrado strascicando le parole. — Così immagino.... — Avrei dovuto aspettarmelo.... ha messo amore alle sue stanzuccie, e non le piace cambiare.... e mi ringrazia tanto.... È così, non è vero? — Nossignore. — Che cosa t’ha detto? — Nulla. — Nulla? — Nulla. La signorina Grazietta ha sloggiato stamane. — Ha sloggiato! esclamò Corrado accendendosi in volto.... e perchè non me lo dicevi? — Perchè non me lo chiedeva. — Sta bene, la troverò; quante ore sono?.... poco manca alle due.... la troverò; mi dai il pastrano? no, me lo piglio da me.... Ed infilò l’uscio. Antonio stette immobile ad aspettarlo, e quando se lo vide ancora dinanzi, col pastrano abbottonato ed il cappello in testa, gli piangeva il cuore di dovergli sfrondare la generosa baldanza. Ma bisognava pure risparmiargli una camminata inutile ed un altro disinganno più amaro del primo; si fece forza. — Padrone, la signorina Grazietta ha sloggiato. — Me l’hai detto. — Ma nessuno sa dove sia andata a stare. — Lo so io, disse Corrado, già fuor dell’uscio. Sulla via un cocchiere di cittadina, vedendolo camminar frettoloso, gli offrì i suoi servigi; egli rimase un istante incerto, poi rifiutò con un cenno, e invece di affrettare, rallentò il passo — aveva bisogno di radunare le idee. Passò di mezzo al via vai della folla, giunse nella via Solferino, infilò la porta al numero 9, e salì le scale come un sonnambulo. Solo dinanzi all’uscio noto parve svegliarsi. Suonò il campanello, gli fu aperto, venne introdotto nella sala. Vedendosi un’altra volta in quel luogo olezzante d’un profumo acuto di narcisi e di giacinti, sentendo intorno a sè la presenza della bellissima donna, che là, in quel vano, eragli apparsa come una visione, non venne meno nel suo proposito; voltandosi a un tratto, e vedendo lei, lei stessa, la vaga creatura, fece un inchino troppo profondo, ma fu l’unica sua debolezza. Riacquistò subito l’imperio di sè stesso, sorrise a lei che sorrideva, e come la vide seduta, sedette egli pure. Agnese sorrideva sempre, e Corrado pensò che era quello un cattivo artifizio per nascondere l’imbarazzo. Gli bastò un’occhiata per comprendere che la bella aveva un disegno; per sgominarlo più sicuramente, ricorse alla botta improvvisa. «Signora, egli disse garbato ma freddo, la prima volta che venni da voi a nome di Grazietta, era un pretesto; questa volta vengo a domandarvi di Grazietta. — Ed è un pretesto.... — Nossignora; vengo proprio per chiedervi: «dov’è Grazietta?» — Ecco, rispose Agnese, dopo un istante di stupore, che pareva genuino — ecco.... poichè m’interrogate, lasciate fare una domanda a me pure.... ma promettete di rispondermi.... promettete?.... Lo canzonava. Come dubitarne? — Chi è questa signora Grazietta, che vi sta tanto a cuore? Agnese, dopo aver messo innanzi la sua trincea, si credette probabilmente al sicuro, e per confondere meglio l’avversario fece la sbadata, seguendo colla punta del piedino il contorno d’un arabesco del tappeto. Ma quando ebbe finito e rialzò il capo, vide gli occhi di Corrado così ostinatamente scrutatori, che fu costretta a chinare i suoi ed a guardare qua, là, non sapendo dove metterli. — Voi sapete meglio di me chi sia Grazietta, disse Corrado lentamente; Grazietta è qui. Agnese scosse la testa con un atto dispettoso e piantò uno sguardo sfacciato in volto all’importuno. Ma questi, forte del suo proposito: «Siete schietta, ve lo leggo in faccia, mal sapreste dissimulare; non lo negate dunque, Grazietta è qui. — E perchè dovrei negarlo? domandò Agnese con accento fiero. — È quello che dico anch’io, perchè dovreste negarlo? È inutile cercar di nascondere una cosa che cento bocche mi sveleranno, sol ch’io interroghi. Vedete un po’: posso piantarmi alla vostra porta o metterci in sentinella una persona fidata per scoprire ogni vostro passo, per vedere chi entra e chi esce; sarebbe una noia per voi, ve lo assicuro, ma nessuno me lo può impedire. Posso anche far parlare il portinaio o la cameriera — vi sono argomenti a cui le cameriere non resistono ed i portinai nemmeno — lo sapete — e sapete anche che non bisogna mai metterci a rischio di dover licenziare una brava ragazza che ci serve bene. Diceva queste parole scherzosamente, e intanto seguiva cogli occhi il piedino della bella, che, uscito un’altra volta dal suo baluardo di sottane, contornava l’arabesco. Agnese, senza smettere dalla sua occupazione, e coll’accento pacato e monotono d’uno ch’abbia preso una determinazione irremovibile, rispose: «Ebbene, sì, non lo nego; Grazietta è qui. Che volete da Grazietta? Questa domanda fredda e sdegnosa tolse un istante a Corrado il coraggio di proseguire, rivelandogli a un tratto una volontà di macigno contro cui doveva rompere ogni suo proposito. E fu con palese titubanza che ripigliò a dire: — Che voglio io da Grazietta? Sentite: quella fanciulla è congiunta alla mia vita di scioperato da un filo purissimo, l’unico.... Sentite: una mattina, uscendo da un’orgia, mi pareva d’uscire da un funerale; la neve sembrava affrettarsi a cancellare i miei passi; mi corse il pensiero ad un’altra neve, a quella dell’età, e mi volsi a guardare la via percorsa, e non trovai nulla, nè un affetto buono, nè una buona azione.... poichè non conobbi i miei genitori, mi morì fanciulla una sorella che avrei amata tanto, e solo mi si offersero amici ed amiche che non mi amarono e non amai. Già quasi arrivato, nulla avevo fatto per via; nessuna delle mie azioni mi accompagnava.... ero solo. Avevo speso l’oro, l’ingegno, il cuore in follie d’un quarto d’ora, finchè era venuta la sazietà e la noia; avevo qua dentro un vuoto, una tomba; ogni sbadiglio vi aveva seppellito un’illusione.... Vidi Grazietta; essa vendeva al prezzo di pochi scudi i suoi capelli, per seppellire sua madre. Vi giuro che, pensando alla moneta di quel mercato, mi sentii povero. Tutte le mie ricchezze non valevano quei pochi scudi.... allora.... — Allora vi mostraste. — Lo sapete? — So tutto. Corrado tacque e chinò il capo; risollevandolo e gettando uno sguardo innanzi a sè, vide che la bella non si era mossa, e ripigliava a contornare col piedino i fiorami del tappeto. «Che voglio io da Grazietta? — ripigliò a dire con voce lievemente commossa — un gran conforto, quello di saperla felice per opera mia. L’ho promesso a me stesso, l’ho promesso a quella madre che mi ha benedetto morendo — sarò io il padre di Grazietta. Non sorridete. Dietro questa scorza di giovinastro, si nasconde un vecchio che soffre. Agnese si era arrestata alle prime parole, alle ultime ruppe il sorriso beffardo con una risata, che voleva parer gioconda ed era solo stridula e nervosa. «Beffatemi, ne avete il diritto; io vi parlo un singolare linguaggio, che deve far ridere le donne.... giovani e belle come voi; beffatemi, ridete; aspetterò che torniate grave e seria, perchè è grave e serio tutto quanto devo dirvi. Agnese gettò un’occhiata rapida a Corrado, il quale parlava con calcolata lentezza; non lo interruppe. — Dal giorno che vidi Grazietta compresi d’aver sciupato la mia vita; non cercai di cambiarla, non era più tempo; le abitudini mi avevano legato con cento catene; ero fiacco, irresoluto, fastidioso agli altri, a me stesso; la mia casa mi parve una bella prigione, la mia donna un bel trastullo; e fuggii la casa e spezzai il trastullo come un ragazzo bisbetico. Un solo pensiero rimaneva in piedi fra le rovine di un edifizio di menzogne: quello della mia buona azione compiuta; una sola immagine serena m’appariva fra le cento creature dell’orgia: Grazietta; essa mi stava a fianco, silenziosa nel tumulto, pallida fra tante faccie accese dal vino, vereconda in mezzo all’inverecondia degli atti e del linguaggio. Un giorno la rivedo, no, la ritrovo; perchè, senza averne coscienza, io la ricercava. La ritrovo, ed eccomi altr’uomo; e dico a me stesso che non è tutto tomba il mio petto, se il cuore mi batte in un modo insolito, se la mente risuscita un mondo di fantasime belle. Pensando a tutto il bene che si può fare con pochi scudi, le mie ricchezze non sono che un rimorso, e mi fanno più miserabile. Ho un grosso debito da pagare. Vi domando Grazietta, senz’altro dritto fuor quello d’ogni uomo a fare una buona azione; ma è un diritto sacrosanto. Riapparve sulle labbra della bella il sorriso beffardo di prima. Senza staccar gli occhi dal tappeto, senza muovere il corpo, crollando solo lievemente il capo ad ogni parola, essa prese a dire con un accento scherzoso in cui tremava un’intima collera: «Ricco e miserabile.... portate in petto la tomba d’ogni vostra illusione.... siete un vecchio che si nasconde dietro la scorza del giovinastro.... solo, senza affetti, stanco delle belle, nauseato dell’orgia, affamato di bene — un fenomeno in una parola. Devo aver letto in qualche luogo che i buoni sentimenti sono piante, che si acconciano ad ogni terreno e crescono anche sulle tombe; sì, devo aver letto questo in qualche libro, non so quale.... sono contenta di vedere che, almeno qualche volta, i libri non mentiscono. Li credevo essi pure, come gli uomini, come le donne, come la vita, come me stessa, una bugia. E rialzò il bel capo, avventando il suo sorriso mordente. Corrado protese le mani innanzi, la guardò negli occhi. «Guardatemi, le disse, se mento, se le mie intenzioni non sono pure, se io nascondo l’ombra di un solo pensiero indegno di quell’innocente.... L’altra lo interruppe ridendo. — Non state ad invocare un fulmine; sono provinciali, anzi campagnuoli i fulmini, dopo l’invenzione dei parafulmini; ah! ah!.... scusate se scherzo.... ma è un fatto che in Milano si arrischia poco a chiamare sul proprio capo la folgore; ah! ah! anche quando non si sia in febbraio e non faccia il bel sole d’oggi.... Scusate, se rido.... sono in vena. Del resto, soggiunse con accento serio per temperare la durezza della beffa, non avete bisogno di giuramenti; alle vostre intenzioni pure io ci credo; voi me ne assicurate, ed a me basta guardarvi in faccia.... così.... per non poterne dubitare. Sotto quello sguardo fascinatore Corrado sentì un brivido lieve corrergli per tutto il corpo. — Dunque?.... balbettò. — Dunque?.... rispose Agnese con indolenza.... Dunque mi avete capito e non volete convenirne.... Parlerò più chiaro.... Signor Corrado, voi che avete più esperienza di me (badate non parlo al vecchio che si nasconde, ma al giovinastro che si lascia vedere); voi che avete più esperienza di me, avete trovato molto spesso nella vita, in voi ed intorno a voi, che le opere corrispondano alle intenzioni?.... Io no, e sono persuasa che non vi è birbonata grossa o piccina, la quale non sia incominciata col proponimento contrario. Ho le mie idee sulla volontà umana, sissignore, mi permetto il lusso d’aver le mie idee, non ho altro di mio.... Corrado ascoltava estatico, non trovando parole per interrompere quel cicaleccio tra fatuo ed amaro. — Gli atti virtuosi e le azioni nobili, tutto ciò che ci dà il paradiso nell’altro mondo e la contentezza in questo.... va bene così?.... tutte queste belle cose, se si vuol proprio farle, non bisogna mettersele in capo. Il giorno che voi a voi stesso ponete innanzi una buona azione da compiere, voi in voi stesso attizzate una guerra in cui avete la massima probabilità di perdere. Io conosco della gente, che passa la sua vita proponendosi di cambiar vita.... Non ne conoscete voi, signor conte?.... Non credete che vi siano atti niente affatto nobili, niente affatto generosi, che si facciano senz’utile, senza desiderio quasi, unicamente perchè non bisogna farli?.... Qualcuno deve aver scritto questo, io l’ho pensato. Agnese sembrava mettere una cura burlesca nel misurare le parti del suo periodo, disponendo le antitesi, scegliendo le parole, facendo sentire i punti e le virgole, proprio col tono d’un dialettico dei tempi andati; il che in lei, come ogni altra cosa, era vezzo. Quella ciancia aveva uno scopo; forse ne aveva uno anche l’insistenza dello sguardo, anche il molle abbandono del corpo. Corrado non comprese che a metà, ed appena la bella ebbe taciuto, la ricondusse a parlare di Grazietta. — Se vi ho ben compresa, volete dire che Grazietta in mie mani sarebbe in pericolo? Non lo nego io stesso, e pure giuro, non a voi, ma a quella che fu mia madre e che non conobbi, giuro che rimarrebbe pura; tale non la crederebbe il mondo, e basta.... — Manco male; ne convenite? È la domanda che mi faccio: che mai potete fare per una fanciulla di sedici anni, voi, povero vecchio nascosto dietro un giovinastro? Adottarla forse? Come se questa idea le paresse la più pazza che le fosse venuta in mente finora, Agnese uscì in una risata più sonora delle precedenti. — Adottarla, no; rispose Corrado, non sono vecchio abbastanza.... la legge non lo permetterebbe.... — La legge è piena di buon senso; osservò la bella ricomponendosi ad una serietà burlesca. — Ma se non è concesso a me d’adottarla, posso darle una famiglia di gente povera ed onesta, in cui trovi le cure materne, la compagnia d’un lavoro che non manchi mai, una vita senza i pericoli della solitudine, senza l’incertezza del domani, senza i terrori delle malattie.... più tardi un bravo giovine laborioso, che l’ami e meriti d’essere amato. Ho la famiglia, ho la casa; datemi Grazietta e la farete felice. E siccome l’altra non rispondeva, aggiunse queste parole che avevano quasi l’accento d’una preghiera: «Non contrastate ad un uomo che vuol compiere una buona azione.» La cortigiana sollevò gli occhi senza muovere il capo, e piantandoli in viso al suo visitatore, disse: — Non conoscete altra buona azione che questa? Si vede che non ci avete pratica. Anch’io non ci ho la pratica, ma ho la teorica: leggo tanto, vedo tante buone azioni nei libri!.... Volete che cerchiamo insieme? Ci deve essere una scuola per gli spazzacamini, in cui quelle povere creaturine affumicate ricevono l’alfabeto nei giorni feriali, una pagnotta alla domenica, una vesticciola nuova ed un desinare alla fine del corso.... Questa scuola ha dei protettori; fatevi protettore anche voi. Ci devono essere società filantropiche per mandare gli scrofolosi ai bagni di mare, per allevare i bambini lattanti, per curare i rachitici, per cento altre miserie.... Alcune di queste società emettono delle azioni; molti che, come voi, hanno bisogno d’una buona azione, acquistano una di quelle; non rendono nulla in questa terra, ma costano anche poco. Non vi garba fare quello che fanno tanti? E allora, uscendo di qua, fermate sulla via il primo monello cencioso che scivoli sul ghiaccio, domandategli se ha sua madre — l’ha — tenetegli dietro; egli corre, si ferma dinanzi alle vetrine, beffa, zufola, canta, schiamazza — in capo a quell’allegria nervosa d’un monello che ha quasi fame c’è una povera donna che ha fame propriamente. Datele una casa, delle vesti e del lavoro; poi tornate da me, vi darò un bacio se lo vorrete.... No? non vi garba nemmeno? E allora non so proprio che farci.... Corrado si levò in piedi e disse freddo queste parole: «Grazie signora, vedrò io Grazietta. Agnese non si mosse. — Volete che venga essa stessa qui a dirvi che non può nulla accettare da voi, che voi nulla potete fare per essa? Il conte non rispose, e l’altra con dolcezza: «Mi fareste pensare che i vostri sentimenti generosi non sappiano manifestarsi se non a pro’ d’una fanciulla di sedici anni.... ma rispetto la carità anche quando mi sembra capricciosa; preferisco credere che vi stia a cuore la sorte di Grazietta. Ebbene, rassicuratevi, penserò io a Grazietta. — Voi! esclamò Corrado volgendosi di botto; e nell’atto, nell’accento, nello sguardo era palese il disdegno. — Io, ripetè Agnese freddamente, io la cortigiana! Vi stupisce? L’uomo, il quale confessa d’aver sciupato la sua gioventù, invidierebbe una buona azione ad una donna che incomincia appena la carriera dell’orgia? Avreste torto, soggiunse mutando accento, perchè io più di voi ho diritto a fare un po’ di bene. Sono novizia e voi provetto, ma a voi è rimasta qualche cosa nel mondo, a me nulla; in faccia alla nostra coscienza siamo pari; gli occhi degli uomini mettono un abisso fra l’uomo che ha pagato per far la vita del vizioso e la donna che si è fatta pagare per fare l’istessa vita. Ed è giusto. Chi può pretendere che il mondo sia più generoso della sorte?.... Mi favorite una sigaretta?.... Grazie.... E se il diritto, che vantate sacrosanto, deve essere un compenso alle pene maggiori, chi credete che abbia sofferto di più, signor Corrado, voi l’annoiato, la cui vita fu uno spasimo dolce ed amaro, o la bella di cui avete comperate le carezze? Rideva essa, è vero, ma non poteva fare altrimenti: avevate pagato perchè ridesse; le sbadigliavate voi sul viso, ed era il vostro dritto. Quale ha più sofferto, signor Corrado? Dei due a chi spetta ora la buona azione?.... Avete un fiammifero?.... Grazie. Agnese aveva pronunziate queste parole con una fatuità in cui entrava un po’ d’affettazione e di dileggio. Corrado la guardava, cercando di leggere nel bel volto, che sparve dietro un nugolo di fumo, — poi spinse la seggiola più presso alla vezzosa, e tornò a sedere. «E quali sono, le disse, le vostre intenzioni riguardo a Grazietta? — Farne una donna che non mi assomigli, rispose Agnese freddamente. — E con quali mezzi? Che sorta di potere avete voi su quella fanciulla? — L’amo e m’ama. — E vi stima? Nessuna risposta. — E vi stima? ripetè Corrado. — Mi stima. — E quando avrà cessato di stimarvi, credete che la vostra scuola potrà ancora essere efficace?.... — Signore.... balbettò Agnese.... — Signora, soggiunse Corrado con dolcezza, è inutile illudervi, Grazietta cesserà di stimarvi il giorno in cui il caso, o la sua malizia naturale, o qualcuno le abbia appreso.... Un picciolo grido gli ruppe la frase a mezzo. Uscendo dalla nuvola di fumo, la bella testa della cortigiana apparve impallidita, cogli occhi spalancati, colle labbra dischiuse e tremanti. Corrado, che aveva cercato di temperare coll’accento la durezza delle sue parole, non sapeva comprendere l’improvviso terrore di Agnese; la quale parve lottare dentro di sè un brevissimo istante, poi con voce rotta dai singhiozzi: «Signor Corrado, balbettò.... non le direte nulla, le fareste troppo male.... non le direte nulla, non è vero?.... perchè.... se sapeste!.... oh! sappiatelo.... Grazietta è mia sorella! XIII. Una volta ci era.... La rivelazione inaspettata tenne Corrado mutolo alcuni istanti. Perchè questa idea, che ora sembravagli tanto naturale, non gli si era mai affacciata alla mente? Guardò Agnese. Era trasformata, pareva oppressa dal peso di quella confessione, se ne rimaneva là, immobile, cogli occhi fissi a terra, immagine viva dello sconforto. Corrado si levò in piedi. «Perdonate, signora.... i vostri diritti sono sacri.... io non ho più nulla a fare.... non farò nulla.... E soggiunse con dolcezza: «non dirò nulla....» Stette ancora un istante a guardarla in silenzio, poi disse «addio,» e si mosse per andarsene; un _no_ supplichevole lo trattenne. Agnese fissava in lui gli occhi inumiditi di pianto. — Fermatevi, disse la cortigiana con voce determinata, sono io che ora ho bisogno di voi; con una parola avete rianimato tutte le mie titubanze: è vero, non mi è nemmeno concesso di fare il bene, d’essere la protettrice di mia sorella! Pensavo io pure a trovare una casa solitaria e della buona gente, per dare a Grazietta un tetto sicuro ed una famiglia onesta.... ma non potete credere quanto sia difficile questa ricerca ad una donna.... come me. Voi avete trovato, dite — ebbene mi fido di voi, dirò a Grazietta di accettare.... purchè ella non sappia.... — Grazie di tanta fiducia, interruppe gravemente Corrado; il vostro segreto è come sepolto. Grazietta non saprà nulla.... Ma sa essa che siete sua sorella? — Lo sa, rispose Agnese stupefatta di quel dubbio. Ah! comprendo, Grazietta vi ha detto che le do del lavoro, che mi ha conosciuta quando viveva sua madre.... È la storiella che le ho suggerito io e che essa non ha ancora imparato a ripetere senza farsi rossa. Non si sa persuadere che vi sono delle bugie necessarie, dicendo le quali non si fa peccato; ho un bel dirle che senza le bugiuzze innocenti il mondo sarebbe dei curiosi e degli sfacciati.... Non mi dà retta. Agnese, parlando della sorella, raddolciva la voce e la modulava come una carezza. «Che pensate? domandò a Corrado, il quale la guardava fissamente. — Cercavo una somiglianza.... — Cercate pure, disse Agnese presentando il bel viso, non troverete; bionda lei, bionda io — null’altro: Grazietta ha gli occhi azzurri, io li ho castagni — neri, dicono gli adulatori — il naso di Grazietta è affilato, il mio.... non è affilato; ho la faccia tonda e paffuta, Grazietta ha un visino ovale un po’ asciutto.... e più bello.... senza confronto.... oh! no, Grazietta non mi somiglia! Pose in queste ultime parole un impeto, che rivelava una segreta compiacenza. Quale? Era tornata alla padronanza di sè, si era a poco a poco rifatta ilare, parlava in modo vivace, accompagnando la parole con attucci da civetta. «Che pensate? tornò a dire un istante dopo. — Penso, rispose Corrado, come mai non mi venne in mente che Grazietta potesse esservi sorella, vedendola in casa vostra. — Ve lo dirò io. Essa portava il lutto per sua madre e gli abiti d’una poveretta, io invece sono una gran signora e non vesto il bruno.... La madre di Grazietta non era mia madre.... — Comprendo.... — Non ho scampo, disse ridendo Agnese; vi debbo la storiella; non è il mio forte contar le storielle, ma se ci tenete, provo.... Una volta ci era.... Che cosa ci era una volta? — Un follettino di fanciulla, alto così, che si chiamava Agnese.... — Volete che la pigli da lontano. Non importa, correrò di più ed arriverò presto egualmente. Dunque una volta ci era un follettino di fanciulla alto così, che si chiamava Agnese; aveva inteso parlare della mamma buona e bella, che era morta nel metterla al mondo; viveva col babbo, il quale era pittore e le disegnava delle figurine per farla felice. Fra queste figurine ce ne fu una che rappresentava una giovine donna dalla faccia buona e bella — La mamma? — disse Agnese tirando ad indovinare — Sì la mamma, le fu risposto, ma non quella che è morta, un’_altra_. Qualche tempo dopo, l’altra venne. Agnese la guardò bene, la riconobbe — era proprio lei, ma non volle baciarla. Più tardi la baciò, perchè era buona anch’essa la mamma viva. E un’altra volta il babbo mostrò ad Agnese un’altra figurina, ma non dipinta, dicendole: «questa è tua sorella.» — Mia? — Tua. — Ne posso fare tutto quello che voglio?.... Quella figurina, di cui Agnese non poteva fare tutto quello che voleva, era Grazietta. La faccenda delle figurine fin qui andava bene per Agnese e per il babbo, perchè ci erano tanti e tanti fanciulloni colla barba che pagavano caro per avere la propria. — Venne il 59, i fanciulloni cambiarono gioco, ed il povero pittore di figurine fu prima ridotto a mancar di lavoro, poi a mancar di pane. Si accorò tanto degli stenti della sua famiglia, che quando cessò la guerra egli era ammalato; levandosi da letto, si vide in una rete di debiti, di scadenze, di usure.... Per uscirne pensò questa: stemperò una certa sua tinta e la bevve. Alcune ore dopo la piccola Agnese entrava nello studio del babbo.... Che quadro!.... La fatuità, con cui era incominciata la storiella, finiva in cinismo, ed il cinismo in un rantolo. «La fola non è terminata, ripigliò a dire Agnese; mio padre agonizzava; volli gridare, mi fè cenno di star zitta, mi prese per le mani e me le strinse forte e mi baciò sulla bocca disperatamente e mi disse: «Dirai alla mamma che mi perdoni, e tu pensa qualche volta al babbo; non avevo più forza di vivere.... ed ora mi pare che l’avrei.... ma è tardi!» Non disse altro. Gridai, accorse la mamma colla bambina in braccio: all’orribile spettacolo cadde bocconi sul cadavere. Grazietta le sfuggì di mano, io la raccolsi e come istupidita la cullai perchè cessasse di piangere. Per molti anni vidi pianti e miseria intorno a me; solo io non aveva lagrime; pensavo spesso a mio padre, che aveva offerto dei bei quadri in cambio di pane pella sua famiglia, e che aveva finito col buttar via i pennelli e la vita; e mi pareva quel morto il solo uomo degno di vivere, e della vita di lui ladro ogni altro vivente; e più le altre memorie del passato si cancellavano, e più quella di mio padre si faceva tenace. Grazietta era pallida e patita come sua madre, ma somigliava _a lui_ — l’adorai; avevo nove anni più di essa; quando sua madre stava a letto colla tosse, facevo io la mamma. Si tirava innanzi vivendo di pane e di lagrime — io non piangeva. M’ero fatta grande, mi ero fatta bella; quando uscivo di casa e tutti me lo dicevano, rispondevo «lo so». — Mi piacevano le vesti di seta, i gioielli falsi, gli orecchini di similoro; mi era caro stordirmi, odiavo la miseria, abborrivo un lavoro penoso pagato d’elemosina.... Mi venne offerto dell’oro.... La storiella è terminata. Vi ha divertito?» E siccome Corrado non fu ratto a rispondere, Agnese ripigliò: «Sbagliavo, ce n’è ancora. La povera vedova, a cui ora mi ripugnava dare il nome di madre, venne in traccia di me; mi scongiurò perchè tornassi con lei; aveva delle ingenuità da fanciulla quella donna, mi parlò della virtù del sagrifizio, dell’amor di Dio e del prossimo — io le parlai di mio padre, che era stato virtuoso ed aveva domandato a Dio di spendere la vita per i suoi figli.... «Grazietta ha 14 anni, le dissi, e il prossimo aspetta solo che ne abbia 16.» Diede un grido, mi guardò con terrore.» Lo vedi, soggiunsi, lo vedi! Ebbene, la salverò io Grazietta; il vizio vuole la decima sulla bellezza coperta di cenci: sono bella, pago io; vestirò io di seta perchè Grazietta porti onestamente i suoi cenci; fra qualche anno non sarebbe più tempo, il mondo ci vestirebbe di seta tutte e due.» Ah! lo sguardo di pietà e di paura che mi rivolse! Non disse nulla, se ne andò stringendosi al petto lo sciallo nero, senza voltarsi. Al domani sloggiò per sfuggire le ciancie del vicinato. Due giorni passati senza vedere Grazietta non mi lasciarono aspettare il terzo. Uscii, cercai di lei, sfidando le dicerie, la trovai. Sua madre mi vide la prima, mi venne incontro, voleva dirmi qualche cosa, ma Grazietta era presente, tacque. Nel baciare mia sorella, il mio unico affetto, la sola cosa santa che avesse per me il mondo, sentii che arrossivo. Mi fece cento domande: risposi cento menzogne: dissi d’essere governante in una ricca casa, promisi di venire a vederla spesso.... Mentivo con sicurezza — era il mio dovere — nello sguardo della debole madre, che tenevo immobile sotto il mio sguardo, lessi una tacita approvazione. Senza dir parola, fu convenuto che io venissi; non sarei stata respinta. Grazietta doveva rimanere innocente; sua madre si faceva mia complice per aiutarmi ad ingannarla. Ad ogni nuovo incontro con mia sorella, erano nuove domande, erano nuove menzogne. La madre mi guardava fisso, senza mai dirmi parola; la sua debolezza divenne la sua forza; a poco a poco, sotto quella ripugnanza implacabile, mi sentii venir meno. «Come stai?» le chiesi un giorno. Non mi rispose. Stava male. — E il dì dopo insistetti: «Come stai?» «Che t’importa di me?» mi disse. Era vero. Che m’importava di lei? Se mi fosse stata a cuore, non le potendo nascondere la mia vergogna come a Grazietta, sarei morta onestamente di fame. Al terzo giorno la povera donna soffriva di più; Grazietta aveva gli occhi rossi, mi disse in segreto che non ci erano denari in casa per una medicina ordinata alla mamma. Le diedi uno scudo. Essa corse nell’altra stanza per mostrarlo a lei; io, temendo che tornasse a restituirmelo, fuggii. Alla sera, coll’ansia che le mozzava il respiro, l’inferma venne da me, mi pose in mano la mia moneta, mi disse «grazie» con un filo di voce. Non feci atto per trattenerla. Quella notte non dormii. Al giorno successivo andai in casa; la mamma era a letto colla febbre; allontanai Grazietta, mi feci presso al capezzale dell’inferma, le chiesi perdono, la scongiurai di lasciarmi venire ad occupare il mio lettuccio di fanciulla. Le feci mille promesse che sapevo di non poter mantenere. Mi guardò, pianse. Il giorno dopo facevo l’infermiera d’una moribonda. L’agonia dei tisici è lunga; le mie vesti ed i miei gioielli — si consumò tutto. Un giorno il medico aveva ordinata una medicina da prendersi al mattino, e non avevamo un soldo. All’alba andai al lettuccio di Grazietta; era uscita; tornò mezz’ora dopo, portava la medicina, era ricca! Narrò che era andata a vendere i suoi capelli, che le avevano voluto dare venti lire e.... il resto. Alcune ore dopo, la povera inferma era morta. Dinanzi a quel cadavere muto, indifferente, sentii una immensa pietà per Grazietta, che piangeva in un canto — io non aveva lagrime. Tacque; poi ripigliò senza alcun tremito nella voce: — Era necessaria una nuova menzogna; trovai questa: un parente di mia madre, arrichito nel commercio, mi voleva seco per tenergli in ordine la casa. Grazietta ci crede ancora, non ha mai visto il mio parente e lo benedice. Le ho raccomandato di non dire a nessuno che è mia sorella. Mi ha chiesto perchè; credo d’averle risposto che ciò potrebbe far dispetto all’uomo pietoso che mi ha raccolta. Ci crede? Obbedisce, e basta. Non saprà almeno da altri il mio stato, non cadrà sopra la sua innocenza nemmeno l’ombra della mia vergogna. — Che fa ora Grazietta? domandò Corrado dopo un breve silenzio. — È in una camera appartata; mette qualche punto in una veste o legge; è sola. — Non è esposta ad incontrarsi?.... — Piglio le mie precauzioni.... — La cameriera sa?.... — Non sa nulla. Volete veder Grazietta? — Non osavo domandarvelo.... — Quel campanello mette nella mia camera; suonate, verrà. Intanto che la bella si ricomponeva nella sua leggiadra indolenza, Corrado si mosse e premette un bottone. Un istante dopo, una porta girò sui cardini con lieve rumore.... apparve Grazietta, bella e sorridente. Ma allo stesso tempo, nell’uscio dirimpetto, la cameriera si affacciò e scomparve. «Lui!» mormorò Agnese impallidendo. — Vostro zio? disse Corrado con disinvoltura; quand’è così me ne vado, gli direte che la sua venuta m’ha fatto scappare. Agnese, stringendo la mano a Corrado, balbettò «grazie». — Oh! bella! Il signor Corrado conosce tuo zio, disse Grazietta quando fu sola colla sorella, ed io no! — Non ci perdi nulla, è un brontolone. — Dunque me ne vado.... bada che sono stanca di aspettare, il libro che mi hai dato è noioso tanto; se tardi, ti metto sossopra la guardaroba.... E me lo fai un bacio? — Ora no, disse Agnese sforzandosi a sorridere e minacciandola col dito; ma cambiò repentinamente idea, e gettandosi al collo della fanciulla: è tutt’uno, mormorò, meglio ora che poi. Mentre attraversava la sala, la cameriera si affacciò un’altra volta. XIV. Entrano in iscena Arturo, Edmondo, Eugenio ed altri personaggi. «Ne vuol fare una delle sue,» aveva esclamato Antonio. Ma l’eccesso di parzialità offende anche quando piglia l’aspetto di virtù, come nel caso d’un servitore, il quale vanti il cuore generoso del padrone. Non sarà dunque inutile il sapere che il buon Antonio era riuscito a poter fare questo vantamento colla coscienza tranquilla, adoperando una sottigliezza filosofica, per la quale tutte _quelle_ che il signor conte era solito fare appartenevano agli altri, e sue erano unicamente quelle che non faceva, ma che si doveva supporre avesse l’istinto, il desiderio, l’intenzione, la buona volontà, il fermo proposito, il bisogno di fare. Quest’_una_ poi, a differenza delle altre _sue_, pareva così vicina al compimento, che sarebbe stato uno strazio vederla andar a male. Pensate se Antonio si muovesse; mettendocisi mani, piedi ed anima, il giorno dopo verso il tramonto — quando la casetta in via Lesmi ebbe ricevuto i mobili ed il canarino di Grazietta, i mobili, i canarini e gli altri animali dell’arca di Valentina, — potè fregarsi le mani e ripetere tre volte: «l’ha fatta! l’ha fatta! l’ha fatta!» — si sottintende «una delle sue.» Nelle poche ore passate insieme, Valentina e Grazietta erano diventate amiche; la signora dava già del tu alla signorina, eccitandola a fare altrettanto, e la signorina si provava, sbagliando sempre. «Mettiti in capo ch’io sia la mamma; non è poi molto difficile, mi pare, con un po’ di buona volontà; io ho trovato così facile persuadermi che tu sei mia figlia.... e sì!.... non dovrei sapere che sia l’aver figli, non ne ho mai avuti! Grazietta avrebbe potuto rispondere che ella invece sapeva che fosse l’avere una mamma, e che appunto perciò.... ma si accontentava di dire sorridendo: «Mi provo!» E si provava, sbagliando sempre, ingegnandosi di fare le interrogazioni in modo indiretto, usando mille cautele per evitare i pronomi personali e certe costruzioni pericolose. — Questo canterano starebbe bene qui, diceva la signora Valentina; non pare anche a te Grazietta? — Benissimo.... e il tavolino da lavoro accanto alla finestra.... non è vero? — Verissimo.... e il tuo canarino? — Non sarà meglio metterlo insieme agli altri? — Sarà meglio sicuro, così avrà qualcuno con cui far quattro ciancie.... Oh! bada un po’, quest’altro tavolino nella tua camera non ci sta.... Dove lo metto? — Lo met... tiamo nell’altra.... — Quale? Sebbene Grazietta non si fosse dimenticata che le camere erano quattro, esitò a rispondere.... — In cucina no certo.... e nemmeno in salotto.... — E allora nella mia?.... — Appunto, ci starà benissimo. E quando ogni cosa fu a posto, la signora Valentina pigliò per mano la fanciulla, e reggendo un lume coll’altra, visitò la cucina, il salotto, le due stanze da letto, ammirando e facendo ammirare la buona figura che facevano. «E vedrai domattina, quando vi entrerà il sole, quando avrò tolto la polvere ai mobili, quando avrò spazzato il pavimento e le scale.... Ora è tardi; ti accendo il lume, e si va a letto; lascio aperto l’uscio della mia camera.... se avrai bisogno di me, chiama forte; non ho il sonno leggiero.... e non ti stare a levare finchè non sia su io.... un bacio e buona notte.... — Buona notte. La signora Valentina entrò nella sua camera. Grazietta udì uno starnazzar d’ali nella gabbia, e la voce della buona donna, che diceva con accento amorevole: «Ti sei fatto male? Vediamo, rispondi.... — Che è stato? domandò la fanciulla. — È stato Arturo; era in cima alla gabbia, ha sognato di volare ed è venuto giù; non si è nemmeno svegliato.... Il tuo Mario dorme; dormono tutti.... dormi anche tu.... Buona notte! — Buona notte. Alcuni istanti dopo il lume della stanza vicina fu spento; Grazietta non aveva voglia di cacciarsi in letto, si accostò alla finestra sulla punta dei piedi, ed appoggiando la fronte al vetro gelido, stette un pezzo a guardare l’immensa campagna, che si perdeva nelle ombre della notte. Aveva il cuore pieno di gratitudine, la mente popolata di sogni, di fantasie serene; vedeva nel buio tre faccie buone che le sorridevano: Agnese, il signor Corrado, sua madre; udiva mille parole confortatrici, e dicendo a sè stessa che il mondo era bello, e gli uomini buoni, e preziosa la vita, sollevava gli occhi al cielo per ringraziarlo di averla fatta così felice. Poi pensava alla sua condizione di prima, alla solitudine delle sue camerette, al vuoto melanconico che la circondava; e vedendosi ora fatta centro di nuovi affetti, oggetto di tanti pensieri delicati, castellana vezzeggiata in quella casetta gentile, libera di correre nell’orto, di sedersi nel prato di là dall’orto e di spadroneggiare cogli occhi per l’ampia campagna di là dal prato, fino alla linea dei monti, si domandava se tutto ciò non fosse sogno della sua fantasia od opera d’un incantesimo. Si volse a guardare nella cameretta, e vedendo il lume che ardeva ancora, si affrettò a spegnerlo per non far scialacquo. E allora — proprio come nei palazzi incantati — un raggio di luna entrò nella camera perchè la fanciulla non andasse a letto al buio. La festa ricominciò all’alba, e furono i canarini a darne il segnale. Subito Grazietta si svegliò, si rizzò a mezzo il corpo, si vide in uno specchio e sorrise; già faceva per levarsi, dimenticando la raccomandazione della signora Valentina, quando costei per l’appunto apparve, più serena, più beata, più tonda della vigilia — così sembrava alla fanciulla — recando una chicchera. «Il caffè! esclamò Grazietta, ma io non ne piglio mai. — E tu piglialo ora; ti scalderà; è il mio vizio, sarà anche il tuo, così non sarai perfetta nemmeno tu e non mi farai arrossire. — Non sono ancora le sei, soggiunse la buona donna, e la _giornata_ non comincia che alle nove; ho tre ore per dar sesto alla casa.... — Ed io che ho da fare? — Quello che ti piace; intanto che ti vestirai, darò il miglio ai canarini. E sparve. Poco dopo Grazietta udì una voce che chiamava: «Arturo», e subito uno sbatter d’ali ed un gorgheggio rotto. «Vediamo, di che umore sei stamane? Hai appetito? Mi canterai l’arietta? Lo piglierai il miglio sulle mie labbra? Quest’ultima interrogazione pareva fatta a denti stretti, e il canarino, che aveva avuto risposta pelle precedenti, per questa non ne ebbe. «Edmondo!» Nuovo sbatter d’ali e nuovo gorgheggio; e la signora Valentina colla stessa inflessione di voce: «Come stai? Bene, anch’io. Sei di buon umore? Tanto meglio; la canterai l’arietta? Lo tirerai su il secchiello? Vediamo.... La curiosità vinse la fanciulla; mezzo vestita com’era, s’affacciò al vano dell’uscio e vide la signora Valentina seduta, con Arturo sull’omero, e vide Edmondo tutto intento a tirar su col becco un secchiolino pendente fuor della gabbia, e vide all’interno altri sette canarini, che si tenevano in fila sopra un bastoncello, aspettando in silenzio d’essere chiamati a nome. La signora Valentina attendeva a quelle funzioni colla massima gravità. «Eugenio!» Un altro uccello si staccò dalla schiera, venne sull’usciolino aperto e di là sul petto della signora. — Bello! Bello! esclamò Grazietta; oh! come ha fatto ad educarli così? — «Come hai fatto?» — si dice. — È vero. — Dillo. — Come.... hai fatto? — Semplicemente considerandoli come personcine, che hanno cervello, parlando loro sul serio, in modo chiaro, pacato e logico.... — La comprendono? — «Ti comprendono?» devi dire.... — Sì.... Ti comprendono? — A meraviglia, lo vedi tu stesso.... «Viola!» E Viola venne anch’essa sull’uscio, poi sull’omero della dispensatrice del miglio. — Fa pietà, soggiunse la signora Valentina, vedere come gli uomini trattano gli animali: a gesti, a grida senza senso — bisogna pigliarli sul serio, far loro dei ragionamenti chiari, pacati e logici, allora stanno attenti e capiscono. Grazietta uscì a ridere; non era persuasa. — È qui lei? disse Valentina, si faccia innanzi, si stirerà le braccia poi, signor poltrone. Il gatto nero, così interpellato, continuava a stirarsi allungando il corpo, e non si dava pensiero di affrettare; ma finalmente venne, diede un paio di capate contro le gambe della signora e le si accosciò ai piedi. Allora la signora battè le mani, e subito Arturo, Eugenio, Edmondo, Viola e gli altri vennero con un ciaramellio allegro a svolazzare intorno al micio, che neppur si mosse. La fanciulla ripeteva: «oh! bello! oh! bello!» e l’educatrice, non punto tronfia dell’opera sua, si rizzò in piedi lasciando cadere una manata di miglio per terra e dicendo che se l’erano meritata. Il gatto nero si scosse, le si attaccò ai calcagni e l’accompagnò in cucina. Che avrebbe potuto fare Mario, povero ignorantello, in mezzo a quella turba di dotti? Per questo forse, quando Grazietta gli aprì la gabbia, non volle uscire, accontentandosi di beccare il miglio sulle mani della padroncina. «Tu non sai tante belle cose, le imparerai anche tu, diceva Grazietta, imitando senza volere il tono della signora Valentina. E parve proprio che Mario avesse capito, perchè rispose, salvo errore: «Io so cantare!» E cantò così bene, in un tono acuto, un’arietta tanto allegra, tempestata di gorgheggi così difficili, che la fanciulla battè le mani. Gli altri canarini si provarono a fare altrettanto, ma la vocetta di Mario sorpassava tutte le altre. Poi Grazietta finì di vestirsi, scese in cucina, aiutò la _mamma_, e finalmente aprì l’uscio, che metteva nell’orto, e spinse gli occhi estasiati nell’immensa campagna. XV. Visite. Verso il mezzodì venne Agnese. Venne a piedi, vestita d’abiti modesti, col velo sugli occhi, col cuore agitato; attraversò la via deserta a passo frettoloso, guardandosi intorno; all’atto di passare sul ponticello, che metteva nel prato, alcune donne, che risciacquavano dei panni, non sollevarono nemmeno le faccie bronzine. Allora si lanciò a correre.... eccola all’uscio di casa, in salotto, nelle braccia della sorella. «Nessuno mi ha visto! le disse fra due baci. Come stai? — Benissimo rispose Grazietta, se sapessi come è bello qui.... Vuoi venir di sopra nella mia camera?.... vuoi vedere i canarini?.... — Sì, vengo.... — Non ti dispiace che la signora Valentina sappia che sei qui?.... domandò la fanciulla titubando.... — E perchè mi dovrebbe dispiacere?.... — Non so.... entrando hai detto: «nessuno mi ha vista;» sei venuta in segreto? — Pazzerella! Signora no, non sono venuta in segreto.... ma quando ho infilato la via Lesmi, vedendo che non vi passava anima viva, ho cominciato a dire: «scommetto che non passerà nessuno prima che io sia giunta al portone,» e poi ho detto: «ah! se passasse qualcuno, quale disgrazia!....» Mi pareva di essere il tuo innamorato e che dovessi venire a donarti un bacio di nascosto, come nei romanzi.... Vediamo, non sei tu il mio amore, non son io il tuo innamorato? Rispondi. — Ecco, rispose Grazietta, e sollevandosi sulla punta dei piedi scoccò un bacio sulle guancie vermiglie della sorella; poi le buttò un braccio al collo e la trasse su per le scale. Sul pianerottolo si sciolse dal nodo amoroso, sorrise e disse: «la spensierata che sono!....» Non altro. La sorella comprese, titubò. «Che fa ora la signora Valentina? — Lavora. — La disturberemo, disse Agnese.... e ci disturberà; stiamo da sole finchè è possibile, scendiamo in cucina, andiamo nell’orto, fa un bel sole. Grazietta trasse un lieve sospiro. — Torneremo su dopo, aggiunse Agnese in risposta a quel sospiro, voglio conoscere i canarini.... — Sì?.... allora tanto meglio, scendiamo pure nell’orto, vedrai, vedrai.... Scesero nell’orto. Febbraio era stato mite, e negli ultimi giorni anticipava alla campagna i tepori di marzo; la natura, già uscita dal sonno invernale, aveva aperto lo scrigno inesauribile; ogni pianta mostrava le sue gemme, nei solchi, fra due filuzzi di neve scintillanti al sole, si affacciava il primo verde. Era vasto l’orto, il prato era immenso, e più oltre la campagna, solcata da filari di olmi o di gelsi, pareva uno scacchiere infinito; più lungi ancora, dietro un velo di vapori, i bei giganti canuti! Quale incanto! Grazietta aveva passata l’infanzia in un ammezzato, e quasi non credeva che da Milano si potesse godere uno spettacolo così bello. E chi l’avrebbe detto che in Via Lesmi c’era un paradiso simile? Agnese imitava la fanciulla, chinandosi a guardare un insetto, un filo d’erba, un germoglio, cercando anch’essa colla medesima curiosità ingenua..., che cosa?... ed era bello veder quelle due teste bionde riavvicinate, quei due volti così diversamente leggiadri, animati dallo stesso affetto. «Ah! — Che è stato? — Una viola! Grazietta, che l’aveva trovata, era nel suo diritto mettendola fra i capelli della sorella. «Stanno bene le viole nei capelli biondi.» Agnese lasciò fare, lasciò dire, e sorrise melanconicamente. «Come sei bella!» esclamò Grazietta. Fecero il giro del prato, tornarono all’orto. «Vedi, disse Agnese; fra tre settimane al più avrai di bei fiori.... vedi.... — Vedo.... sono giacinti che spuntano! — Sicuro, sono giacinti! — Signora no, sono cipolle, disse una voce all’improvviso. D’onde veniva quella prosa? da un luogo degno: da un filare di cavoli. Le giovinette risero dello sbaglio, intanto che un omicciattolo, ridente anch’esso, faceva la riverenza. — Sono l’ortolano, disse; il signor conte, vedano, mi ha dato ordine di fare un giardinetto dinanzi alla casa, e un padiglione in fondo, con un sentiero in mezzo al prato per andarvi.... ne metteremo dei giacinti se ne vogliono, ma quelle lì, vedano, sono cipolle. Un giardino, un padiglione! Grazietta ebbe la forza di trattenersi dinanzi al _suo_ giardiniere, ma trasse seco la sorella rapidamente per dirle colla felicità negli occhi: «Un giardino! un padiglione! — Quanto è buono il signor conte, soggiunse dopo breve silenzio. E come fa ad indovinare ciò che mi dà piacere? Una nube passò sul volto di Agnese. — Non è stato qui ieri? — No, non è stato. — Non ti ha mai detto nulla? — Di che.... Ah! sì, mi ha chiesto come facessi a conoscerti; gli ho risposto.... non gli ho risposto.... non ha insistito. Ma giusto, se mi domanda ancora?.... — Puoi dirgli tutto. — Davvero!.... Anche alla signora Valentina?.... È tanto buona! — Anche a lei. — Grazie; così almeno parlerò di te, e non dovrò farmi rossa. Agnese pose il braccio della fanciulla nel suo, senza dir parola; ma Grazietta era indocile, ogni tanto si fermava, e sprigionando il braccio o costringendo la sorella a curvarsi, si piegava ad esaminare un filo d’erba, un insetto. «Un bozzolo! esclamò ad un tratto; ed Agnese ripetè: «Un bozzolo!» — No, disse Grazietta, non è un bozzolo; vedi, è tondo, è piccino, è bruno. — No, non è un bozzolo, fece eco Agnese. — La signora Valentina deve saperlo, andiamo da lei. — Andiamo da lei.... E via di corsa tenendosi per mano. — Venivamo a cercarle, disse la _mamma_, che scendeva appunto le scale, ci è una bella visita!.... — Il signor Corrado! esclamarono le due sorelle, e si arrestarono entrambe. Corrado scese gli ultimi gradini, e venne a stringere la mano alle giovinette, dicendo non so che, ammirando senza averne coscienza la bellezza di quelle due teste bionde, che per la prima volta sembravano proporsi ad un confronto. Fu Grazietta a rispondere. «Signor Corrado, disse ella, signora Valentina.... — Lascia stare le _signorie_, di’ Valentina crudo crudo.... «Signor Corrado,.... Valentina, ripigliò scherzosamente la fanciulla, ho l’onore di presentare.... si dice così?.... la signora Agnese, mia sorella. Non vi era pericolo che Valentina si meravigliasse troppo; essa fece: _oh!_ appena appena; e se vi sono cento modi di fare: _oh!_, la flemmatica signora ne adoperava uno solo per tutti i casi della vita. Questa meraviglia temperata e pur genuina ebbe virtù di temperare la falsa meraviglia di Corrado. Anch’egli fece _oh!_ appena appena. — Sissignori, è mia sorella, soggiunse Grazietta, e se non l’ho detto prima, è perchè la cattivella me l’aveva proibito.... Siamo sorelle, ma non abbiamo avuto la stessa madre; per questo essa non porta il lutto, però voleva bene anche lei alla mamma.... Oh! che volevo dire?.... Ecco: Agnese ha uno zio ricco, molto ricco, e molto avaro, e molto cattivo, di cui essa ha paura; questo zio le ha proibito ogni rapporto coi parenti di nostro padre, che era solo un pittore, mentre sua madre era di famiglia nobile.... dico bene Agnese? Agnese chinò il capo e non lo rialzò. — Mi spiaceva avere un segreto con lei, signor Corrado; lo conserveremo egualmente bene in tre.... perchè non bisogna che alcuno sappia.... Agnese dice che è meglio, sebbene non vi sia alcun male. Giusto, signor Corrado, lei non sapeva tutto, ma che Agnese ha uno zio lo sapeva.... Lo conosce anche.... Non è vero che è brutto da far paura? — L’hai visto? domandò Agnese sollevando il capo. — Una volta, su per le scale.... almeno ho immaginato che fosse lui.... un uomo alto, magro, brutto e vecchio.... non è così? — È così! rispose Agnese con un filo di voce. — Che è questo? Lo sa? disse Grazietta a Valentina mostrandole il bozzolo raccolto. — «Lo sai?» così devi dire, e allora, se io lo so, rispondo.... ma non lo so. — È un bozzolo, rispose Corrado. — Un vero bozzolo? — Sì, lo guardi attraverso la luce.... — Ci è dentro una cosa nera.... — Un bruco. — Ah! esclamò Grazietta, e fece atto di lasciarlo cadere. — Una farfalla! corresse Corrado ridendo. Anche Grazietta rise, poi corse nell’orticello, andò a deporre il bozzolo nel fesso da cui l’aveva staccato, e fu di ritorno in un attimo. Visitarono il salotto e la cucina, poi salirono le scale. Giunti dinanzi alla gabbia dei canarini: — Vedrai, Agnese, vedrai; disse Grazietta. Arturo, Riccardo, Viola, Edmondo, Rosa, Eugenio e gli altri vennero sull’omero, sulla mano, sulla testa della signora Valentina, tirarono su il secchio, cantarono o stettero zitti; e la savia educatrice ottenne ogni cosa coll’adoperare la forza persuasiva del suo linguaggio pacato, chiaro e logico. «Che nomi! disse Corrado. — Li ho scelti io, rispose la signora; così avrei chiamato i miei figli se ne avessi avuto. Un bel nome non costa nulla; i figli dei poveri non dovrebbero mai chiamarsi Bartolomeo, nè Grisostomo, nè Pancrazio, nè Biagio.... Non ho ragione? Ne aveva cento delle ragioni, aveva sempre ragione; e poteva mai aver torto una donna così ragionatrice come la signora Valentina? Un’ora di ciancie passa presto. Agnese doveva andarsene, e non avendo Corrado alcun motivo di rimanere, le si offrì cavaliero, salutarono insieme, ed insieme uscirono. Una carrozza aspettava; Corrado l’offrì alla sua dama, entrarono, fecero un addio colla mano a Grazietta, che affacciava la bella testina da una siepe, e via di galoppo. — Siete contenta? domandò Corrado con un accento straordinariamente giocondo. — Contentissima, e voi? — Lo vedete, felice. Tacquero. Corrado si dondolava con vezzo, correggeva le pieghe del panciotto, si lisciava i baffi, si chinava a guardare dallo sportello — adorabilmente fatuo e disinvolto. Agnese ne seguiva ogni movimento, ma era distratta. — Bel sole oggi! disse Corrado. — Magnifico! — Si può dire che siamo di primavera. — Proprio. Tacquero. — Sapete che cosa si dovrebbe fare noi due? disse Corrado con fatuità sempre crescente. — Che cosa? domandò Agnese, figgendogli in volto gli occhioni sereni. — Darci un bacio.... per suggellare l’opera compiuta insieme.... e poi, me l’avete quasi promesso. — Quando? — Promesso no, veramente; ma me ne avete fatto venir la voglia dicendomi.... vi ricordate?... «e poi venite da me, e vi darò un bacio se lo vorrete....» Oh! se lo vorrei!... Rideva. Anche Agnese rise forte, poi gettando indietro il corpo, in modo che il volto rimanesse quasi nascosto nell’ombra, disse: — E se qualcuno ci vede? — Peggio per lui.... ma la carrozza va di galoppo, non ci vedrà nessuno. Corrado si curvò, raggiunse colle labbra il bel volto e vi stampò un bacio, uno solo. Poi di nuovo uscì a ridere. Agnese rimaneva col corpo nascosto nell’ombra. «Vi siete fatta rossa, le disse il conte guardandola fisso. To’, ecco che vi fate più rossa ancora!... — È strano! rispose Agnese. Tacquero. La carrozza si fermò all’improvviso; entrambi, tolti dalla scossa alla loro distrazione, si strinsero la mano. — A rivederci, disse Agnese, e sempre così allegri. — Sempre.... Corrado stette a guardarla come trasognato, poi la carrozza si mosse. Il vecchio Antonio, contro l’abitudine, era sul pianerottolo; faceva non so bene che cosa — nulla, mi pare — e non aspettò che il padrone avesse salito le scale per rivolgergli la parola. — Mi era parso di sentir suonare, corro ad aprir l’uscio.... nessuno.... sto ad ascoltare e la intendo venir su, e per questo sono rimasto sul pianerottolo. Corrado entrò nelle sue camere senza rispondere; il vecchio non gli si sapeva staccare dai calcagni.... — Vossignoria ha un’aria contenta oggi.... non l’ho vista mai così.... E sì che.... — È vero, Antonio mio, sono proprio contento.... Che cosa stavi dicendo?... — Che cosa stavo dicendo?... — Dicevi: «e sì che....» Antonio guardò il soffitto, poi implorò la misericordia del suo tiranno: «se n’era dimenticato.» Corrado si spogliò senza dir parola, fermandosi ogni tanto, distraendosi orribilmente; certo senza l’aiuto di Antonio avrebbe infilato la veste da camera al rovescio. Vedendo che non ci era verso di farlo parlare, il vecchio ricorse ad un mezzo eroico: — «E sì che....» ora mi viene.... se vuole che lo dica, lo dico.... — Dillo. — E sì che di belle cose ne ha fatte, vossignoria; ma belle come questa, se l’ho proprio da dire, nossignore.... — Ne ho fatto io di belle?... domandò Corrado con un sorriso ironico. — Altro che!... Ma questa le passa tutte. Mi par di vederla la signorina Grazietta.... come deve essere felice là, coi suoi canarini, col suo orticello, colla compagnia amena di mia sorella!... ride, salta, corre, si fa rossa in viso come una fragola.... La deve proprio star bene là! A tutte queste interrogazioni indirette, come le suggeriva il rispetto, Corrado rispose: «Grazietta è felice, tua sorella è felice, anch’io sono felice.... — Ed io.... esclamò Antonio, ma si corresse: ed io non conto.... ma se contassi, sarei più felice di tutti. — Lasciami ora, mi chiamerai pel desinare, disse Corrado sorridendo al vecchio amico per temperare la durezza dell’ordine.... lasciami.... Antonio, rispettoso tutte quante le ventiquattr’ore, aveva i suoi minuti di tacita ribellione. Non se ne accorgeva lui, ma ce ne siamo accorti noi benissimo: tutta la sua obbedienza non gli impediva di fare sempre a modo suo. Riuscì dunque a non muoversi, fingendo o credendo lui stesso di affrettare per andarsene. Chi sa? il padrone poteva fare qualche nuova domanda, come talvolta gli era accaduto.... Non ne fece alcuna; e bisognava pur passarla quella benedetta soglia, e chiuderlo quell’uscio benedetto.... Forse no.... di chiudere l’uscio veramente non aveva avuto ordine.... «Devo chiudere?» si arrischiò a domandare. — Fa come vuoi.... La risposta dava diritto al vecchio di rimanere dubitoso; prima fece per andarsene senza chiudere l’uscio, ma tornò indietro, lo socchiuse, lo riaprì, e finalmente lo chiuse. Corrado stette ad ascoltare i passi del vecchio, che si allontanava, poi si lasciò cadere sul divano, appoggiò la bocca ad un cuscino, e pianse. XVI. Il signor conte di buon umore. Quando Antonio venne a bussare all’uscio due colpi discreti, e ad avvertire che il desinare del signor conte era servito, da un buon quarto d’ora il signor conte andava su e giù per la camera inseguendo un’idea importuna che non gli riusciva d’afferrare. «Vengo,» disse, e continuò a fare altri due giri, crollò il capo ed uscì. A tavola fu di facile contentatura; la minestra era eccellente, il pollo cotto a puntino, i piselli primaticci squisiti, il valpolicella delizioso. Antonio, stando impalato dinanzi alla credenza per ricevere i piatti caldi dalla cucina e servirli al padrone, si affacciava ogni tanto allo sportello per ringraziare il cuoco con un sorriso o con una parola sommessa d’incoraggiamento. Quel desinare fu l’ideale dei desinari, incominciato e finito colla regolarità d’un orologio, senza un intoppo, senza un ritardo, senza una smorfia, e con appetito. Alle frutta Corrado divenne verboso; volle che Antonio bevesse con lui, e Antonio stette sul diniego una volta, due, poi accettò per obbedienza, non senza prima aver chiuso lo sportello perchè gli occhi curiosi del cuoco, fatto ardito dal suo trionfo caldo caldo, non fossero testimoni di una dimestichezza fatale alla disciplina. Davvero il valpolicella era delizioso, aveva sette anni a dir poco, era entrato nell’età del giudizio, e perciò doveva tanto più facilmente farlo perdere alla gente. Strana cosa! il vecchio servitore fece questa osservazione senza chiederne il permesso, dopo aver vuotato il suo bicchiere d’un fiato, secondo stabiliva il rispetto. — Bevi, vecchio mio, disse Corrado versandogli altro vino nel bicchiere, bevi.... — Oh!... oh!... grazie.... basta! basta!... — Bevi, insistè il padrone, oggi non è un giorno come gli altri per me.... — Si vede.... — No, non si vede. — Cioè non si vede veramente.... ma si capisce.... — Nemmeno.... — Nemmeno.... — Bevi, Antonio, bevi, e poi sappimi dire che cosa capisci nel mio volto.... Come credi che abbia occupato il mio tempo prima di desinare?... Non lo indovini? Lo credo io!... A piangere. — Che! — Proprio; tu dirai: «Alla sua età!» — Non dico questo.... — Lo pensi, non lo negare. Prima di rispondere, Antonio vuotò il bicchiere per farsi forza: — Non lo nego, poichè me l’ordina; ma se non me l’ordinasse, lo negherei, sissignore lo negherei.... Alla sua età io era un ragazzo.... e non piangevo. Alla sua età.... Vediamo, che età è la sua?... Lei è nato.... — Lascia stare; non importa; hai ragione tu, sono un ragazzo, ed ho pianto perchè ero troppo felice.... Sicuro.... le grandi gioie hanno bisogno di lagrime; quando ho letto questa idea la prima volta, l’ho creduta una corbelleria.... ora mi pare un articolo di fede. — Scusi, ma è un articolo bugiardo, si affrettò a dire Antonio; mi lasci dire, è un articolo bugiardo; io mi ricordo quando mi furono appiccicati, dinanzi alla compagnia, i galloni di caporale.... nel campo.... in faccia ad una batteria.... era una gran gioia, le pare?... Ma non ho pianto.... e che figura avrei fatto a piangere? Corrado rise forte, si alzò da tavola e battè sull’omero del vecchio.... «Hai ragione,» gli disse. «Ha torto, disse quando fu solo; non ho io morsicato il guanciale, non ho bagnato una pezzuola di lagrime, e non sono forse straordinariamente felice? Dunque ha torto. Sì, le grandi gioie hanno bisogno di lagrime. Vi è qualche cosa che fa nodo qui, qualche cosa che si scioglie qua, così nei dolori come nel piacere, quando soverchiano la fibra; la natura si comporta allo stesso modo.... deve essere così.... è così certo. Corrado parlava forte, come ad un invisibile interlocutore, ed alle parole aggiungeva il gesto. Finalmente si fermò dinanzi allo specchio, e levando in alto l’indice: «Corrado! Corrado!» disse; poi rise, poi si fè serio, ed aggiunse con una singolare gravità d’accento: «Il valpolicella proprio quando si deve supporre che abbia fatto giudizio, lo fa perdere agli altri.» Si tolse di botto la veste da camera, indossò altri abiti, e fuggì di casa come uno scolaro. «Glie l’ho fatta, disse scendendo le scale; ora Antonio va nella mia camera per portarmi il caffè, non mi trova, domanda a quel melenso di Proto se mi ha visto.... non mi ha visto.... gliel’ho fatta.» «Ah!» esclamò forte, giunto sulla via, e siccome qualcuno si voltava, proseguì abbassando la voce: «La tua buona azione ce l’hai, nessuno te la toglie, ora puoi ridere delle tue ubbie; peccato che non nevichi per beffarti anche della nevicata! Hai avuto il capriccio di un’opera santa, non ti manca più nulla; spero bene, Corrado mio, che in avvenire farai senno e non seccherai gli amici e non sbadiglierai baciando un calice colmo di sciampagna od una guancia tinta.... Bella sera! a quest’ora Grazietta guarda le stelle dalla finestra o fa la lezione al suo canarino. Lasciamo Grazietta; che fa a quest’ora la vezzosa Agnese?... perchè è proprio vezzosa Agnese; ha due labbra, che sembrano di corallo, e due guancie fresche e morbide come velluto.... non se le tinge.... me ne sarei accorto baciandola.... e non si sarebbe fatta rossa.... Perchè si è fatta rossa?... basta, è proprio bella Agnese.... Lasciamo stare Agnese.... Al Circolo ci saranno tutti: Filiberto, Domenico, Felice; è un pezzetto che non mi vedono; mi assedieranno di _che_, di _come_.... mi par di sentirli.... ed io muto come una sfinge, beffardo come una maschera. Aniceto è capace di dirmi che a lui l’essere stato otto giorni senza lasciarmi vedere sembra la cosa più naturale del mondo, perchè, avendo perduto il _cor_, devo essere diventato _rado_.... Ne è capace; ha avuto una settimana per pensarci.... Due passanti, vedendo un uomo elegante che borbottava fra sè e sè, lo guardarono fisso; Corrado ammutolì affrettando il passo; un momento dopo ripigliò: «Sì, sono contento, sono felice; ho fatto una cosa che nessuno dei miei amici ha saputo fare, una cosa che a me stesso non era mai riuscita prima d’ora.... È bello poter dire: «siamo scioperati alla superficie, sotto siamo filantropi;» è bello pensare che mentre beviamo lo sciampagna, qualcuno ci benedice.... sì, è bello. Non bisogna però dirlo a Filiberto ed a Felicino; essi sono nell’età in cui dinanzi al bicchiere colmo un po’ di cinismo fa buona figura, portano seco l’avvenire, lo scialacquano.... ma è una miniera. Noi siamo i viaggiatori svaligiati, e ci tocca far le spese del buon umore se non vogliamo farci scorgere.... Oggi sono in vena, li farò ridere.... li ho seccati tanto l’altra volta!... Giunse al Circolo, si guardò in uno specchio dell’anticamera, ed attraversò le note sale; l’ultima, dove la comitiva soleva raccogliersi, era ancora deserta. Aveva preparato le parole, il contegno, e non si aspettava questo contrasto; aspettò; pareva fatto apposta, nessuno veniva. Corrado contò coll’occhio gli scacchi del tappeto dalla sua poltroncina fino alla parete: _tredici_.... tenne gli occhi fissi nella parete, il pensiero nel numero. Un orologio, che prima era stato zitto, ora incominciava a battere i secondi, ed il suo accento monotono pareva nel silenzio acquistar forza sempre nuova; da lontano giungeva ogni tanto il rumore delle palle del bigliardo. Suonarono le 8; Corrado rialzò il capo, tese l’orecchio.... nessuno. Passò un’altra mezz’ora, poi si udì nella vicina sala un rumore di voci. Il conte fu in piedi d’un balzo. «Finalmente!» disse. Ma Aniceto e Filiberto si erano arrestati dinanzi all’uscio e sembravano discutere.... E Corrado, mutando improvvisamente proposito, si guardò intorno, aprì un usciolino in fondo alla camera e scese le scale. Sulla via respirò libero. «Meglio così, disse, non ero in vena di ciancie. Non so che m’abbia oggi, qualche cosa mi manca, ci è un vuoto qua dentro.... E poi bisogna pur rispondere a chi domanda: «che hai fatto in questi giorni? — Mi sono fatto una nuova innamorata!» così bisogna rispondere.... E dove la piglio io l’innamorata?... Corrado dirigeva i passi verso la via Solferino: giunto al numero 9, quasi quasi infilava il portone sbadatamente. Si fermò in tempo, e facendosi addosso al muro dirimpetto, guardò alle finestre illuminate del secondo piano. «Rapirla a quel vecchio avaro non deve essere difficile; io non sono vecchio..., nè avaro!» Se ne andò a passo lento; alla svolta della via, fermandosi, diede un ultimo sguardo alle finestre e disse come in risposta ad una domanda segreta: «Agnese è più seducente, più leggiadra, più bella.... sì, più bella!» XVII. Agnese. Il giorno successivo, verso il mezzodì, Corrado si levò da letto, si lasciò cadere sulla poltrona e volle che gli si radesse la barba. Antonio non riceveva mai quest’ordine, che gli toccava trasmettere a Proto, senza arrabbiarsi della propria ignoranza: gli piangeva il cuore di vedere quel ragazzaccio melenso cacciar le dita nel collare del padrone, piantargli le manaccie nel viso senza ombra di riguardo, tanto più che Proto non si accingeva mai all’ufficio delicato senza fare un sorriso di compiacenza, che gli fendeva la faccia in due, e senza dire all’orecchio d’Antonio: «State a vedere con che grazia lo piglio per il naso.» Il vecchio avrebbe dato non so che per non vedere un orrore simile, ma non si sapeva staccare dalla camera, e sol che potesse, faceva da testimonio. Allora Proto insaponava il volto di Corrado, poi si scostava per affilare il rasoio, per toccar qua, là, senza far nulla, sempre colla sua faccia melensa spartita in due dal sorriso di beatitudine. Qualche volta diceva: «Antonio, fatevi in là, mi togliete la luce. Antonio obbediva senza fiatare, aspettando che Proto avesse finito per pigliarlo in disparte e dirgli a quattr’occhi con un accento solenne: «Canaglia, tu finirai male.» Quel giorno adunque, verso il mezzodì, Corrado si fece radere da Proto, poi stette una buona ora allo specchio, adoperò acque, unguenti, spazzole e spazzolini, infilò guanti freschi ed uscì. «Scommetto che vuol farsi una nuova innamorata! osservò Proto.» Il vecchio rispose con un’occhiata severa, senza riuscire a chiuder la bocca all’impertinente. E l’impertinente aveva ragione. Corrado quella notte aveva patito d’insonnia, si era domandato invano per qualche lunga ora che cosa mai gli mancasse, ed aveva finalmente risposto che gli mancava l’innamorata, che il posto occupato dalla bruna Fanny era vuoto, e da otto giorni almeno non doveva essere, e che Agnese era bionda e superlativamente bella. Andò dunque difilato in via Solferino, N. 9, salì le scale, entrò; gli fu detto d’attendere in salotto; attese. L’ampia camera era tutta illeggiadrita di fiori; pareva un tempio preparato per un rito amoroso; vi erano due camelie bianche nei vani delle finestre, giacinti in fiore sulla caminiera, e sulla tavola di mezzo un vaso di porcellana con una ghirlanda di puttini, che mettevano insieme tutte le loro forze per reggere un enorme mazzo di viole mammole. Che voluttuoso languore nella luce temperata, nel contrasto delle tinte, nelle varie onde di profumi che s’incrociavano nell’aria! Fu ben altro quando la cameriera venne a dire a Corrado che, per non fargli perdere la pazienza, la signora lo riceveva nella sua camera da letto. Il signor conte Germinati aveva provato altre vòlte brividi simili a quello che gli corse per tutto il corpo a tale notizia; nè nuovo era per lui lo spettacolo che gli si offrì quando fu giunto nel santuario della bella donna: un volto da serafino, che gli sorrideva di mezzo ai lunghi capelli cadenti giù per le spalle — un bocciolo di rosa in una nicchia d’oro. Pur Corrado, il quale era entrato quasi saltellante, da uomo pratico, si sentì inchiodare da un fascino a cui non seppe resistere, e nello stringere la manina bianca, che gli veniva offerta, la tenne nelle proprie come uno smemorato. Fu Agnese la prima a parlare: stando seduta innanzi allo specchio e sollevando gli occhioni in faccia al visitatore, ella si scusò se ricevevalo in quel luogo, a quell’ora; aveva patito d’insonnia, si era levata da letto più tardi del solito, la sua giornata cominciava appena. «Se non vi spiace di far quattro chiacchiere intanto che la Nina mi pettina.... — Sì, mi spiace, rispose Corrado scherzosamente; vorrei star mutolo per ammirarvi. — Grazie, disse Agnese, e provò a fare un inchino, ma si sentì tirare per i capelli e fece: _ahi_! — Ahi! ripetè scherzosamente Corrado, Nina vi raccomando.... Nina!.... La ragazza rise forte. — Siate testimonio, disse Agnese dopo un breve silenzio, che non porto capelli posticci.... E soggiunse voltando il bel viso: «che non metto cinabro alle labbra, che non do lo smalto alle guancie, appena appena un po’ di _veloutine_ che io non posso soffrire; ma è indispensabile; se non sembriamo fatte di bambagia, se non siamo vaporose, non vi si piace più.... Ed ecco come si fa a diventar vaporose per piacere a lor signori.... Prese allora essa medesima un piumino, lo cacciò in una scatola di polvere bianca e toccò leggerissimamente le guancie, il mento, la fronte; poi agitando la testa vezzosa, accese mille riflessi d’oro, ed apparve un istante come circondata da un tremolìo di raggi, diafana, morbida al pari di una creatura sognata. «Vi piacio così, signor conte? E rise. Il signor conte non ebbe parole per rispondere, e la Nina riafferrò i capelli stentando a tenerli tutti nel pugno, poi li spartì col pettine in due porzioni eguali, e disse: «tenga questi.» Fingendo di pigliar l’istruzione per sè, Corrado si affrettò a _tenere_: la Nina lo guardò sorridendo, Agnese disse grazie, e allora il signor conte si levò un guanto coi denti e cambiò di mano il suo tesoro per sentirne tutto il valore. Come erano morbidi quei capelli! Ecco che, invece di tenerli semplicemente, li accarezzava, lasciandoseli sfuggire un attimo e riafferrandoli tosto, finchè la Nina venne a riprenderli. «Starò così, disse poco dopo Agnese, tirando le due treccie intorno al viso e annodandole sotto il mento, sto bene? Si guardò nello specchio, esclamò che era un orrore, che pareva un mostro, sciolse il bel volto da quel laccio — si levò in piedi. Ed era un vezzo ogni movenza. Corrado guardava estatico, trovandola ora più bella di poc’anzi, oggi più bella di ieri, e sempre senza paragone più bella di Fanny, di Candida e di tutte le altre fanciulle del suo martirologio. «Starò così, ripetè Agnese, rivolgendosi direttamente alla Nina; e significava: «non ho più bisogno di te, vattene.» La cameriera se ne andò. Subito, come se altro non aspettasse, la bella buttò le braccia al collo di Corrado, e gli scoccò un bacio abbandonandolo a sè stesso. Costui barcollò come un ebbro, e Agnese ridendo: «Come vi siete fatto pallido! signor conte. — Mi sono fatto pallido? rispose Corrado.... è strano! — No, non è strano; avete avuto paura che vi volessi mangiare.... ecco. Poi apri l’uscio che metteva nel salotto ed entrò, aspirando il profumo delle viole e dei giacinti colle nari dilatate. Il conte le veniva dietro; ancora non si riaveva dallo stupore per l’accoglienza che gli veniva fatta; era venuto per porre un assedio da burla ad una fortezza smantellata, si aspettava resistenze fiacche, ripulse, moine, vezzi, civetterie tolte a prestito alla virtù per far più bello il piacere; trovava ben altro; non l’opposto, ma ben altro e peggio, l’incomprensibile. Non sapeva come interpretare quei modi familiari, quel sorriso, quel bacio; ed ora si lusingava d’aver ispirato ad Agnese una _passione_, ora se ne atterriva, ora si accusava d’essere vanitoso e sciocco. Agnese andava in giro per la sala, guardando i giacinti ad uno ad uno, dando ogni tanto un’occhiata fuggevole al conte, determinata evidentemente a non aprir bocca, se costui non le diceva qualche cosa. «Come siete bella oggi!» sospirò Corrado. — Che bella giornata oggi! rispose Agnese. E non si volse nemmeno. Poco dopo, venne a sedersi presso a Corrado e ripetè: «Che bella giornata oggi! «Come siete bella oggi! rispose l’altro serio. — Ah! vediamo, vi ho offeso? La mia osservazione vale la vostra. «Bella giornata oggi! Come siete bella oggi!» Quale differenza fate? Ditemi qualche cosa d’altro... posto che siete venuto. Per esempio: perchè siete venuto? — Per vedervi, per dirvi.... — Che cosa? — Che sono innamorato di voi.... l’ho detto. Agnese non rispose; erasi rivolta a guardare verso la finestra. — Ci è un filo d’aria.... disse poi.... lo sentite? e pure è tutto chiuso.... Dicevate? — Dicevo che sono innamorato di voi. — Davvero? — Davvero; vi stupisce? — Tutt’altro; lo sapevo anzi, — a tutti gli uomini che ho conosciuto è capitata la stessa disgrazia, e non vi è amica mia, che non abbia avuto la stessa fortuna.... — Canzonatemi pure, ma ascoltate. — Vi ascolto, ma prometto di non credere una sillaba.... — E allora taccio. — Anche tacendo non sarete sincero; la sincerità è impossibile ad un uomo come voi posto in faccia ad una donna come me. Vediamo; vorreste essere schietto almeno una volta?... — Come devo fare? — Venite dietro come un’eco; dite così: «Io sono venuto a farvi la mia dichiarazione.» — «Io sono venuto a farvi la mia dichiarazione.» — «Perchè ho il cuore disoccupato....» — «Perchè ho il cuore disoccupato....» — «Perchè mi piacete.» — «Perchè mi piacete tanto, tanto, tanto....» — «Perchè mi pare che passerei bene il mese di marzo con voi, e parte dell’aprile....» — «Perchè sono sicuro che passerei bene il mese di marzo con voi, e parte dell’aprile...., e il resto dell’aprile e dell’anno e della vita....» — Siete un’eco infedele e chiaccherone. — «Siete un’eco infedele e chiaccherone....» Risero forte. — Finisco: «E perchè vi ho creduta e vi credo ancora innamorata di me.» Corrado balzò in piedi, e pose la mano sul cuore a protestare che questo non lo voleva proprio ripetere, perchè non era assolutamente vero. — È vero, disse Agnese. — Sarò schietto; è vero per metà; cioè vi ho creduta un momento solo innamorata di me; ora non lo credo più. — Ah! il signorino confessa! esclamò Agnese tra la beffa ed il riso; e perchè lo aveva creduto? per uno dei miei baci che non seppi nè rifiutar nè concedere senza farmi rossa, dopo essermi per un’ora creduta un’altra donna dando altri baci alla mia Grazietta! Mi sono vendicata; poc’anzi non avete voi impallidito ad uno dei miei baci?... Avrei diritto di credervi innamorato pazzamente di me. — Oh! ve ne scongiuro, credetelo. — Non lo credo. Ebbe un istante di serietà bizzarra, poi mettendo le due mani in quelle di Corrado con un vezzo irresistibile: «Non inganniamoci a vicenda; siamo tutto il meglio che possiamo essere: buoni amici; marzo porterà le primule, aprile le pervinche, maggio i mughetti e le rose, giugno, luglio ed agosto i fiori di mille colori, come dicono i poeti, che non sono mai usciti di casa, sinchè dicembre riporterà i giacinti primaticci per inghirlandare un’amicizia, che potrà sfidare il tempo. Mi avete detto un’altra volta che non vi credete nulla di più di me, che al vostro confronto io sono una vergine, che avete anche voi in cuore un po’ di scetticismo, un po’ di nebbia nella testa, e che vi sono quarti d’ora in cui la nausea della vita piglia voi come me; se tutte queste non sono parole, non sdegnerete la mia amicizia schietta. Il mondo, che non pensa come voi, vi crederà il mio amante; non me ne importa. Corrado non rispose subito, pareva distratto; poi disse: «Che cosa crederà Grazietta? — Che vi passa per il capo?... non so.... nulla probabilmente, essa sa che siamo amici, e non le sembra strano, come sembra al mondo. — Come sembra.... Dunque?... — Mi avete fatto tre visite in pochi giorni; ce n’è più del bisogno; voi passate fin d’ora per il mio innamorato agli occhi del portinaio.... che incomincia e rappresenta il mondo. — E non vi duole questo? — Niente affatto.... sono libera di ricevere chi mi pare e piace. — Ricevete molti? — Nessuno, tranne voi. — E.... — Già. — Non è geloso? — No. — Somiglia al ritratto che ne ha fatto Grazietta? — Somiglia. — Come si chiama? — Corrado, amico mio, vi avverto che vi distraete troppo. — Scusate, disse Corrado ridendo, è vero. Tacque un istante; poi ripigliò: — Come si chiama?... — Ricominciate? — Finisco. Come si chiama? — Non lo posso dire; non vuole che si sappia, è l’unico vincolo che m’impone lui, gli altri me l’impongo io stessa. — Quali? — Rispettarmi, rimaner donna perduta, senza diventare donna viziosa; mi piace il lusso, l’agiatezza, la pace; mi si dà tutto questo — mi basta. — Non è dunque avaro? — È avaro; ma è innamorato.... a suo modo; si accontentava di un terzo, d’un quarto, d’un sesto del mio amore, per fare economia; non potendo, si è sagrificato: l’ha preso tutto. — E che rispondete a chi vi dice: vi amo? — Secondo i casi.... — Vi adoro!... — Bugiardo! Uscendo da quelle camere, da quel fascino, Corrado sembrava aver dimenticato ogni cosa; camminò un tratto per la via, misurando le lastre di granito del marciapiedi, poi si ravvide, si volse. Era certo di vedere Agnese alla finestra — non vi era. «Non mi ama ancora!» disse e tornò a misurare le lastre del marciapiedi. Nello stesso momento Agnese, dopo essere andata in giro per la stanza guardando con occhio sbadato i giacinti, le camelie, le viole, si arrestava dinanzi allo specchio e mormorava fra sè e sè: «Non mi ama ancora!» XVIII. Nel circolo e nel prato. Quella sera il conte Germinati tornò al Circolo; non vi era alcuno. Si buttò in un divano ed attese fumando. Aveva il riso sulla labbra, l’arguzia pronta, una strana luce negli occhi. Venne Aniceto. «Ti trovo invecchiato, gli disse Corrado. — È vero, rispose l’altro senza scomporsi, ho compito domenica passata i quarantasette anni; fino a sabato potevo dire di non avere che quarantasei suonati; in un giorno sono invecchiato d’un anno. Venne il Domenichino. «Come sta Fanny? domandò Corrado. — A meraviglia. — E tu patisci sempre l’insonnia? — Sempre, rispose l’altro sbadigliando. Venne Filiberto, vennero altri ed altri; a ciascuno Corrado diceva la sua; invece di esporsi bersaglio a motteggi, ad illusioni, preveniva gli amici. Si fu d’accordo nel risalutare in lui il Corrado dei tempi migliori, lo si paragonò alla pecorella smarrita della parabola, e l’ovile non fu mai così chiassoso. Era già notte tarda, ed uno ancora mancava — Felice. — Manca Felicino; osservò Corrado. — E non verrà; gli è bastato sapere che tu eri innamorato per credersi in diritto d’innamorarsi anche lui; si è accorto che ti serbavi fedele alla tua Grazietta, ed egli argomentò che era lecito a lui pure essere fedele! Disse a sè stesso: «Felice! se _fé_.... _lice_, tu sei felice!» Deplorabile virtù del mal’esempio! Tutto intento a guardarsi intorno per raccogliere il prezzo del suo bisticcio, Aniceto non vide l’improvviso pallore, che coprì il volto di Corrado, nè la premura con cui cercò di nasconderlo gettandosi innanzi due buffi di fumo. Diradatosi il nugolo, Corrado riapparve sereno come prima. — Aniceto, tu mi regali un’innamorata; non so che farmene.... ma dove sei andato a stanarla questa tua.... come la chiami?.... — Statelo a sentire l’ingenuo! Non ci hai forse contato tu stesso la storiella dei capelli biondi nella bottega del parrucchiere famoso? Non ce l’hai dipinto tu stesso il visino da madonna di Grazietta?... — To’! È vero! esclamò Corrado battendosi la fronte. Bravo Aniceto! Vai perdendo i capelli, ma ti rimane la memoria.... Aniceto non l’udì nemmeno; il genio dei bisticci lo baciava in fronte. — Peccato! esclamò all’improvviso. — Che cosa? disse Corrado. — Peccato che la tua Grazietta non si chiami Crazietta o Cristina. — Davvero? — Davvero; perchè nel tuo nome avresti potuto leggere il tuo destino: Corrado — «adoro Cr....» — Buona! disse Corrado, ma è venuta troppo presto — bisognava aspettare che m’innamorassi d’una Cristina. Oh! Aniceto, perchè non dai retta al tuo nome? perchè non li conservi i tuoi bisticci? Oh! Aniceto, perchè non li metti _in aceto_? Risero tutti, tranne Aniceto, il quale venne a stringere la mano di Corrado e ad assicurargli che aveva fatto un capolavoro. Mezz’ora dopo, scioltosi dagli amici, Corrado si diresse a casa sua; ma andò oltre il portone, attraversò quella via ed un’altra, a passo prima spedito, poi man mano più lento, finchè giunse nella via Lesmi; allora, scavalcando una siepe, si cacciò in un campo. Stette in ascolto: non passava nessuno; non si udiva alcun rumore. Rasentando il muricciuolo, fece il giro del recinto, si arrestò dinanzi ad una piccola cancellata e pose la testa fra due sbarre. A poco a poco distinse gli alberi ancora nudi, un sentieruolo, in fondo in fondo la casa biancheggiante ed i vani neri delle finestre del primo piano. Una luce mobile balenò all’improvviso in quei vani; qualcuno saliva dal piano terreno, poi la luce divenne più viva e si fissò come una stella nella camera, poi sparve dietro ad un corpo, che gettò un’ombra lunga nel prato. Quel corpo venne alla finestra per chiuderla, stette alquanto, si ritrasse, chiuse; lungamente il lumicino brillò attraverso i vetri, si spense. Il conte, dimentico di sè stesso, continuava a spingere l’occhio nel buio. XIX. Festa intima. Una gran luce si fece nel cuore di Corrado. Tre volte ripetè egli la gran parola, con stupore, con isgomento, con allegrezza: amava! Quell’ansia indeterminata, quella inquietudine, a cui da oltre un mese veniva cercando cento pretesti, quel vario umore, in fondo al quale, inavvertita talvolta, era una gran gioia repressa, quello spasimo segreto — tutto ciò dunque era l’amore? Non l’amoroso delirio ormai queto per sazietà, non la febbre oscena prolungata cogli artifici e già presso ad essere guarita dalla nausea — bensì l’amore semplice, quello che fa battere il cuore senza ardere le fibre, che è desiderio, ma ignorato dai sensi, che è febbre, ma onesta, che è delirio, ma generoso. E rivalicando venti anni di altri amori, uno ne ritrovava che somigliava a quest’ultimo — ed era il primo; la gentile immagine di Grazietta rievocava un’altra gentile apparsagli nella sua primavera, quando il suo cuore si schiudeva come una gemma, e il suo pensiero era alato, e il suo desiderio santo. Quella fanciulla, divenuta madre a figli d’un altro uomo, non somigliava ora a sè stessa quanto le somigliava Grazietta. Ed ahi! se quella fanciulla era venuta troppo presto, giungeva Grazietta troppo tardi! Un duro capriccio regola le cose del cuore; il primo amore cade immaturo dall’albero della vita, l’ultimo nessuno raccoglie. Così diceva Corrado! E ripensava il banchetto offerto alla curiosità dell’adolescente, alla bramosia del giovine, al capriccio svogliato dell’uomo; ricordava le cento donne desiderate un istante, poi buttate via come frutti bacati, e non vedeva ora in quel facile raccolto d’amori altro che un’amarezza durata vent’anni. Perchè non aveva egli fatto sopravivere il primo amore alla prima donna incontrata? Perchè non se n’era composto la forza della sua gioventù, il compagno, il conforto della sua vita? Ah! perchè grande era la tentazione, assiduo il mal’esempio, potente la curiosità; perchè cento alberi offrivano con mille braccia i loro frutti maturati dal vizio, e bastava stendere la mano per raccogliere la vanità, il delirio, la colpa. È tardi ora; questo amore, che nasce puro da cento amori venali, è una pianta melanconica cresciuta sulle rovine d’un tempio profanato. Bisogna strapparla prima che approfondisca le radici, se n’è tempo; oppure lasciarla vivere ignorata. Ma non poteva Corrado non pensare a Grazietta. Era il pensiero di lei che egli amava più di lei stessa; e fuggir lei poteva, ma quel pensiero gli sarebbe venuto dietro dovunque. Con qual frutto dunque fuggirlo? Amar Grazietta in segreto; assaporare tacitamente la gioia di vederla, di stringerle la mano; parlarle ed ascoltare la cara musica della sua voce, respirare l’effluvio dell’innocenza — ecco dunque la sua unica gioia. Altro non gli serbava l’avvenire, altro non gli era concesso sperare. Come per lo passato occulti a lui, così in avvenire, a lui palesi ad ogni altro celati, tutti i suoi pensieri furono per Grazietta; ma non uno di essi pigliava aspetto manifesto di desiderio; e finchè non giunge il desiderio, lontana è ancora la speranza. Che poteva mai sperare Corrado? Null’altro che tornare adolescente, egli già al tramonto della sua giovinezza, null’altro che dare al cuore un trastullo, rimettere le ali alla fantasia, folleggiare non visto, ricantar sottovoce le prime strofe della vita. Si proponeva di veder Grazietta come pel passato, di parlarle come era solito fare, di portar seco la sua intima festa tutta per sè solo. Voleva nascondere agli altri il proprio scrigno, ed immaginava serbate a sè tutte le gioie segrete dell’avaro, più pure perchè non turbate da alcuno sgomento, più intense perchè a lui concessa la continua contemplazione del suo tesoro. Invece, il domani della grande scoperta fatta nel proprio cuore, dopo essersi ribellato felicemente al desiderio, non seppe resistere all’istinto, e si trovò quasi senza avvedersene nella casetta tranquilla in via Lesmi. Colà rise più dell’usato, cianciò molto colla signora Valentina, le fece mille domande indirette, e fu da lei messo a parte d’un segreto: la savia educatrice dava lezioni di nascosto a Mario, e già il _virtuoso_ non diffidava di lei, già stava ad udire in silenzio quando gli parlava, già si arrischiava a venire a pigliarle di mano una mandorla di pino;.... però non bisognava dirlo a Grazietta.... Corrado promise di non fiatare, e quando la fanciulla passò nell’orto canticchiando, e levò la testolina di neve e d’oro per mandare un sorriso alla finestra, il signor conte sorrise anch’esso con un certo sussiego, senza farsi rosso, senza farsi pallido, con una ammirabile sicurezza di sè; solo il cuore gli batteva forte; ma chi poteva vederglielo il cuore? Chi poteva contarle le monete del suo scrigno? Egli solo sapeva di essere ricco; gli bastava. E tornò il dì dipoi, e l’altro; ma ingegnoso sempre nel mettere innanzi un pretesto ad ogni sua visita. Erano disposizioni da dare sul modo di rizzare il padiglione e di tracciare il sentiero, che doveva condurvi, sull’ampiezza del giardino, sulla forma delle aiuole. «Quel benedetto ortolano, se lo lasciassi fare di suo cervello, non avanzerebbe più di quattro spanne di terreno ai fiori. — E per questo lei s’incomoda a venire fin qui, rispondeva Grazietta, guardandolo in viso senza saper l’incendio che destava. — Le pare? ci trovo gusto; sono uno sfaccendato e così mi distraggo; le assicuro che me la godo.... le assicuro.... Si fermava; quelle assicurazioni erano pericolose, e non bisognava abusarne; anche gli occhioni della fanciulla erano pericolosi, e non era prudente guardarli troppo fisso e troppo a lungo, bensì sfidarli un istante e fuggire, vedere il colore del cielo ed indovinare il paradiso, leggere il primo verso e declamare dentro di sè con enfasi muta tutto il poema. Così faceva Corrado. Quando voleva pigliarsi una licenza ardita, si dava un’aria più grave del solito per rifare l’equilibrio; così per prendere una manina di Grazietta e tenerla un poco fra le sue, parlava con voce lenta, compassata, solenne; e per lisciarle i capelli, non bastava più, come una volta, trovare un minuzzolo di non so che da levarne, bisognava levarnelo appuntando le labbra ed aggrottando le ciglia, come si fa nelle operazioni difficili. In questo giuoco innocente la sua malizia di uomo stagionato era proprio maestra, e una maestra a cui l’ignoranza di Grazietta rendeva lecito tutto, anche lo sproposito. Per esempio: l’ostinarsi a voler cercare le traccie della ciocca di capelli recisa da lui in quella selva di fili d’oro — ecco uno sproposito; e un altro sproposito era l’abbandonar la ricerca di botto al sopraggiungere della signora Valentina. Grazietta, che non ci comprendeva nulla, avrebbe potuto con un paio d’interrogazioni mettere il conte in imbarazzo, ma nel suo candore si accontentava di fissargli in volto quegli occhioni di fata. Ah! quegli occhioni di fata! Corrado non li poteva più dimenticare. Anche lontano, li vedeva, fissi, lucenti, sereni; assolutamente non erano due occhi azzurri, erano due finestre del paradiso. Corrado si era trasformato in modo bizzarro — regalandosi dieci anni alla superficie per togliersene venti di dentro; in apparenza era più grave che mai, in segreto non era mai stato così fanciullo. La sua casa non gli sembrava più una prigione, nè i mobili ostili; i monelli delle tappezzerie, presi a muti confidenti, lo ascoltavano senza beffa. E si avvedeva ora che male aveva paragonato la sua alla gioia dell’avaro, perchè l’amore è di natura prodigo, e della peggior specie, di quella che butta i suoi tesori senza beneficare anima viva. Tornando dalla casetta in via Lesmi, dopo un’ora di dolce tortura, sentiva bisogno di fermare per via il primo venuto, per dirgli che era felice, che amava; e giunto a casa, dopo aver resistito alla tentazione di abbracciare il suo vecchio Antonio, si chiudeva in camera ed apriva uno scatolino d’ebano in cui non era altro che una ciocca di capelli biondi ed un mazzolino di mammole avvizzite. Poi veniva fuori all’aperto, chè le pareti della sua casa non bastavano a contenere tanta felicità, attraversava le vie a passo spedito, salutava gl’ipocastani del bastione come vecchi amici, finchè, volendo pensare a tutt’altro e proponendosi di andare al circolo a far impallidire Aniceto con un paio di bisticci solenni, si trovava col pensiero e cogli occhi fissi nel lumicino delle finestre di Grazietta. Qualche sospiro si mesceva alla sua festa, ma solo per farla parere più bella. Era proprio mutato quel caro ragazzo, lo diceva anche il vecchio Antonio. Sì, era proprio mutato. Ogni giorno, uscendo di casa, trovava sulla porta un poverello a cui dava una moneta, ne trovava un altro alla prima cantonata ed un altro più lungi, e ad ognuno dava una moneta. Una volta invece, non per durezza di cuore, ma per una singolare grandezza che il volgo non comprende, cioè per non trovarsi miserie tra i piedi, o perchè aveva il pastrano abbottonato e gli seccava fermarsi e cacciare le mani in tasca, non dava uno spicciolo per le vie, lasciando ad Antonio l’incarico delle elemosine al sabato. E un’altra gioia si univa alla sua gioia, la certezza cioè che non gli poteva venir scemata o tolta da chicchessia. Perchè, diceva Corrado, solo quelle felicità hanno carattere durevole, che dipendono da noi soli, che nascono e si alimentano nel nostro cuore, che si nascondono all’occhio profano. Ah! egli non pensava che alimento della sua felicità era il desiderio inavvertito, stimolo occulto d’ogni piacere, quel desiderio che, quando cessa d’alimentare la gioia, l’avvelena — non ci pensava ed era felice. Da parecchi giorni non vedeva Agnese, anche gli amici aveva di nuovo abbandonato; ma che poteva importare a lui d’Agnese e degli amici, ed a costoro di lui? — non era egli un altr’uomo? Sentiva non so quale riluttanza a recarsi da loro; parevagli che nel salotto della cortigiana o nelle sale del circolo dovesse rivestire il suo passato, ridivenire sè stesso. Una sera Grazietta gli disse: «È stata qui fin’ora mia sorella, non l’ha trovata per via? — No. — È curioso; mi ha chiesto di lei; mi ha domandato se veniva spesso.... — E che cosa le ha detto? — Le ho detto di sì, che ora veniva spesso per il padiglione, per le aiuole, pel viale. — Che fa la signora Valentina? — È di sopra; vado ad avvertirla.... — Lasci stare. E trovava un palpito nuovo in questa specie di mistero di cui faceva complice la fanciulla. Il domani, insieme colle parole di Grazietta, gli venne in mente Agnese; ohimè! una visita a costei era indispensabile. Vi andò. Saliva le scale a capo basso, quando si sentì chiamare a nome. — Corrado! — Aniceto! — Venivi da me? — Sicuro.... cioè precisamente no.... stai qui? — Già.... al terzo piano.... non lo sapevi? — No.... — Dove vai? — Vengo con te. E Corrado scese di nuovo le scale. Gli ripugnava parlar di Agnese ad Aniceto, additarla per quel mezzo agli amici del Circolo; sentiva una specie d’avarizia che non sapeva spiegare; pensando alla vergine, era come geloso della cortigiana; non voleva che fosse degli amici la sorella di Grazietta. Cercava un pretesto per spiegare il suo trovarsi in quel luogo; un’insegna appesa all’uscio gli venne in aiuto. — Indovino dove andavi, disse Aniceto raggiungendo l’amico. — Lo indovini di sicuro; dal dentista del secondo piano; l’ho mandato a chiamare, non può lasciare la sua clientela a bocca aperta, e siccome avevo una danza infernale in un molare.... qui a sinistra.... venivo io stesso.... — Ed ora? — Ed ora mi è passata; succede sempre così; la vista o anche la sola vicinanza della chiave inglese fa cessare il mal di denti.... — È vero.... per questo venivi su colla testa bassa.... Sai invece che cosa credevo io? soggiunse Aniceto guardando Corrado in volto — che te n’andassi a trovar la bionda del primo piano. — Al primo piano ci è una bionda? domandò Corrado con indifferenza; bella? — Il portinaio dice di sì; è da un mese solo che sta in questa casa; non mi è mai riuscito di vederla in faccia.... si chiama.... come si chiama? Agnese mi pare. — Un bel nome. Da che parte vai tu? — Da questa. — Ed io da questa. Si separarono. XX. Il signor conte ha dei capricci. Il padiglione era già rizzato, e due vitalbe promettevano di farne un riparo contro il sollione; anche il viale era stato tracciato largo e comodo, senza tener conto dell’eccessivo rispetto che l’ortolano dimostrava alla lattuga ed ai cavoli. Tutto però non era finito; volendo disegnare un’aiuola che fosse degna di Grazietta, bisognava scegliere i fiori di varie tinte e misurarne scrupolosamente la statura, per distribuirli in modo che i più alti non nascondessero i più piccini. Quando l’ortolano ebbe sciorinato tutta la sua scienza, Corrado trovò che non bastava; andò egli stesso a consultare i luminari di Flora, ed ogni giorno recava nuove sementi e pianticelle nuove che venivano messe in apposite cassette. Una domenica il signor conte venne di buon’ora; salì le scale, salutò la signora Valentina, la quale stava dinanzi alla finestra aperta a godersi una tepida brezzolina di marzo, non badando alla caffettiera, che le brontolava alle spalle sul fornelletto. — Lei qui, signor Corrado! — Proprio io: è domenica, l’ortolano non rinunzierebbe a santificare la festa, se dovesse guadagnare.... il paradiso — è giusto quel che ci vuole — ho detto — disporrò io l’aiuola a modo mio; la disporremo noi, e domani gli diremo che è stato il Padre Eterno a fargli l’improvvisata. — Non le pare una buona idea?.... — Eccellente.... mi dispiace che dovrà rimaner solo il tempo della messa.... — Io conosco un modo per non rimaner solo, disse Corrado. — Quale? — Non vadano a messa. — Le pare? — Sissignora. — Nossignore — rispose Valentina ridendo. — Dov’è Grazietta? — Eccola laggiù; sarà andata a misurare le calistegie che si arrampicano al salice.... lo dicevo io.... la vede, si curva. E gridò forte: «Quanti giri fanno, Grazietta?» — Sei, disse la fanciulla; ieri ne facevano cinque. Corrado si era tirato in disparte per non farsi scorgere: — Indovina.... gridò la buona donna; ma Corrado le strinse il braccio per farla tacere, e Grazietta, dopo di aver rialzato il capo per ascoltare, tornò a curvarsi sull’erba del praticello. — La lasci stare così; disse Corrado, e badi che il suo caffè se ne andrà nel fuoco. — Non se ne andrà, rispose la signora Valentina con sicurezza, e si diresse placidamente al fornello. Corrado non staccò più gli occhi da quel fondo verde, in cui si muoveva, saltellando come una gazzella, la figurina bianca e gentile di Grazietta. Non credendosi osservata, ella canticchiava fra sè, interrompendosi per fare seria seria qualche esame importante, ed esprimendo poi a voce alta le sue osservazioni. A un certo punto volle attraversare con un salto il viale tracciato, ma non essendole riuscito di porre il piede sull’erba, si volse, tirò su leggiermente il gonnellino e spiccò il salto benissimo. «Brava! gridò Corrado cambiando la voce e nascondendosi. Grazietta stette immobile un istante, poi fece un atto furbo e mosse verso la casa. Quando Corrado si affacciò alla finestra, incontrò inaspettatamente gli occhioni sereni, i labbruzzi sorridenti e la manina di Grazietta. Sorrise, pigliò la manina, ma dovette voltarsi a guardare da un’altra parte. Bevettero il caffè; poi Grazietta corse in giardino pregando il signor conte di «spiegarle l’aiuola,» e il signor conte dietro a «spiegarle l’aiuola.» Il terreno era dissodato e pronto a ricevere le pianticelle; Corrado vi si cacciò entro sprofondando i piedi nelle zolle, e tracciò col bastone un circolo intorno a sè. «Ecco l’aiuola, disse con un certo sussiego: le par grande abbastanza? — Sì, sì. Qui nel mezzo, in vece mia, deve sorgere un rododendro.... ne ha mai visti di rododendri? il nostro avrà i fiori rossi, quasi neri.... intorno intorno zinnie; poi un giro di petunie e uno di tageti nani, poi pervinche di prato, e per ultimo un’orlatura di elisio odoroso. — Le zinnie le conosco, i tageti anche ed anche le pervinche e le primule; ma l’elisio che fiore è? — È l’_elisium odoratum_. — E l’_elisium odoratum_ che fiore è? — Non lo so, rispose Corrado collo stesso sussiego; incominciamo? — Incominciamo, disse Grazietta battendo le mani. — Lei se ne vada pure a messa, consigliò il conte alla signora Valentina, che stava ad assistere colla solita compostezza bonaria, e si accontentò di sorridere senza muoversi. — Prima il rododendro.... — Dov’è il rododendro? — Eccolo; mi aiuti a levarlo dal vaso.... tenga il vaso, io tirerò.... — Nossignore, non si fa così, entrò a dire la mamma Valentina; bisogna spezzare il vaso, se no si stacca la terra, si mettono allo scoperto le radici, e la pianta se ne muore.... — Lei perderà la messa, rispose Corrado scherzando. — E lei perderà il rododendro. — Ha ragione, disse Grazietta. — Sicuro che ha ragione, ripetè il conte. Il rododendro fu tolto dal vaso con tutte le precauzioni consigliate dalla pratica, e cacciato nella buca scavata apposta. — Ora lo innaffii, consigliò la signora Valentina. — Ora lo innaffio, rispose Corrado, ma abbia pietà dell’anima sua, non perda la messa. La buona donna sorrideva senza muoversi. Ad una ad una le pianticelle furono disposte in giro nei varii solchi tracciati; la testa bruna di Corrado più volte sfiorò la bionda testina di Grazietta, e gli occhi loro s’incontrarono un istante, e le loro labbra si sorrisero così da vicino, che quasi il sorridere e baciarsi era tutt’uno — finalmente la difficile impresa fu compiuta. E allora Corrado, pigliando per mano la fanciulla e traendola in distanza per ammirare meglio la nuova aiuola: — Veda un po’ la bella figura che fa — come contrastano bene i colori delle petunie screziate col rosso cupo del rododendro, col giallo ranciato dei tageti nani, coll’azzurro delle pervinche! La signora Valentina sbarrava tanto d’occhi, perchè la petunie erano alte tre pollici, i tageti poco più di due, e tutto quel contrasto di tinte non esisteva che nella immaginazione accesa del signor conte. Ma Grazietta rideva forte ed asseriva anch’essa che il contrasto era magnifico. — Non ci è che lei a non trovarla bella la nostra aiuola — disse Corrado alla signora Valentina. — Io! si figuri, la trovo un paradiso! fu la risposta placida. — Manco male.... E se ne dovrà accontentare, se non santifica le feste.... Signorina, lo dica anche lei a mamma Valentina che per carità non perda la messa. — Mamma Valentina, ripetè scherzosamente la fanciulla, per carità non perda la messa. Ma, dette appena queste parole, tenne gli occhi immobilmente fissi in un punto dello spazio, come in una immagine melanconica apparsa or ora; le si cancellò il riso, le si oscurò la fronte, volse le spalle e fuggì nella sua camera. Gli altri due dietro. La trovarono seduta accanto al lettuccio, colla fronte nascosta fra le mani; piangeva. — Che è stato, figliuola mia? domandò la buona donna, baciandole la fronte e i capelli. — Nulla, disse Grazietta, e vedendo Corrado, si rizzò, riasciugò il bel volto e vi pose un sorriso melanconico. — Ah! vuoi aver dei segreti con me? non è ben fatto, no, anzi è fatto male, è pessimamente fatto. — Mi è venuta in mente la mamma, rispose Grazietta con semplicità, ed ho pianto perchè sono un’ingrata, perchè non penso quasi più alla poveretta, perchè sono cattiva, perchè rido troppo — ecco perchè ho pianto. — Hai sedici anni, le rispose la signora Valentina, e per questo ridi, e per questo ti sembra di dimenticare la tua cara morta, mentre l’ami tanto più d’ogni cosa viva; quando avrai la nostra età, non saprai più ridere così, ma nemmeno amare.... non è vero signor Corrado? Costui non rispose subito; pensava a tutti i morti del suo cuore, che a lui non era concesso piangere; finalmente disse: — Alla nostra età, signora Valentina, si può ancora ridere ed amare e piangere, piangere la felicità che non abbiamo saputo trattenere, la felicità che non ci è concesso di aspettare.... ma alla nostra età non bisogna farle vedere le lagrime. E rise per correggere il tono d’elegia. — Volevo ben dire! osservò Valentina, volevo ben dire che era uno scherzo, perchè io che doveva capirci qualche cosa non ho capito nulla. Intanto Grazietta si era ricomposta ad una melanconica serenità. — Non so come sia, disse ella; raduno talvolta tutte le facoltà della mia mente per pensare alla mamma, e non riesco a vederne le sembianze; e invece quando rido e giuoco mi stanno sempre dinanzi sorridenti; sembra che ella stessa mi dica: stanotte pregherai per me, staremo insieme nel sonno, ora non pensare a melanconie, va nel prato, corri, raccogli i fiori e canta.... Ed io corro e canto.... così. Disse e sparve come un folletto giù per le scale, e si potè un istante dopo vederla nel prato curvarsi e sollevarsi e ridere. — Bella età! sospirò Corrado. — Bella età, ripetè la signora Valentina senza sospirare. Suonarono le ore ad un orologio lontano. — Zitti! disse Valentina al signor conte ed a Grazietta; uno, due, e tre.... — Ssss.... fece burlescamente Corrado, e all’ultimo tocco, ripigliando fiato, esclamò con voce cupa: «dodici!» — Ha perduto la messa, prima che si vesta e giunga in chiesa, il prete avrà voltato il messale.... È fatta! La buona signora mandò un sospiro al cielo, perchè fosse interprete delle sue buone intenzioni; poi ripetè con evangelica rassegnazione: «è fatta!» — Meglio così, e sa ora che cosa deve fare? non lo indovina? indovini lei, signorina.... — Non so.... — Deve invitarmi a desinare.... — A desinare! esclamò Valentina; le pare? signor no, nemmeno per sogno. — Grazie tante. La fanciulla rideva. — Signor no, le ripeto; non abbiamo un desinare che si.... una mensa che si.... ma già ella fa per ridere.... — Mangerò sul, serio, ho fame. — E allora.... — E allora m’invita, mille grazie, accetto con gratitudine; non stia a far nulla di più per me.... all’antipasto non ci pensi, ne faremo di meno. — Oh! sì, sì che ne faremo di meno. — Del resto, di sei piatti ne avremo d’avanzo; non dimentichi però il pasticcio di Strasburgo, qualche primizia alla frutta, un po’ di fragole per esempio, e vino del Reno. La signora Valentina non si sgominava per quattro ciancie; essa fece di sì col capo, rise quando credette venuto il momento di ridere, poi andò a fare una visita al pollaio per stanare le uova fresche e persuadere un galletto di lasciarsi cuocere in fricassea colle cipolline. La persuasione fu difficile, perchè fatalmente anche i galletti hanno l’istinto più forte del criterio; e che l’uomo li mangia per il loro bene, cioè per farli salire nella gerarchia delle creature, non lo capiscono se non quando sono stati mangiati — così rispose la signora Valentina al signor conte. Le cose si mettevano al buon umore. — Che brava donna! disse Grazietta quando la mamma fu scomparsa in cucina, e come mi vuol bene! — Non deve far molta fatica a volerle bene. — Perchè? — Perchè.... La risposta era difficile, e Corrado stentò tanto a trovarla, che alla giovinetta uscì di mente la domanda. In quella si udì il trillo di Mario, e la mamma Valentina riapparve. — Devo confidarle un segreto, disse in fretta la fanciulla; si ricordi di domandarmelo, se no, m’uscirà di mente. Mario spiegava tutta la sua voce sonora, ed empiva l’aria di gorgheggi. — Che cosa dice Mario? domandò Corrado alla signora Valentina. — Grazietta lo sa; che cosa dice, Grazietta? — Dice che è contento di stare all’ombra, nel vano della finestra, e di vedere il sole che fa luccicare il verde della campagna; dice che vuol bene alla brezzolina che lo accarezza, ed alla sua padrona che gli dà il miglio e l’erba fresca. — E dice sempre le stesse cose? — No, alla mattina per esempio, quando vede la luce, mi chiama e mi dice: «Grazietta! Grazietta! buone nuove! il buio è scomparso, sono rinati gli alberi, è tornato il verde, è tornato l’azzurro; svegliati Grazietta, ecco il sole!» E continua finchè mi sveglio. — Bravissima! proprio così; disse la mamma; fammelo qui, sulla guancia, un bel bacio.... Corrado provò a radunare tutta la sua sfrontatezza per dire: «Bravissima! me lo faccia qui, sulla guancia, un bel bacio»; ma all’atto di aprir bocca, sentì sul volto il caldo del rossore. — Me lo confida ora il suo segreto? disse quando fu di nuovo solo colla fanciulla. — Non è mio veramente, è della signora Valentina. — Ah! è della signora Valentina? — Già! sa di che cosa mi sono accorta?.... che dà lezioni di nascosto a Mario. — Davvero? — Davvero — e aggiunse ridendo; Mario mi ha detto tutto. Ma fingo di non saper nulla.... la vuol farmi un’improvvisata. Il conte Germinati, non trovando più parole, pose il braccio della fanciulla sotto il suo. — Che cosa pensa? domandò Grazietta levando in alto la testa per guardare in faccia al cavaliere. — Nulla. Pensava che Grazietta gli giungeva poco più su dell’omero, che aveva il passo leggiero, e camminando doveva appendersi un pochino al suo braccio; null’altro pensava. Poi alla voce di mamma Valentina, che chiamava, la fanciulla si sprigionò e corse a preparare la mensa, e Corrado rimase solo, un tempo lungo, a camminare su e giù pel viale, continuando a pensare che Grazietta gli giungeva poco più su dell’omero, ed aveva il passo leggiero e che poc’anzi si appendeva un pochino al suo braccio. Ma all’improvviso una voce gridò: «a tavola!» — Ha sempre appetito? chiese la signora Valentina. — Sempre. — Chiuda un occhio, sa? Corrado stava per promettere che li avrebbe chiusi tutti e due, quando nel vano dell’uscio apparve un personaggio inaspettato. — Agnese! esclamò Grazietta correndo incontro alla sorella. La bella donna si fece innanzi con disinvoltura, toccando appena la punta delle dita del signor conte; e all’offerta di prender posto a mensa, rispose dichiarando di sentirsi venire un appetito che non sospettava nemmeno. Doveva essere quello di Corrado, il quale l’aveva appunto perduto ad un tratto. Durante il pasto Grazietta fece alla sorella la storia del curioso capriccio venuto al signor conte, di pranzare cioè con loro alla buona, dopo aver piantato la magnifica aiuola; e la sorella si accontentò di trovarlo un _capriccio curioso_. XXI. Prima lettera di Agnese al signor conte Germinati. «Caro Conte, «Deve essere un secolo che non vi si vede, o per lo meno otto giorni. Che significa? Vi scrivo perchè mi è venuto un sospetto.... L’ho da dire? sì, altrimenti sarebbe inutile scrivervi; mi è venuto il sospetto che mi teniate il broncio. Perchè? Questo non lo so proprio, ed avrei caro di saperlo, ma avrei più caro d’essermi ingannata. Il fatto è che l’altro giorno — dovrei dire l’altro secolo — a tavola non mi diceste quattro parole di seguito, e Grazietta mi assicura ingenuamente che prima del mio arrivo eravate di buon umore. Che cosa vi ho fatto? Penso, penso, penso. Come avete cuore di farmi tanto pensare? Giurerei d’essere innocente, e pure devo avervela fatta grossa. Anche Grazietta si stupisce di non vedervi più, e i canarini e il gattone nero, e i fiori che avete piantato, tutti si stupiscono.... tranne la mamma Valentina, la quale non si stupisce mai di nulla. «L’altra sera, dopo il tramonto, Grazietta ed io eravamo in giardino, quando un uomo si accostò alla cancellata in fondo; udendo i nostri passi, fuggì; corsi alla cancellata e giunsi in tempo per vederlo mentre scavalcava la siepe del campicello: E Grazietta disse: «L’ho creduto il signor conte.» «Ti pare? risposi, il signor conte verrebbe dalla porta.» — Grazietta non ci pensò più, io ci pensai tutta notte. Chi poteva essere quell’uomo? Credete voi che sia al sicuro la nostra cara innocente? «Sapete? sono libera, come l’aria! Egli mi lascia.... Che gioia! È una storiella, un romanzetto; si era innamorato di me, e per giungere fino al mio cuore ebbe l’eroismo di farsi credere ricco, mentre vivacchia alla meglio; per questo pareva avaro: ora che ha consumato tutti i suoi risparmi, mi abbandona, inconsolabile. Ci è da piangere; povero vecchietto!... Vi conosce, mi ha parlato di voi; non so come sia andata, mi ha chiesto se eravate mai venuto a vedermi; ho risposto di sì. Quante me ne ha contate sul vostro conto! mi ha detto che siete irresistibile.... È vero? Mi ha fatto promettere di non dire il suo nome nè a voi, nè ad altri, ma specialmente a voi. Ho promesso. Si chiama Aniceto L.... E sapete perchè non mantengo la promessa? Perchè egli non mi ha creduta capace di mantenerla, e mi ha detto d’aver moglie e figli, e mi ha scongiurato di non tradirlo in nome della sua pace domestica — mentre non è vero niente, e non ha mai avuto moglie e nemmeno figli. «Tornando allo scopo della mia lettera: che cosa vi ho fatto? Io ci penserò ancora, ma, se vi rimane un po’ di mesericordia, vi affretterete a togliere questa nuvola che oscura il cielo di una donna, la quale ha un mese di vacanza, ed è felice, e desidera di essere in pace cogli amici. «AGNESE.» XXII. La Provvidenza manda un marito. Corrado rispose una letterina piena di frasette audaci. Confessava d’esser lui stesso l’uomo visto dalle due sorelle presso alla cancellata del giardino, di avere scavalcato la siepe sperando di sottrarre alle beffe di lei, proprio di lei, di Agnese, la sua gelosia da Otello. Credesse o no, egli era solito a seguirla tutte le sere, a contarne i passi, a fare cento pazzie, perchè era innamorato cotto di lei, proprio di lei, di Agnese. Aveva rispettato i suoi scrupoli, i suoi principii. Ora che la sapeva libera, facevasi ardito a presentare una petizione ufficiale per essere ammesso a regnare a vita nel trono vacante del suo amore. Fatta la petizione, la portò egli stesso, e vedendola accolta con una risata, ed interpretando male quel buon umore, si credette in diritto di stringere in un primo amplesso la bellissima creatura. Adagio. Agnese aveva un mese di vacanza, ci teneva; per tutto aprile non ne voleva sapere, a maggio forse.... e intanto darsi spasso, essere corteggiata, giuocare a donna onesta — un capriccio come tanti altri. In quel colloquio si parlò molto di Aniceto. — Si era spacciato per ricco e per avaro? disse Corrado; non lo credevo capace di tanto; quando non fabbrica bisticci, è un uomo di spirito. — È un egoista, disse Agnese senz’ombra di dispetto. — Lo conosco bene.... — E non sapete che egli è ricco ed avaro? — No, davvero, rispose Corrado ridendo. — Allora non lo conoscete, come lo conosco io; egli cela a tutti le sue ricchezze e mi abbandona.... — Per economia.... — Anche per economia, ma più perchè non si sveli il suo vero stato. Aniceto L. è ricco quanto il conte Germinati.... — Ed è molto ricco il conte Germinati? davvero non lo so. — Ed io lo so. Ancora una volta Corrado uscì dalle moine di quella ammaliatrice colle fibre agitate da uno spasimo delizioso; avvenne nell’anima sua quel rimescolìo di buono e di cattivo, di vecchio e di nuovo, di desiderio e di rimorso, in cui l’immagine di Grazietta scompariva e tornava a galla come una bella naufragata. Curioso a dirsi: dissimile tanto, il sentimento che gli ispirava la fanciulla innocente non era che uno stimolo a quello che provava per Agnese. Costei non gli lasciava più pace; gli faceva scontare con mille penitenze il peccato d’averla quasi dimenticata, e se per poco se lo vedeva sfuggire un istante, subito lo ghermiva con artigli da civetta. E rideva — rideva di lui, delle sue impazienze, della febbre che gli attizzava di continuo con una indifferenza da regina. Del capriccio, che differiva al mese di maggio la felicità intera, Corrado aveva avuto il torto di far poco conto; lo credeva un ghiribizzo vano, uno di quei propositi da fortezze affamate, che non vedono l’ora di cedere; quando s’avvide che sotto la vernice del capriccio era la tenacità d’un puntiglio (e che altro poteva essere?), allora volle fuggire al laccio, tornò di nascosto al fianco di Grazietta, ascoltò la musica della cara vocina, contemplò estatico l’ovale del volto incontaminato, provò a stordire i sensi in quell’ebbrezza pura, che pochi dì prima era stata la sua unica gioia. Ma un turbamento era entrato nel suo cuore; ora si sentiva troppo timido e se ne arrabbiava, ora vergognava della soverchia audacia. Era con lei, ma un’immagine si metteva di mezzo a contraddire il desiderio, a suggerire all’immaginazione ardimenti lascivi di cui aveva paura. Allora si scostava con ribrezzo dalla poveretta, che lo guardava senza comprendere; fuggiva, correva a sfidare il sorriso della ammaliatrice, promettendosi di trionfare della malìa e della resistenza. Ma essa resisteva, ed egli ritornava a mendicare nuove promesse. Se quell’indugio era calcolato, Agnese faceva prova d’essere una calcolatrice profonda: impossibile oramai a Corrado distaccare il pensiero da questa promessa che lo gettava in uno spasimo dolce; la stessa felicità, posta vagamente nell’avvenire, non aveva tal fascino, e altre volte vi aveva già fermato il desiderio, ma un istante solo; collocata in un punto fisso del tempo, diveniva il primo anello d’una catena di ferro. Ogni giorno che lo avvicinava ad Agnese pareva staccarlo da Grazietta; senza darsene ragione, sentiva che inconciliabili erano i due affetti contrarii, che un pensiero turbava l’altro; e inavvertitamente parevagli di poter ottenere qualche cosa della fanciulla innocente col possesso della cortigiana. Era raro che, durante un colloquio con Grazietta, mentre parlava di fiori, di insetti, della bella campagna, e si struggeva da un desiderio casto di baciarle la fronte, nè più l’osava per non contaminarla, non si sorprendesse a contare i giorni di aprile che già erano trascorsi, a pensare che questo mese eterno aveva trenta giorni, ed a rallegrarsi che non ne avesse trent’uno. Nello studio di tener desto il fuoco che ardeva nelle vene del conte, la cortigiana era infaticabile; conosceva mille arti, altre ne apprese. Un giorno Corrado, all’ora convenuta, trovò la porta della sua camera aperta, e trovò lei dinanzi allo specchio, vestita a bruno, coi capelli cadenti giù per le spalle; ma invece di correrle al fianco, si sentì come inchiodare i piedi e legare le membra. — Ho voluto somigliare a Grazietta, disse la bella guardandolo in viso. Corrado non rispose. — Ho voluto pigliar l’immagine dell’innocenza. — E perchè ciò? — Perchè? Per gioco: per darmi spasso; che differenza vi è tra me e Grazietta?.... Disse, e slacciando con impeto la veste nera, ne uscì in semplice gonnellino, cogli omeri ignudi, bianca come una visione. — Ed ora che differenza vi è? disse. — Povera Grazietta! ripetè, infilando l’azzurra vesta da camera, se sapesse! È da un pezzo che non l’avete vista? — Da ieri l’altro, rispose Corrado. Ma il distacco si compieva ogni giorno; e una settimana dopo Agnese ripetè la domanda: — È da un pezzo che non l’avete vista? E Corrado rispose: — Da 6 giorni. E un altro giorno gli disse: — Grazietta vi saluta; non vi vede più, non sa che pensare di voi. — Come sta? — Si è buscata un raffreddore, ma del resto sta bene. — Andrò domani a vederla. — Ci verrò anch’io. Non rimanevano che pochi giorni d’aprile. Il giorno successivo Grazietta, cedendo al consiglio di mamma Valentina, stette a letto. Corrado venne al suo capezzale; la fanciulla levò il braccio di sotto le lenzuola per stringergli la mano; si fe’ un po’ rossa in viso, rimproverò la buona donna, che voleva far di lei una signorina, una viziosa, costringendola a letto per ogni nonnulla. Corrado non aveva parole; all’improvviso salutò la fanciulla e scese le scale. Valentina gli venne dietro. — Gran cose accadono! gran cose! disse la buona donna appena fu in cucina. — Che cosa? — Nulla di straordinario veramente, anzi quello nè più nè meno che doveva accadere o presto o tardi.... ci è un buon figliuolo che ha visto Grazietta e se ne è innamorato cotto. Corrado rimase come inchiodato in faccia alla sua interlocutrice. — Si meraviglia che qualcuno s’innamori di Grazietta? — E chi è costui? — È un bel giovinotto, non vi è nulla a dire, alto come lei, bruno come lei, non ha l’aria così.... ma ha un’altr’aria che non dispiace.... al contrario.... — A Grazietta? — Chi parla di Grazietta? La poverina non ne sa nulla.... Dunque, è un bel giovine, ventiquattro anni compiuti.... insomma par fabbricato apposta.... farebbero una bella coppia — è artista, dipinge anch’esso come il padre della fanciulla, ma invece di imbrattar tele, che non si vendono, fa dei fiori e dei ragazzi nudi sulle volte delle case di lor signori — e guadagna così da campar bene.... — E come sa tutto questo? — Lo so, perchè me l’ha detto lui: l’altro ieri, per via, mi ha fermata ed ha voluto spifferarmi la sua fiamma e le sue intenzioni.... se Grazietta si lascia sposare, egli se la sposa, non domanda di meglio. Che ne dice? — Nulla. — Non pare anche a lei che sia una fortuna?.... noi non si aspettava altro, credo.... è forse venuto un po’ presto, ma.... — Ecco.... troppo presto è venuto, troppo presto! — si affrettò a dire Corrado — Grazietta non ha che sedici anni.... — Compiti.... va incontro ai diciasette.... del resto, è piena di giudizio quella cara testolina; scommetto che saprebbe fare una moglie coi fiocchi anche subito.... non pare a lei? Corrado tacque un istante, poi disse: — La fanciulla non si è accorta di nulla? — Di nulla, non sa nemmeno d’avere un innamorato; io dico che bisognerà parlargliene, farle vedere il giovine di nascosto, perchè decida se le piace, prima di lasciarlo venire in casa — io dico che bisognerà fare così, ma già non me ne intendo. Decida lei, che è suo padre, si può dire.... Un’idea pazza balenò allora alla mente del conte: salir le scale, penetrare nella camera di Grazietta, coprirle il volto di baci, poi cadere in ginocchio dinanzi al lettuccio e scongiurarla di non essere d’altri.... perchè.... Perchè? Oh! la pazza idea! — Aspettiamo, rispose alla signora Valentina; e intanto badi a non dirle nulla; aspettiamo che Grazietta stia proprio bene.... che si alzi.... allora.... — Domani si alzerà, disse la signora. — Domani saprà tutto. E lasciò la tranquilla casetta col cuore in tumulto. Quella sera medesima Agnese gli disse, guardandolo fisso negli occhi: — Dunque, diamo marito a Grazietta? — Pare, rispose Corrado sforzandosi a reggere lo sguardo indagatore — se Grazietta sarà contenta. — Lo sposo è bello, è giovine, onesto; lavora e guadagna.... perchè non avrebbe da essere contenta? — Perchè al cuore non si comanda.... — Non si comanda, ma si consiglia; le parole di chi ci vuol bene possono metterci nel seno il germe d’un affetto.... — Le parlerete voi? — No, le parlerete voi; anche la signora Valentina dice che è meglio, che nessuno più di voi ha potere sull’animo di Grazietta. Dunque le parlerete voi, le direte che il mondo non può offrire maggiore fortuna ad un’orfanella come lei, che tutti noi non si aspettava altro dalla Provvidenza.... che quando la Provvidenza manda un bravo giovine, bisogna pigliarlo.... Corrado non rispose; Agnese non gli toglieva gli occhi dal volto, e intanto diceva: — Cara fanciulla! Essa farà la felicità dell’uomo che l’avrà a compagna della vita! E ripetè con un accento che era una carezza lontana: «cara fanciulla!» — Che avete? domandò poco dopo; non mi date retta.... siete sbadato.... a che pensate? — Penso a Grazietta. — Vi affligge che le si proponga un buon partito? — Non mi affligge, balbettò il conte, mi mette in pensiero.... ecco.... mi par d’essere in debito di fare la sua felicità, e.... Aveva trovato un filo d’idee, non gli pareva vero. «.... E un marito può essere una disgrazia.... Vorrei conoscere a fondo il cuore del giovane, che dovrà essere sposo a Grazietta.... sapere di quanta energia, di quanto coraggio, di quanta virtù sia fatto, riconoscerlo insomma degno.... — Se tutte le fanciulle dovessero aspettare che un vecchio amico di casa avesse riconosciuto il marito degno, non ci sarebbero che zitellone al mondo.... se pure i vecchi amici di casa, disperando di trovar di meglio, non proponessero sè stessi.... Vediamo, non ve la volete già sposar voi Grazietta? Alla bizzarra domanda, seguita da una risata lunga e squillante, Corrado fece una risposta bizzarra: carpì un bacio alla bella, e rise, d’un riso breve e nervoso. XXIII. Conciliabolo segreto. — Vediamo, non ve la volete già sposar voi Grazietta? Corrado camminava su e giù per la stanza, mentre Antonio gli diceva a spizzico qualche cosa, in cui entravano il signor Filiberto ed il signor Domenico, e gli domandava se volesse questo, se avesse bisogno di quest’altro, in fine se non ordinasse nulla. — No; ti pare? disse all’improvviso il signor conte; e quando, uscito Antonio, rimase solo, si piantò dinanzi allo specchio per vedere in faccia il suo interlocutore, e ripetè: «no, ti pare?» Contrasse un istante le labbra ad un ghigno di beffa; ma subito chinò il capo sul petto, e rialzatolo poi e veduto nello specchio il proprio volto rabbuiato, si scostò lentamente, appuntò i gomiti al davanzale della finestra e tenne gli occhi fissi in un nugolo bianco, che saliva frettoloso la curva del cielo. Alla luce del crepuscolo, l’azzurro veniva perdendo quell’albore diffuso, che ne appanna castamente la bellezza come il velo nuziale appanna la vergine; e quando la mano occulta della notte lasciva ebbe strappato quel velo, non fu più per l’aria altro che un bagliore scialbo, solcato ogni tanto dall’ammiccare d’una nuova stella, che si affacciava a civettare nel firmamento. La nuvoletta saliva sempre. Ad un punto il venticello, che la sospingeva, giunse fino a lambire la fronte di Corrado. Apparve allora nell’ultimo contorno dell’orizzonte una linea tenebrosa, e non era apparsa, che già era cresciuta e già fatta gigante; la nuvoletta saliva sempre. «Il pazzo nembo, pensò Corrado, ama la nuvoletta; e la nuvoletta non ama lui; egli stende le braccia nere, ed ella impaurita fugge, cerca uno scampo in ogni punto dell’ampio cielo; la nuvola è Grazietta, il nembo pazzo è il signor Conte.» E senza mutar positura, aspirando l’aria fresca che gli soffiava sul volto e gli scompigliava i capelli, continuò a seguire coll’occhio, ad animare colla fantasia quella scena grandiosa e muta. Poi disse: «Il signor conte si adira; l’impazienza gli balena nella gran faccia nera, non può camminare spedito quanto vorrebbe; ecco brontola; dice alla fuggitiva di arrestarsi, prega, scongiura, comanda e rugge come uno screanzato; la bella non gli dà retta, è piccina, ma piena di giudizio, sa che dal temuto amplesso non altro può nascere che l’uragano.... e fugge.» Poi di nuovo disse: «Il signor conte sa tutte le arti; ora mormora e si lamenta, e intanto stende le braccia sterminate per chiudere l’orizzonte alla fuggitiva, ecco.... dovunque si volga, Grazietta non vede più che il suo buio innamorato; tituba, si arresta — il pericolo si avvicina — vuol fuggire... è raggiunta....» Un vivissimo lampo, poi uno scroscio formidabile — la nuvoletta bianca sparve nell’amplesso del nembo. L’uragano si scatenò improvviso, la pioggia cadde a torrenti; i lampi, che si succedevano senza intervallo, erano moine, erano sorrisi, erano sguardi irati, e la voce del tuono aveva inflessioni dolci, cadenze lamentevoli, accenti di minaccia e di carezza. Corrado erasi drizzato quanto era lungo dinanzi alla finestra, si teneva impettito sporgendo la faccia per ricevere gli schiaffi dell’acquazzone; e quando più forte scrosciava la pioggia e ruggiva il tuono, gridava: «Così amano i nembi.... così! così! Grazietta! Grazietta!» Il vento soffiava ora impetuoso, accavallando nuvole a nuvole; il nembo ingrossava sempre; aveva raccolto da tutti i punti dell’orizzonte i cirri vaganti; l’immenso cielo era nero. Ma d’un tratto, dove prima era apparsa la linea di tenebre, balenò, alla luce d’un lampo, una striscia d’azzurro; pochi istanti dopo i nuvoli erano passati sul capo di Corrado. Nell’ampio cielo tornò lo scintillìo delle stelle; da lontano giungeva il sordo brontolare del tuono. Il signor conte, colla faccia bagnata di pioggia, aveva di nuovo appuntato i gomiti al davanzale, e guardava, e porgeva orecchio ad una dimanda quasi indistinta del nembo fuggente: «Vediamo, non ve la volete già sposar voi, Grazietta? Vi rispose un coro di voci rauche e beffarde, con una di quelle risate lunghe e penetranti che si odono da lontano. Le udì Corrado le voci rauche e beffarde degli amici del Circolo. «Il conte Germinati si fa sposo! «Egli, il nemico giurato delle giuste nozze! «Sono tutti così i nemici giurati! «Il matrimonio è immorale; se non fosse il matrimonio, non vi sarebbe l’adulterio — diceva Filiberto. E Fanny diceva: «Il matrimonio è contro natura.... vedete gli animali.... dove ho letto questo? in quel libro.... che s’intitola, come s’intitola?... di quel francese.... come si chiama?... non importa — vedete gli animali: perchè obbediscono alla natura non pigliano moglie.... «Il matrimonio, gridava Felicino, è un’indecenza, ed offende il pudore! Corrado lasciava dire, e quando tacquero finalmente quelle voci avvinazzate, non gli uscì di bocca una parola e continuò a fissar gli occhi nello spazio. «Sì, sarebbe un’apostasia, gli disse sotto voce qualcuno, sarebbe uno scandalo inaudito; ma che ne importa a te? Sono le parole che mutano, non le tue idee; tu sei sempre eguale a te stesso: amavi il piacere e lo domandavi agli amici del circolo, all’orgia, alle donne facili; ora invece lo domandi alla campagna verde, alla solitudine, al silenzio, ad una fanciulla ingenua e difficile. E se per giungervi devi passare attraverso il fuoco purificatore del matrimonio, e tu passi, perchè il piacere è la vita, e il matrimonio, come i bisticci di Aniceto e le maldicenze degli amici, come la società, come il resto, è una parola.» «È vero, pensava allora Corrado, Grazietta è giovine, è bella, è innocente — e l’adoro; la chiamino pure mia moglie, che importa purchè divenga mia? Tanto tanto, una contessa Germinati più graziosa di così non si può dare.... non si può dare.... non si può dare....» «Contessa Germinati! E che dirà tuo zio l’ambasciadore? I tuoi cugini e le tue cuginette che diranno? «La marchesa Felicita non metterà più il piede in tua casa, non ti manderà nemmeno il biglietto di visita a capo d’anno. E che dirà il mondo? Le tue nozze si compiranno senza feste, senza augurii, senza sonetti; formerai l’argomento di tutte le conversazioni quest’inverno; ma tu, impassibile, assaporerai la dolcezza d’essere marito a Grazietta, seduto con lei accanto al focolare.» Corrado lasciava dire; e la voce sommessa proseguiva: «Scommetto che Grazietta non sa il francese, scommetto che non ricama, che non suona il pianoforte, e che canticchia solo ad orecchio; in conversazione non ci è stata mai di sicuro; lo strascico dell’abito la farà inciampare ad ogni passo; e forse non sa quando una signora deve star seduta e quando alzarsi del tutto o solo a metà.... E come si fa un inchino, lo sa Grazietta? E come si ride, e come si sorride, e come si sta serii, e come si guarda, e quando si alza la voce parlando, lo sa Grazietta?... Non lo sa.... peccato! «È vero, ripigliava a dire l’incognito, è vero, è una ragazza piena di giudizio, imparerà presto tutte queste cose.... come le ha imparate sua sorella.... Che contessina coi fiocchi farebbe Agnese, se non facesse d’altro! Profondo silenzio nell’anima di Corrado dopo le ultime parole, che erano scese come un martello spietato. Passata quella specie di stordimento, la stessa voce, ma con altro accento, disse: «Verissimo, Agnese è Agnese, e Grazietta non ha nulla da fare con lei; ma il mondo non pensa così; però a te non deve importare nè punto nè poco del mondo. Si dica che si vuole, le contessine pure come Grazietta non le trovi a dozzine, anche se abbiano il blasone senza macchia.... L’albero genealogico dei conti Germinati ha larghe braccia e può celare uno scandaluccio, e può ingentilire una donnina plebea, specialmente quand’è così gentile come Grazietta!... Già, la marchesa Felicita e lo zio ambasciadore e gli altri e tu stesso, se non vi fermate a re Pipino, a re Ottone, a Carlomagno, e cercate il germe di quella che ora è una pianta colossale d’orgoglio, trovate, a vero capostipite, un bastardo. «E poi, se un ramo laterale mette male, lo si recide anche da un albero genealogico — tu sopprimi Agnese. Chi ha da immaginare che l’angelo sia parente della cortigiana, se costei medesima non l’ha detto ad anima viva? Mandi Agnese lontano, o te ne vai lontano tu stesso — si può essere felici da per tutto. «Felice! sei proprio certo che sarai felice? Quante volte ti è sembrato di doverlo essere! Se questa, che insegui ora e che ti pare la felicità vera, fosse una delle tante larve? Perchè ti batte il cuore, perchè vaneggi, perchè parli a voce alta da solo, perchè insegui le nuvole collo sguardo, ecco, ti credi mutato. Non ti fidare di te stesso: hai fatto così altre volte. Hai avuto ricchezze, gioventù, amori, orgie — di’, sapesti mai essere felice? Un giorno, un’ora sì, quanto durava l’ebbrezza del vino e della donna; poi venne la sazietà, poi la nausea, poi lo sconforto, ed ora il più amaro degli scetticismi, quello che ti fa dubitare di te stesso. La tua fibra è forte nel desiderare, debole nel resistere al piacere, e il piacere ti taglia i nervi, ti getta come un cencio nelle braccia della felicità, che non vuol saperne di te. Corrado veniva ripetendo: «Hai avuto ricchezze, gioventù, amori, orgie — di’, sapesti mai essere felice? «La gioventù se ne va, è andata; l’orgia ti dà il mal di capo, il denaro dorme inoperoso nei tuoi scrigni, la felicità è altrove.... «Dov’è? «Non nelle braccia di Grazietta. La vecchia edera del bosco, che un legnaiuolo ha strappato colla falce agli amplessi dell’olmo poderoso, se si abbarbica al giovine arboscello, lo soffoca. Tu sei l’edera vecchia — il grand’albero delle tue illusioni è caduto; ti sei sentito strappare a tutti gli amplessi vani da un terribile legnaiuolo, da una falce spietata; soffocheresti Grazietta senza far te felice. «Il bel nodo che vai fantasticando! Stringere l’innocenza e il cinismo, la fede e lo sconforto, l’alba e il tramonto; mandare a braccetto per le vie il reuma ed il lattime e far dire: «Ve’ sono marito e moglie!» Succede ogni giorno, è vero, ma ogni giorno si ride di questi invalidi della vita, che si mettono a riposo sposando una fanciulla di 16 anni. Quanti ne hai tu, Corrado? trentasette, trent’otto, forse più; non lo sai bene. Ma che importano gli anni, se sei forte, se sei sano, se il tuo corpo è giovine? E l’anima, Corrado, quella, intendiamoci, che si chiama così, ed è il cuore, ed è il pensiero, ed è il desiderio, la speranza, la fede? Tutto ciò è vecchio, è moribondo, è morto. Oh! il curioso nodo che vai fantasticando! «Vuoi farla felice Grazietta? Non te la vuoi sciupare la tua buona azione? Dà retta a quel pittore, giovine, bello, che ha due compagni nella vita: la fede nell’avvenire, il lavoro; fai la dote alla fanciulla, terrai a battesimo un bel maschio.» Corrado troncò le ciance degli invisibili consiglieri, staccandosi con impeto dalla finestra, e ripigliando a camminare su e giù per la stanza. Avvenne nelle sue idee quel rimescolio che produce il soffio d’un fanciullo in una processione d’atomi lungo un raggio di sole: Grazietta, il pittore, la dote, Filiberto, Felice, la marchesa, e poi Grazietta troppo ingenua, e Agnese, e il mondo, e le beffe, e poi Grazietta che non sa il francese.... e di nuovo Filiberto, Felice e la marchesa. XXIV. All’insegna del Piccione. Oh! belli gl’ippocastani del bastione sul finire d’aprile! Sono puliti e baldanzosi come i fanciulli quando hanno indosso la vesticciola nuova. Che bel verde allegro! e come luccicano al sole le nuove foglie che l’altro dì erano gemme! e che susurrìo gentile se l’alito del vento le accarrezza! Sono le prime ciancie dalla stagione, e sono ciancie discrete. Oh! belli gl’ippocastani del bastione sul finire d’aprile! La polvere del viale non è ancora giunta lassù ad appannarne la nitidezza, i ragni campagnuoli non hanno avuto tempo di tendere i fili fra ramo e ramo, nè i bruchi di accartocciarne le foglie; sono ippocastani nuovi, sono nati or ora così vestiti! E Grazietta batteva le mani, e cogli occhi, e col riso e colla vocetta squillante faceva festa allo splendido mattino, che annunziava una giornata splendida. Agnese e Corrado sorridevano, e la tonda Valentina, la quale s’ingegnava di mettere il passo in cadenza con quello della fanciulla, doveva ogni tanto fare un salto, che richiamava in mente l’ultimo balzo pigro d’una palla elastica. L’umore giocondo era nell’aria — lo si respirava senza fatica. Grazietta era guarita, ed ora si andava tutti insieme a scampagnare. Uscir dalle porte, percorrere un chilometro a piedi prima di fermare una carrozza che passi per caso, farsi portare al paesello vicino, non sapere dove, quando e come si farà la colazione ed il desinare, e vagare pei sentieri lungo i canali ombreggiati dalle acacie — queste sono felicità che non si descrivono. «La troveremo poi la carrozza? domandò la mamma Valentina, che cominciava ad avere il fiato breve. — Ma!... rispose Corrado. E rise. — E se non trovassimo poi la carrozza? ripetè poco dopo la buona signora. — Che piacere se non la trovassimo! disse storditamente Grazietta. Ma la carrozza si trovò, alla svolta d’un viale, ferma all’ombra, con due cavalli che scalpitavano impazienti ed un cocchiere sonnecchiante a cassetta — pareva proprio messa lì da una fata. Dentro tutti, e via di corsa fino al paesello. All’insegna del Piccione troverete _buon vino e buon ristoro_; ve lo dice un piccione embrionale, che penzola da un’asta irruginita, con una scritta fra le zampe. L’insegna non è bugiarda; solo che, credendo di parlare unicamente ai borghigiani, sottintende che il _buon ristoro_ si trova alla domenica. Quel giorno era lunedì! Sopra una faccia tutta beatitudine mettete un risolino che sia una luminaria — avrete la faccia dell’oste ed il suo risolino furbo, mentre egli dava le notizie sconsolanti. — Dunque? disse Agnese ridendo. — Dunque? ripetè la signora Valentina senza ridere. — Dunque, lor signori sanno bene, cioè non sanno.... devono sapere che il lunedì è il giorno disgraziato; a farlo apposta non si può scegliere peggio — perchè alla domenica i miei avventori fanno _repulisti_, come si dice.... E fece seguire alla sua dotta espressione un poderoso soffio sulla palma della mano. Con un commento simile, il latino diventa la lingua più viva e più facile dell’universo. — Vediamo le bricciole, disse Corrado senza sgominarsi. — Ecco, disse l’oste (e gli si leggeva sulla faccia la compiacenza d’un filodrammatico, che faccia la sua prima parte in commedia) un po’ di prosciutto l’hanno lasciato, un po’ di formaggio anche.... il vino ci è.... pere e mele ci sono.... basta?... A lor signori non basta.... cercando bene troverò forse delle braciole, non più di quattro però.... e posso mandare a raccogliere i piselli primaticci — ah! dimenticavo un paio di agoni marinati ed un pasticcio di Strasburgo.... e poi se non basta, possiamo torcere il collo ad un cappone.... — No, disse Grazietta, non torciamo il collo a nessuno; basta così; non è vero che basta così? — Signorina, si consoli, il cappone è morto ieri, ha fatto una morte placida.... e non può avere sepoltura più gentile. E per non guastare con ciancie inutili il suo complimento, l’oste si volse solennemente a dare gli ordini ad un cuoco e ad uno sguattero di bucato, tanto erano bianchi e puliti da capo a piedi. La signora Valentina aveva piantato gli occhi addosso a Corrado, e veniva dicendo alla muta: «Ho capito, ho capito!» Finalmente non resistette più e lo disse forte: «Ho capito, signorino!» E il signorino, che prima sorrideva, uscì a ridere forte. Grazietta intanto aveva attraversato la cucina, si era spinta fino in giardino, ed era tornata saltellando a spingere lo sguardo sull’unica via del paesello, dove l’insolito spettacolo d’una carrozza a due cavalli e di quattro signori della città, faceva accostare, colle mani sui fianchi e facendo le sbadate, le comari del vicinato. Nei primi momenti d’una giornata di piacere entra forse la dolcezza di tutte le ore liete, che verranno poi. Ogni cosa per Grazietta era festa. «La sente signor Corrado, diceva, la sente la brezzolina? — che fruscio per le acacie delle siepi!... senta!... «Guardi! guardi! il piccione dell’insegna pare voglia spiccare il volo.... Ascolti.... peccato, non lo fa più.... Ah! ecco.... lo fa ancora.... sono gli anelli della catena che stridono.... non par proprio il pigolio del piccione? Dica di sì per farmi piacere. — Sicuro, pare il pigolio del piccione. Ridevano. Sulla parete che guardava la campagna, nel vano di una finestra finta, era disegnato un orologio solare colla leggenda: _Stat sol, hora fugit_. «Che cosa vuol dire? domandò Grazietta. — Che il sole rimane, ma fuggono le ore. — Sono le nove! disse la fanciulla; che piacere! abbiamo tutta la giornata per noi! E attraversò la cucina, il giardino, e aperto l’uscio fatto di sterpi, si slanciò nel praticello come una farfalla. L’erba folta era ancora umida di rugiada, dove batteva l’ombra dei gelsi, che facevano cornice all’ampio verde dorato dal sole. Non si poteva giuocare nè sedersi; bisognò andare a spasso, lungo il canale, pel sentieruolo stretto, ad uno ad uno, Grazietta innanzi a tutti, la signora Valentina in coda. Gli uccelli cantavano nel fitto delle macchie, poi a un tratto tacevano, udendo i passi e le ciancie, e rimasti zitti un istante ad ascoltare, fuggivano con un volo basso per nascondersi meglio. — Che uccello è? domandava Grazietta senza fermarsi. — Non so, ripeteva Agnese. — È un tordo, entrava a dire la signora Valentina. — E cantava: «buon giorno Grazietta.» Non è vero? — È vero. — No, che non è vero, perchè se n’è fuggito. — Ha avuto paura di me, disse Corrado. — E quei due che passano in alto, e gridano con quella voce rauca? — Sono ghiandaie.... — Ci hanno visti, s’innalzano di più, gridano per farsi coraggio.... sono marito e moglie? — Sicuro, e abitano in quella quercia laggiù al primo piano; al pian terreno sta un picchio verde.... lo vedi appeso al tronco? — Sì.... sì, lo vedo! È lui che batte col becco? e perchè batte se la porta di casa è aperta? — Sicuro, perchè batte? perchè suo padre e suo nonno facevano così. Ridevano. Poi ad un tratto Grazietta si arrestava, facendo cenno di star zitti, per spiare i voli brevi e splendenti d’un martin-pescatore, che rasentava le acque del canale, o per udire il fischio d’un merlo, che pareva un richiamo umano. Corrado ed Agnese sentivano a poco a poco dissolversi il gelo che li faceva parer freddi al paragone della fanciulla; quel verde immenso dei campi, quell’azzurro senza macchia, quel contrasto di ombre nere e di riflessi d’oro, quei canti, quei voli, quella pace, tutta insomma l’eterna giovinezza della natura vergine e madre ogni anno, si rifletteva pei loro occhi nel loro cuore. Ascoltavano le parole di Grazietta come una musica nuova; sedotti dal fascino dell’esempio, facevano gara anch’essi d’essere i primi a cogliere una nota od un colore di quella infinita armonia, di quella immensa tavolozza. Non avevano fatto quattro passi, e già erano le dieci; bisognò tornare indietro ed affrettare per giungere in tempo. — Il cuoco ha ordine di portare in tavola le braciole alle 10 e mezza in punto — disse Corrado — si tratta ora di giungere a tavola prima delle braciole.... coraggio mamma Valentina. — È inutile correre, rispose la buona donna, è inutile farsi ingrossare la milza.... Abbiamo impiegato trentacinque minuti a venir fin qua, fermandoci ad ascoltare i merli ed a guardare i martin-pescatori; non ci fermiamo più, ma andiamo dello stesso passo, arriveremo in tempo. — Se le braciole si raffreddano, le metto sulla sua coscienza, disse Corrado. — Non si raffredderanno, non si raffredderanno. E il sole rimane, e fuggono le ore. — Ha ragione la meridiana! disse Grazietta dopo colazione: è mezzodì! È curioso, qui non si sente un orologio, nè una campana.... ah! eccone una! che vocina modesta! — Perchè sa di non seccare il prossimo, scappò detto alla mamma Valentina, ma si tappò subito la bocca ed andò a sedere all’ombra dei gelsi, nel prato. — Che si fa ora? entrò a dire Grazietta ridendo; giochiamo a correre od a nasconderci? — Giochiamo, rispose Corrado. — Sì, giochiamo a nasconderci, soggiunse Agnese; ma dove nasconderci? — Ci sono tante siepi — disse Grazietta — mi nascondo io, lor signori mi cercano e chi mi trova mi dà la penitenza; poi ti nasconderai tu, poi lei. E dette queste parole, pigliò la corsa; nell’atto di passare dietro la siepe, si voltò a dire «non guardi, signor Corrado!» e sparve. Alcuni istanti dopo si udì un grido di segnale; Agnese e Corrado, che erano rimasti immobili senza dir parola, si guardarono alla sfuggita e si avviarono per opposte vie. Fu Corrado che trovò Grazietta. — La penitenza, egli disse ridendo ma con un tremito nella voce. — Sì, sì, rispose la fanciulla. — Mi dia un bacio.... Sopravvenne Agnese. — Le perdono, disse Corrado, sforzandosi ancora a ridere. — Che penitenza ti perdona? domandò Agnese. — Un bacio, rispose Grazietta; ma io non voglio perdoni.... si faccia piccino che glielo dia. Corrado presentò la fronte, e ricevette dalle labbra verginali quel bacio innocente. Agnese aveva sulle labbra un sorriso da sfinge. — Ora a te, Agnese. — No, a lei, signor conte. — Sì, a lei e si nasconda bene.... Il signor conte si era nascosto bene, si teneva sicuro di far disperare Grazietta — quando a un tratto, vedendo un’ombra dietro la siepe, sollevò il capo con un riso, che subito si spense — gli stava dinanzi Agnese. Provò ancora a ridere, ma sentiva un impaccio singolare che non sapeva spiegarsi; uscì dal suo nascondiglio e disse: — La penitenza? — Per penitenza, rispose Agnese, parlerete a Grazietta di quel pittore che la vuole in moglie. — Quando? — Oggi — dovevate parlargliene l’altro giorno, non l’avete fatto — e quel bravo giovine s’impazienta. Grazietta, a una vostra parola seria non risponderà con uno scherzo, come sarebbe capace. La farete la penitenza? — La farò. Non giocarono più a nascondersi. Il desinare però fu lieto; Corrado si credeva in obbligo di tener allegra la piccola brigata, e riusciva a stordir sè stesso. A un certo punto disse a Grazietta, che gli stava dirimpetto: «Prima d’andarmene devo parlarle d’una cosa seria; me lo ricordi, se mai m’uscisse di mente....» — Una cosa seria! disse Grazietta posando la forchetta sul piatto e fissando gli occhioni stupiti in volto a Corrado. — Una cosa allegra! corresse costui, vuotando il bicchiere d’un fiato. E il sole rimane, e fuggono le ore — ha sempre ragione la meridiana. «Vedete come a poco a poco gli alberi, le erbe, il cielo, ogni cosa si scolorisce, come si allungano le ombre!.... L’allegria sta per finire, cogliamo dei fiori; il prato è un mosaico. Ma perchè sono quasi tutti fiori gialli o bianchi? Perchè non ce ne sono dei rossi come in estate? E la fanciulla, così dicendo, si curvò sull’erba, e tirando su la veste, ne fece un’ampia tasca che cominciò a colmare. Agnese, obbedendo ad un istinto fanciullesco, tirò su la veste come la sorella, e fece altrettanto, e Corrado, senza saper perchè, lasciata dilungare un tratto Agnese, si curvò anch’egli a raccogliere i fiori del prato. La signora Valentina, unica spettatrice di quell’egloga, seduta sull’erba e col dorso appoggiato ad un gelso, lottò alcuni istanti col sonno, finalmente disse di sì e s’abbandonò con un sorriso di beatitudine nelle braccia del tentatore. La raccolta dei fiori, cominciata sbadatamente, divenne una gara. — Ne hai molti? chiedeva Grazietta senza voltarsi. — Sì, tanti. — Ne avrò più io. — Ne avrò più io! disse Corrado togliendosi il cappello e cacciandovi entro la sua manata di fiori. Fiori gialli, bianchi e rosei, tutta la ricchezza d’aprile; mancavano le pervinche. A un tratto Grazietta ne vide una dietro la siepe e fece il giro per coglierla; Agnese e Corrado, che erano accorsi frettolosi, si trovarono un istante da soli — si guardarono, avevano le guancie accese, provarono ancora quell’impaccio bizzarro di prima. Non dissero parola; Agnese abbandonò i lembi della veste, e Corrado vuotò il suo cappello; i fiori caddero ai loro piedi; cadde con essi la momentanea illusione. Ma tornò Grazietta, e vista la disgrazia toccata ai suoi rivali, li aiutò generosamente a raccogliere il bottino.... E le ore fuggono, e il sole.... Anche la meridiana è bugiarda; il sole se ne va, se n’è andato, lasciandosi dietro nell’ultimo orizzonte come un tremolìo di raggi d’oro e di fuoco. Laggiù veleggiano alcune nuvole come navi incendiate; il rimanente del cielo è purissimo. — Signor conte, me la dice ora la sua cosa seria? Il conte si guardò intorno, come se cercasse uno scampo, poi balbettò: — Ci è un uomo, un brav’uomo (non diceva un bravo giovine) che le vuol bene, che si propone di fare la sua felicità.... — Questo è il preambolo? — No, è tutto.... mi pare. — Se non ci è altro, lo sapevo; e so anche di chi parla? — Ah! l’ha visto dunque? — Lo vedo; è lei, signor conte. Chi ci è di bravi uomini che mi voglia bene, se non lei? E non la debbo a lei la mia felicità? — È vero, disse Corrado; non ne parliamo più. Il ritorno in città fu mesto; Grazietta soltanto era capace di sentir la gioia passata, essa sola sapeva dire allegramente: «come siamo stati allegri!» — Domani è l’ultimo del mese, disse Corrado quando fu alla porta di casa di Agnese. — Diggià! rispose costei — ma v’ingannate, ne abbiamo solo 29.... Avete ragione, aprile non ha che trenta giorni. — E la mia petizione? — Quale?.... Ah! sì.... — Mi risponderete in aprile? — No, in maggio. Il conte Germinati esalò un sospiro troppo lungo — poi strinse la mano della bella, e s’allontanò a passo rapido e disinvolto. Alla prima cantonata rallentò l’andatura. «Ho passeggiato lungo i canali, ho ascoltato il richiamo d’un merlo, ho visto due ghiandaie, un picchio appeso al tronco di una quercia, due martin-pescatori fatti d’oro e di topazio — come sono stato felice!....» E proseguiva: «Ho giocato a nascondermi, ed ho raccolto i fiori del prato.... mi sono fatto fare un bacio da Grazietta.... come sono stato felice!» Il vecchio Antonio gli venne incontro colla sua buona faccia ridente, ma rallegrata più ancora da una compiacenza piena di malizia e di mistero. Sulla tavola del salotto faceva pompa di sè un enorme mazzo di viole; vedendo la sorpresa che il dì dell’onomastico del suo tiranno aveva prodotto un semplice mazzolino, centuplicando le dimensioni del mazzo, Antonio aveva immaginato di centuplicare le dimensioni della sorpresa. Invece Corrado stette come istupidito a contemplare. — Chi ha messo questi fiori qui? — Io. — E chi li ha portati? Bisognava pur rispondere. — Io! — E perchè? — Perchè oggi.... non si ricorda? perchè oggi ha compito gli anni.... — Ah! — Sicuramente.... proprio oggi li ha compiti i quarantuno! — Quarantuno! — Già; è nato nell’anno 18....; faccia il conto. — È vero, sono quarantuno; grazie, Antonio, grazie. E strinse la mano al vecchio, il quale se ne andò ripetendo fra sè e sè: «Ottimo ragazzo, ottimo ragazzo!» XXV. 1. Maggio. Corrado provava tutte le ansie crudeli di una coscienza che, non avendo mai interrogato sè stessa, sapeva trattare il sofisma come un coltello. Ogni domanda nuova spalancava una voragine, in cui la mente provava la vertigine dell’incertezza. Al termine d’una notte insonne egli credeva d’essersi persuaso che quarant’un anno non sono molti, specialmente quando tutti ve ne danno trentasette; e che la sproporzione d’età negli sposi non è quasi mai cagione di domestici guai. Poteva citare A. B. C. e parecchie altre lettere dell’alfabeto in favore della sua tesi — e non dubitava che colla statistica alla mano si potesse anzi provare questa verità di fede: «per fare un matrimonio felice le migliori condizioni sono che lo sposo abbia passato i quaranta e la sposa non sia arrivata ai diciasette.» Di questo non ne dubitiamo nemmanco noi — perchè qual mai verità di fede non si può provare colla statistica alla mano? Ma una voce, che invano si era provata a dire, riuscì finalmente a farsi ascoltare: «A, B, C, sono eccezioni; bada che essi non hanno fatto la tua vita, non si sono logorati nei piaceri, hanno serbata una gioventù: quella del cuore — e una verginità: quella dell’anima. A, B, C, erano buona gente perduta nell’alfabeto del mondo, non fecero mai parlare di sè con uno scandalo, vivevano tranquilli, operosi senza logorarsi la fibra, fantasticando senza lasciare un lembo di fede ad ogni sterpo della vita — erano sani, erano ingenui; se l’età non si misura ad anni, erano giovani. A te invece che rimane? Togli le ricchezze, e di’, qual parte di te credi degna di Grazietta? Oh! se tu le potessi dire: «senti fanciulla mia — un giorno mi trovai dinanzi ad una seduzione, il desiderio mi attirava, ma mi feci forte, trionfai di me medesimo, perchè, senza conoscerti, pensavo a te!» Cerca tra le larve del tuo passato una bella seduttrice respinta.... non ne trovi. E invece a quante tentazioni volgari hai ceduto riluttante! Quanti frutti bacati hai accostato alla bocca nauseata!» Passò quel giorno, venne il domani. Benvenuto Maggio! Un’altra corrente afferrò lo spirito vagabondo; il fascino d’un’altra idea lo avvinse; un’impazienza nota gli pose i nervi in sussulto. Al mezzodì, impotente a resistere oltre, scrisse sopra un suo biglietto da visita — MAGGIO I — e lo mandò per mezzo d’un fattorino ad Agnese. La risposta fu un’unica parola e cento promesse: «FORSE.» Corrado volle correre subito, ma una strana riluttanza lo trattenne; il nodo della cravatta riusciva sempre storto, la spartitura dei capelli non veniva mai dritta; spese un tempo prezioso dinanzi allo specchio; senza rendersene conto, coll’aria d’affannarsi a far presto, tirava in lungo; e quando ebbe il cappello a tubo piantato, come si deve, perpendicolarmente sul cranio, andò a buttarsi sopra una poltroncina, da vero sbadato, facendo scendere il cappello sugli occhi e guastando la spartitura. Finalmente scattò come molla, si mosse, uscì di casa — alla prima cantonata si fermò. Qualcuno gli diceva: «Ah! se tu le potessi dire: — senti, fanciulla mia, un giorno mi trovai dinanzi ad una seduzione; il desiderio mi attirava, ma mi feci forte, e trionfai di me medesimo, perchè pensavo a te....» Corrado passò dinanzi alla casa di Agnese, levò il capo a guardare le finestre, andò oltre, e più oltre, e più oltre, finchè fu in contemplazione estatica dinanzi al visino di Grazietta, la quale le parlava dei progressi del suo Mario. E quel giorno non fu punto audace; non carpì nè un bacio, nè una carezza — poi strinse la manina gentile, disse «buona notte signorina» e se ne andò con una certa solennità. — Che avrà pensato Agnese? domandò a sè stesso per via. Agnese aveva pensato: «Non viene, oggi non verrà; accettare il mio amore significa rinunziare per sempre all’amore di mia sorella; lo sa anche lui — tanto meglio.... Verrà domani....» Ma anche il domani non venne. XXVI. In cui si vede che gli amici del Circolo sanno sempre tutto. Quel giorno, andando a far visita alla fanciulla, Corrado trovò appostato sulla via, cogli occhi fissi nella casetta che biancheggiava in mezzo al verde dei gelsi e delle acacie, un giovine, un bel giovine, quasi più alto di lui, snello, ma robusto, dalla faccia schietta adombrata da poca barba e più da una lieve tinta di melanconia. Fingendo di non vedere, il signor conte aveva visto tutto ciò ed indovinato il suo rivale. Egli tirò diritto senza impaccio; l’altro finse di guardare di qua e di là, ma non si mosse. Nell’atto di sparir dietro la siepe, Corrado volse il capo e vide che il giovine ignoto aveva chinato la testa sul petto e non si moveva. Un quarto d’ora dopo il conte diceva a Grazietta, pigliandole le manine bianche perchè non gli sfuggisse: «Signorina, c’è un giovine, un bravo giovine, che le vuol bene, e che vorrebbe.... Non seppe andare innanzi. La fanciulla provò a svincolare le mani, ma non le riuscì, e disse, facendosi rossa: «vorrebbe che cosa?.... Allora Corrado ripigliò, con un tremito strano nella voce: «Signorina, ci è un uomo, un po’ maturo, ma un brav’uomo.... almeno mi pare — che le vuol tanto bene e che vorrebbe.... Così dicendo, aveva allentato la stretta; la fanciulla ne approfittò e fuggì via, come un uccelletto. Tornò poi, canticchiando, col volto illuminato da una segreta gioia; corse pel viale, si cacciò nell’erba, evitando però di rimaner sola col conte. Costui s’era fatto buio in volto, seguiva con occhi spenti le movenze della poveretta, evitando anch’egli di rimaner solo con lei. Poi si accomiatò bruscamente. E Grazietta, punto sbigottita di quei modi, si buttò nelle braccia della signora Valentina, dicendo: «quanto sono felice oggi!» — Davvero! e perchè oggi più d’ieri? — Non so, balbettò la fanciulla. Aveva un segreto! Il giorno successivo, Corrado, mentre attraversava la via, sentì alle spalle un passo frettoloso e il suo nome pronunziato una volta, due — era Filiberto. — È un secolo che non ti si vede, gli disse il giovinotto con un lievissimo accento di canzonatura, mentre gli stringeva forte la mano; hai abbandonato gli amici.... già tutti così voi altri.... — Voi altri.... che cosa? — Voi altri innamorati.... scusa sai?... ripeto quel che si dice, e con ragione, mi pare — perchè non ci è che l’amore, anzi non ci è che un amore come il tuo per dar di simili sassate all’amicizia.... — Ah! si sa che io sono innamorato? chiese Corrado, ritrovando il tono beffardo con cui era solito sgominare le ciancie dei suoi buoni amici. — Si sa, si sa.... — E si sa che sorta d’amore è il mio? — Si sa.... si sa tutto; un amore puro, di quelli che si sognano a sedici anni per una fanciulla, la quale ancora non ne ha diciasette.... Corrado ebbe la forza di sorridere, facendo cenno all’amico di proseguire. — La tua innamorata è bionda, questo si sapeva da un pezzo, è bella — nessuno ti ha mai fatto il torto di dubitarne — ma vi è un guaio. — Sentiamo il guaio.... — Un grosso guaio.... è una ragazza purissima, per giungere alla quale bisogna passare per le forche caudine — o tutta la vita o niente.... — Diancine! e allora? — E allora.... bada.... non sono io che ti calunnio, è il mondo — e allora tu te la sposi. Felicino è già stato due volte al Municipio per vedere le pubblicazioni — non ci sono ancora.... — Come! non ci sono ancora? — Dunque te la sposi, lasci strillare il parentado e ne fai una contessina magnifica, e te la porti via.... La contessina Grazietta sarebbe il gioiello delle nostre sale — ma non puoi stare a Milano per causa di sua sorella.... Il conte non seppe reprimere un atto di stupore; lo dissimulò alla meglio dicendo: — Grazietta ha una sorella? — Pur troppo!.... una sorella niente affatto pura, che si fa mantenere — una bionda meravigliosa, appartenente alla famiglia delle _aristocratiche_, come le chiamiamo noi.... Questa bionda meravigliosa è il punto nero dell’idillio; essa è innamorata pazzamente di te, odia sua sorella; ci sono state scene di gelosia terribili — di’ un po’ che tutto questo non è vero? — È verissimo; ne dubiti forse? — Io sì, ma il mondo no.... e le nozze quando? — Fra una settimana. — E dove andrai a stare? — In cima ad un monte; ho comperato un castello forte in rovina, lo faccio rimettere a nuovo senza guastarne l’orrido — ci sarà il suo ponte levatoio, e un trombettiere per dar l’avviso quando verranno gli amici..., ci verrai anche tu.... Mi compongo una felicità medioevale; vedrai, vedrete.... Dove sei diretto? — Veramente.... in nessun luogo.... — Addio, Filiberto; tante cose a quei cari matti. E Corrado piantò l’amico, il quale per lo stupore rimase alcuni istanti nel mezzo della via. — Signorina, disse Corrado a Grazietta con un’insolita gravità di modi; ieri mi è sfuggita sul meglio d’una rivelazione, oggi mi deve ascoltare.... — Una rivelazione?.... balbettò la fanciulla provandosi a sorridere.... — O meglio un’ambasciata.... Prometta di starmi a sentire. La fanciulla chinò gli occhi a terra e disse con un filo di voce: «Glielo prometto.» — Ci è un giovine, un bel giovine, ventiquattro anni al più.... che si è innamorato di lei e le vuole un mondo di bene.... non l’ha mai visto lei quel giovine? Grazietta aveva curvato la testina sul petto — non rispose. E Corrado coll’accento affannoso: — Quel bel giovine è anche un bravo artista, laborioso, onesto; vuol farla felice.... e la domanda in isposa.... Per un istante non trovò più parole.... — Che risponde? disse poi. E insistè: — Non bisogna dirgli di no.... E siccome la fanciulla taceva sempre, Corrado, ponendole una mano sotto il mento per rialzarle il volto, sentì il caldo di due lagrime silenziose. Si curvò allora a guardarla, ma Grazietta ruppe in un singhiozzo e fuggì. Il conte appressò la mano alla bocca ed asciugò colle labbra la traccia di quelle lagrime. Un pezzo stette così, immobile; poi, obbedendo ad un’improvvisa idea, fuggì, attraversò molte vie a passo frettoloso, salì le scale note, e giunto alle spalle d’Agnese: «Eccomi!» disse. La bella lo guardò nello specchio prima di voltarsi; e a Corrado parve d’udire questa esclamazione inesplicabile: «Peccato!» XXVII. Partenza. Aveva detto bene Agnese: accettare l’amor suo era rinunziare a quello di Grazietta. L’angelica figura della innocente sparve nel buio d’una lontananza senza misura. Fu per alcuni giorni come se la fanciulla non avesse esistito, e solo più tardi il pensiero di lei tornò a Corrado come quello d’una cara defunta. Poi venne il lutto, poi la doglia cocente, immediata, che succede alle lagrime versate per una sepolta. In tutti i modi, Grazietta per Corrado era morta, proprio morta. Il primo ritorno a lei come a creatura viva fu il pensiero del doverla un dì o l’altro rivedere, di dover fissare riluttante lo sguardo nel volto bianco e virginale, e sentire un impaccio nuovo dinanzi all’azzurro di quell’occhio terso e lucente. Quel dì venne, e Corrado si stupì molto di non provare tutto quanto immaginava; l’impaccio della fanciulla sciolse il suo, e la titubanza di lei a fissarlo in volto, diede animo a lui di guardarla fisso ed a lungo. Ah! era pur bella Grazietta! Le chiese come stava: «Benino». Dunque non benissimo, si vedeva. S’era di nuovo buscata un’infreddatura stando alla finestra di notte a guardar le stelle, aveva la voce un po’ velata ed un tantino di tosse. E Corrado, stupito della propria disinvoltura crescente, le ordinò di curarsi, di stare a letto, e si fece promettere obbedienza assoluta. Del giovine pittore, che la voleva in moglie, non fu fatta parola, ma prima che se ne andasse, la mamma Valentina venne a dirgli in segreto che ancora Grazietta non aveva risposto nulla, e che quel povero giovane continuava a passare mattina e sera, sospirando come un mantice: «E finchè soffierà così da lontano, osservò giudiziosamente, c’è poca speranza che la piccina pigli fuoco — dico bene?» Una smorfia di Corrado significò che diceva benissimo. Fatta la prima prova, non vi era proprio alcuna ragione per troncar le visite, tanto più che la cara fanciulla non stava molto bene. Corrado volle ripigliare le abitudini di una volta, e il dì successivo tornò alla casetta in via Lesmi. La prima persona, che incontrò mettendo piede sulle scale, fu Agnese, che lo precedeva. — Tu qui? gli disse costei volgendosi. — Ti stupisci? balbettò il conte vincendo a stento l’impaccio; come sta Grazietta? A questa parola seguì un rumore sul pianerottolo; Corrado alzò il capo, Agnese si volse; altro non videro che il lembo d’una veste nera che spariva nel vano dell’uscio. Si guardarono in silenzio. — Ci avrà intesi? disse il conte impallidendo. — Che importa? — Come le spiegherai...? — A modo mio.... con una menzogna: le dirò che tu m’ami, che io t’amo, che ci siamo fidanzati e ci sposeremo.... forse; i fidanzati si danno bene del _tu_.... — Ah! non le dire questo. — E perchè di grazia? domandò Agnese con un sorriso in cui entrava un po’ di beffa. Un istante dopo apparve sul pianerottolo Grazietta; fece essa un atto di stupore, e scese le scale sorridendo per venire a baciare sulle due guancie la sorella. Corrado le porse la mano, ma la fanciulla non vide l’atto, crollò la testa in modo vago, disse: «Buon giorno, signor conte» e scappò in giardino tirandosi dietro Agnese. Costei la guardava con occhio indagatore. — Come stai oggi? le disse. — Oggi benissimo, e domani e sempre starò benissimo; non mi voglio più ammalare; va bene così? Quell’allegria toccava il cuore. Quando fu l’ora del tramonto, la mamma Valentina entrò a dire: «bisogna rientrare in casa, signorina, e mettersi a letto....» — Già, rispose Grazietta, e dormire fino a domattina come una marmotta.... signora no. — Se non vuoi andare a letto, starai su a leggere, ma non devi rimanere all’aperto; le sere sono fredde, e un malanno si fa presto a pigliarselo.... hai la tosse.... — Hai la tosse?... — Non le dar retta; non ho nulla io.... sto bene. Agnese pareva agitata da uh pensiero; più volte guardò il conte con una segreta impazienza, poi si accommiatò bruscamente. Corrado le venne dietro a malincuore. Ah! Grazietta non esisteva più per lui! Per via non aprirono quasi bocca; e l’uno interrogò, e l’altra rispose a monosillabi; e sull’uscio di casa della cortigiana, si fermarono entrambi come per tacita intelligenza. — Sono stanca, disse Agnese. — Mi aspettano, disse Corrado. Si toccarono la punta delle dita. «A rivederci.» Mezz’ora dopo, Corrado giungeva a piedi nella via Lesmi. Alla luce scialba del crepuscolo vide giungere per l’opposto verso una carrozza, che si arrestò dinanzi alla nota casa; si aprì la portiera, ne uscì una donna — Agnese. Costei vide subito Corrado, e in vece d’infilare il portone, gli mosse incontro determinata. «Abbiamo voluto ingannarci a vicenda, disse con un accento strano; il nostro amore non incomincia con molta schiettezza; può essere che appunto perciò duri di più. Avevo bisogno di trovarmi sola con mia sorella, e tu pure, mi sembra. Posto che non ci è riuscito, vieni in carrozza meco, parleremo.» Corrado obbedì come un automa, e quando la carrozza si mosse, egli si affacciò a guardare la casetta biancheggiante, che sembrava fuggirgli dinanzi per nascondersi nell’ombra. Salirono le scale in silenzio — giunto nel salotto, Corrado si buttò sopra il divano; Agnese sciolse le briglie del suo cappellino, e senza levarlo sedette sull’orlo d’una poltroncina. Stettero un tratto immobili e silenziosi. Alla luce fioca, che penetrava dalle finestre, entrambi parevano due ombre. — È inutile domandare dei lumi, disse Agnese; tu devi preferire di stare al buio. Corrado non rispose. — Perchè tornavi da Grazietta? soggiunse la bella con accento di dileggio. Nessuna risposta. — Non lo sai tu stesso — te lo dirò io: tornavi a lei perchè l’ami o perchè almeno così t’hanno detto i tuoi sensi; circondato dall’aureola d’innamorato, tu ti santifichi, diventi incapace di male e speri di commetterlo involontariamente.... come vuole il destino. Leggo io bene nel tuo cuore? Nessuna risposta. — Questo non accadrà, ripigliò a dire Agnese, abbassando la voce ma senza ira: dovessi ucciderti, dovessi uccidere lei stessa, tu non giungerai fino a Grazietta. — Come sei gelosa! esclamò Corrado amaramente. — Ti duole che non lo sia? — Non hai tu detto d’amarmi? — L’hai tu creduto? Le tre ironie s’incrociarono fredde, inesorabili. Agnese proseguì: — Ti conosco troppo; troppo è in te della mia stessa natura, in me della tua. Ebbene, sì, ho mentito.... Che importa? Non è tutta la mia vita una menzogna? Non ho di mio che il cuore, perchè non fu mai di nessuno — no, non ti amo, non potrei amarti. Te ne duole forse? Corrado era rientrato nel suo mutismo. — Potevi far te e lei felice, soggiunse Agnese dopo breve silenzio — ora è tardi — può un conte essere l’amante di una donna come me — ciò è lecito, è decoroso, è bello anzi — ma non può farsi sposo di una creatura povera e santa come Grazietta. Hai scelto d’essere mio amante, tutto è finito fra te e lei. Corrado si rizzò all’improvviso, e pigliando le mani della cortigiana, le disse con gravità: «Ho giurato di rispettare l’innocenza di tua sorella e non l’ho offesa con una parola — domani all’alba partirò. — Per tornare....? — Quando il matrimonio di Grazietta sarà compiuto. Scattando come molla, Agnese suonò il campanello e chiese i lumi; poi disse: — Voglio guardarti in volto ora.... Alla luce di un candelabro, la cortigiana fissò gli occhi nella faccia mesta di Corrado. «Sei bello, disse, sei generoso. Peccato che io non sia innamorata di te! E d’altra parte, che fortuna! — Perchè? — Perchè il mio amore non potrebbe renderti felice. Poi lo baciò e gli disse «buon viaggio.» Il giorno successivo, quando credeva Corrado partito, Agnese se lo vide venire dinanzi all’improvviso: impallidì. — Che significa? — Significa che non parto, che non posso partire; sono stato a dire _addio_ a Grazietta — sarò pazzo, sarò sciocco, ma credo che la poveretta mi ami.... ridi pure, sì essa mi ama! ne sono sicuro — rimango. Agnese stette un istante dubbiosa, poi, cedendo ad un’improvvisa idea, pigliò le mani di Corrado nelle proprie, e piantandogli in volto gli occhi sfavillanti: — Sì, disse, Grazietta ti ama! — Ebbene.... sarà un’onta di più nella mia vita, ma non importa — sposala! Credevo che l’amore d’una cortigiana potesse essere un inciampo — vedo bene che non lo è mai; sposala, e falla felice — io partirò, andrò lontano perchè non giunga fino a voi l’ombra della mia vergogna. — Nessuno saprà mai che la contessa Germinati ha una sorella come me. Il conte teneva il capo chino a terra, e a queste ultime parole disse, come parlando fra sè: «Lo sa Filiberto, lo sanno gli amici del circolo, tutti lo sanno!» E tacque. Agnese si era lasciata cadere sopra una seggiola, teneva gli occhi fissi a terra. Lungo silenzio. — Parto, disse Corrado. Uscì. Agnese non si mosse, non sollevò lo sguardo — pareva la statua della sciagura. XXVIII. Ritorno. Corrado partì. Scrisse prima a Grazietta: una menzogna per legittimare la sua assenza, un augurio, un addio — poche parole in tutto. Mandò alla mamma Valentina alcuni biglietti da mille franchi, perchè servissero di dote alla fanciulla, raccomandò che le nozze si compissero presto, presto, presto, che gli sposi abitassero la casicciuola in via Lesmi.... E partì. Andò, senza saper dove, prima a Torino, poi nella Svizzera, poi in Germania, da ultimo a Venezia — passarono così venti giorni. Nell’atto di tornare a Milano, pensò che venti giorni erano pochi, che tutto non era forse finito, che bisognava viaggiare e divertirsi ancora. Tornò a Trieste, a Vienna, poi di nuovo in Isvizzera, e poi di nuovo a Torino, fermandosi negli stessi alberghi, andando a vedere le stesse meraviglie.... Passò un altro mese — e allora disse a sè stesso che era tempo di tornare a Milano, e non l’ebbe detto, che già il convoglio ve lo portava. Per via aveva avuto la febbricciatola d’impazienza e di desiderio che dà il ritorno; aveva pensato a Grazietta; ma per quanto avesse fatto prova di ricomporsela in mente tal quale l’aveva lasciata, non gli riuscì. E costretto a guardare faccia a faccia il nuovo stato di cose, aprì gli occhi e li tenne per tutto il viaggio fissi nel fantasma diverso ma tuttavia caro. Vide Grazietta al fianco di quel giovine poc’anzi ignoto interamente a lei ed ora tanta parte di lei, la vide sorridente, felice, con una malizia pudica nello sguardo, fiera e semplice, e bella di una bellezza nuova. E s’immaginava giunto a Milano, nella viuzza deserta, in faccia al nido silenzioso d’una felicità nata or ora; si arrestava titubante, porgeva orecchio alle voci della natura, dolci come l’eco d’una gioia tranquilla, poi udiva un’altra voce che chiamava forte un nome, un nome ignoto che gli faceva battere il cuore.... e vedeva farsi alla finestra lei, Grazietta, bionda e splendida come un raggio di sole.... poi scendere le scale e buttarsi nelle braccia d’un uomo felice quanto un nume. A questa visione succedeva come un buio del pensiero; dinanzi alla bella immagine passavano tante ombre nere — era il dispetto, era il rimorso, era una gelosia ingiusta e crudele, era il pauroso riflesso dell’avvenire — ma a poco a poco tornava la luce, tornava la figurina gentile di Grazietta, ricominciava la visione di quella felicità semplice ed innocente. Giunse a Milano, e prima ancora di tornare nelle sue stanze, volle correre in via Lesmi. Era l’ora più calda d’un giorno caldissimo di luglio, e per la viuzza nota non passava anima viva. Corrado si arrestò un istante, spinse l’occhio innanzi a sè, lo girò tutt’intorno — nulla era mutato; le stesse acacie ombreggiavano lo stesso canale, d’onde partivano ogni tanto col rumore dei panni battuti le ciancie rotte e sommesse delle lavandaie che non si vedevano; in un punto la siepe si curvava facendo un vano, proprio come una volta; quel pioppo, quel gelso, quei ghirigori di carbone fatti da un monello sulla muraglia, erano lì, dinanzi a lui, come se da ieri appena li avesse lasciati. Solo nella casa dirimpetto, fra gli otto vetri luccicanti al sole, uno ve n’era tenuto insieme da una striscia di carta bianca. «Qualcuno l’avrà rotto stamane,» pensò involontariamente Corrado. E non trovando linee mancanti al quadro che egli portava con sè, sentì entrargli in petto una baldanza ed affacciarglisi alla mente un’idea, che in due mesi non eragli mai venuta, idea che a un tratto divenne dubbio, speranza, certezza. «Lo vedi, disse a sè stesso, nulla è mutato, Grazietta è ancora fanciulla.» Si mosse, affrettò il passo, e solo sul primo gradino della scala si fermò — gli batteva il cuore forte. Non gli veniva incontro nessuno, non si udiva un accento; gli ripugnava muovere un passo, se prima non fosse rotto quel silenzio di sepoltura. A un tratto una voce eccheggiò come un saluto, una vocetta allegra, squillante, quella di Mario. Corrado salì le scale. Per far l’improvvisata più bella, non sapeva se affacciarsi alla stanza della fanciulla o chiamare facendo il vocione. Ma ecco un corpo apparve senza rumore nei vano dell’uscio — la mamma Valentina. Vide costei il conte e lo guardò senza meraviglia, con occhio istupidito; solo quando Corrado aprì le labbra per parlare, gli fe’ cenno di star zitto e s’inoltrò sulla punta dei piedi. Il conte dietro come un automa. Grazietta era là, dinanzi a lui, colle lunghe treccie cadenti sulla faccia bianca e scarna, cogli occhi chiusi.... immobile sul suo lettuccio di fanciulla. — Morta! E la signora Valentina con voce spenta: «Non ancora!» Queste parole svegliarono una dormente — Agnese, la quale, cedendo alla stanchezza della veglia notturna, aveva preso sonno sopra una seggiola. Anch’essa era patita; si rizzò in piedi, si stropicciò gli occhi, vide Corrado, e corse a buttarglisi nelle braccia e come a morderlo con un bacio selvaggio. Poi si staccò senza dir parola da lui, che, trasognato, barcollante come un ebbro, ripetè parlando a sè stesso: «morta!» — Non ancora! disse Agnese; e andò a sedersi nel suo cantuccio, dove stette a lungo, cogli occhi stranamente fissi in volto a Corrado, pallida e silenziosa, viva immagine della sciagura che abitava in quella cameretta. XXIX. Al capezzale. «Non ancora!» Nessuno gli aveva detto altro, nè altro egli aveva chiesto; tutta la storia di due mesi era in queste parole. La mamma Valentina, seduta al capezzale, Agnese colle braccia penzolanti dalla spalliera della seggiola, collo sguardo intento e come sprofondato in una visione — aspettavano. Corrado non ebbe la forza di staccarsi dal limitare — aspettava anch’esso. A un tratto un brivido corse per quelle tre creature desolate.... Grazietta esalò un sospiro lungo.... Non era l’ultimo. Le fanciulla aveva aperto gli occhi, mandava in giro come a fatica uno sguardo spento, in cui all’improvviso balenò una gran luce. «Signor Corrado!» disse con voce sonora. Lo sciagurato si fece presso al letto, strinse nelle proprie la mano scarna e febbrile che gli venne offerta, allacciò paurosamente un suo sguardo desolato con quello della fanciulla, che nulla più aveva della terra — non disse parola. — Come sta? interrogò Grazietta. — E lei, signorina? rispose Corrado assottigliando la voce e modulandola come una carezza — e lei, come sta? Ah! perchè ammalarsi quando io era lontano, perchè non farmelo sapere? — Sto bene, balbettò la fanciulla, sto tanto bene. Si sciolse dalla stretta amorosa che le teneva le mani, ed abbassando la voce a guisa di chi fa una confidenza: — Voglio guarire, disse, ora chiederò di guarire. E chiusi gli occhi, mosse le labbra senza parlare — poi volse il capo in atto di ascoltazione, finchè ricadde nel sopore. Lungamente il conte stette al capezzale — guardava le trecce lunghissime e due ricciolini ribelli, che ponevano una cornice d’oro sulla fronte diafana e bianca come alabastro.... Era bella Grazietta fin tra le strette della morte; la febbre aveva avuto pietà della sua avvenenza, e sulle guancie disfatte aveva steso un velo incarnato, che ne cancellava i solchi e le ombre. All’ultimo Corrado si scostò dal lettuccio; sul limitare si rivolse ancora una volta, e stringendo disperatamente la fronte fra i pugni chiusi, uscì dalla camera. Agnese si era rizzata come un automa, senza togliergli di dosso gli occhi; quando fu uscito, gli venne dietro. Erano sul pianerottolo in faccia l’un dell’altro. Corrado guardò una crocetta nera che aveva visto al collo della fanciulla ed ora stava infranta sulla soglia; finalmente disse, parlando fra sè medesimo: «Povera Grazietta!» Agnese l’udì, e non rispose; lo contemplava estatica. Tutto il suo volto patito era un gran dolore e una gran tenerezza, in cui balenava ogni tanto una strana luce. Strana davvero l’espressione di quel viso; parve a Corrado di leggervi una nuova sciagura e non seppe sprigionarsi dallo sguardo profondo. — Che hai? — Che ho? rispose Agnese, ponendogli le due mani sugli omeri e dandogli un brivido con quel contatto — e soggiunse con accento tenero e dolce come una musica: io nulla, Corrado, nulla.... Poi disse: «Grazietta muore!» — Qual’è il medico? — Il dottor B. — E dice? — Che non vi è rimedio, che Grazietta muore. Agnese staccò finalmente gli occhi dal volto di Corrado e li fissò rincupiti al suolo. Si udiva la sua respirazione affrettata, si vedeva il suo seno sollevarsi ed abbassarsi. «E lo sa Dio, mormorò con voce sorda senza batter ciglio, e lo sa Dio se sarei morta con gioia per far lei felice! Ora è troppo tardi! Grazietta muore....» Rizzò ad un tratto il capo, sprigionò dagli occhi un gran baleno, e profferì con accento intenerito queste parole feroci: «meglio che muoia, povera Grazietta!» Corrado la guardò in volto, la credette impazzita; e certo il suo dubbio gli apparve sulla faccia, perchè Agnese, leggendolo, sorrise melanconicamente. «Mi credi pazza? balbettò.... Il conte scese alcuni scalini, non sapendo che rispondere, poi si volse.... la desolata donna lo guardava con espressione d’amorosa pietà. — Che hai? insistette. Nessuna risposta. Ed egli allora, incapace di reggere oltre, col cuore oppresso da una nuova angoscia senza nome, scese gli ultimi gradini, nè più si volse; uscì, corse a casa sua e si buttò nelle braccia di Antonio lagrimoso. Un’ora dopo tornava a contemplare a ciglio asciutto la sciagura a cui aveva fatto un nido degno della felicità. XXX. Dinanzi alla finestra. Il giorno successivo Grazietta volle levarsi da letto, perchè era forte, perchè si sentiva benissimo. Invano la mamma Valentina ed Agnese provarono a trattenerla, almeno fino a tanto che fosse venuto il medico. — Non temete di nulla — rispondeva la fanciulla — non mi farà male. Parlava con una singolare sonorità d’accento, ed alle parole aggiungeva l’atto di levarsi; le si leggeva in viso una volontà ribelle, quasi volesse trionfare del male in una disperata lotta. Si vestì in silenzio, radunando tutte le forze nel suo proposito, arrestandosi sfinita ad ogni istante, ma senza mai darsi vinta; all’ultimo scese dal letto, barcollò, fu seduta in un seggiolone. L’ansia le mozzava il respiro, la febbre le arroventava le membra. Le fu porta una vesticciuola bianca, ma ella volle la sua d’ogni giorno, quella da lutto; poi si fe’ spingere dinanzi alla finestra aperta e stette a contemplare in silenzio il giardino. Agnese e Valentina non le si staccavano dal fianco. Poco dopo la fanciulla, vedendo in un vetro della finestra l’incerto riflesso del proprio volto, disse sorridendo: — Lo vedete, guarisco.... In vero, a vederla così, colle guancie accese dalla febbre, poteva ingannare la pietà ed il desiderio. Non s’ingannava Agnese, non s’ingannava Valentina. «È vero!» dissero allo stesso tempo, e si scambiarono uno sguardo desolato. Di nuovo la fanciulla s’immerse nella contemplazione, da cui man mano passò alla pace del sonno. Le due donne non la lasciarono. Non altra cura aveva il mondo per esse, tranne Grazietta; da molte settimane vagavano per le camere visitate dal dolore, come due spettri, silenziose, dimentiche di sè stesse. «Signora Agnese, diceva talvolta la mamma Valentina; bisogna mangiare qualche cosa. — Non ho fame. Altra volta era Agnese che diceva: — Mamma Valentina, non fate colazione? — Non ho fame. E in quel silenzio d’agonia squillavano ogni tanto le vocette allegre degli uccelli abbandonati nella gabbia; allora Valentina scivolava nell’altra camera, e distribuiva malinconicamente il miglio e qualche parola buona ai poveretti. I canarini moltiplicavano le seduzioni, le moine, tentavano di tutto per trattenerla — invano; era scomparsa la festa dalla casetta bianca. Una volta la febbre dell’inferma era stata più forte, e la mamma Valentina aveva detto seria seria ai suoi dozzinanti: «Pregate, domani non avremo più Grazietta.» Ma i canarini avevano pregato tanto e così forte, che Grazietta vinse la febbre. Da alcuni minuti la fanciulla pareva dormire, quando a un tratto aprì gli occhi e stette in ascolto. Ascoltarono anche le due donne, e nulla udirono — ma un istante dopo un passo leggiero salì le scale.... Agnese e Valentina si volsero — era Corrado. Grazietta non si era mossa per salutare il nuovo venuto, ma gli sorrideva nel vetro della finestra. — Alzata! esclamò il conte con un tremito nella voce, facendosi presso; dunque sta meglio? — Sì, sto meglio, sto bene, rispose la poveretta guardandolo senza titubanza, fisso e lungamente. Poi volse di nuovo lo sguardo alla campagna, e dalla aiuola lo spinse via via nel prato, oltre la siepe, nei campi d’oro, fino ai giganti canuti ed all’azzurro dell’orizzonte. La mattina era splendida, il sole già caldo non era giunto ancora alla finestra. Le cicale appese agli alberi empivano l’aria del loro stridìo, per tacere a un tratto se un passero si posava sul loro ramo; ogni tanto una farfalla danzava dinanzi alla finestra, come per posarsi, poi spiccava il volo diritto e diventava un punto bianco nell’azzurro. Una volta si posò. E finchè stette là, colle ali tese come una vela, sul davanzale, immobile, Grazietta non ne staccò gli occhi; quando ebbe spiccato il volo, e, dopo una breve danza, fu prima diventata un punto bianco nel cielo e poi scomparsa — allora la fanciulla mormorò: «non la vedrò più.» — Perchè dice questo? chiese Corrado con accento d’amorevole rimprovero. — Perchè non tornerà più, rispose Grazietta semplicemente. E per diradare del tutto la mestizia cagionata dalle sue parole, disse, curvandosi a fatica sul davanzale della finestra: «Come è bella la nostra aiuola! signor Corrado; e il viale come è bello! e il padiglione!.... Ma le vennero meno le forze e cadde sulla spalliera. Ansimava. Un soffio, prima leggiero come l’alito d’un bambino, poi più forte, venne a lambire la fronte della fanciulla. — Le farà male stare esposta all’aria. — Mi fa bene, mi fa pensare.... indovini a che cosa?.... indovinalo tu Agnese.... mi fa pensare all’osteria del _Piccione_, laggiù, in mezzo ai campi ed ai canali.... questo stesso venticello che mi soffia sulla faccia, perchè sa che ho caldo, fa dondolare l’insegna sull’asta irruginita.... Che bel giorno quello! Se ne ricorda, signor Corrado? Parlava con gran fatica, ma la voce nello sforzo le veniva fuori limpida e forte. — Sicuro che me ne ricordo, disse Corrado per farla tacere.... alla mattina la passeggiata, cianciando, per dimenticare l’appetito, poi la colazione.... — Non si ricorda bene.... e le due ghiandaie che passarono sul nostro capo; e il Martin pescatore che radeva le acque del canale.... — E il picchio, disse Valentina. — Sì, il picchio che batteva all’uscio di casa sua, e il merlo che zufolava come un monello.... — Poi si giuocò a nasconderci, poi si raccolsero i fiori, proseguì Corrado. — Sì, sì, e il ritorno, e gli ippocastani del bastione.... allora come erano puliti, se ne ricorda! L’altro giorno li ho riveduti; quanti seccumi, quanti ragnateli! Fece colle labbra una smorfietta di disgusto e disse: «non voglio bene ai ragni!» Tacque. Il sole allungava ora un raggio fino ad accarezzare la manina dell’inferma; senza far rumore, Corrado, assicuratosi che Grazietta dormiva, socchiuse le imposte, poi si ritrasse in un canto della camera, dove lo seguirono gli occhi ardenti di Agnese. Da principio il conte non vi pose mente, poi si avvide di quell’occhiata intenta, profonda, che ora gli pareva tenera, ora feroce; da ultimo con un cenno chiamò a sè Agnese. Costei obbedì senza far rumore, senza staccar gli occhi da lui, come una sonnambula. — Che hai? — Nulla, Corrado, nulla. E l’accento di queste parole era carezzevole. — Non è vero, tu mi nascondi qualche cosa.... parla.... — Ora no, rispose Agnese bruscamente e gli volse le spalle. Venne il medico, esaminò l’inferma, le toccò la fronte e i polsi senza svegliarla, si fece gravemente presso al conte, e guardandosi intorno per assicurarsi che non l’udissero le due donne rimaste immobili come due statue, aprì bocca per dire.... Corrado ebbe paura di quelle parole, ed impedì la confidenza chiedendo con accento angosciato: — Ha voluto levarsi da letto, vuol stare dinanzi alla finestra, dobbiamo lasciarvela?... non le farà male?.... Il medico guardò in volto l’uomo che così gli parlava; comprese: «Non le farà male, disse melanconicamente; e fece per andarsene. — Tornerà stasera? chiese il conte facendo un passo dietro di lui. — Stassera. Ricominciò il silenzio della sciagura. Verso il mezzodì Grazietta mandò uno di quei lunghi sospiri, seguiti da un silenzio lungo, che gelano il sangue di chi assiste ad un morente. Le due donne e Corrado le vennero al fianco. — Che vuoi? — Nulla, rispose Grazietta.... cioè sì, voglio qualche cosa. — Che cosa? lo dica.... — Non so. E curvò la testa per pensare. — Ah! disse, ho trovato.... vorrei delle ciliege. — Poveri noi! disse Valentina; non ce n’è più.... — Non importa, rispose Grazietta sorridendo. — Pensi qualcos’altro.... — Sì, pensa qualcos’altro. — Ci penso.... non trovo.... ah! mi pare che vorrei di quel pane nero da contadini.... ma che fosse duro e dovessi rammollirlo nel latte appena munto.... e poi correre, correre.... L’ansia le tolse la parola, poi disse: — No, non è nemmeno questo — non trovo nulla.... non voglio nulla. Alcune ore dopo, il sole lasciò la finestra di Grazietta; si potè riaprire le imposte, lasciar entrare il canto degli uccelli e l’aria ed il sentore dell’ampia campagna. Era una festa inesauribile per la fanciulla, la quale, cogli occhi vaganti, guardava tutto, volendo abbracciare un’ultima volta la terra ed il cielo che le avevano sempre sorriso. Quella giornata trascorsa dinanzi ad una finestra aperta sulla campagna immensa riceveva vita da cento piccoli episodii; la nuvola bianca, che passava nel cielo, svolgendosi come un velo da sposa, la quaglia, che ripeteva le sue tre note nei solchi, la falce d’un contadino che balenava al sole lontanamente, ogni cosa aggiungeva una strofa al canto soave della natura che la morente leggeva con occhi innamorati. Una volta una specie di palluzza cadde dall’alto della finestra e si arrestò di botto nel vano, appesa ad un filo. Grazietta, che l’aveva creduta una gocciolina nera, riconobbe uno degli animali a cui non voleva bene — un ragno. Non ne ebbe però ribrezzo, lo guardò a lungo, curiosamente, lo vide attorcigliare il suo filo, risalire e ridiscendere rapidamente come un acrobata, e quando fu scomparso nella sua buca, lo aspettò sperando che discendesse ancora — finalmente disse: «poveretto! nessuno gli vuol bene!» Più tardi, quando il sole gettò i suoi raggi radendo terra, Grazietta disse sospirando: «se n’è andato.» — Non ancora, rispose Corrado affacciandosi alla finestra. — Io non lo vedo più. E pregò cogli atti che la rizzassero in piedi, per vederlo ancora, e lo vide, e gli sorrise. Poi venne la sfinge, poi un pipistrello audace. — E Mario? domandò Grazietta; dov’è Mario, Agnese? La povera donna uscì senza dir parola. — La mia cara Agnese! disse la fanciulla, quanto è buona! Non è vero che è buona, che merita d’esser felice?.... — È un angelo, rispose la signora Valentina. Corrado non disse nulla. Tornò Agnese colla gabbia di Mario. — Poveretto! Ti ho abbandonato? Non mi conosci più? Canta, Mario, canta! E perchè il canarino non volle cantare, Grazietta disse: «non mi conosce più!....» Incominciò il silenzio del tramonto, poi si svegliarono ad uno ad uno i concertisti della notte: i grilli nelle siepi, le rane nel canale, l’allocco colla sua nota lunga e melanconica; ogni tanto si udiva il riso sguaiato e chiassoso del pavone d’una lontana fattoria. Poi il cielo si fece bigio, apparve una stella.... tremolavano ancora nell’aria gli ultimi raggi della luce diffusa.... Un istante dopo Corrado socchiuse i vetri, perchè l’aria della notte non battesse sul viso di Grazietta, e si ritrasse in punta di piedi. Venne il medico; si fece presso alla fanciulla; curvandosi a guardarla, tratteneva quasi il respiro.... A un tratto fu in piedi, le toccò la fronte, le sollevò bruscamente un braccio e lo lasciò ricadere, accese un zolfanello. L’improvvisa luce illuminò tre spettri, ritti ed immobili in diversi punti della camera. Il medico avvicinò la fiammella alle labbra di Grazietta — poi si scostò senza dir parola. I tre astanti gli vennero accanto come automi; solo i loro occhi interrogavano nell’ombra — e il medico, allargando le braccia e stringendoli come in unico amplesso: «Coraggio» disse. XXXI. Una strofetta di Mario. Scese la notte nera; non lagrime, non singhiozzi per le camere silenziose. La Giovanna, una povera vicina, avvertita della sciagura, pianse e venne; lungamente le tre donne si aggirarono come ombre intorno al cadavere. Ogni tanto, Valentina interrogava paurosamente il volto di Agnese, che, impietrito dal dolore, nulla rispondeva, mentre Corrado, addossato alla parete, seguiva le tacite movenze, con occhio indifferente, quasi curioso. Quando la cameretta fu pronta e il letto preparato con lenzuola candidissime e bisognò adagiarvi la bella fanciulla che avea sposato la morte, le donne si fecero presso a Grazietta, e una, la Giovanna, le toccò un braccio, che cadde e spenzolò lungo il fianco. Stettero un istante dubbiose. Fu Agnese la più forte; ella fece il giro del seggiolone, venne a porsi in faccia alla morta, e i tre astanti la videro sorriderle. Si accostarono tutti; fu sollevato il corpicino, e trasportato nel lettuccio — poi ognuno si allontanò a ritroso. La mamma Valentina disse qualche parola in segreto alla Giovanna, trasse da un armadio una veste bianca e la depose sopra una seggiola — all’ultimo, fe’ cenno a Corrado ed Agnese di venir via. Sul limitare dell’uscio, che metteva in giardino, tutti tre sollevarono gli occhi al cielo, che era purissimo e scintillante di stelle, e stettero così lungamente. A un tratto, la mamma Valentina ruppe con un singhiozzo la barriera delle lagrime — andò in cucina a piangere; Agnese e Corrado rimasero a ciglio asciutto, come assorti in una visione. Poi la mamma tornò, si fece presso ai due, e solo quando fu scomparsa ed Agnese le fu andata dietro su per le scale, Corrado sentì che gli era stato detto: «Lei rimanga.» Rimase; si rifece a guardare una stella più fulgida delle sue compagne, ad ascoltare un soffio lamentevole che passava ogni tanto per la pianura, svegliando le erbe ed agitando le piante nere. Quanto tempo stette egli, senza pensiero, senza altra sensazione della vita fuorchè uno stupore di morte? Un tempo lungo. Poi tolse l’occhio dal cielo e vide la tenebra immensa — si mosse, si addentrò nel viale, aggiunse un’ombra vagante alle ombre immobili. E quanto tempo così? Un tempo lungo. Impallidivano le stelle, l’alito fresco ed umido dell’alba correva per la campagna, quando il conte tornò alla casicciuola biancheggiante nel fondo bigio. Salì le scale; sul pianerottolo trattenne il respiro, quasi aspettando che si aprisse l’uscio per lasciar passare un caro fantasma. Spinse la porta, che girò con lieve cigolìo di lamento — entrò, fece un passo innanzi.... La luce di una candela illuminava una visione. Non era vero che Grazietta fosse morta; aveva solo smesso il lutto per vestirsi come una sposa, poi le era venuto il capriccio di buttarsi ancora una volta, prima di andare a nozze, sul suo letto di fanciulla, e quivi il sonno ingannatore le aveva irrigidito le membra e chiuso gli occhi, non le labbra, che sorridevano ancora alle lusinghe dell’avvenire. Una treccia le cadeva lungo il pallido viso; l’altra, scendendo giù pel capezzale, quasi toccava terra, ed era tinta di riflessi di fuoco e d’oro dalla luce della candela e dell’alba pallida, che si affacciava ai vetri della finestra. Corrado, immoto dinanzi al lettuccio, rivedeva un’altr’alba, che gli aveva mostrato la cara visione, e là, nella bottega del parrucchiere famoso, il medesimo contrasto di luci intorno alla testina di neve. Dov’è una prigione al pensiero? La sciagura stessa non l’ha. Ritto innanzi al cadavere gentile, Corrado fece in un attimo un gran viaggio con lei viva, e sorrise e rise con lei, dimentichi entrambi della morte. Tornando nella cameretta, ritrovandosi dinanzi a quel corpicciuolo stecchito, a quel visino bianco — «non è vero che sia morta, pensò; doveva andare a nozze, ha avuto il capriccio di buttarsi così vestita nel suo lettuccio da fanciulla per aspettarmi.... si sveglierà or ora.» — E fece un passo innanzi, e radunò tutta la sua potenza visiva in uno sguardo, che era un amplesso: parevagli che sotto quella forza magnetica il corpo di Grazietta tremasse, e quando la fiamma mal ferma della candela gettava sulla faccia della morta un’ombra mobile, pensava: «ora si sveglia!....» A un tratto, dalla parete a cui il conte volgeva le spalle, si staccò un corpo, e si fece innanzi senza rumore.... Corrado si volse senza sgomento. Era la mamma Valentina che il sonno aveva vinto sopra la seggiola. «Signor Corrado.... disse ella. — Zitto, ripetè il conte con un filo di voce, ora si sveglia.... La povera donna lo guardò crollando il capo. Ancora un passo riluttante, e Corrado fu al capezzale della morta. — Grazietta! Grazietta! mormorò come pazzo — svegliati, Grazietta.... Tacque, poi soggiunse con voce sommessa: «Non lo sai tu quanto io t’amava? Nessuno mai te l’ha detto? Oh! quanto t’amavo, Grazietta! Se è vero che tu pure mi amassi e che un conforto ti è mancato, sappilo ora: io t’amava tanto! Mi ascolti tu? Sono io, il signor Corrado.... sono io!.... Sorridimi.... così.... guardami per l’ultima volta, sono io.... E cedendo al suo delirio sollevò colle dita tremanti le palpebre gelide della morta, e curvò il capo per ricercarne lo sguardo vitreo.... L’orrore lo vinse; cadde egli in ginocchio al capezzale, domandò perdono a Grazietta, e pianse. Pochi minuti dopo si rialzò; raccolse la treccia su cui luccicavano alcune lagrime, la compose melanconicamente intorno al viso gentile. Era grave, solenne.... Intanto, la signora Valentina, fattasi innanzi come un automa, aveva spento il lume, e allora — o vista! — alla luce dell’alba la morte apparve in tutto il suo orrore; la faccia bianca di Grazietta si trasformò a un tratto, divenne di cera. Corrado, che ancora la guardava, fece per allontanarsi a ritroso, ma la signora Valentina lo trattenne. — L’altro giorno la poverina mi parlava della sua prossima morte — a me sola ne parlava, credendo la poverina che io l’amassi meno — e mi diceva: «Mamma Valentina.... (ora nessuno mi dirà più mamma!) mamma Valentina, mi diceva, quando sarò morta, ricordati che mi devi tagliare i capelli e darli al signor Corrado. Sono suoi.... proseguiva, e mi farà piacere che qualche cosa di me non scenda in sepoltura.» La poverina diceva così, niente di più o di meno.... Veda, par proprio che sorrida perchè non ho cambiato una parola.... — No, disse Corrado con voce tremante, no, povero angiolo, portala teco la tua ultima bellezza. Allora squillò una nota — si volsero entrambi. Accanto alla finestra, dal cantuccio dove era stata dimenticata la gabbia, Mario salutava il mattino a modo suo. Diceva: «Grazietta! Grazietta! buone nuove! il buio è scomparso, sono rinati gli alberi, è tornato il verde, è tornato l’azzurro; svegliati, Grazietta, ecco il sole!» XXXII. Scene ultime. Le molte veglie trionfarono della volontà — Agnese dormì un lungo sonno. — La mamma Valentina aveva avuto la precauzione di chiudere le imposte delle finestre, e la poveretta si svegliò ad ora tarda. Entrando nella camera mortuaria, guardò istupidita le candele che ardevano presso al lettuccio, impallidite dalla luce viva del giorno — e interrogò Corrado, il quale si ribellava al sonno per assistere con un’amara curiosità alle ultime scene della commedia umana. — Che cosa hanno fatto? chiese sottovoce. — È venuto un medico; lo ha mandato il municipio per dare un nome diverso alla malattia che ha ucciso Grazietta; ora la cosa è in regola; è venuto un prete per dirle delle parole latine; anche questo è in regola.... sono venuti altri due a prenderle la misura: non si è fatto altro. E senza batter ciglio, Corrado continuò a tener lo sguardo fisso nel lenzuolo, che ricopriva il corpo e la faccia della morta. — Hai dormito? gli domandò Agnese. — Sì.... no.... non ho sonno. La povera donna gli diede un’occhiata lunga.... — Vorrei vederla, disse poi con un tremito nella voce; è ancora bella? — Guardala.... E facendo un passo, Corrado scoprì la faccia della fanciulla. Agnese diede un grido. — Vieni, soggiunse con voce carezzevole, non rimanere qui; ti farà male.... vieni, Corrado, vieni. Pigliandolo per mano, lo fece scendere nel salotto, lo costrinse a sedere sul canapè, lo circondò di silenzio e di tenebre — finchè il sonno l’ebbe preso a tradimento. Risvegliandosi verso il tramonto, Corrado balzò in piedi, aprì le finestre, e vide, seduta presso al divano, Agnese che lo guardava con una strana espressione di tenerezza e di angoscia. — Le si avvicinò commosso. — Perchè mi guardi così? che hai? — Nulla.... nulla.... — Non è vero, — ripetè Corrado; ma senza darsene ragione, non osò insistere, e volgendole un’occhiata paurosa, uscì da quella camera. Agnese gli venne dietro. — Grazietta?... chiese il conte volgendosi. — Domani. Venne il domani; una salmodia nota attraversò la via deserta; poi fu un bisbiglio delle donnicciuole del vicinato, e un gran silenzio — e di nuovo la salmodia e il canto limpido delle orfanelle che andò lontano pei campi — all’ultimo uscì Grazietta nella sua piccola bara, coperta di fiori; dietro a lei Agnese, la signora Valentina, Antonio, la Giovanna, qualche vicina e molti poveretti — si udirono singhiozzi soffocati; il breve corteo sparve dietro la cantonata. Pochi minuti dopo una carrozza da nolo, uscita dalla casetta bianca, s’avviava al cimitero. — Corrado giunse in tempo a veder da lontano la bara che veniva calata sotterra; quando la folla fu lontana ed egli ebbe visto Agnese cedere alle insistenze di Valentina e di Antonio ed andar via anch’essa a ritroso, si fece innanzi, prese il suo pugno di terra e lo buttò sulla fossa ricolma. Teneva il capo chino sul petto, ma non piangeva. Risollevandosi, vide all’opposto lato della tomba un giovine alto, bello e lagrimoso — lo riconobbe. E sentì un desiderio ardente di farglisi presso, di stringergli la mano, di piangere con lui, di chiamarlo amico e fratello.... Si sarebbe sentito consolato, si sarebbe stimato di più, facendolo; non lo fece — lo ripigliava il mondo. Geloso delle lagrime di quell’ignoto, della sua preghiera muta ma fervida, finse di allontanarsi, vagò fra le tombe, e quando lo sconosciuto fu scomparso, egli venne un’altra volta alla fossa, cadde in ginocchio, ed appoggiò le labbra al suolo per bisbigliare alla povera morta queste parole: «Io t’ho amata più di lui! più di tutti!» Raccolse alcuni ciottoli, e li dispose sulla fossa in modo da scrivere; «addio!» poi girò uno sguardo intorno per accertarsi che nessuno lo avesse visto, e si allontanò a passo rapido senza voltarsi. Oltrepassando la cancellata, che separa la città dei vivi dalla città dei morti, disse con un ghigno amaro: «La commedia è finita!» Ma perchè dunque rifaceva la strada percorsa dal funebre corteo? Qual fascino lo attirava in via Lesmi? Qual parte di Grazietta era rimasta nella casicciola bianca? Aveva non so quale bisogno di risalire quelle scale, di rivedere la cameretta della fanciulla. Giunse ed entrò; volse prima lo sguardo tutt’intorno poi lo tenne lungamente sul lettuccio, facendosi forte per cancellarne una faccia cadaverica e collocarvi un sorriso fra due guancie rosate; e quando fu riuscito, e Grazietta gli riapparve bella, palpitante, innamorata, allora sorrise. Ma ogni tanto si ricompiaceva nell’immagine scarna della morta e la rievocava paurosamente per ribellarsele tosto. Si fece alla finestra aperta, guardò al cielo che Grazietta aveva guardato prima di morire: non aveva più le stesse nuvole, non era più lo stesso. Allora spinse l’occhio nella campagna rimasta tal quale. Assorto nella contemplazione, udiva ogni tanto alle spalle un passo, quello della signora Valentina, e si ricordava d’Agnese. Dov’era Agnese? A un tratto, vide innanzi a sè cadere una palluzza nera appesa ad un filo: era un ragno. L’istinto fu di ucciderlo, si trattenne, gli vennero in mente queste parole: «Poveretto, nessuno gli vuol bene.» Pensò: «Questa meschina creatura, che Grazietta ha compassionato, è ancora piena di vita, va su e giù per le sue scale e si prepara ad un’impresa gigantesca, a tessere dinanzi alla finestra una tela colossale che deve assicurargli una virilità piena di piaceri, una degna vecchiaia....» Poi disse forte: «Grazietta! povera Grazietta!» Era il mezzodì, Agnese non veniva.... Dove era Agnese? Detto addio alla mamma Valentina, il conte se ne andò perchè bisognava andarsene, tornò a casa sua perchè bisognava tornarvi.... Seduta in una poltroncina del salotto, una donna l’aspettava da due ore. — Agnese! Egli si trattenne sul limitare, oppresso da un’improvvisa, inesplicabile angoscia. XXXIII. In cui si apprende che cosa avesse Agnese. Non aveva aperto bocca; solamente lo guardava con quella espressione indefinibile di tenerezza paurosa, di desiderio e d’affanno, che si era già tante volte proposta a Corrado come un enigma. Ella non si mosse; egli le venne presso, quasi riluttante, le sedette vicino, e dopo aver cercato qualche cosa da dire, chinò il capo sul petto mormorando: «Grazietta! Grazietta!». Ma il suo pensiero era lontano dalla povera morta. Dov’era? Non lo sapeva egli medesimo. Aveva paura — di che? A un tratto due braccia gli avvinghiarono il collo, e una bocca ardente cercò la sua bocca per imprimervi un lungo bacio. A quella stretta, al fuoco di quelle labbra, Corrado tremò tutto. — Che hai? balbettò, cercando di sprigionarsi dolcemente. — Nulla, lasciami stare, voglio sentire come ti batte il cuore, sta zitto. E abbassando il capo per appoggiarlo al petto del conte, scivolò ginocchioni a terra. Corrado provò a rialzarla. — Lasciami, lasciami, ripetè Agnese. Stette così a lungo senza mostrare il volto; nel profondo silenzio, si udivano le sue lagrime cadere ad una ad una sul mosaico del pavimento. Alla fine rizzò il capo: «Ho pianto, disse, mi ha fatto bene.» — Povera Grazietta! mormorò Corrado, non sapendo che dire — e aveva l’occhio sbarrato, il cuore stretto da uno strano sgomento. — È morta! disse Agnese rialzandosi bruscamente; lo sai? è morta, proprio morta e sepolta, non soffre più. Io vivo e t’amo. Quest’ultima parola scoccò come una minaccia, e Corrado l’udì come un’ingiuria; si fece pallido. — Sì, t’amo, rispose Agnese con voce aspra; non te ne sei accorto? A me stessa pareva impossibile, e pure è così; sono ben sveglia, e proprio io ti parlo, e non è delirio il mio — t’amo! Questo amore ha poco più di due mesi, non ne ha ancora tre, ma si è fatto già grande, e lo sento crescere ogni giorno. Chi m’avrebbe detto quando facevo la vanerella per ridere, quando ti tormentavo per compiacermi della tua debolezza, e quando mi davo a te con indifferenza, chi mi avrebbe detto che dietro a tanti giorni di beffa, di trastullo, di dispetto, uno dovesse venirne per incominciare ad amarti tanto? Potevo mai credere quando t’incoraggiavo a sposar Grazietta, che dopo essermi sentita spezzare il cuore alla sua agonia, dopo aver seppellito con lei una parte di me stessa, dovessi rallegrarmene quasi? Sì, perchè vedi.... se ora Grazietta tornasse in vita, io, che avrei accettato la morte in vece sua, sento che ne sarei gelosa, che non potrei darle un affetto puro.... È odioso, mi faccio orrore io medesima; ma che ne posso io se t’amo tanto? — Che significa questo? interruppe Corrado; e provò a rialzarsi, ma quelle braccia d’alabastro, che gli facevano un laccio intorno al collo, avevano ora nervi d’acciaio. — Oh! non mi parlare così, disse la bella, pigliando l’accento soave dell’adorazione, non essere duro con me. Corrado mio! Se sapessi! ho tanto sofferto, soffro ancora tanto! E tu pure soffri! un gran dolore è lì, in faccia a noi, per ripigliarci appena usciti dall’ebbrezza del nostro amore.... Ma io posso darti una gran gioia, una gioia immensa; via, guardami in faccia.... così; non leggi nulla? Ascolta come batte a me il cuore.... non senti nulla? Sei cieco e sordo, povero amor mio! indovina dunque, indovina!.... Corrado riuscì a rizzarsi in piedi, e scostando la seggiola con una mano, disse freddo: «Il momento è scelto male per una commedia; che significa questo? — Significa — balbettò Agnese con un filo di voce, guardandolo paurosamente negli occhi — significa che io sono la madre di tuo figlio. Al suono di quelle parole Corrado stette inebetito, poi, come se tardi gli si rivelasse il significato, diè un grido di belva ferita: — Pazza! pazza! pazza! Volle dir altro, non seppe; riuscì a vincersi, sorrise del proprio terrore medesimo, ed accostandosi ad Agnese, la quale continuava a guardarlo con occhi spalancati: «Pazza! ripetè, ma con voce raddolcita, quasi carezzevole; — è uno scherzo, non è vero? Hai tanto sofferto in questi giorni, povera Agnese! Costei, ingannata da quell’accento, spianò la fronte e sorrise melanconicamente. «Corrado mio!» disse. Non altro. Egli le prese la mano, aspettava che parlasse; impazientito, l’abbandonò; ma l’altra gli afferrò i polsi e li tenne stretti. «Lascia che ti guardi bene — voglio che ti somigli, che sia il tuo ritratto.... Ma perchè non mi dici nulla? Come mai non mi guardi? Perchè non mi chiedi di lui? Vuoi che ti narri tutto quanto mi ha fatto soffrire, che ti dica i suoi capricci, le sue impazienze? Qualche volta non mi dice nulla, e allora mi pare di averlo perduto.... come te; poi si adira e lo ritrovo, e mi fa soffrire nelle sue collere amorose.... come te.... Un riso sguaiato, un riso atroce svegliò la povera madre dal suo sogno. — Vediamo, disse Corrado; tu sei madre, è cosa intesa.... e che devo io fare? — Sono venuta a chiederti il diritto di vivere onesta fino.... — Fino a quel giorno, e poi, e sempre — è cosa intesa; pagherò — ora lasciami. — Mi mandi via, gridò Agnese, mandi via la madre della tua creatura! — Taci sciagurata! disse il conte avvicinandosi, qualcuno ti potrebbe udire. — Che importa? Non lo nascondo, mi odano pure tutti! Una fitta dolorosa le mozzò la frase con un gemito; Corrado le stringeva i polsi. Scioltasi da quel laccio, la poveretta, come istupidita, guardò le lividure delle braccia senza piangere. — Pazza! disse Corrado con voce sorda. — Sì, pazza, rispose la povera donna, pazza perchè ti disprezzo e non so cessare d’amarti. Succedette un silenzio straziante. Agnese aveva nascosto la faccia fra le mani per non vedere l’amaro riso del conte. Finalmente costui le si fece presso, le toccò un braccio; la povera donna fu in piedi di scatto. — Sono stato duro.... le disse Corrado; sì, hai ragione, sono stato crudele; che vuoi farci? non ho più cuore; me l’hanno lacerato e rapito e sepolto. Quando ti accusavo di fare una parte di commedia, ero ingiusto; perdonami. Sei invece un’illusa, una povera illusa, null’altro.... perchè, via.... pensaci, tu madre di mio figlio! non è vero che è impossibile? Il destino non può volere una cosa simile!.... — Il destino l’ha voluta, rispose Agnese melanconicamente; ma tu hai ragione, non ci pensavo.... è per te orribile questo che a me è tanto caro!.... Bisognerà rimediare.... me n’andrò lontano, e ti darò tuo figlio, per morire poi se vorrai; vivrò in qualche solitudine ignota agli uomini, se mi dirai di vivere.... il mondo è grande, cercheremo un nascondiglio in cui io possa celare il mio amore di madre.... purchè egli sia felice con te. Corrado ascoltava come chi creda di udire gli accenti del delirio, crollando il capo ad ogni frase, ma senza dispetto. — E chi ti assicura?..... disse, ma si trattenne. — Chi me l’assicura?.... E puoi credere che una madre s’inganni? Ho tanto sofferto, soffro tanto, ed è lui che mi fa soffrire! — Chi ti assicura, riprese Corrado con riluttanza, chi ti assicura che sia mio figlio? Ad una ad una, lente, inesorabili, caddero le parole spietate sopra la povera donna, la quale barcollò e venne meno sopra una seggiola. Un istante il conte, cedendo ad un improvviso orrore di sè medesimo, volle buttarsele alle ginocchia, ma corresse subito quell’impeto generoso, rimase immobile a contemplarla. Provò la tapina a rizzarsi in piedi, e ricadde sulla seggiola; provò ancora, radunando tutte le sue forze, e quando si sentì salda: «Una volta non ero così debole, disse; è per causa di lui.... Addio Corrado.... Costui non fece un passo per trattenerla, e la disgraziata attraversò la sala barcollando; sulla soglia si fermò, si volse, tenne a lungo gli occhi stanchi sopra il suo amante, che chinava la testa come un colpevole. «Mi fai pietà! disse con voce sorda — e sparve. Il conte ascoltò i passi che si allontanavano, e quando più nulla si udì, venne alla finestra per vederla ancora. La vide — vestita a bruno, pallida, patita e bionda.... come Grazietta! XXXIV. Qui Aniceto fa un altro bisticcio. Corrado stette lungamente nelle sue camere, solo, vagante come uno spettro; e quando Antonio venne ad avvertire con voce sospirosa che il desinare era pronto, prese il cappello ed uscì. Andò prima al Circolo, sebbene non fosse l’ora, poi al caffè, dove solevano radunarsi gli amici; chiese dei cibi che assaggiò appena — e di nuovo stette come trasognato. Finalmente qualcuno venne — Filiberto; e subito Corrado gli troncò le ciancie in bocca, sciorinando un’infilata d’interrogazioni. — Come stai? È un pezzo che non ci vediamo! Barbara e Fanny che fanno? E che fa Aniceto? — Non sai nulla? — Di che? — Della sua gotta; da alcuni giorni non esce di casa.... ha sloggiato. Ora sta in via Castelfidardo, dove abitava una volta. — Andrò a vederlo. — Gli farai piacere; è sempre di buon umore; fa ancora dei bisticci. — E dov’è Felicino? — Sulla cattiva strada, in quella che finisce dinanzi al sindaco od all’assessore — è innamorato sul serio.... — Questo lo sapevo.... non ci è altro? — Ci è che ha peggiorato — ci è che le pubblicazioni se non le ha fatte, le sta per fare. La ragazza è bellina.... egli la trova bellissima.... finchè non sarà sua moglie. — E Domenico? — Eccolo. Infatti, il Domenichino entrava allora colla sua cascaggine solita; girò uno sguardo spento intorno, non vide gli amici, che lo guardavano sorridendo, e vista invece una poltrona che pareva invitarlo a fare nelle sue braccia un pisolino, vi si lasciò cadere di peso. Allora i due risero forte; Domenichino alzò gli occhi, li indovinò se non li vide, e fece cenno venissero da lui. Vennero. — Ed ora parlaci di te, disse Filiberto; ti vedo di buon umore; segno che sei fuor di pericolo.... Hai potuto uscire dalla rete della biondina? — Sì, rispose Corrado con voce sorda, abbuiandosi in volto. — Come lo dici? ti sarebbe scappata lei invece? — Sì.... — Lo diceva Aniceto che quell’innocentina era capace di fartela.... e che.... — Taci.... interruppe Corrado. — E che.... — Taci, ti dico.... è morta! Filiberto e Domenico si guardarono in viso e non aggiunsero parola. L’allegria falsa si spense. — Vado da Aniceto, disse all’ultimo il conte — ed uscì solo. A Filiberto e Domenico non venne nemmeno in capo di cercare d’accompagnarlo. Un amaro riso si era posto sulle labbra di Corrado, e non se ne staccava un istante; beffardo e cinico, egli aveva l’aria d’assistere alla parodia d’un dramma, che si rappresentasse nel suo cuore. Affatto uscita di mente eragli Agnese; solo passando in via Solferino, egli alzò il capo e disse dentro di sè: «Bisognerà ricordarmi di lei — farò un nodo al fazzoletto.» Aniceto, rivedendo il «suo caro, il suo migliore amico,» ebbe uno slancio di tenerezza, e volle balzargli nelle braccia; ma la gotta lo tirò per un piede e lo costrinse a ricadere sul seggiolone. Allora disse: — Non l’ho ancora domata, ma la domeremo; non è la prima volta — ti ricordi, quando stavo in questa stessa casa, che ebbi male a un piede, e lo credevo un reuma?... era invece la gotta.... Non è vero, Martina, che era la gotta?... non me l’avevano detto per non farmi paura.... Martina, un gran pezzo di donna sui trentacinque, ferrea, angolosa, si accontentò di crollare il capo senza dir parola e senza muoversi. — Sono venuto qui, soggiunse Aniceto, perchè Martina mi ha curato la prima volta a meraviglia — la gotta e lei si conoscono. Guardandola di nuovo, per poco non parve al conte che la gotta e Martina fossero tutt’uno, e non sapeva quale delle due fosse capace di inchiodar meglio Aniceto. Ma quest’idea, balenata come tante altre nella mente di Corrado, non si fermò. Aniceto proseguiva, facendo colla lingua tutto il movimento che non poteva fare col restante del corpo. — Non mi dici nulla; mi hai l’aria buia; smettila; non mi compassionare; non sono ancora seppellito; vedrai che guarirò; e poi anche tu hai studiato, lo sai il detto memorando: «gutta cavat lapidem — la gotta cava la lapide» — e se la cava, è segno che non la mette — è chiara mi pare. — Bravo! Parve a Corrado che Martina continuasse a farsi sempre più immobile, solenne, nera e ferrea. — La signora è la tua padrona di casa?... — No.... precisamente.... la padrona di casa è una vecchia decrepita.... Martina è la.... capisci.... — Già, disse Corrado forte, la fantesca. Aniceto sorrise e guardò alla sfuggita verso il donnone che era rimasto impassibile. Nel ripassare un’altra volta sotto le finestre di Agnese, il conte rialzò il capo senza cancellare il sorriso amaro, e disse: «A quest’ora aspetta.... aspetterà tutt’oggi, domani scriverà una lettera commovente; la commedia non è finita. Vedrai, Corrado:» XXXV. Seconda lettera di Agnese al signor conte. «Ti ho aspettato — ora ho risoluto e parto: andrò lontano.... (Il signor conte lasciò cadere la lettera, e disse con beffardo accento: «Non si muoverà da Milano.» Fece alcuni passi per la camera, ed arrestandosi dinanzi alla lettera e guardatala un istante, la raccolse e lesse:) «Ti ho aspettato — ora ho risoluto e parto: andrò lontano. Dove? il luogo non importa — camminerò fino a stancare ogni compagno del mio passato, fino a giungere sola in qualche luogo remoto, in cui la cortigiana possa essere madre senza arrossire. «Ho pensato molto al tuo destino, al mio, a quello di tuo figlio. Hai ragione: non ho diritto ad essere creduta. E poi, anche volendo, non potresti mai ingannare te medesimo interamente; un velenoso dubbio ti morderebbe il cuore ad ogni istante. Meglio dunque il tuo egoismo della tua pietà. «Ti lascio senza rancore, perchè ti ho letto nel pensiero, perchè ti guardo nell’anima buona — e poi il cielo mi ha dato un gran conforto, la certezza di poter ridonare un giorno il padre alla mia creatura. Vivi dunque felice ed aspetta; non è lontana l’ora in cui il tuo cuore si aprirà all’immensa gioia che rende indulgente il mio. Tu non hai perduto tuo figlio — sono io, sua madre, che te lo prometto innanzi al cielo — aspettalo. «Ho nominato due volte il cielo; non ridere di me, povero Corrado; Grazietta ci ha lasciati e penso che verrà un giorno in cui lascieremo nostro figlio — ecco perchè cerco un mondo che non assomigli a questo, dove la bellezza non sia tanto vicina alla vergogna, e la virtù tanto cara alla morte. Di me non ti curare; sono rassegnata nel dolore, tranquilla nell’abbandono; porto meco tutto il mio avvenire, la miglior parte di me, quella che rimarrà in terra quando io avrò raggiunto Grazietta. «Ho venduto le mie vesti ed i miei gioielli; potrò vivere onesta alcuni mesi — basta. «Ieri ho fatto un furto nel tuo salotto — ti ho preso un ritratto, che ti fa più brutto, ma che mi guarda coi tuoi occhi buoni di una volta. «Se tornerai sulla tomba di Grazietta, dille che la sua disgraziata sorella.... No, non le dir nulla — essa non è più là sotto; ve l’avevo lasciata un istante; ora sa tutto e mi vien dietro, mi consola, mi fa guardare in alto. Vivi felice: è tuo figlio che te ne scongiura. «AGNESE.» XXXVI. Vita nuova. «Non partirà! ripetè Corrado, e soggiunse poco dopo: «facciamo le cose bene; sono ricco quasi quanto Aniceto io.... essa è bene informata.» Trasse da uno scrigno un mucchio di biglietti, li cacciò senza contarli in una busta, e scrittovi sopra il nome di Agnese, la Via Solferino, il numero 9, chiamò Antonio. Costui venne: aveva gli occhi gonfi e stentava a tenersi ritto come comandava la disciplina domestica — ma il signor conte non badò a nulla. — Andrai dalla signora Agnese, in Via Solferino, n. 9; ti diranno che sta facendo le valigie, ma che non è partita ancora.... — Deve partire? — Doveva. Consegnerai a lei in persona questa busta, e dirai che la mando io con tanti saluti. Antonio non si muoveva. — Va, disse il conte. E Antonio andò. Mezz’ora dopo, tornava colla sua busta in mano. — Non ha voluto accettare? — La busta no; ha accettato i saluti, e.... — Che cosa? chiese Corrado impensierito. — Era bianca bianca, stava male, e.... «Antonio,» mi ha detto, — «povero Antonio,» mi ha detto, «addio!» perchè mi ha detto: povero Antonio? — Sta bene, disse il conte; ci andrò.... — Oggi parte.... — Sta bene. E allorquando fu solo, soggiunse: «Andrò domani; lo sappia almeno che non credo una sillaba, e che il gioco le riesce solo perchè io mi presto da compare.» Tornò al Circolo, tornò al caffè e stette in contemplazione dinanzi alla faccia sonnolenta di Domenico, immagine viva della noia. Dopo il tramonto ebbe la curiosità di passare sotto le finestre di Agnese — erano spalancate e buie. Un’idea gli balenò come un sospetto nuovo. — La signora Agnese?.... — Partita colla corsa delle 7 e 35, rispose il portinaio — Sarà mezz’ora al più. — Per dove? — Non l’ha detto. Una giovinetta, che teneva il capo chino in un canto, mostrò la faccia lagrimosa.... Era la Nina. Corrado la vide, la riconobbe — ebbe rossore e fuggì. — Ha fatto sul serio, disse come fu giunto sulla via; chi l’avrebbe mai creduto? Tanto meglio; scriverà; la posta fa le cose benino, risparmia gl’incontri penosi, le parole stentate, le agonie d’un colloquio difficile. Ma Agnese non scrisse; una settimana, due, tre, Corrado stette in aspettazione; da ultimo pensò che la bella avesse fatto fortuna all’estero e si propose di non voler aspettare più. Aspettò ancora — invano; poi mandò un ghigno all’ignoto indirizzo d’un ignoto signore, probabilmente russo, che gli rapiva l’ultima innamorata, e mise il cuore in pace. Era tempo di ricostruire sè stesso, di rifarsi una vita, o almeno un’abitudine, e se non una gioia una dimenticanza. Bisognava sgomberare il cuore dai rottami del tempio, dove già aveva annicchiato il suo bell’idolo sepolto; tornare all’orgia, ai baci frequenti del bicchiere e delle belle, alle nebbie del pensiero e dello sigaro — svegliarsi interamente dal sogno fatto ad occhi aperti, e ridiventare quello che unicamente poteva essere un uomo come lui a quarantun’anno: un giovinastro consumato. Rinnovò amicizie logore, ne incominciò di nuove; fu dove erano le orgie più sfrenate, beffardo, sdegnoso, insolente. A quel sarcasmo inquieto nessuno resisteva; la sua barzelletta faceva ridere forte e tremare di nascosto. Esperimentò più che mai quanta sia la potenza dell’arroganza fra gli uomini; ognuno lo incoraggiava a ferire gli altri per timore d’essere ferito; la sua parola pronta ed aspra era un coltello; un fascino il suo sguardo — il suo cinismo divenne uno scettro. Barbara e molte altre signore che le assomigliavano — Fanny eccettuata — incominciarono un torneo in regola perchè egli si dichiarasse. Non si dichiarò. Un giorno, rimasto solo con Fanny mentre Domenico sonnecchiava al solito, guardò a lungo la sventatella, la quale si turbò, si fece rossa e all’ultimo gli venne incontro. Ma egli volse il capo da un’altra parte. Fra i commensali del vizio era un neofito, un giovinetto appena ventenne che Corrado guardava talvolta alla sfuggita con occhio amoroso, ma che beffava ad ogni istante in palese; una volta costui volle ribattere, e sentendo penetrar più addentro l’arme formidabile dell’avversario e gli amici ridere, fece la solita bambocciata di andare in collera. Ne risultò un duello — dopo il quale Angelino portò due settimane più del necessario il braccio destro annodato al collo, e si sentì preso da una riconoscenza viva, da un amore inesplicabile per Corrado, il quale gli permise di dargli del tu. — Perchè sei venuto a cacciarti in questo branco di scioperati? gli disse un giorno il nuovo amico; non hai una madre tu, non hai una sorella? Angelino aveva una sorella e la madre. — Stolto! soggiunse il conte, perchè hai vent’anni ti credi padrone dell’avvenire; ti pare che sia presto; apri gli occhi; sappi che quando hai messo il piede qua dentro era già troppo tardi, se non trovavi me; vattene, sei ancora in tempo. — E tu perchè ci vieni?.... Io vengo per te.... — Ho una casa, te ne faccio padrone; mi troverai colà; ma lascia queste donne e questi uomini, che non hanno altro che un sesso. — Te l’ho da dire? ci sono due Corradi in te; uno è piacevole, l’altro è nojoso come un predicatore — voglio bene al primo. Corrado ammutolì, poi disse: «Hai ragione: non ti sei accorto che scherzavo? Ma la «stupida smania» (come la chiamava egli stesso) di correggere Angelino con un sermone gli tornava spesso, alle frutta, in qualche quarto d’ora d’ipocondria, dopo aver tenuta allegra la comitiva; era un’altra stravaganza di cui si rideva più forte che delle facezie. Merito di un certo vino del Reno, si diceva, di quello soltanto; e si proponeva un quesito enologico che rimarrà probabilmente insoluto: «se e perchè il vino del Reno abbia la virtù di sviluppare, per ridere, il senso morale.» Si rideva. Oh! gli stordimenti oratorii! Oh! le barzellette eternamente giovani! Oh! le allegre serate! A poco a poco Corrado si avvezzò alla nuova vita, fece per abitudine e per bisogno quanto aveva ricominciato a fare per un dispetto amaro contro la sorte. A tutti oramai era nota la sua sciagura: l’episodio di Grazietta aveva però fatto male le spese delle ciancie; chè dinanzi al conte nissuno osava scherzare in proposito, e, assente il conte, nemmeno. Filiberto, il quale si era provato un giorno, aveva ammutolito di botto al sopraggiungere di Corrado; Fanny gli aveva detto malignamente: «tira innanzi Filiberto,» ma costui con una prontezza preziosa aveva parlato di Aniceto, della sua Martina e della sua gotta. Una volta Corrado tornò sulla tomba della fanciulla; dell’addio che vi aveva scritto non rimaneva più che la prima lettera intatta; ed egli si curvò e raccogliendo altri ciottoli e disponendoli a mosaico, scrisse: Grazietta! Pensò: «Le parrà di sentirsi chiamare!» E un’altra volta egli e la mamma Valentina le portarono i fiori del giardino che le piacevano tanto. Era rimasto alcuni giorni senza tornare fra gli amici, finchè, ripreso da un’amarezza dispettosa, aveva restituito la sua nota sarcastica indispensabile (diceva Angiolino) alla perfetta armonia dell’orgia. Tornava ogni tanto nella casetta, ma v’incontrava la melanconia rassegnata della signora Valentina, che lo indispettiva peggio. La pace di quel luogo, l’indifferenza di quegli orizzonti, di quella campagna, di quei fiori piantati per Grazietta e che pure crescevano rigogliosi, parevano al conte le sembianze impassibili d’una forza crudele e capricciosa. — Devo andarmene? chiese un giorno la mamma Valentina — che faccio ora qui? — No, rimanga; non l’abbandoni.... — È vero! mi parrebbe proprio di lasciarla sola.... Dopo un breve silenzio disse: — Della signora Agnese ha notizia? — Sì.... sta bene. — Dove si trova? — Viaggia.... — Viaggia!... ripete Valentina come un’eco.... E lei perchè non viaggia, perchè non si svaga? — Perchè.... non so nemmeno io.... — Povero signor Corrado! si consoli, il bene che ha fatto è scritto dove non si cancella. — Ne è proprio sicura? — Che sia scritto.... ne dubita lei? — No.... che io abbia fatto del bene? esclamò amaramente il conte; i fiori, le piante, il bel sole, la bella neve — tutto questo è bene, nessuno lo contrasta, e chi lo fa è geloso del bene che possiamo fare lei ed io; — ho fatto morire Grazietta più presto — ecco tutto il bene che ho fatto. Ma stia tranquilla, mi è passata la smania, non mi proverò più. Tornava agli amici, ai bicchieri, alle follie; non era però guarito: gli mancava sempre una cosa — l’innamorata. Misurato dal falso riso e dall’ebbrezza finta, il tempo pareva un vecchio podagroso a Corrado. Vedendo dinanzi a sè l’immagine viva della noia, e sentendosi stanco dalla veglia, gli pareva talvolta che lo stringesse una malìa; allora balzava in piedi per non cedere al sonno, per non assomigliare nemmeno un istante a Domenichino. Nelle pareti del Circolo eccheggiò un giorno una risata larga e sincera, a cui si unì Corrado con tutto il cuore — Aniceto era guarito alla meglio dalla gotta, per fare pochi passi e cadere.... indovinate? nelle braccia della severa Martina, che lo strinsero in un amplesso ferreo ed ahi! _legittimo_. Gli astanti si divisero in due partiti. — «Meglio la gotta!» — dicevano gli uni — e gli altri asserivano «meglio Martina!» e non vi fu verso di mettersi d’accordo. E un’altra volta le pareti del Circolo eccheggiarono d’un’altra risata, egualmente larga, ma non del pari sincera: Felice aveva sposato la cuginetta, e — primo atto di giudizio con cui iniziava la sua carriera di patriarca — era venuto a darne la notizia agli amici, ad uno ad uno, perchè li aveva temuti riuniti.... Alla buffa novella Angiolino rise troppo, Corrado niente affatto. Così si trascinavano giorni _podagrosi_, come diceva il signor conte. XXXVII. Terza lettera di Agnese al signor conte. V*** marzo.... «Da venti giorni sei padre — padre d’una creaturina che si chiamerà Corrado, come te. Mi pareva di desiderare una femmina, perchè avesse della povera morta, che abbiamo amato tanto, almeno il nome — ora sono certa che m’ingannavo, che il mio segreto desiderio era d’un maschio, il quale ti somigliasse. Non ti scrissi prima perchè fui sempre in pericolo di vita. Ho sperato tanto di morire! Il curato di questi monti, che ha l’anima pietosa, ti avrebbe scritto in vece mia — tu non avresti abbandonato tuo figlio alla carità degli estranei, saresti accorso a raccogliere la preziosa eredità d’una sciagurata — ed io mi sarei risparmiato il dolore acuto di doverlo abbandonare ora che l’ho udito piangere, che mi sono sentita accarezzare dal suo alito lieve lieve, e ne ho coperto di baci la faccia di rosa e di velluto. Ma io aveva la febbre, ero una demente; il cielo non ha voluto risparmiare un dolore ed una colpa ad una donna che ha sofferto tanto, che fu colpevole tanto; mi ha lasciata viva perchè oggi ti potessi dire: «Corrado, io sono giovine e sana, ed ho ora un affetto purissimo nel mondo, e sento che amerei la vita — muoio per ridonare il padre a mio figlio.» Sì Corrado, quando tu giungerai fra questi monti più non vi sarà traccia della sciagurata; troverai solo una madre morta, che è cosa santa. «Nostro figlio — non ti offenda che io così lo chiami almeno una volta — nostro figlio è allattato da una mugnaia della valle della Varaita; tutti ti sapranno indicare l’unico mulino a piedi del monte; tutti conoscono la Narcisa — lo troverai facilmente. Quanto sarei stata felice di allattarlo io medesima! ma ho temuto di non aver poi la forza di strapparmelo dal seno, ho avuto paura di amarlo troppo.... E poi i bambini soffrono del cambiamento di latte, e poi.... è già molto, è troppo, non è vero? che una creaturina abbia avuto la disgrazia di nascere da una donna come me! — La Narcisa è una buona figliola, bella, sana ed onesta. Sei contento così, Corrado? Oh! sì tu lo devi essere tanto, sol che la gioia d’essere padre assomigli lontanamente a quella della maternità; tu devi esserlo tanto, perchè ritrovi tuo figlio. «Io lo vedo: un dubbio crudele ti ha in ogni ora di questi lunghi giorni trascorsi avvelenato il piacere — il dubbio d’aver respinto una creatura a cui avessi dato la vita. Potevi ben credermi ingannatrice od ingannata io stessa, ma strapparti dalla mente e dal cuore l’ultima ombra d’un sospetto che io potessi essere sincera e sicura, come sono, questo non lo potevi fare. «Ecco, tu esci da ogni pena, più non ti è possibile temere di una menzogna che mi costa la vita, più non ti è possibile dubitare che una madre abbandoni suo figlio perchè un estraneo lo raccolga e gl’impresti un affetto falso, un nome non suo. Rallegrati. Tu incominci proprio ad esser padre. «Muoio, Corrado; in questi giorni che la campagna si sveglia, che in ogni zolla freme la vita, io abbandono volontariamente la terra. «Ho detto che non mi fu possibile scriverti prima d’oggi perchè ero inferma. Sì, ero inferma; ieri e ieri l’altro mi ardeva una febbre ignota e stolta; non avrei saputo morire — guardavo le nevi scintillanti al sole, sentivo i primi tepori di marzo, vedevo i monti aspri e severi, fatti ad un tratto generosi e buoni, prodigare alla valle i loro fili d’argento per fecondare i germi impazienti di nascere, e udivo mille voci chiamarmi a nome; erano gli alberi che mi mostravano le loro gemme, i campi che vantavano il nuovo verde.... i loro figli! — Pensavo al mio, correvo a vederlo, a baciarlo; non avevo forza di dirgli _addio_ per sempre. Ero inferma, come vedi. Ora sono guarita. «E penso che la mia morte non solo è necessaria alla mia creatura ed a te, ma è utile a me medesima — tu mi potrai ridonare un po’ di quella stima a cui io aveva pazzamente rinunziato nel mondo e che un giorno si riconosce preziosa — tu potrai dire a mio figlio il nome di sua madre, mostrargli le sembianze con cui essa gli avrebbe sorriso se le fosse stato concesso di vivere per amarlo, insegnargli a benedirne la memoria, a pregare per essa. A pregare, Corrado, se anche tu non credi, insegnaglielo; tu non sai quanto bene faccia lo spalancare gli occhi, di notte, nel lettuccio, e guardare nel buio un mondo lontano. «Insegnagli a non sgomentarsi delle ingiustizie della terra, perchè la giustizia è altrove; digli che coloro a cui la sventura non meritata insegna il dubbio sono pure le tristi creature — meno desolate se apprenderanno la fede da altre sventure, che siano frutto della loro colpa. E digli, oh! digli che fare il bene è un sacerdozio — perciò che non basta volere, ma bisogna anche essere degni di farlo. «Lo abbiamo provato noi, Corrado; sappiamo ora che una legge austera regola anche le buone opere, e le nega agli indegni, e che questa austera legge è insieme la più generosa, perchè mette il bene di noi stessi a condizione di quello che vogliamo fare agli altri — lo sappiamo, Corrado. «Per me è tardi; ho camminato troppo apertamente nella via della vergogna — più non mi è lecito ritrarmene; tutto il bene che io posso compiere oramai è di non lasciare nel mondo la mia vita come un inciampo. «Per te è ben altro; hai errato, anima vagabonda, di piacere in piacere, senza contaminarti interamente; puoi ritrovare più tardi anche il conforto del bene che volesti fare e che non ti fu possibile. È forse questa pure una delle tante ingiustizie che offendono i nostri piccoli cervelli, i nostri cuori piagnolosi e gretti.... «Ma la giustizia è altrove — ed io spero che sarà fatta alle mie intenzioni come se fossero opere. «Addio Corrado. Del prepotente amore che ti portai per tanti mesi, ancora tanto mi rimane da sentire la melanconica tenerezza di questa parola che ti rivolgo per l’estrema volta: «addio.» «E tu affretta; il nostro bimbo chiede il mio ultimo, il tuo primo bacio.» XXXVIII. Madre e figlio. Una luce crudele si fece innanzi agli occhi di Corrado; fissò egli lo sguardo nello spazio, e vide, inorridito, Agnese bionda, pallida e santa come Grazietta, fra le braccia della morte, e gli parve d’udire un gemito lontano, come una vocetta che chiamasse la madre muta per sempre e respingesse il padre snaturato. Poi gli balenò una speranza: «chi sa? tutto non è ancora finito, la sciagura aspetta forse la sentenza d’un giudice temuto.» Era lui quel giudice! Obbedendo ad un impulso generoso, mandò questo telegramma urgente ad Agnese, presso il mulino della Narcisa a V***: «Credo tutto, risparmia una sciagura, un rimorso — io vengo. «CORRADO.» Due ore dopo partiva, coll’anima in tumulto. Da principio il viaggio parve lungo al suo terrore impaziente, ma a poco a poco un’idea vecchia, uscendo dalla folla di tante idee nuove, mostrò la sua faccia beffarda al signor conte, il quale volse il capo per non vederla e di nuovo la vide, e non cercò di sfuggirla, e infine la fissò apertamente ricambiandole l’amaro sorriso. «Arriverai in tempo, diceva quel sorriso amaro, ancora non è morta. Solo hai fatto un’imprudenza mandando un telegramma in cui prometti di venire.... perchè, non si sa mai, se veramente ha _quella_ intenzione, ora che è sicura di te si ucciderà più presto. Per trovarla viva dovevi lasciarla in dubbio, farle credere che hai un macigno nel petto e che, morta lei, suo figlio, _tuo figlio_, non avrebbe più nessuno — ad ogni modo sta tranquillo, ancora non è morta». Corrado, giungendo a Saluzzo, aveva ricuperato il dominio del suo pensiero: era tornato sè stesso; solo di mezzo alla glaciale indolenza con cui pareva prestarsi allo scioglimento d’una commedia troppo lunga, ogni tanto, obliandosi, scorgeva una sfiducia od un terrore che gli affrettava i palpiti. La via s’inerpicava con giravolte astute su pei colli, per allungarsi poi come un nastro polveroso nella vallata; quando la diligenza andava su penosamente peggio d’una tartaruga, quando il cocchiere abbandonava le redini, quando i cavalli lasciavano penzolare il capo sfiduciati, allora tornavano i terrori a Corrado, il quale avrebbe voluto scendere a terra e correre. Ma era allora che, giunto in cima all’erta, il carrozzone cominciava a rotolare dalla china, facendo un chiasso assordante, accompagnato dall’ombra che, scavalcando siepi, saltando muriccioli e piante, pareva stentare a tenergli dietro — era allora che il signor conte, annicchiato nel suo cantuccio, udiva distintamente il conforto amaro: «Sta tranquillo, ancora non è morta.» Giunse finalmente ad un primo anfiteatro formato dai monti, poi per una stretta gola ad un altro del tutto simile al primo; colà dal verde di un boschetto uscivano poche case ed un campanile — il paesello di V***. La prima persona, a cui con un tremito nella voce domandò l’abitazione della signora Agnese, gli additò una casetta verde in cima ad un poggio, fiancheggiata da due tugurii fatti di fango. Il borghigiano gli aveva dato quell’indicazione in modo naturalissimo; solo si era fermato sulla via per guardare il _signore_ sconosciuto, il quale, voltandosi, credette proprio di leggergli sulla faccia lo stesso ritornello che una voce beffarda gli gridava per via: «ancora non è morta.» Venne innanzi alla casetta verde; gli batteva il cuore forte; una contadina gli si fece presso. — La signora Agnese? — Sta qui appunto.... ma non è in casa.... — Ah! non è in casa! — No.... è uscita stamane di buon’ora, non è più tornata.... Un pallore improvviso coprì le guancie del conte; ma l’altra proseguì: — Le succede spesso di star via tutto il giorno, ora che ha il piccino a balia dalla Narcisa.... — Ah! le succede spesso.... — Sicuro; se vuole aspettarla, non può tardare ad essere di ritorno. — Non può tardare, dite? — No; se poi vuole andarle incontro, la vada al mulino della Narcisa. — E dov’è il mulino della Narcisa? — Laggiù, vede.... laggiù.... vicino a quegli olmi, in riva alla Varaita, passato il ponticello di legno.... Ha buona vista lei? Lo vede?.... — Lo vedo.... — Lei è il marito della signora, se non mi sbaglio.... sarà contenta la signora, è tanto che aspetta; lei viaggiava non è così?.... ed ha fatto buon viaggio?.... — Eccellente — grazie. La signora, la vedete ogni giorno? — Ogni giorno; sono io che la servo.... — E l’avete vista anche stamane? — Anche stamane.... — Ed era di buon umore, non è vero? — Mi è parso di sì; molto di buon umore non è mai, ma se ho da dire.... mi è parso sì, che fosse di buon umore stamane. — Vado dalla Narcisa. — Vada.... giù, fino alla Varaita, non può sbagliare; passi il ponte di legno.... Vedrà il piccino.... giusto! non mi domanda del piccino? — È bello? — Un amore. — Vado dalla Narcisa. E volte le spalle alla buona donna, scese giù pel rapido sentiero. Solo quando fu a pie’ del colle, girò l’occhio intorno a sè. Che vago spettacolo! Qui lo sguardo, non imprigionato in una cornice di monti, da due lati almeno seguiva per lungo tratto il corso della Varaita ingrossata dal primo squagliamento delle nevi, che scintillavano al sole del tramonto come caschi d’argento sulle teste severe dei monti. Sopra tutti si ergeva, nascondendo il capo fra le nubi, il Monviso. Nella valle si svegliavano mille accenti sommessi, sui quali dominava lo scrosciare continuo del torrente rigonfio. Incominciava il crepuscolo, che fra i monti è breve — il conte si rimise in cammino ed affrettò il passo. Giunse al mulino; passato il ponticello di legno, si fermò.... gli era parso d’udire un grido — dove? Si fece innanzi — un uomo infarinato gli venne incontro ridendo. — La Narcisa? L’altro continuava a ridere. — La Narcisa? ripetè il conte. — La Narcisa sono io! disse una voce fresca; e allo stesso tempo apparve sulla soglia dello stanzone della macina una contadina giovine e bella, con un bambino addormentato nelle braccia. — Non badi a Gianni — disse — è un povero.... innocente.... non è del paese.... ma di Brossasco.... sono quasi tutti così lassù.... la Narcisa sono io.... e che vuole da me?... soggiunse con un impaccio bizzarro. Corrado, senza staccar gli occhi dal bambino, domandò: «È vostro?» — No, è di un conte che non mi ricordo.... laggiù di Milano.... si chiama Corrado il bimbo.... un bel nome, non è vero?.... e guardi un po’ come è bellino anche lui! In così dire si avvicinava, e volgeva lievemente le spalle, perchè l’altro potesse scorgere il visino soave del dormente. Ma invece di guardare il bimbo, Corrado mandava un’occhiata in giro con una specie d’impazienza dispettosa.... — Sì, è bello; disse brusco — e dov’è sua madre? La Narcisa si fece rossa, non rispose. Un amaro riso contrasse le labbra di Corrado; il quale, avvicinandosi alla soglia dello stanzone vicino: — Agnese, disse forte, Agnese, sono io, perchè dunque ti nascondi? Pallida e bianca come un fantasma, Agnese apparve sulla soglia. Il conte le si avvicinò e le prese la mano con un atto disinvolto. La Narcisa, che non comprendeva nulla, sorrideva. Fu lei la prima e rompere il silenzio: «Si sveglia, disse avvicinandosi — lo guardi ora, signor conte.... scusi sa.... la signora contessa me l’aveva detto che era lei.... lo guardi ora.... Il bimbo, svegliandosi, mandò un grido, che fu subito soffocato nel seno della Narcisa. — Come poppa! sente!.... — Sento.... rispose Corrado guardando appena, e soggiunse, volgendosi ad Agnese: — Ti sono passate le melanconie?.... La leggerezza di quell’accento toccò come un pugnale il cuore della disgraziata donna, la quale levò gli occhi pieni di lagrime in volto al conte ed uscì ratta all’aperto. Corrado, commosso suo malgrado, le venne dietro, lasciando la Narcisa sulla soglia, dove si era seduta perchè il piccino poppasse meglio. Annottava; i monti biancheggiavano nascondendosi nell’ombra. I due sciagurati stavano immobili senza guardarsi in volto. — Agnese.... Nessuna risposta. — Agnese.... Asciugò costei il volto lagrimoso, poi disse senza amarezza: — Lo vedi?... lo vedi ora?... Tacque. Corrado si fece forza, e pigliandole ambe le mani, disse con grave accento: — Sì, sono cattivo, sono crudele; sento di odiare me stesso; perdonami. Egli ancora è nulla nella mia vita; sarà tutto, te lo prometto — lo adotterò, sarò per lui il migliore dei padri.... — Lo vedi?... lo vedi? ripetè la povera donna. E dopo un lungo silenzio, ripigliò a dire: — Lo vedi che la mia morte è necessaria? Ho voluto darti retta, mi sono lusingata un momento.... sono anche stata debole, ho colto il pretesto che mi offrivi per differire di qualche ora.... mi è mancato il cuore di separarmi dalla mia creatura senza averla vista nelle tue braccia.... Vieni — disse con voce ferma — vieni, fa quel che devi.... — Dove? — Vieni ad abbracciare tuo figlio dinanzi a sua madre; poi tutto sarà finito.... vieni.... — Agnese.... Agnese! — Sta tranquillo; ora ti pare un estraneo, più tardi l’amerai più di te stesso — sì, sarà tutto nella tua vita il meschinello che hai guardato appena; e non il migliore dei padri per lui, ma suo padre, ecco che cosa sarai.... Vieni.... — Agnese, che vuoi fare? gridò lo sciagurato, trovando un accento di tenerezza sincera. — La solo cosa onesta concessa alla vergogna — nascondersi. Ciò che in faccia al mondo sarà una buona azione, in faccia a mio figlio ed a te è un dovere.... Vieni.... — No, non vengo; promettimi di vivere, io credo tutto, riconoscerò mio figlio.... — Povero Corrado! rispose Agnese; tu mi credi? tu credi a me?... ah! non credere a te stesso, povero Corrado! Tutta la mia vita non è forse una menzogna? E il mondo, e gli uomini, e il cielo che permette il dubbio, non sono forse un’unica menzogna atroce? La morte soltanto non è bugiarda. — Credo tutto, credo tutto.... — E allora vieni, disse Agnese baciandolo in volto; sento che ricomincio ad amarti. Lo prese per mano e lo trasse nell’abitazione, in una stanzuccia dietro al mulino, dove, entro una culla di vimini, giaceva l’amorino cogli occhi chiusi. La Narcisa cessò un istante di dondolare la culla, e subito il bimbo aprì gli occhi, il che fece dire alla balia: «è pieno di malizia — è un demonietto quest’angelo.» Agnese non rispose, teneva lo sguardo fisso in volto a Corrado, il quale, obbediente a quello stimolo, si curvò e impresse un bacio lungo sulla fronte del piccino, che rialzò gli occhi. — Come ti guarda! disse Agnese sotto voce. Poi, piegandosi essa stessa, ingelosita di quell’occhiata lunga: «Non sono gelosa, no, ma io sono la mamma, la tua povera mamma, che.... Il resto della frase fu mormorato fra i baci. Mezz’ora dopo, il bimbo dormiva; Agnese e Corrado, scostandosi sulla punta dei piedi, uscirono all’aperto. Era notte fitta: la luna nascondeva la faccia dietro ad un monte, la vallata era invasa dalle ombre; a quando a quando balenava qua e là, nel buio, il solco luminoso d’una stella cadente. Poche voci d’insetti ha il mese di marzo, pochissime in quelle valli; si udiva solo il rumoreggiar del torrente, che pareva cresciuto d’intensità. — Come sono felice! disse Agnese, e si avviò a passo lento pigliando per mano Corrado. Camminarono lungo tratto in silenzio, docile il conte ad ogni capriccio della bella, ella obbediente alle idee che le passavano pel capo, arrestandosi talvolta di botto o camminando spedita. — Non hai nulla da dirmi, Corrado? non mi parli di questo tempo passato? Non mi chiedi quanto ho patito? Non mi dici se hai tu pure sofferto? — Perchè amareggiarci invano? rispose Corrado riluttante; il passato non è più. — Ma noi siamo pure i suoi figli! rispose Agnese con un sospiro. E quando, dopo una lunga pausa, il conte potè credere che avesse volto il pensiero altrove, la poveretta ripigliò a dire: «Credi tu che io non sarei capace di soffrire la fame, i cenci, la fatica, tutto ciò che ho tanto temuto finora, per avere ciò che ho tanto disprezzato finora: la stima del mondo? Ma stolti! noi crediamo d’essere soli nella vita, non pensiamo che forse una persona diletta ci accompagna non vista, e che coglierà il pretesto d’un vergognoso piacere se non le daremo un’occasione lecita di venirci a chiedere tutto il nostro amore, ad offrirci tutto il suo.... Ma di’, come la cosa più santa può nascere da una colpa?... Ci hai tu pensato mai, Corrado? Corrado ci pensava ora; non rispose. — Lasciamo le melanconie, disse Agnese, e volgeva la faccia biancheggiante verso il suo compagno, come ad interrogarne il silenzio; parliamo del nostro piccino. L’hai trovato bello? non è vero che ti somiglia? — Sì, è bello.... mi somiglia.... poichè lo dici.... Come vuoi che io faccia ad accorgermene, se l’ho visto appena? — Sta tranquillo, gli rispose la povera madre con accento singolare, lo vedrai molto e a lungo, e cercherai tu stesso su quel visino d’angelo le traccie del tuo prepotente affetto di padre, e gli parlerai tu pure come ho fatto io senza speranza di risposta.... e spierai, tu spierai sulle sue labbra, con una voluttà più dolce di quante ne abbi mai provato, la prima parola. Quanto sarai felice, Corrado! Il conte non rispose; provava come un dispetto della propria debolezza, si sentiva vergognoso del sacrifizio che aveva accettato. Aveva voglia di dire: «taci, taci almeno!» Non disse nulla. Volle abbandonare il braccio della sua compagna, e si accontentò di lasciarlo uscire dal suo senza trattenerlo. Erano giunti in cima ad una via sassosa dominante il torrente che muggiva a molte braccia sotto i loro piedi; nel buio si scorgevano biancheggiare i gorghi schiumosi, e scintillare nell’acqua i riflessi delle stelle. Lo spettacolo era incantevole; ma Corrado non vi badava: a un tratto si sentì stringere le tempie da due mani calde e tremanti, e sentì sulle labbra il fuoco di due baci, e quest’unica parola mormorata frammezzo: «addio!» E poi un grido acuto.... e poi più nulla. La disgraziata madre, fattasi sul ciglio della strada, si era precipitata nell’abisso mugghiante. Corrado corse come pazzo sulla sponda della via, scandagliando cogli occhi l’oscurità; quando gli parve di vedere un corpo più nero nell’ombra nera delle acque, si lasciò rotolare dalla rapida china. L’impeto del torrente era irresistibile, ma la disperazione centuplicava le forze allo sciagurato; riuscì egli a giungere presso al corpo che le onde trasportavano come in un letto; afferrò coi denti le treccie, che si sciolsero, e con uno sforzo supremo toccò la sponda. Quivi slacciò le vesti madide della poveretta, le toccò la fronte, e ritrasse la mano intrisa. Stette a lungo immoto, trattenendo il respiro, aguzzando lo sguardo per cogliere nel buio una contrazione, un alito, un indizio della vita. Poi si affacciò dai monti la luna a contemplare il pietoso spettacolo; e all’improvvisa luce, Corrado vide il bel volto insanguinato. Coi brividi del freddo e del terrore, trasse la pezzuola bagnata, la inzuppò nell’acqua e lavò con essa la bellissima fronte e le guancie e le labbra, fra cui si era fermato un filo di sangue. Agnese si scosse e con voce che non era più della terra: «Grazie, mormorò — tuo figlio!» Non altro. Ed apparve un ultimo sorriso su quelle labbra purificate dal bacio della morte. XXXIX. Capelli biondi. Corrado viaggia; valica fiumi e monti, fugge inseguito da rimorsi senza nome — poi ad uno ad uno i fantasmi neri si stancano e lo abbandonano per via, finchè solo le immagini della sciagura rimangono a contemplarlo con occhio di pietà, mentre egli attraversa pensoso le ultime borgate che lo separano da V***. E un bel giorno, nell’ora del tramonto, laggiù nella valle della Varaita, dinanzi alla Narcisa che piange, a Gianni che ride e guarda con occhi spalancati, egli se lo piglia nelle braccia, il bambinello, e gli scioglie i nastri della cuffietta bianca, e a lungo, a lungo, accarezza la lanuggine della testina bionda. È passato un anno. Altri anni volano e passano. Antonio non è mutato; egli sa di dover rimanere al mondo per servire il padrone, ha promesso a sè stesso di non morire e comincia dal non invecchiare; vedilo ritto sulla soglia, duro, impettito, solenne, quando entra od esce il suo tiranno — è un uomo nuovo, come è nuova la casa, come nuova è la vita in quel paesello svizzero. Quanto alla Valentina, è tal quale; i suoi canarini vengono e se ne vanno — vengono ignoranti e se ne vanno pieni di dottrina; la mamma li battezza e li sepellisce, ma non muta. E Mario? morto; la buona donna pensa qualche volta che lassù ci deve essere una bella gabbietta anche per lui. Corrado solo invecchia; si è lasciato crescere la barba, e nessuno gli strappa i fili d’argento dei capelli. Non è allegro, ma è felice; una pace profonda, una contentezza che spicca dal fondo d’un dolore lontano — ecco la sua felicità, la sola felicità della terra. Nel paesello tutti lo conoscono e lo amano, perchè fa l’elemosina d’un pane e d’un sorriso alla povera gente; ma quando passano entrambi, tenendosi per mano, egli e suo figlio, tutti si voltano a guardarli, qualcuno li benedice. Corraduccio è bello, coi suoi occhioni neri, colle guancie di rosa e la testina ricciuta, così bello, che pare ogni volta più bello. Spesso, nell’ora del tramonto, il povero padre se lo tira fra le ginocchia, e lo fa cianciare per udirne la vocetta gentile; poi pensa, si ricorda, lo prega di star zitto, e lo guarda lungamente per rivedere in lui.... E dice dentro di sè: «ah! se invece!...» si arresta, si pente, gli pare di offendere la creaturina, che gli chiede sbigottita: «Perchè mi guardi così, babbo? Corrado alza il capo e domanda: — Non è vero che mi somiglia? E allora Antonio, il quale per caso si trovava in contemplazione nel vano d’un uscio, si fa innanzi partendo col piede sinistro e dice solennemente: «Sfido a dubitarne io; la fronte è la stessa, il nasino identico, gli occhi gettati nello stesso stampo e tinti colla stessa vernice.... solo la bocca, se l’ho da dire.... è diversa.... — Sì, la bocca è diversa, risponde il babbo innamorato, e i capelli non somigliano ai miei.... Corraduccio è curioso, come tutti i bimbi dell’età sua; se vede un fanciullo scamiciato, lacero e scalzo, con un tozzo di pane nero in mano, domanda: «Perchè quel bambino non è vestito come me?» — Perchè è povero. — E perchè è povero? — Perchè è nato così. — E che cosa ha fatto per nascere così? È un ragazzo cattivo? — La giustizia è altrove, risponde allora il babbo. — Dov’è? — Dov’è la mamma. E il curioso Corraduccio vuol sapere dov’è, perchè se n’è andata, com’era, e s’egli la vedrà ancora, la mamma. Corraduccio è buono; par che senza saperlo egli voglia compensare il babbo della gran gioia che non gli può dare — non disobbedisce, non s’impunta. E ogni giorno, quando incontrano un poverello per la via, egli riceve una moneta perchè, dandola in elemosina, faccia sorridere la creatura vestita di cenci. — Sei stato buono, gli dice il babbo, e per questo la farai tu l’elemosina.... — E se fossi stato cattivo? — L’avrei fatta io; perchè vedi, per fare il bene non basta volerlo, ma bisogna anche essere degni di farlo. Queste parole, ora non le puoi capire; pure ricordale — sono della tua povera mamma. FINE. INDICE I. — Sette eretici festeggiano un Santo _Pag._ 7 II. — Ciancie » 16 III. — Il sogno del Domenichino » 30 IV. — Un mazzolino di viole nel buio » 46 V. — Qui il tiranno è costretto a far colazione » 55 VI. — _Come si chiama_ nell’esercizio delle proprie funzioni » 60 VII. — Morti del giorno 9 » 67 VIII. — Qui si incontrano molti portinai ed una bionda » 74 IX. — Scena di commedia » 81 X. — Grazietta » 89 XI. — La signora Valentina fa gli onori di casa sua » 106 XII. — Una partita di scherma » 117 XIII. — Una volta ci era » 132 XIV. — Entrano in iscena Arturo, Edmondo, Eugenio ed altri personaggi » 142 XV. — Visite » 150 XVI. — Il signor conte di buon umore » 162 XVII. — Agnese » 169 XVIII. — Nel circolo e nel prato » 180 XIX. — Festa intima » 184 XX. — Il signor conte ha dei capricci » 194 XXI. — Prima lettera di Agnese al signor conte Germinati » 206 XXII. — La provvidenza manda un marito » 209 XXIII. — Conciliabolo segreto » 219 XXIV. — All’insegna del Piccione » 228 XXV. — 1. Maggio » 242 XXVI. — In cui si vede che gli amici del Circolo sanno sempre tutto » 246 XXVII. — Partenza » 252 XXVIII. — Ritorno » 260 XXIX. — Al capezzale » 264 XXX. — Dinanzi alla finestra » 268 XXXI. — Una strofetta di Mario » 278 XXXII. — Scene ultime » 284 XXXIII. — In cui si apprende che cosa avesse Agnese » 289 XXXIV. — Qui Aniceto fa un altro bisticcio » 296 XXXV. — Seconda lettera di Agnese al signor conte » 301 XXXVI. — Vita nuova » 303 XXXVII. — Terza lettera di Agnese al signor conte » 311 XXXVIII. — Madre e figlio » 316 XXXIX. — Capelli biondi » 329 DELLO STESSO AUTORE: _Un tiranno ai bagni di mare_ L. 1 — _Il tesoro di Donnina_ » 3 — _Amore bendato_ » 2 — _Fante di picche — Una separazione di letto e di mensa — Un uomo felice_ » 1 50 _Il romanzo di un vedovo_ » 1 — _Fiamma vagabonda_ » 1 — _Due amori — Un segreto_ » 1 — Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CAPELLI BIONDI *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate. Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. 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