The Project Gutenberg eBook of Cardello

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Title : Cardello

Author : Luigi Capuana

Release date : January 1, 2005 [eBook #7267]
Most recently updated: October 11, 2012

Language : Italian

Credits : Produced by Claudio Paganelli, Charles Franks, and the Distributed Proofreading Team. This book has been prepared in a project in common with Progetto Manuzio, http://www.liberliber.it

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Produced by Claudio Paganelli, Charles Franks, and the

Distributed Proofreading Team. This book has been prepared in a project in common with Progetto Manuzio, http://www.liberliber.it

Luigi Capuana

CARDELLO

INDICE

I.—L'Orso peloso
II.—Cardello entra in arte
III.—Una recita straordinaria
IV.—Un dramma
V.—Il padre cappellano
VI.—Una recita in parlatorio
VII.—Una scoperta archeologica
VIII.—Il capolavoro di Cardello
IX.—Infortunio del lavoro
X.—Speranze e dolori
XI.—Abnegazione
XII.—La fortuna di Cardello

I.

L'ORSO PELOSO.

Da tre giorni, nel paesetto non si parlava di altro che dell'arrivo del burattinaio.

Davanti al magazzino da lui preso in affitto, una folla di ragazzi faceva ressa per vedere i preparativi delle rappresentazioni, quantunque il portone socchiuso non permettesse di scorgere quel che colui stava ad armeggiare là dentro.

Si udivano frequenti picchi di martello, stridori di sega, brontolìi d'una voce arrochita che doveva essere del burattinaio, e, di tratto in tratto, i vagiti di una creaturina già vista più volte dai ragazzi in braccio alla giovine donna malaticcia che sembrava figliuola di quell'uomo e invece—così si diceva—ne era la moglie.

Se qualche ragazzo, più ardito o più impertinente, osava di ficcare la testa tra i battenti del portone socchiuso, o spingeva indietro la parte di esso scostata dallo stipite, un urlo o una parolaccia dall'interno lo faceva scappare sùbito via.

Ed era uno sbandarsi di qua e di là di tutta la ragazzaglia, appena il burattinaio appariva su la soglia, in maniche di camicia, coi lunghi capelli grigi in disordine, i calzoni malamente stretti ai fianchi da una larga cigna di cuoio, con la pipetta di radica tra i denti, che pareva dovesse bruciargli i baffi ispidi e folti e i peli della barba che gli si arricciavano e arruffavano sul mento.

I ragazzi lo avevano soprannominato Orso peloso sin dal primo giorno; ma poi si erano accorti che era meno orso di quel che immaginavano.

Si piantava a gambe larghe su la soglia, con le braccia dietro la schiena, tirando dense ondate di fumo dalla pipetta mezza carbonizzata; e, dopo aver guardato attorno, si rivolgeva a qualcuno di loro:

—Ehi, ragazzo! Vuoi comprarmi quattro soldi di chiodi simili a questo?—

E appena il chiamato si accostava accennando di sì, l'Orso peloso gli faceva una carezza, gli dava i soldi e il chiodo per mostra e soggiungeva

—Ti farò entrare gratis la prima sera dell'opera.—

Così Cardello, come lo chiamavano, aveva ricevuto l'incarico di parecchie commissioni, forse perchè il burattinaio, dall'aspetto vispo, di vero cardello, lo aveva giudicato il più intelligente e il più servizievole di tutti.

Cardello, appunto in quei giorni un po' disoccupato, passava gran parte della giornata, assieme con gli altri ragazzi, davanti al portone del magazzino. La sua curiosità era grande. Egli aveva sentito parlare tante volte dell'opera dei burattini, ma non l'aveva mai veduta. I burattinai arrivavano raramente in quel paesetto arrampicato in cima a una montagnola dove bisognava andare di proposito a scovarlo. E Cardello aveva appena dieci anni.

Tre o quattro commissioni rapidamente e bene eseguite lo avevano fatto entrare nelle grazie dell'Orso peloso.

Ora Cardello non stava più fuori, a spiare ficcando la testa tra i battenti del portone socchiuso. Andava e veniva affaccendato, perchè il burattinaio aveva continuamente bisogno di qualche cosa: d'una sbarra di legno, di quattro fogli di carta colorata, d'un litro di petrolio, di un po' di minio, d'un metro di nastro rosso, d'una matassa di spago, d'una cartata di tabacco per la pipa—e si faceva anche aiutare da lui nel rizzare in fondo al magazzino il palcoscenico.

Andando e venendo, Cardello passava con un sorriso di orgoglio e di sodisfazione tra i compagni affollati nella piazzetta, che lo tempestavano di domande:

—Hai visto i burattini?

—Sì; li abbiamo messi fuori dal cassone oggi.

—Belli?

—Alti quanto me. Paiono vivi; fanno paura.

—C'è, Pulcinella?

—E Colombina, e Tartaglia, e Peppe-Nappa, e il Mago, e il
Drago, con la lingua rossa e gli occhi rossi, che muove la coda.

—Da sè?

—Da sè. Sono già tutti appesi a un fil di ferro quelli che servono per domani sera. Ce n'è tanti altri: re con la corona; guerrieri con le spade; uno di essi si chiama Orlando.—

E tutti stavano a sentirlo a bocca aperta, invidiandolo, canzonandolo anche, per sfogare il dispetto di vederlo preferito.

—Farai tu da Pulcinella?

—Diventerai burattinaio anche tu?

—Chi lo sa?—rispondeva Cardello.

E il giorno dopo lo seguirono in Piazza del Mercato, mentre andava ad attaccare il cartellone coi pupazzetti: Pulcinella da un lato, col randello in mano, e Tartaglia dall'altro con gli occhiali verdi e il tricorno, nell'atto di prender tabacco da una tabacchiera che sembrava una cassetta.

—Bravo, Cardello!—

E urli e fischi.

La gazzarra fu più rumorosa la sera in cui lo videro uscire dal portone in camiciotto bianco e capellaccio grigio di felpa che gli copriva le orecchie, col tamburo su la pancetta e in una mano il mazzo con la grossa capocchia di pelle e nell'altra una bacchetta, accompagnato dalla giovane moglie del burattinaio, in maglia carnicina e vestito corto, che suonava la tromba, mentre Cardello picchiava sul tamburo da un lato col mazzo e dall'altro con la bacchetta, serio, impettito, quasi quello fosse stato sempre il suo mestiere.

Bùntiri! Bùntiri! Pepè! Peperapè! per tutte le vie e le viuzze del paesetto, a fine di chiamar gente allo spettacolo. Intanto lo spettacolo era Cardello camuffato a quel modo, che non si curava dei fischi, degli urli, e si credeva diventato un personaggio d'importanza.

Dagli usci, dalle finestre, era un accorrere su la via, un affacciarsi, un ridere, un acclamare lui, che tutti riconoscevano quantunque travestito, che tutti chiamavano a nome:

—Ehi, Cardello!

—Guarda Cardello!

—Evviva Cardello!

* * *

Giacchè Cardello era conosciuto più della bettonica, e voluto molto bene, perchè si guadagnava il pane facendo qualunque servizio, sempre pronto, sempre allegro, senza pretese. Due soldi, una bella fetta di pane, quattro fichi secchi, un piatto di fave condite con olio e aceto o altra cosa da mangiare; Cardello non rifiutava niente, non si lagnava mai; ringraziava e andava via tutto contento.

—Povero ragazzo! È ammirevole!—diceva la gente.

Bùntirì! Bùntiri! Il burattinaio aveva avuto una bella idea, facendo suonare il tamburo a Cardello.

Il ragazzo gli piaceva per la sveltezza e per la serietà. Quando gli aveva domandato: "Vuoi suonare il tamburo?" Cardello aveva risposto sùbito di sì.

—Ma bisogna che tu ti metta il camicione bianco e il cappellaccio di feltro.

—Li metterò.

—Non ti vergognerai?

—O che rubo?

—Non farai come quell'altro, ricordi?—s'interruppe rivolgendosi alla moglie—che agli urli e ai fischi della gente, buttò via tamburo, camicione e cappellaccio in mezzo alla via… nel paesetto vicino qui un mese fa.

—Me ne rido dei fischi! Non sono legnate.

—Bravo!—

La giovane moglie del burattinaio lo aveva interrogato anche lei nei giorni avanti:

—Come ti chiami?

—Calogero; ma mi dicono Cardello.

—Perchè?

—Se lo sanno loro!

—E non ti dispiace?

—Anzi! Si chiama Calogero pure il becchino, lo spilungone giallo giallo che mastica sempre tabacco. Meglio Cardello.

—Sei orfano? Non parli mai di tuo padre o di tua madre.

—Sono morti da un pezzo; non li ho neppure conosciuti.

—Quanti anni hai?

—Quindici.

—E con chi stai ora? Dove dormi?

—Dalla nonna, madre di mio padre.

—Ti dà da mangiare? Ti veste?

—Quando ne ha, mi dà quel che ha. Mi busco il pane anche da me. In quanto ai vestiti, me li regalano, vecchi, rattoppati, stracciati. Li metto come si trovano, corti, lunghi, larghi o stretti. E poi, io non sento nè caldo nè freddo.

—Beato te!

—Quando ho freddo, mi metto a correre, faccio capriole e mi riscaldo sùbito.

—Vuoi venire con noi?

—Dove?

—Pel mondo, di paese in paese. Suonerai il tamburo; potrai imparare a muovere i burattini, a farli parlare.

—Magari!

—Sai leggere?

—Nisba.

—Che cosa vuoi dire?

—No; si dice così.

—T'insegnerà a leggere don Carmelo, mio marito. Così apprenderai le parti.

—Chi sa se son bono?

—Ci vuol poco. E tua nonna?

—Non le diremo niente, altrimenti si metterà a piangere e non mi lascerà partire.

—No, bisogna dirglielo.

—Glielo direte voi.

—A suo tempo, tra un mese, se qui faremo buoni affari.—

Don Carmelo intanto appendeva a un fil di ferro i burattini che dovevano servire per la rappresentazione della sera appresso; e Cardello seguiva attentamente con gli occhi l'operazione, divertendosi a vederli girare per alcuni istanti da destra a sinistra, da sinistra a destra, quasi volessero trovare una comoda positura prima di fermarsi.

—Chi li fa i burattini?—domandò.

—Mio marito lavora la testa, le mani e i piedi; io li vesto.

—Ahoóh!—esclamò Cardello.—E potrò farli anch'io?

—Perchè no, se ci metterai un po' di testa?

—Ahoóh!—

Era il suo modo di esprimere la maraviglia.

—E come parlano? Aprono la bocca?

—Mio marito ed io parliamo per loro, e sembra che parlino essi. Non hai mai visto l'opera?

—Mai!

—Don Carmelo, che in quel punto aveva per le mani Pulcinella, cavato di tasca il fischio di canna e mèssolo in bocca, strillò:

—Cardello! Cardello!—

E fece muovere la mano di Pulcinella in atto di chiamare, Cardello rimase a bocca aperta.

—Cardello! O che sei sordo?—riprese Pulcinella.

—Mi vuole davvero?—

Cardello voleva saperlo dalla burattinaia. Ma don Carmelo aveva già appeso anche Pulcinella che, ciondolato un po', rimase fermo.

E in questo modo Cardello ebbe un'idea del come i burattini parlavano.

* * *

La sera della prima rappresentazione però il suo stupore fu grande; i burattini gli sembravano persone vive. Pulcinella, Tartaglia, Peppe-Nappa lo facevano ridere; ma quando vide venir fuori il Mago che operava le incantagioni per cui le persone non si riconoscevano più l'una l'altra, e Pulcinella abbracciava Tartaglia credendo di abbracciare Colombina, e Colombina abbracciava un paracarro credendo di fare le sue confidenze a Pulcinella; e poi, quando venne fuori il drago che buttava fiammate e fumo dalla bocca e voleva mangiarsi tutti vivi vivi, il povero Cardello cominciò a tremare dalla paura, e si sentì salire le lagrime agli occhi.

Fortunatamente Pulcinella trovava per terra l'anello incantato che disfacea a un tratto l'opera maligna del Mago; e don Florindo riceveva una scarica di legnate per compenso di esser ricorso all'opera di costui, non sapendo come ottenere altrimenti la mano di Colombina. Quella scarica di legnate fu una gran gioia per Cardello, che si diè a battere furiosamente le mani, saltando in piedi su la panca dove era stato a sedere, gridando:—Bravo! Bravo!—E la gente, invece di applaudire il burattinaio, mèssasi di buon umore per questa ingenuità, applaudì Cardello, che stupito e mortificato, corse a nascondersi dietro il palcoscenico; e non ne uscì se prima non fu sicuro che tutti gli spettatori erano andati via.

—Bravo,Cardello! Hai fatto la tua parte anche tu!—gli disse don
Carmelo:—O perchè piangi?

—Perchè… perchè….—

E non seppe dir altro.

II.

CARDELLO ENTRA IN ARTE.

Il giorno appresso don Carmelo prese a dargli le prime lezioni del mestiere.

—Sta' attento: guarda come faccio io. Questi sono i fili delle mani; questi dei piedi. Si tirano in su così, secondo quel che dice il personaggio. Sta' attento! Ecco, Pulcinella passeggia….—Buon giorno!—E move la mano così, per salutare…. Ecco: Pulcinella deve dare un calcio nel sedere a Peppe-Nappa…. Si fa così… Hai capito?

Ora eseguisci tu…—Buon giorno!…—Ma no! Così, da' un calcio…. Bravo!…. E non bisogna tenere il fantoccio per aria, se no si mette a girare… Bravo!.. Così!…—

Cardello avea creduto che la cosa fosse difficile e che egli non sarebbe mai riuscito. Sbarrava tanto di occhi in viso a don Carmelo, si grattava il capo; e siccome due o tre volte, nei giorni scorsi, colui gli avea lasciato correre qualche scapaccioncino, se eseguiva male i suoi ordini, ora Cardello si aspettava uno scapaccione da un momento all'altro.

Giacchè l'Orso peloso era manesco, specialmente in certe ore della giornata; dopo desinare, per esempio, quando aveva bevuto i litri di vino che Cardello andava a comprargli ogni giorno dalla signora da cui gli era stato affittato il magazzino. Quel vino era forte, schietto; e quantunque don Carmelo dicesse che non si poteva scherzare con esso, faceva scoppiettare le labbra a ogni bicchiere tracannato e vi scherzava con molta confidenza. Allora, invece di sentirsi allegro, diventava burbero, cupo; e trovava pretesti per bisticciare con la moglie e per picchiarla, se essa, abbozzato un po', gli dava qualche risposta che non gli faceva piacere.

Cardello aveva gran pietà di quella povera donna. Vedendola piangere, le toglieva di braccio la creaturina addormentata o che si era staccata strillando dal petto della mamma pel movimento da essa fatto nel ripararsi dai colpi del marito; e si metteva a cullarla, a farla delicatamente sobbalzare per acchetarla, dandole anche baci, e accostando la faccina alla gota, con una specie di carezza.

E a quella vista anche l'Orso peloso sentiva diventar tenero il suo vino; e continuando a brontolare e a minacciare la moglie, cominciava ad aggirarsi pel magazzino, ad andare su e giù, stringendosi la cigna di cuoio ai fianchi, dandosi un'arruffata ai capelli; e all'ultimo, fermatosi a gambe larghe davanti a Cardello, strizzava gli occhi ammammolati e sghignazzava:

—Sai fare anche il balio, eh? Ninna, oh! Ninna oh! Ah! Ah! Ah—

Sentendolo ridere a quel modo, Cardello aveva paura, e si allontanava accostando più stretta la bambina al petto, guardando l'Orso peloso con sguardi sospettosi.

—Va' a comprarmi il tabacco per la pipa,—gli disse quegli una volta, cercando di levargli la bambina di braccio.

—Dorme; non la fate svegliare.—

E Cardello indietreggiava, indietreggiava, supplicandolo con gli occhi, senza accorgersi che là dietro era una sbarra di legno per terra. Inciampò, barcollò, diè un urlo e cadde rovescio, sbattendo la testa su una grossa pietra sporgente dal muro.

La mamma, accorsa, con una mano avea sollevato la bambina, e con l'altra avea aiutato Cardello a rizzarsi.

Egli sembrava soltanto un po' sbalordito. Tutt'a un tratto però, sentito un forte dolore all'occipite, si era tastato con le mani nel punto che gli doleva….

—Ahi! Ahi!—strillò, quasi l'accorgersi del sangue, che gli avea tinte le mani, gli avesse subitamente reso più acuto il dolore…

—Zitto!… Lasciami vedere! Non è niente!—

L'Orso peloso lo afferrava per la testa, scartava con le punte delle dita i capelli insanguinati, chino per osservar meglio la ferita.

—Non è niente! Su! Un po' d'acqua fresca. Vieni qua. Lascia fare a me!… Dieci gocce di sangue…. Eh! Ohe cosa vuol dire non aver anche due occhi dalla parte di dietro!…. Non far lo spiritato!… Non è niente…. Ecco! L'acqua fresca è miracolosa! Ma non per berla…. Eh! eh!—

La sbornia gli era sparita a un tratto, ed egli voleva ridere, e rideva anche Cardello che si era lasciato far i bagnoli di acqua fresca senza opporsi, per paura che l'Orso peloso non lo trattasse peggio.

—Un po' di gonfiore! Nient'altro. Va' là; hai dura la cuticagna,
Cardello, eh? eh?—

Lo accarezzava, un po' ruvidamente, sballottandolo di qua e di là per le spalle; voleva vederlo ridere a ogni costo. E all'ultimo, scorgendo che l'Orso peloso si mostrava buono, Cardello rise quasi suo malgrado, e, per far la pace, gli disse:

—Debbo andare a comprarvi il tabacco?—

L'Orso peloso volle dargli un segno della sua generosità, e gli mise in mano un soldo di più:

—Con questo ti comprerai un soldo di liquirizia.

* * *

Si mangiava bene però nel magazzino del burattinaio. Ogni sera il teatrino, com'egli lo chiamava, era affollato di spettatori; il sabato e la domenica, due infornate. Posti da cinque soldi, con seggiole, pei cavalieri: posti da tre soldi con panche, per la maestranza, posti da un soldo, in piedi, per la marmaglia. Non avevano altro svago in quel paesetto, e don Carmelo era molto bravo nell'arte sua. Repertorio svariatissimo: tutta la serie delle imprese dei Cavalieri della Tavola Rotonda, tutte le commedie e le farse dove Pulcinella, Tartaglia e Peppe-Nappa e Peppe-Nino facevano smascellare dalle risa…. Per ciò si mangiava bene a colazione e a desinare. Don Carmelo si dilettava anche di cucina, e Cardello ingrassava a vista d'occhio con quei piattoni colmi di spaghetti col pomodoro che egli stentava a finire, con certe fette di carne che non aveva mai viste neppur da lontano e col vino che don Carmelo lo costringeva a bere, dicendogli:

—Giù! Tracànnalo d'un fiato! Questo fa buon sangue.—

E buon sangue se ne faceva, anche troppo, lui. Certe sere Cardello si stupiva che al momento della rappresentazione don Carmelo riacquistasse, come per incanto, tutta la lucidezza di mente che occorreva e parlasse spedito.

Da otto giorni era preannunziato lo spettacolo: Vita e morte di Santa Genoeffa; e l'Orso peloso e sua moglie lavoravano a mettere in assetto i personaggi: a trasformare Colombina in Santa Genoeffa, Carlo Magno in Principe del Brabante, e altri pupi in gentiluomini di corte. Da otto giorni, Cardello si esercitava a far andare e venire dalle quinte di carta la cerva, personaggio importantissimo, che dava il latte ai due bambini nel bosco dove Santa Genoeffa viveva coperta di stracci, e a far muovere il macchinismo dell'ultimo atto, quando l'anima della santa doveva salire in cielo fra una gloria di angeli e di serafini, opera di don Carmelo, che la restaurava, incollando, dalla parte di dietro, pezzetti di cartone alle ali dei serafini sgualcite e alle nuvole strappate.

In quei giorni l'Orso peloso era intrattabile; ogni minima contrarietà lo faceva andare su le furie; e alla sua povera moglie eran toccati parecchi pugni e schiaffi, e a Cardello certi scapaccioni da farlo traballare su le gambe.

Quando l'Orso peloso andava a far la spesa, la povera donna si sfogava con Cardello.

—Se non fosse per questa creatura!

—E come vi siete maritata con lui che è tanto più vecchio di voi?—gli domandò una volta Cardello.

—È stata la mia disgrazia!

—Avete la febbre?

—Che importa! Se il Signore mi volesse! Ma prima dovrebbe far morire questa creaturina qui!—

La poverina batteva i denti:

—Sono già tre mesi che mi trascino con la quartana.

—Volete che chiami il medico, di nascosto di lui?

—E le medicine chi me le dà? La quartana se n'andrà da sè, com'è venuta.

—E se non se ne va?

—Me n'andrò io, e finirò di penare!—

Cardello prendeva in braccio la bambina che già aveva imparato a conoscerlo e gli sorrideva e gli stendeva le manine, bionda, rosea, mentre la sua mamma lavorava. Cardello le ripeteva:

—Dovreste parlare con la nonna, se volete che venga con voi.—

La vecchietta era venuta più volte a ringraziare il burattinaio per quel che faceva per suo nepote.

Due o tre volte egli l'avea trattenuta a desinare con loro, ma del progetto di condur via Cardello non le aveva mai fatto accenno. Da prima avea voluto convincersi dell'intelligenza e dell'abilità del ragazzo; poi, riuscita la prova, avea pensato che era meglio parlarne proprio il giorno avanti di partire.

Se la vecchia rispondeva di no….

—Non te la senti, di scappare?—avea egli domandato al ragazzo.—Tua nonna, va' là, mi sarà grata che le tolgo l'impaccio di pensare a te.—E Cardello aveva risposto serio serio:

—Vedremo!—

Vita e morte di santa Genoeffa doveva essere l'ultima rappresentazione. Quella sera però la folla fu così grande, anche perchè si sapeva che Cardello avrebbe fatto la sua parte, che bisognò mandar via la gente e promettere una ripetizione dello spettacolo per la sera dopo.

I compagni di Cardello, incontrandolo per la via quando il burattinaio lo mandava attorno per qualche commissione, gli domandavano:

—Che fai? Impari l'arte del burattinaio?—

E Cardello si vantava:

—Ora so far muovere i pupi! Sto imparando una parte.—

Si era costrutto da sè un fischio; anzi ne avea costrutti parecchi, di quelli che servono per la voce nasale di Pulcinella—due pezzetti di canna, con in mezzo una striscia di fettuccia, legati insieme da un po' di refe—e li avea venduti un soldo l'uno. A chi gli domandava:—Cardello dove vai?—egli rispondeva con lo strillo pulcinellesco, quasi come segno del mestiere che intendeva di scegliere.

Poi avea parlato della cerva che sembrava viva, con le corna ramificate alte così; l'avrebbe manovrata lui. E avea parlato delle nuvole, degli angeli e dei serafini che portavano su, in cielo, l'anima di Santa Genoeffa. Si girava una manovella, e le nuvole e gli angeli e i serafini e l'anima di Santa Genoeffa montavano lentamente su. Cosa maravigliosa!

Già lui imitava le voci di diversi burattini. Le spacconate di Peppe-Nappa, le birichinate di Peppe-Nino, i discorsi tartagliati di Tartaglia, le bizze di Colombina, le rodomondate di Orlando e di Buovo d'Antona, gli uscivano di bocca così ben eseguiti che sembrava di udire la stessa voce di don Carmelo e di sua moglie. I ragazzi stavano ad ascoltarlo a bocca aperta. Soprattutti, poi, egli rifaceva Pulcinella con le sue poltronerie, coi suoi strilli di paura, con le sue vanterie nei momenti che non si trovava di faccia qualcuno….

Don Carmelo però non avea potuto indurre Cardello a fare proprio una parte.

—Quando saremo in un altro paese. Qui mi vergogno.—

Finchè si trattava di far muovere i pupi, Cardello, nascosto dietro il fondo della scena, non si sentiva intimidire. Ma far la parte, no. Se la gente riconosceva la sua voce, avrebbero cominciato a gridare:—Bravo, Cardello! Viva, Cardello!—E sarebbe finita; non avrebbe più saputo aprir bocca!

Contrariamente a quel ch'egli si aspettava, la nonna non si oppose che andasse via col burattinaio.

—Ve lo raccomando come un figlio! È un povero orfanello.

—Non dubitate,—le rispose la moglie di don Carmelo:—È buono, si fa voler bene.

—E se muoio,—soggiunse don Carmelo:—(io non ho parenti) lascio ogni cosa a lui; sani la sua fortuna.—

Così, otto giorni dopo, Cardello andava via col burattinaio, seduto sur un cassone accanto alla moglie di quello, in uno dei carretti che portavano la roba. Don Carmelo con la pipa in bocca e un cappellaccio in testa, gli dava la voce dall'altro carretto:

—Stai come un principe, eh?

III.

UNA RECITA STRAORDINARIA.

Era già un anno che Cardello andava di paese in paese col burattinaio, partecipando alla buona e alla cattiva fortuna; giacchè non sempre gli affari procedevano felicemente. I cartelloni ornati dei pupazzetti di Pulcinella e di Tartaglia, l'andata attorno di Cardello—col camicione, il cappellaccio di feltro grigio e il tamburo su la pancia,—e della moglie di don Carmelo in maglia e veste corta, suonando la tromba—non riuscivano in certi posti a incuriosire la gente, ad affollarla alle rappresentazioni. Le seggiole da cinque soldi rimanevano vuote, o bisognava permettere che vi si sedessero gli straccioni, la marmaglia, come sprezzantemente li qualificava l'Orso peloso, e da cui non era possibile pretendere più di un misero soldo di entrata.

Una volta non sapendo a qual santo votarsi, don Carmelo aveva concepito la bella idea di una serata speciale pei signori, pei galantuomini che, non volendo mescolarsi con la bassa gente nel suo teatrino, vi lasciavano deserte le trenta seggiole da cinque soldi destinate per essi. Era andato a raccomandarsi al Sindaco, agli Assessori, ai Deputati del Casino di convegno…. Se non proteggevano loro un povero artista! E Sindaco, Assessori, Deputati lo avevano colmato di grandi promesse.

Cardello era stato incaricato di ridurre in pezzettini quattro quinterni di carta, e bollarli, mentre don Carmelo, con gli occhiali a cavalcioni sul naso, vi scriveva a grossi caratteri:

GRANDE SERATA TUTTA DA RIDERE
BALLO E CANTO.

—Domani sera dobbiamo farci onore! Vo' farli rimanere a bocca aperta. Che si credono questi signori? Doppia illuminazione. Tu e Cardello, alla porta, col vassoio sul tavolino tra due candelabri. Un bel sorriso e—Grazie.—Le lire e le mezze lire pioveranno abbondanti, e anche qualche fogliolino da cinque lire. Vorrei vedere che il Sindaco e gli Assessori…. E i signori del Casino!.. Sono dugento biglietti!—

Donna Lia e Cardello si guardavano negli occhi. La povera donna era guarita dalle febbri, ma ne portava ancora le tracce sul viso pallido e smunto. Da un pezzo, però, non più ricolmi piatti di vermicelli col sugo, nè larghe fette di stufato; e, raro, qualche bicchiere di vino riserbato soltanto a don Carmelo. Il quale però non mancava di prendere una sbornia alla taverna, con gli amici che lo invitavano e che ogni sera venivano a godersi gratis lo spettacolo, conducendovi mogli e figliuoli. Almeno servivano a riempire il teatrino!

Cardello era quasi irriconoscibile. Aveva preso l'aria del mestiere. S'era lasciato crescere la zazzera e portava su la nuca un vecchio berretto rosso da bersagliere con grave spavalderia. Già sapeva a memoria le parti di Peppe-Nappa e di Peppe-Nino, e n'era orgoglioso. E quando il popolino, sodisfatto e messo di buon umore, applaudiva e chiamava fuori quei personaggi, involontariamente, dietro la scena, mentre faceva ringraziare con belli inchini il pupazzo, s'inchinava anche lui, sorridendo; infine, quegli applausi e quelle chiamate andavano alla sua persona, alla sua abilità.

Ma in quel maledetto paesaccio dov'erano disgraziatamente capitati, gli zotici spettatori ridevano sì, ma non applaudivano, non chiamavano fuori Peppe-Nappa e Peppe-Nino; e questo teneva di cattivo umore Cardello che avea consigliato più volte al padrone:

—Andiamo via! Cerchiamo un'altra piazza!—

Per ciò Cardello non partecipava alle illusioni dell'Orso peloso intorno al successo della grande serata, e guardava negli occhi donna Lia, che era più scoraggiata di lui, impensierita inoltre per la tosse della bambina, tenuta su le ginocchia intanto ch'ella lavorava una gonna nuova a Colombina, con certi cenci regalatile dalla moglie del proprietario del magazzino per farne un vestitino a quella creatura. Cardello, a ogni colpo di tosse della piccina, si sentiva stringere il cuore. Quando non aveva da fare, il suo svago era quello di tenerla in braccio, di scherzare con lei che non capiva e balbettava qualche parola insegnatale da lui.

Appena l'Orso peloso cominciava a bisticciare con donna Lia, Cardello portava via, fuori, la bambina per timore che quel furibondo non la colpisse picchiando la moglie. Cardello non sapeva spiegarsi per qual ragione don Carmelo, da qualche tempo in qua, attaccasse più frequentemente lite con la povera donna, e le rovesciasse addosso tante parolacce.—Lasciatelo dire, donna Lia! Non gli rispondete,—egli suggeriva alla padrona.

—S'infuria peggio!

—Ma perchè?

—Perchè è pazzo. Non lo sa neppur lui perchè!—

Cardello dalla via, con la bambina in collo, lo sentiva sbraitare:

—Un giorno o l'altro!… Un giorno o l'altro!….—

Udiva i pianti e gli strilli della disgraziata, e non sapeva che cosa fare. Se passava qualcuno, lo pregava:

—Per carità, accorrete! Levategliela dalle mani!—

Ma se c'era uno che tentava d'inframmettersi, l'Orso peloso si rivoltava:

—Che volete voi? In casa mia faccio quel che mi pare e piace!—

E la gente andava via, stringendosi nelle spalle:

—Se la vedano tra loro!—

Qualcuno anche soggiungeva:

—Forse il marito ha ragione.

* * *

Da due giorni c'era pace nel teatrino—don Carmelo diceva sempre teatrino parlando di quello stanzone che il proprietario soleva affittare per usi diversi, secondo le occasioni.

Cardello era affaccendato ad attaccare parecchi lumi a petrolio coi riflettori di latta alle pareti, a trasportare seggiole tolte in prestito dai vicini per la grande serata—giacchè i signori non potevano mettersi a sedere sui panconi come la marmaglia -, a provare i complicati macchinismi della scena pei cangiamenti a vista, mentre don Carmelo andava attorno a distribuire i biglietti.

Tornando a casa, don Carmelo trovò la moglie in lagrime con la bambina su le ginocchia, e Cardello che, in piedi davanti a lei, si grattava il capo e cominciava a singhiozzare anche lui.

—Che cosa è stato?

—Ah! La bambina! Non può inghiottire!

—È passato il dottore; l'ho fatto entrare,—soggiunse Cardello.

—Ebbene?—fece don Carmelo.

—Il dottore tornerà con la medicina; se la farà dare gratis lui.

—O dunque? Non mi fate bestemmiare! Zitta! E tu va' a comprare il petrolio pei lumi. Ho parlato col droghiere della cantonata; ci fa credito fino a domani. Zitta!

—Non vi arrabbiate! È figlia vostra!—balbettò la povera donna, asciugandosi le lacrime, baciando la bambina per raffrenare il pianto.

Cardello, vedendo il viso rabbuiato e gli occhi torvi dell'Orso peloso indugiava, per non lasciare donna Lia sola con lui. Quel peggioramento della bambina capitava proprio in mal punto. Con che animo la disgraziata avrebbe potuto far la parte di Colombina quella sera, se lui stesso prevedeva di non saper dire due parole per conto di Peppe-Nappa e di Peppe-Nino? E lei doveva pure abbigliarsi in maglia e veste corta e ornarsi dei falsi gioielli di rame con pietre di vetro colorato; e lui mettersi in camicione col cappellaccio bigio di feltro, per ricevere nel vassoio, alla porta, la buona grazia dei signori che sarebbero intervenuti allo spettacolo!

Il dottore non aveva detto niente, ma Cardello, da un significativo increspare delle sopracciglia e dalla premura di lui di tornare con la medicina, si era convinto che si trattava di cosa grave. E se durante la rappresentazione la bambina si metteva a piangere, come avea fatto tutta quella giornata quasi senza chetarsi un quarto d'ora?

—Ti muovi dunque, pel petrolio?—urlò don Carmelo,

Cardello, presa la latta, stava per uscire quando s'incontrò col dottore.

—Va male?—gli domandò sotto voce.

Il dottore scosse la testa ed entrò.

Alla vista del vecchietto basso, tutto canuto, che portava in mano una boccetta con la medicina, don Carmelo si fece avanti ossequioso.

—Questa sciocca si dispera! È vero che non è niente, signor dottore?
Glielo assicuri lei. Me, non mi crede.

—Il posto è umido—disse il dottore. Tenetela a letto… Avete un letto, qui?—Là dietro, un letto alla meglio—rispose don Carmelo.—Questa sera do la grande serata pei galantuomini. Se il signor dottore volesse venire a divertirsi…. La bambina è abituata all'umido; è nata in un magazzino peggiore di questo…. Un po' di tosse; si sa, i bambini…. È vero che non è niente, signor dottore? Tranquillizzi questa sciocca; se no, chi sa che pasticcio mi fa questa sera!…

—Sì, sì, non è niente…. cioè…—biascicò il dottore, un po' confuso:—Basta: tenetela ben cautelata. Ritornerò domani.

* * *

Quella sera faceva freddo.

Un pezzo di grossolana stoffa di cotone stinta dall'uso impediva che gl'indiscreti potessero vedere da fuori quel che si faceva là dentro; ma non riparava dall'aria frizzante donna Lia in maglia e veste corta, nè Cardello insaccato nel camicione, col cappello grigio di feltro su la nuca, e che gli stava accanto, dietro il tavolino, col vassoio situato tra due candele steariche infisse nei candelieri di stagno. Il pallore della pelle del viso di donna Lia si scorgeva fin sotto il rossetto profuso su le guance per l'occasione. Cardello, di tratto in tratto, si soffiava dentro i pugni per riscaldarsi le mani. Don Carmelo, già impaziente di veder riempito il locale dalle notabilità del paese, affacciava la testa capelluta da un angolo del palcoscenico, e sua moglie che se n'era accorta si sentiva su le spine, vedendo affollarsi alla porta coi biglietti in mano, le donne di servizio, i servi, i garzoni di campagna dei cavalieri, che non avevano creduto dignitoso per loro andar ad assistere all'opera di don Carmelo.

Lo stanzone era già pieno zeppo, e il popolino tumultuava vedendo ritardare l'alzata del sipario. A un cenno di donna Lia, Cardello si mosse per avvertire don Carmelo di dar principio alla rappresentazione.

Lo trovò che bestemmiava sotto voce, staccando rabbiosamente dal grosso ferro che li reggeva Santa Genoeffa, il duca, il traditore, il bambino, la cerva e gli altri burattini. Li buttava da parte con mala grazia, uno su l'altro, non curandosi di acciaccarne le teste, di sgualcirne i vestiti, di ammaccarne le corazze, e gli elmi di latta.

—Dice donna Lia….—

Il povero Cardello non potè aggiungere altro, sopraffatto dalla valanga di improperi che don Carmelo pareva stritolasse tra i denti, facendo il miracolo di non urlarli ad alta voce, quantunque i rumori, i battiti di mano, le grida di—Fuori! Fuori!—scoppianti dalla sala avrebbero impedito di udirli anche se non brontolati a quel modo. Cardello ebbe un'ispirazione; si mise in bocca il fischio da Pulcinella e fece sentire uno strillo, una specie di risata o di ringhio caratteristico.

—Bravo!

—Se no non si chetavano,—disse Cardello, orgoglioso di vedersi approvato dal padrone.

E il sipario fu tirato su tra il profondo silenzio della sala. Cardello avea dovuto prendere in mano Tartaglia, mentre don Carmelo, situato nel centro, dietro il fondo, reggeva Pulcinella. Lo scenario rappresentava la sala del trono del duca di Brabante, e gli spettatori eran curiosi di sapere come mai Pulcinella e Tartaglia si trovassero là. Non meno curioso e ansioso di loro era Cardello, che non sapeva una sola parola di quel che avrebbe dovuto far dire a Tartaglia. Si tranquillò vedendo che don Carmelo si affrettava a fare le due parti ora parlando col fischio da Pulcinella, ora ingrossando la voce e tartagliando per conto dell'altro burattino.

TARTAGLIA. So… sono arri-arri arrivato in questa città e non co-conosco nessuno.

PULCINELLA. Città? Dite porcile! Io non vedo l'ora di scapparmene via.

TARTAGLIA. Pe-perchè?

PULCINELLA. Perchè gli abitanti sono peggio dei maiali, tutti, dal primo all'ultimo.

TARTAGLIA. Co-come? Sono anzi ca-cavalieri, baroni, pri-principi!…

PULCINELLA. Ve lo dico in un orecchio che sono… ma zitto!

TARTAGLIA (contorcendosi dalle risa). Ah! Ah!…. Mi mi scappa! Ah!
Ah!… Mi scappa!

PULCINELLA, Zitto, vecchio imbecille! Altrimenti queste bestie qui vanno a riferirle ai loro padroni….

TARTAGLIA. Ah! Ah!… Mi scappa!…

PULCINELLA (dandogli un calcio) E lasciatevelo scappare!

TARTAGLIA……

Appena Tartaglia ripetè la parolaccia che Pulcinella gli avea detto all'orecchio, un grand'urlo e un fitto coro di fischi scoppiò nella platea.

—Pezzo di ubbriacone! Basta! Basta!—

E una seggiola volò sul palcoscenico, poi un'altra, poi un'altra che sfondò la scena di carta, dietro lo squarcio della quale si videro le gambacce di don Carmelo e quelle magroline di Cardello.

Sarebbe avvenuto un gran guaio, se il brigadiere e due carabinieri non si fossero trovati là a calmare la gente, a prenderla per le spalle, a farla uscire, assicurando che il domani il burattinaio avrebbe chiesto scusa ai signori e al pubblico per la parolaccia fatta pronunziare al povero Tartaglia, che un colpo di seggiola aveva atterrato sul piccolo palcoscenico.

Quando l'ultimo e più riottoso degli spettatori fu messo alla porta, il brigadiere si affacciò dietro il palcoscenico dove il burattinaio già staccava le assicelle dello scenario, dopo aver fatto un gran fagotto dei burattini preparati per la serata.

—Signor brigadiere….

—Ma come vi è passato per la testa…?

—Li ho chiamati come li chiamano tutti, signor brigadiere.

—Va bene: è l'inguiria, come dicono qui, il nomignolo di cui li regalano la gente dei paesi attorno….

—E l'offesa fatta a me la contate per niente, signor brigadiere?

—Quale offesa?

—Faccio una serata di onore pei signori, con inviti, a pagamento s'intende, rimettendomi alla loro buona grazia, alla loro generosità; il Sindaco accetta di proteggerla…. Mi ha mandato cinque lire con l'usciere! E i signori intanto…. Che cosa si credono? Divinità?… Bestie che non capiscono niente dell'arte dell'opera… perchè altrimenti sarebbero intervenuti e non avrebbero mandato invece le loro persone di servizio….

—Hanno mandato anche quattrini….

—Gliele ributto in viso le cinquanta miserabili lire che sono ancora là… Lia, dov'è il vassoio?

—E domani che cosa farete?

—Domani? Ma io vado via sùbito da questo porcile!—

E così parlando, l'Orso peloso non aveva smesso di spiantare le assi del palcoscenico, di piegare le quinte di carta e il sipario, aiutato un po' da Cardello che aveva aperto gli occhi spauriti dalla paura ed era indignato anche lui per l'offesa fatta al suo principale.

* * *

La povera madre, tuttavia in maglia, col rossetto che le si scioglieva su le guance in larghe righe per le lacrime che le sgorgavano silenziose dagli occhi—e lei non badava ad asciugarle—era curva su la piccina, che, stesa sul pagliericcio dietro il palcoscenico, non tossiva più e non si lamentava più, con nel pettuccio un rantolo che le moriva nella gola e le faceva fiorire di tratto in tratto bollicine di bava su le labbra pavonazze.

La povera madre non osava di piangere forte, di gridare:—Figlia, figlioletta mia!—per non irritare di più il marito che bestemmiava e brontolava l'ingiuria contro quel porcile e i signori che lo abitavano; ed erano veri, verissimi porci…—Sì, signor brigadiere!—

Sentendo singhiozzare dietro il palcoscenico, il brigadiere aveva sporto il capo e si era precipitato verso la donna che si dava pugni su la testa e si strappava i capelli. Alla vista di lui, sembrò ch'ella prendesse coraggio, che si sentisse difesa contro la possibile brutalità del marito, e i singhiozzi le proruppero dalla gola e poi l'urlo desolante:

—Figlia, figliolina mia!—

Cardello diè un salto giù dal palcoscenico, e scoppiò in pianto anche lui, con le mani tese verso la morticina quasi avesse paura di avvicinarsi e la chiamava per destarla, giacchè non gli pareva morta ma addormentata.

Anche don Carmelo era accorso; e dimenticando il porcile e quei porci di signori contro cui avea seguitato a brontolare, raccomandava al brigadiere che tratteneva per le braccia la madre desolata:

—Lasciatela sfogare, signor brigadiere! Sarà meglio!… La portiamo via; non voglio lasciarla qui…. Neppure morta!—

E con le grosse mani si asciugava inconsapevolmente le lacrime che non gli inumidivano gli occhi, impietrate dentro….—Neppure morta! Neppure morta!

IV.

UN DRAMMA.

Rizzavano il palcoscenico nello stanzone dove altre volte don Carmelo aveva ottenuto grandi successi coi suoi burattini. In quella graziosa cittadina egli era così conosciuto, che fin l'unico giornaletto settimanale aveva annunziato come un avvenimento l'arrivo del Re dei burattinai con molta soddisfazione dell'Orso peloso, come Cardello continuava a chiamarlo anche quando ne parlava con la povera padrona, che ne sorrideva. Ma pur canticchiando o saltando, Cardello non poteva togliersi dalla mente il triste ricordo di quel viaggio notturno con la morticina avvoltolata nella vecchia coperta di lana e posta sui cassoni e su le assi e i travicelli di cui era ingombro il carro. Egli e la inconsolabile madre lo avevano seguito a piedi, per parecchie miglia, mentre don Carmelo, fumando la pipa, e il carrettiere un mozzicone di sigaro, seduti su la tavola davanti, scambiavano di tanto in tanto qualche parola. Poi, all'alba, alla svolta dove lo stradone provinciale s'incrociava con la strada comunale, un carrettiere, pregato dall'altro che lo conosceva, li aveva presi sul suo carro vuoto, ed era stato un ristoro.

La morticina avea dovuto rimanere quasi mezza giornata nello stanzone prima di esser portata via al cimitero. Erano venuti il medico del Municipio e il brigadiere dei carabinieri, e la mamma avea ripreso a piangere e a lamentarsi sommessamente, per non irritare don Carmelo, che durante la visita del medico e del brigadiere era divenuto di pessimo umore alle tante domande di costoro.

—Sissignore, è morta per via; chi poteva immaginarselo?

—Non avevate chiamato un medico?

—Due, anzi—mentì don Carmelo—ma non ci dissero che la bambina era in pericolo.—

Prima che entrasse il beccamorto con la cassetta sottobraccio, una pietosa vicina aveva trascinato in casa sua la madre per non farla assistere alla dolorosa scena. Non voleva staccarsi dal cadaverino e lo baciava e ribaciava, gemendo:—Figlia, figliolina mia, cuor mio!—Cardello stralunato avea voluto accompagnare la morticina fino al cimitero, piangendo quasi si trattasse di una sorella.

E ora, aiutando il padrone a inchiodare le assicelle dello scenario e a piantare i travicelli delle quinte e della bocca d'opera, canticchiava e zufolava sottovoce per ingannare la gran pena che aveva nel cuore.—Purchè non ci porti sfortuna!—brontolava don Carmelo.

E mandò a chiamare la moglie, perchè lavorasse anche lei.

—Durerà eterno questo pianto? Dovresti anzi essere contenta che la bambina non soffra più e stia in Paradiso.—

E parlò in modo così brusco, che la povera donna si fece forza, si asciugò le ultime lacrime, prese in mano il vestito del Tartaglia stracciato dal colpo di seggiola nella memorabile serata, e cominciò a rammendarlo.

Don Carmelo avea ritrovato parecchi vecchi amici che venivano a vederlo lavorare, non sapendo come meglio occupare il lor tempo; e, ogni volta, mandava a prendere un litro di vino dalla vicina osteria per ricambiare la stessa cortesia che qualcuno di loro gli usava la sera colà. Bevevano, ciarlavano, e uno di essi il più giovane, gli ripeteva una facezia che faceva aggrottar le ciglia a don Carmelo:

—Vecchio peccatore! Non vi bastava Colombina! Avete voluto anche una mogliettina giovane e bella!—

Costui era sempre allegro; raccontava storielle che facevano fin sorridere donna Lia, suonava la chitarra, cantava canzonette un po' sboccate, e quando don Carmelo dimenticava di far prendere il solito litro di vino, diceva a Cardello:

—Senz'offesa, don Carmelo… mando il ragazzo qui vicino. Su, panperso: un litro, e del migliore.—

Don Carmelo nei primi giorni non se n'era offeso; ma a poco a poco la frequenza di Tano Spaglia cominciò ad annoiarlo.

Costui veniva, la sera, a godersi gratis l'opera; la mattina, col pretesto di dargli il buon giorno, passando; e nelle ore pomeridiane, per far quattro chiacchiere e spassarsi con la chitarra, la più stupenda chitarra che gli fosse capitata tra le mani, diceva; e un giorno o l'altro avrebbe finito col portarsela via, di nascosto, se don Carmelo non si decideva a vendergliela; l'avrebbe pagata quel che lui voleva, s'intende.

Don Carmelo intanto non aveva coraggio di dirgli:

—Fammi il piacere, amico; non starmi sempre tra' piedi!….—

Infatti quando non veniva solo, si trascinava dietro gli altri vecchi amici di don Carmelo, perchè nello stanzone dell'opera si stava con più libertà che all'osteria, ed era un divertimento star a veder rivestire i pupi, e lavorare le teste e le mani di legno che don Carmelo con quattro colpi di sgorbia e con un coltellino abbozzava, rifiniva e poi colorava con la vernice.

Gl'introiti delle serate andavano benissimo. Folla ogni sera, da dover rimandare la gente; e a desinare vassoi di vermicelli e tocchi di carne e frutta e vino: sembrava carnevale ogni giorno, come diceva Cardello, che ingrassava a vista d'occhio. Donna Lia (era naturale) stonava in mezzo a tutto quello sperpero e tra tanta allegria, vestita di nero, con gli occhi cerchiati di livido perchè appena restava sola, con la porta chiusa, si sfogava a piangere la morticina del suo cuore, quasi non fosse già trascorso qualche mese dalla sera della disgrazia.

Invano Tano Spaglia le diceva scherzando:

—Ma via! Figli e guai non mancano mai!

—Mutiamo discorso!—brontolava don Carmelo.

* * *

E ogni sera, terminata la rappresentazione, mentre marito e moglie si coricavano nel misero giaciglio dietro il palcoscenico, Cardello li sentiva leticare sottovoce e sentiva il colpo di un ceffone o di un pugno che strappava degli ahi! ahi! alla poveretta.

Due notti appresso la lite fra marito e moglie si era incalorita. Cardello udiva ringhiare don Carmelo:

—Devi dirglielo tu!… Altrimenti lo prendo per le spalle e lo butto
fuori a calci!… E commetto qualche sproposito!… Zitta! Zitta!
Ieri, perchè è venuto dopo di avermi incontrato nella Piazza della
Matrice? Che cosa ti ha detto?… Rispondi! Parla!—

La voce di don Carmelo era avvinazzata; e donna Lia rispondeva soltanto coi singhiozzi e con l'esclamazione:—Madonna Santa!—

Tutt'a un tratto… Cardello si era rizzato sul pagliericcio steso in un angolo. Avrebbe voluto accorrere…. Nel buio accadeva certamente qualcosa di terribile. Don Carmelo bestemmiava, donna Lia gridava:—Oh Dio! No! No!—

Cardello gridò:

—Don Carmelo!… Donna Lia!….—

Un rantolo… e poi niente! Un zolfanello fu acceso, e un lume; e Cardello si vide apparir davanti don Carmelo in camicia e mutande tutto insanguinato….

—Don Carmelo!… Don Carmelo!….—

L'Orso peloso, con gli occhi sbarrati, coi capelli irti, si rivestiva in fretta, apriva la porta e scappava senza neppure dirgli una parola, quasi non avesse udito il grido di lui e non si fosse neppure accorto della sua presenza.

Cardello, balzato in piedi, si era affacciato, esitante, dietro il palcoscenico. La padrona, con metà del corpo fuori del giaciglio, le braccia tese e le mani increspate, versava ancora sangue da una larga ferita alla gola, immobile; e i capelli diguazzavano, sciolti, nella rossa pozza che si allargava… si allargava.

—Aiuto! Aiuto, santi cristiani!… Aiuto! Aiuto!—

Correva da un punto all'altro della via come impazzito dal terrore.

—Che cosa è stato!—gridò uno dal terrazzino di faccia….

—Hanno ammazzato…. Aiuto!

—Chi hanno ammazzato?

—L'Orso peloso ha ammazzato la moglie!

—Quale orso, imbecille?—

Cardello si accorse che nello smarrimento gli era sfuggito il nomignolo che colà nessuno poteva capire a chi si riferisse; e soggiunse subito:

—Don Carmelo, il puparo! Aiuto! Aiuto!—

In pochi minuti, lo stanzone era pieno di gente del vicinato accorsa alle grida di Cardello. Il quale, seduto su lo scalino della porta, piangeva tenendosi le mani e balbettando:

—Mamma mia! Ora come farò? Mamma mia!—

Qualcuno era andato a chiamare i carabinieri.

—Com'è stato?—voleva sapere il brigadiere.

—Che ne so? L'ha ammazzata lui…. È scappato!

—Perchè l'ha ammazzata?

—Che ne so? Io dormiva! Ho sentito un urlo… Eravamo al buio… Poi lui ha acceso un lume si è vestito… tutto insanguinato, mani e camicia… Ah mamma mia!

—Signori miei, sgombriamo!….—

Il brigadiere e gli altri due carabinieri spingevano fuori i curiosi, impedivano che altri entrassero; e lasciati i subalterni a far la guardia all'uccisa, conduceva via con sè Cardello alla caserma….

—Non piangere! Non aver paura… Devi dirmi la verità.—

Cardello era istupidito dalla paura che lo mettessero in carcere, e, balbettando, rispondeva al brigadiere:

—Che c'entro io? L'ha ammazzata don Carmelo!—

E quando si sentì rassicurato, e udì dirsi dal brigadiere:—Ti rimanderemo al tuo paese, senza che tu spenda un soldo,—si rammentò che tra un fagotto dei suoi vestiti vecchi e di poca biancheria, avvolte in un fazzoletto, egli teneva nascoste sette lire, due di argento e cinque di spiccioli.—La roba e il danaro me li daranno?

—Andremo a prenderli domani. Intanto buttati su quel letto e cerca di dormire.—

Sfinito dal pianto e dalla terribile commozione, Cardello si addormentò quasi sùbito… Ma che sognacci!….

V.

IL PADRE CAPPELLANO.

Ti rimanderemo al tuo paese—gli aveva detto il brigadiere.

Ma oramai egli aveva preso gusto a quella vita errabonda; e se avesse avuto quattrini, o se il Pretore, invece di sequestrare tutti i burattini di don Carmelo, li avesse lasciati in mano di lui, gli sarebbe bastato l'animo di continuare a fare il burattinaio per proprio conto. Sapeva a memoria molte parti e riusciva ad imitare così bene la voce dell'Orso peloso secondo i diversi personaggi, che col solo aiuto di un ragazzo per muovere un altro burattino, lo stesso aiuto che da principio egli aveva dato a don Carmelo, si sarebbe potuto guadagnare facilmente il pane…. Mah! Mah!

L'Orso peloso gli soleva ripetere, le rare volte che era di buon umore:

—Prima di morire, voglio far testamento e lasciare ogni cosa a te! Non ho parenti in questo mondo, e non posso portarmi i burattini nell'altro per far l'opera in Paradiso o nell'Inferno dove andrò. Intanto non ho intenzione di morire presto; sarò sempre in tempo pel testamento.

E Cardello, ogni sera, avanti di addormentarsi, aveva fantasticato a lungo intorno al caso che lo avrebbe reso padrone di quelle parecchie dozzine di pupi, e di tutti gli attrezzi del teatrino, augurando però al padrone lunga vita, anche perchè così avrebbe potuto strappargli interi i segreti del mestiere di burattinaio, di cui già era infatuato come del più bel mestiere di questa terra.

Invece, ora si trovava solo, in mezzo a una via, pieno di sgomento per l'avvenire. Quel po' di danaro sarebbe stato appena sufficiente a farlo vivacchiare una settimana. E poi?

Ancora gli sembrava un brutto sogno tutto quel che era accaduto; e una mattina, più scoraggiato che mai, si era seduto su gli scalini della chiesa del monastero di Santa Chiara, coi gomiti appoggiati alle ginocchia e la testa tra le mani. Aveva il cuor grosso e gli occhi pieni di lacrime.

—Eh!… di': tu sei il ragazzo del burattinaio che ha ammazzata la moglie, è vero?—

Colui che gli rivolgeva questa domanda gli avea posato una mano su la spalla quasi per scuoterlo da quello stato di tristi riflessioni.

Cardello rizzò la testa e lo fissò impaurito.—Senti,—riprese quegli:—se tu volessi allogarti per servitore, faresti la tua fortuna.—

E senza dargli tempo di rispondere continuava:

—In casa del signor Decano Russo, che è anche cappellano di questo monastero. Vieni con me in sagrestia. Non potresti trovar di meglio, se hai voglia di mangiar tutti i giorni la santa grazia di Dio. Si mangia bene in casa del signor Decano; dolci a bizzeffe. Ti piacciono i dolci? E poco da fare: andargli dietro dalla casa alla chiesa quando va a recitare l'uffizio o ad assistere alla messa cantata; reggergli l'ombrello, quando piove; lustrargli le scarpe… e fargli da mangiare… Oh, se tu non sai, egli t'insegnerà. Ne sa più lui che un cuoco… Su, vieni in sagrestia; sta prendendo il caffè coi biscottini.—

Cardello esitava. Quel vecchietto col collare e la papalina non voleva farsi beffa di lui?—Sono il sagrestano,—soggiunse colui, vedendosi guardato con tanto d'occhi.—Spicciati, vieni.—

Il Decano era seduto su un seggiolone con piano e spalliera di cuoio, vicino alla grata che aveva una piccola ruota in un angolo. Sul tavolino, il vassoio con la tazza vuota, il bricco e un altro vassoio con un resto di biscotti indicavano che egli aveva finito allora allora la sua colazioncina.

Grasso, corto, bianco di capelli, con un bel faccione rotondo, mani piccole e ben fatte, e il grosso anello decanale di smeraldo a un dito della mano destra, il cappellano conversava con l'Abadessa, quando il sagrestano introdusse Cardello, che lo avea seguito riluttante e quasi trascinato pel braccio.

—Ecco, padre cappellano, il servitore che ci vuole per vossignoria.—

Il Decano squadrò Cardello da capo a piedi.

—È il ragazzo del burattinaio che ha ammazzato la moglie. Si trova disoccupato. Può provarlo una settimana, un mese. Mi hanno assicurato che è un buon ragazzo, svelto, intelligente; quel che ci vuole per vossignoria. E arriva proprio in tempo.

—Che cosa sai fare?—domandò il Decano con voce incoraggiante.

—Il burattinaio,—rispose Cardello.

—Va bene,—riprese il Decano sorridendo:—Ma in casa mia occorre di fare tutt'altro.

—Gliel'ho già spiegato quel che dovrebbe fare,—soggiunse il sagrestano.

—Sì, sì, figlio mio; lascia il brutto mestiere di burattinaio, che fa commettere tanti peccati alla gente. Il signor Cappellano ti tratterà bene, da buon sacerdote.—

Si udiva una dolce voce femminile dietro la grata, voce di donna matura, ma con qualcosa di così fresco e di gentile, di materno, che Cardello si era sentito rimescolare tutto, quasi da quell'oscurità gli avesse parlato la misera donna Lia; giacchè la voce dell'Abadessa somigliava molto quella dell'assassinata, che gli avea davvero voluto bene come a un figlio.

—Che ne dici?—riprese il Decano:—Puoi entrare in servizio fin da questo momento. Il mio vecchio servo è morto ieri l'altro. È stato con me diciotto anni.

—Se mi vuole…—balbettò Cardello.

—Ma bisognerà farsi togliere cotesti capellacci da oprante.

—E il signor Decano ti rivestirà da capo a piedi….

—S'intende, s'intende… Intanto prendi questi biscotti, col permesso della nostra madre Abadessa… Mangiane tre, quattro. Gli altri mettili in tasca… e ringrazia la madre Abadessa.

—Grazie,—pronunziò Cardello con voce affiochita dalla commozione.

* * *

Otto giorni dopo, chi lo avrebbe riconosciuto, vestito tutto di nero, con abito lungo e cappello a staio e le mani affogate in un paio di guanti di lana color cioccolata? Si sentiva un po' buffo, quasi in maschera; ma che importava? Fin dalla prima giornata Cardello avea capito che col signor Decano si poteva stare benissimo, e che la fortuna lo aveva proprio aiutato.

Il signor Decano, in verità, gli sembrava un po' matto, con quella grande smania per la pulizia. Cardello, appena entrato in casa, aveva ricevuto la prima istruzione:

—Quando viene qualcuno non permettere che metta il piede dentro, se non si è ripulito perfettamente le scarpe in questi ferri e nella pedana. Fosse il re in persona, non entri se non si è ripulito le scarpe. Hai capito?

—-Sissignore.

—Si risponde: "Eccellenza, sì". E bada, oggi ti ho lasciato venire al mio fianco dal monastero fino a qui. Non sapevi; il burattinaio non poteva insegnarti la buona educazione, ed ho lasciato correre per non darti una mortificazione lungo la strada. Ma il servitore deve seguire il padrone a dieci passi di distanza, tenendosi un po' su la sinistra. Guarda; così. Io vado avanti: uno, due, tre, cinque… dieci passi; muoviti, un po' più a sinistra, tenendo sempre la stessa distanza. Bravo! Non ridere; sono cose serie. Hai capito, ora?

—Sissi… Eccellenza, sì.

—Tu non sei il servitore del primo venuto, ma del Decano Russo della Matrice… Questo grosso anello con la pietra verde può portarlo al dito soltanto il Decano; gli altri canonici, no. E il Decano tuo padrone è anche cappellano delle monache di Santa Chiara. Per questo, domani andrai dal barbiere a farti tagliare i capelli, corti, a spazzola, come devono portarli i servitori della gente perbene, dei signori. Parrai un altro… Ed ora, aiutami a svestirmi. Il cappello va sùbito spolverato, con questa spazzola fine, delicatamente, e poi riposto nella scatola là, sempre a quel posto, per l'ordine. Il mantello, in quell'armadio, e il robone pure, ben spazzolati; hai capito?

—Eccellenza, sì.

—E per cucinare?

—So cucinare i maccheroni.

—È poco. T'insegnerò; dovrai imparare. L'arrosto, il fritto, l'umido, e gl'intingoli… Il dolce ce lo manderanno tutti i giorni le monache. Per questo passo tre, quattro ore al giorno ad ascoltare le sciocchezze che mi dicono dietro la grata del confessionile… Pettegolezzi di teste fasciate… Ma i dolci sono eccellenti… E poi io non la penso come quel tale che diceva:

o paglia o fieno purchè il ventre sia pieno!

Ci vuole buona carne, buon brodo, buon pesce… Imparerai a far la spesa, venendo con me, nei giorni che io sarò impedito. I macellai sono ladri, e i pescivendoli peggio. Occorre aprire tanto d'occhi. Mentre io reciterò l'uffizio, tu lustrerai le scarpe e gli stivali, ogni giorno, e spazzerai le stanze, e spolvererai i mobili, i quadri…, delicatamente. Gli stivali, pei giorni di pioggia, devono essere sempre pronti. Dieci paia di scarpe e cinque paia di stivali. Monsignore dice che gli stivali non sono da sacerdoti… Ma l'umido del fango, se mai, non se lo prende lui, e i reumi neppure. Alla mia salute devo badare io. Se mi buscassi un malanno, non verrebbe Monsignore a togliermelo di dosso… E il letto? Sai rifare un letto? La mattina, si disfà, abballinando le materasse perchè prendano aria… E poi… le lenzuola ben stirate, ben rincalzate dal capezzale, da qui e dai lati, da non fare una grinza; la più piccola grinza non mi farebbe dormire.—

Cardello, abituato con l'Orso peloso che parlava poco e a scatti, si sentiva un po' intronata la testa dalla parlantina del nuovo padrone; e lo guardava maravigliato, quasi sospettoso che dentro quel corpo corto, grassoccio, roseo, fosse nascosto un meccanismo da fargli muovere rapidamente la lingua.

E nei due giorni dopo, altre e altre istruzioni e raccomandazioni.

Cardello, che si riconosceva appena da sè, coi capelli rasi, guardandosi nello specchio, fu però a un pelo di scappar via quando il signor Decano gli fece indossare quel vestito nero con cui doveva andargli dietro a dieci passi di distanza, portando sotto braccio l'ombrello di seta rossa, grande quanto una casa, col manico di rame, fosse cattivo tempo o no, perchè non si sapevano mai, uscendo di casa, i capricci della stagione.

Era un abito smesso del padrone, che non portava sempre la veste talare. Spelato nelle maniche, rossiccio, era stato una specie di livrea pel vecchio servitore morto, ed ora doveva servire per Cardello.

—È un po' largo, un po' lungo; ma tu crescerai, e tra qualche mese ti andrà bene. Tutt'al più, faremo un po' scorciare le maniche e anche i calzoni.—

Quando Cardello vide presentarsi la tuba, fece un gesto di ribellione:

—Mi burleranno,—disse, quasi piagnucolante.

—Parrai un signore, coi guanti.—

La tuba gli scendeva su gli orecchi.

—È troppo larga per me!

—Con un po' di carta torno torno dietro il cuoio…. È quasi nuova.

Cardello scoppiò a ridere vedendosi infagottato a quel modo.

Che cosa doveva fare, povero Cardello? Perdere quella fortuna? Lo avevano burlato al suo paese, quando aveva indossato il camicione bianco e il cappellone di feltro, col tamburo su la pancia, e lui non se l'era presa. Avrebbe fatto lo stesso ora in quella cittaduzza dove pochi lo conoscevano.

E la prima mattina che uscì così mascherato, come egli diceva, andando dietro al padrone a dieci passi di distanza, con l'ombrello di seta rossa sotto l'ascella, camminava impacciato, a occhi bassi, senza punto curarsi se la gente ridesse di lui. Ridevano le monache in sagrestia dietro la grata, affollate per vedere il nuovo servitore del cappellano; ma l'Abadessa gli fece prendere una tazza di caffè coi biscottini, e il signor Decano, per quella volta soltanto, permise ch'egli godesse del regalo su lo stesso tavolino ma in piedi, discretamente discosto.

E la madre Abadessa lo felicitò di aver rinunziato al mestiere di burattinaio, che—ripetè—faceva commettere tanti peccati alla gente, perchè l'opera, se non lo sapeva, è invenzione del demonio.

—Rappresentavamo anche il martirio di Santa Genoeffa—disse Cardello, che non riusciva a persuadersi che l'opera fosse invenzione del demonio.

—Il demonio sa tutte le male arti; si traveste anche da santo per ingannare gli uomini. Ora tu devi apprendere le cose di Dio che t'insegnerà il padre cappellano.

VI.

UNA RECITA IN PARLATORIO.

Invece delle cose di Dio, il padre cappellano pensava a insegnargli ad arrostire le costole di maiale; a fare lo stufato pei maccheroni; il brodo coi galletti che le monache allevavano nell'orto per lui; certi intingoli ghiotti e un po' complicati che richiedevano grande attenzione; e una frittata delicatissima, per la quale bisognava sbattere prima le chiare delle uova a parte e poi i torli, anch'essi a parte.

—Le chiare si sbattono finchè si riducono tutt'una spuma; vi si mescolano i torli, aggiungendo poche stille d'acqua, e giù nella padella con l'olio che frigge. Così… osserva bene. Ora puoi servire in tavola.

Le ore passate in cucina erano uno svago per Cardello. Ma che noia le altre, lunghe, passate ad attendere nella sagrestia del monastero il cappellano che confessava, o in quella della Matrice mentre quegli recitava l'uffizio al coro, con gli altri canonici! E che noia, in casa, quando avea finito di lustrare scarpe e stivali, di spazzare, di spolverare, di rifare i letti!

Il signor Decano preparava nella stanza da studio le prediche e i sermoni da fare tutte le domeniche alle monache di Santa Chiara; e lui, nell'anticamera, per ingannare l'ozio, si metteva a ripetere sottovoce le parti di Peppe-Nappa, di Tartaglia, di Pulcinella, di Colombina, facendo da burattino, gesticolando, sgambettando, dimenticando talvolta che il padrone poteva udirlo, e sgridarlo se lo sorprendeva in quel giuoco.

Un giorno, infatti, egli si era talmente entusiasmato nella recitazione delle parti, che il signor Decano, intrigato di sentir parlare di là, come credeva, parecchie persone, aveva aperto delicatamente l'uscio a fessura ed era rimasto un pezzo a divertirsi dell'inattesa rappresentazione.

—Bravo, bravo, don Calogero!—

Il signor Decano non lo chiamava Cardello, ma col nome di battesimo a cui aveva appiccicato il don, perchè i suoi servitori avevano avuto tutti il don.

Cardello si aspettava una lavata di capo; invece il signor Decano rideva, rideva, e volle che proseguisse.

—Domani, dovrai ripetere la rappresentazione nel parlatorio delle monache; sarà un gran divertimento per loro!

—Ma la madre Abadessa dice che l'opera è invenzione del demonio—fece
Cardello, che all'idea di dover rifare le buffonate di
Peppe-Nappa e di Tartaglia davanti a quell'uditorio temeva
d'impappinarsi e di sentirsi morire le parole in gola.

—L'Abadessa chi sa che cosa s'immagina! Quel che fa ridere non è peccato.

* * *

Fu un gran trionfo per Cardello. Da principio le molte teste di monache e di educande affollate dietro le cinque grate del parlatorio, e che ridevano anticipatamente soltanto a vederlo in mezzo al grande stanzone, infagottato in quell'abito che gli scendeva fin sotto le ginocchia, ritto, in attesa di cominciare la rappresentazione, lo avevano intimidito. Ma la vanità di far mostra della sua arte gli rese quasi sùbito una gran padronanza di spirito. Egli era Tartaglia, Pulcinella, Colombina, Peppe-Nappa, il Bravo mafioso con la parlata strascicante alla palermitana, uno alla volta, ma dava l'illusione che parlassero più personaggi, ingrossando e affinando la voce, secondo le diverse parti. Dietro le cinque grate era un continuo scoppio di risate, di esclamazioni, di strilli allegri, e il Decano seduto in un angolo davanti al gran tavolino di noce, vicino alla grata accanto al finestrone, rideva lietamente anche lui quando Pulcinella fingeva di prendere a calci e a pugni Peppe-Nappa, o faceva le viste di ricevere una fitta di legnate dal Bravo mafioso, che poi scappava, appena Pulcinella, rimessosi dal primo sbalordimento, gli levava di mano il bastone e lo tempestava di colpi…. Sembrava di vederli!…

Cardello aveva accozzato alla meglio tutte le parti che gli erano venute in mente; e all'ultimo, mentre Tartaglia benediceva gli sponsali di Colombina con Pulcinella, tartagliando peggio di prima e piangendo dalla consolazione di maritare la figlia, le risate furono tali che Cardello si mise a ridere anche lui.

Gli era parso di esser tornato ai bei tempi, quando già cooperava con don Carmelo alle rappresentazioni e fin l'Orso peloso gli diceva: bravo!… E uscendo dal parlatorio, e seguendo a dieci passi di distanza il padrone, con un fazzoletto pieno di dolci in una mano, e l'ombrello di seta rossa sotto l'ascella, rivedeva la bambina morta, la povera uccisa, e don Carmelo che avrebbe finito la sua vita nel carcere a cui lo avevano condannato appunto in quei giorni, come se n'era sparsa la notizia; e mai come in quel momento il vestito nero, la tuba e i guanti color cioccolata gli erano pesati addosso peggio di una ridicola mascheratura.

—Sei contento?—gli domandava talvolta il sagrestano che lo aveva allogato presso il signor Decano.

—Contentissimo!—

Non osava di dire che si annoiava mortalmente, specie la sera quando il signor Decano, fatto un giro d'ispezione assieme con lui per le stanze e gli stanzini, si metteva a letto di buon'ora, e voleva che andasse a letto anche Cardello.

Era venuto l'inverno; le nottate non finivano più. Cardello si voltava e rivoltava nel lettuccio, senza poter chiuder occhio prima di parecchie ore di veglia. Le rappresentazioni dei burattini finivano appunto verso le undici ed egli si era ormai abituato a non andare a letto prima dell'una dopo la mezzanotte. Ah! se avesse potuto trovare un altro burattinaio come don Carmelo! Avrebbe abbandonato volentieri anche quella cuccagna dove minacciava d'ingrassarsi peggio del padrone, pur di fare una vita più attiva, più varia! Là sempre le stesse cose: alzarsi, preparare il caffè col torlo d'uovo e i biscotti pel signor Decano, spazzare le stanze, rifare i due letti, spolverare, lustrare scarpe e stivali, accompagnare il padrone dal macellaio, dall'erbaiuolo, dal pizzicagnolo e poi al monastero per la messa alle monache, e alla Matrice pel coro e per la messa cantata, e tornare a casa a preparare il desinare. Dopo un anno, in cucina poteva fare tutto da sè, quantunque il signor Decano si affacciasse spesso colà per dargli, e non occorreva, una mano di aiuto e insegnargli qualche nuovo intingolo col Libro dei Cuochi sotto gli occhi. E andando al mercato, o stando in cucina, il signor Decano non scordava mai di fargli ripetere:

—Su, don Calogero; come diceva quel bestione?

O paglia o fieno,
Pur che il ventre sia pieno—

—Diteglielo anche voi: "Bestione!"

—Eccellenza, sì: Bestione!—

E la pancetta del signor Decano sobbalzava allegramente per la larga risata che quel "Bestione!" provocava.

Il Decano aveva avuto la buona idea d'insegnargli a leggere e a scrivere, meglio che non avesse fatto don Carmelo, che lo aveva abbandonato quando cominciava a compitare, e d'insegnargli inoltre le quattro regole dell'aritmetica. Cardello aveva appreso con facilità. Ma dei libri del padrone che egli si era provato a leggere, capiva soltanto alcune vite di santi e qualche volume di prediche. Non erano divertenti, specialmente questi. Non dovevano divertire neppure il padrone, se li lasciava mangiare dalla polvere nei vecchi scaffali, in uno stanzone che serviva anche di riposto per tutti gli arnesi resi inservibili dall'uso.

Leggeva e rileggeva il Libro dei Cuochi che il signor Decano teneva sul tavolino, accanto ai quattro volumi del breviario rilegati in pelle nera, e che egli dichiarava il primo libro del mondo. Ogni volta che Cardello gli diceva:—Permette, voscenza?—il Decano gli rispondeva:

—Anzi! Anzi! Dovreste impararlo a memoria!—

Se non che accadeva spesso che quando al signor Decano veniva il capriccio di tentare un piatto nuovo, pareva che il primo libro del mondo s'ingegnasse di far andar a male gl'ingredienti. Sissignore; tante once di questo, tante di quello, tante di quell'altro… con le bilance sul tavolino per pesare esattamente ogni cosa; e appena il nuovo piatto veniva portato in tavola, il signor Decano affrettatosi ad assaggiarlo, esclamava sempre:

—Ci siamo!—

Spessissimo si vedeva però che non c'erano affatto, perchè sùbito il signor Decano diceva a Cardello:

Don Calogero, mangiatene pure quanto volete; io ho lo stomaco ripieno. O serbatelo per domani; sarà buono lo stesso.—

Segno che il piatto era riuscito immangiabile.

E allora passavano mesi prima che la confezione di un altro piatto nuovo venisse a tentare il signor Decano.

* * *

Dopo due anni di questa vita, Cardello aveva giornate e settimane di cattivo umore, nelle quali sbrigava alla lesta le faccende di casa, e non si curava che il signor Decano lo rimproverasse:

—Ah, don Calogero! Don Calogero! Così non va bene! Tutta questa polvere qui!… E i vestiti spazzolati alla diavola! E le scarpe lustrate alla peggio! E l'arrosto bruciato! E il pesce fritto malissimo! Che vi prende da qualche tempo in qua?—

Che mi prende?—rispose un giorno Cardello:—Mi prende che io me ne vado e le bacio le mani.

—Perchè, don Calogero? Perchè? Vi par poco il salario?

—Mi annoio, Eccellenza! Ecco la verità!

—Me ne dispiace più per voi che per me. Che vi manca qui?

—Eccellenza, non mi manca niente.

—O dunque?

—Me ne vado e le bacio le mani.

—Fate come vi piace. Ve ne pentirete presto.

E quindici giorni dopo, Cardello baciava le mani al signor Decano, ringraziandolo del bene che gli aveva fatto; ma lietissimo di non più dover indossare l'abito lungo e portare la tuba in testa e l'ombrello rosso sotto l'ascella; di non più dover seguire il padrone a dieci passi di distanza, e di non più star a sbadigliare nella sagrestia del Monastero di Santa Chiara mentre il padrone confessava le monache, o in quella della Matrice mentre recitava, nel coro, l'uffizio con gli altri canonici. No; quella vita troppo monotona non era per lui. Un mestiere libero, all'aria aperta, ecco quel che ci voleva. Avrebbe sofferto, avrebbe lottato, ma voleva riuscire qualcosa di meglio di un servitore.

Ai burattini non pensava più. Era impossibile incontrarsi in un altro don Carmelo, davvero Re dei burattinai. Il gruzzoletto dei salarii, accumulato in due anni, gli sarebbe bastato per vivere parecchi mesi, caso mai non avesse potuto trovar sùbito dove impiegarsi. Avrebbe fatto fin lo sterratore, il manovale, ora che davano mano ai lavori per la conduttura dell'acqua, ed era arrivato l'impresario piemontese, che, dicevano, pagava bene gli operai. Qualunque mestiere, ma il servitore, no, non più! E pensando che per due anni si era dovuto mascherare con l'abito nero fino alle ginocchia, la tuba e l'ombrello rosso sotto il braccio, sentiva un grand'impeto di rabbia contro di sè, e non riusciva a capire come si fosse potuto rassegnare tanto tempo senza buttar ogni cosa per aria.

VII.

UNA SCOPERTA ARCHEOLOGICA.

Il giorno dopo, si presentava all'impresario piemontese:

—Vorrei lavorare….—

Colui gli guardava le mani.

—Ma voi non siete operaio.

—Mi metta alla prova.

—Sapete leggere e scrivere? Qui gli operai, i contadini, sono più ignoranti delle bestie.

—Sono brava gente, però,—rispose Cardello.

—Non dico il contrario; ma io ho bisogno di qualcuno che sappia leggere e scrivere.

—Alla meglio, pochino so, e so anche far di conto, addizione, moltiplicazione, divisione, sottrazione!

—Che mestiere esercitate?

—Ho fatto… il servitore finora, due anni. Prima, ero giovane di don
Carmelo il burattinaio, quello che ammazzò la moglie.

Vi prenderei per sorvegliante, giacchè sapete leggere. Una settimana di prova: se vi va, se mi andate, bene; altrimenti, ciao!—

Così Cardello diventava sorvegliante di una squadra di operai, e dopo un mese, era la mano diritta dell'impresario che gli aveva dato alloggio in casa sua, e lo mandava qua e là e si faceva preparare il desinare perchè il Piemontese (lo chiamavano così) mangiava una volta al giorno, ma quella volta diluviava e beveva per quattro, da sbalordire Cardello che non sapeva persuadersi dove quegli mettesse tanta roba, secco e allampanato com'era.

Di enorme, colui aveva soltanto gli orecchi, che sembravano due sotto coppe appiccicate dietro le tempie, e si movevano stranamente mentre masticava; Cardello guardandolo, si tratteneva a stento dal ridere.

Or accadde che nello scavare la conduttura, gli operai incontrassero sotto i picconi e le zappe una gran lastra di pietra. Sollevàtala, fu scoperta una tomba con le ossa di uno scheletro mezze abbruciacchiate, due bei vasetti verniciati neri con figure in rosso, e tre vasetti e una lucerna rozzi, di terra cotta senza vernice.

—Fermi!—gridò Cardello:—Nessuno tocchi niente. E tu—soggiunse rivolto a un operaio:—va' a chiamare il padrone. Intanto scaviamo più in là.—

Quando l'impresario arrivava, era già in vista, a fior di terra, un'altra tomba.

Cardello tentava di sollevare da solo la lastra, con grande precauzione, perchè gli oggetti che forse vi si trovavano dentro, come nell'altra, non venissero danneggiati.

Visti i primi vasetti, l'impresario, con gli occhi sfavillanti di gioia, gridò agli operai che si erano affollati attorno a Cardello:

—Via tutti, al lavoro! Laggiù!—

Palpava i vasetti, li ripuliva col fazzoletto dal terriccio che vi si era appiccicato attorno, e diceva a Cardello:

—Su, pòrtali a casa, involtati in questo giornale, e torna sùbito. No, aspetta. Solleviamo questa lastra. Farai unico viaggio. La lastra resisteva, come avea resistito ai soli sforzi di Cardello.

—Sono del tempo dei Saraceni—diceva questi, intendendo di accennare all'epoca più remota ch'egli potesse concepire.—Bevevano poco costoro,—soggiunse:—se usavano questi fiaschetti col collo lungo.—

E rise.

Non rideva il Piemontese, a cui per la gioia della scoperta, erano diventati rossi infocati gli enormi orecchi.

—Scalza il terreno da quel lato, leggermente; io farò leva col palo da questo.—

All'urto del palo, la lastra si spezzava, affondandosi nella tomba e stritolando i vasetti che vi erano dentro.

Il Piemontese cominciò a bestemmiare nel suo dialetto; Cardello credeva così, non intendendo la sequela di countag! che gli scappavano di bocca, mentre egli rovistava tra il terriccio raccattando i pezzi, e tentando d'indovinare come avrebbero dovuto essere incollati. Il peso della lastra aveva spezzato i più fragili e i più belli: tre, di semplice e rozza terracotta, erano rimasti intatti.

—Ecco dei soldi,—esclamò Cardello, tirando fuori alcune monete di rame.

—Cerca bene; vi saranno altre monete.

E il Piemontese frugava intentamente anche lui, carponi, con la testa in giù quasi nel vuoto della tomba, buttando via le poche ossa che gli capitavano sotto mano, e ruzzolando per la china un teschio con tutti i denti, che fece dar uno sbalzo di paura a Cardello.

—E zitto, se ti domandano che cosa abbiamo trovato. Intanto porta via quei vasi!… Torna sùbito.

* * *

Da quel giorno in poi, il Piemontese andava laggiù, sin dalle prime ore del mattino, e teneva lontani gli operai, mentre egli e Cardello tastavano il terreno per scoprire altre tombe.

E la sera, desinando, il Piemontese non parlava di altro che dei vasi e delle statuette trovati nella giornata.

Le tombe erano in fila, una accanto all'altra, sul fianco della collina. Sembrava che Cardello avesse un fiuto speciale. Diceva:

—Io scaverei da questo lato.—

E infatti la nuova tomba veniva fuori proprio là dove egli aveva indicato.

Il Piemontese esaminava attentamente i cocci dei vasi rotti. Erano così delicati che non sembravano di terra cotta. E i vasetti intatti pesavano così poco!

—Eppure—egli diceva a Cardello: questa dev'essere la stessa creta che usano ora i vasai per le quartare, come le chiamate. Se io riuscissi a trovare il modo di manipolare la creta attuale, da ridurla duttile e leggera come questa di questi vasi… metterei su una fabbrica di stoviglie, e mi farei una fortuna. Arricchiresti anche tu.—

Sei tombe soltanto. Dopo parecchie settimane d'inutile lavoro, avevano smesso di scavare. Ma Cardello non era più tornato al suo ufficio di sorvegliante. L'impresario lo aveva incaricato di cercare un bravo cavatore di creta; e le stanze vuote e senza mobili della vasta casa erano già ingombre di mucchi di materiale; e pure la terrazza, dove la creta veniva messa ad asciugare al sole.

Cardello ora badava a sorvegliare due operai che la stritolavano, la stacciavano ridotta in polvere flnissima e la riportavano nello stanzone col pavimento di mattoni di valenza, pronta ad essere impastata, manipolata a lungo con l'aggiunta di un po' di sale per renderla porosa e leggera.

Il Piemontese andava, una o due volte il giorno, a dare un'occhiata ai lavori di scavo della conduttura, impartiva qualche direzione, qualche ordine, e tornava a casa a rinchiudersi con Cardello pei saggi d'impasto della creta.

Quel diavolo di Piemontese sapeva fare tante cose! Mentre Cardello, secondo le sue indicazioni, impastava mucchietti di creta, egli rizzava, secondo quel che leggeva in un libro pieno di disegni, un piccolo forno da cuocervi i vasetti e le tazze foggiate. Ne aveva foggiata qualcuna anche Cardello osservando bene come faceva il padrone.

Anzi, un giorno ch'era rimasto solo e i vasetti e le tazze allestiti erano messi ad asciugare al sole, Cardello avea tentato di foggiare un vasetto simile a quelli trovati negli scavi, col piede svelto, e il collo lungo e le scanalature nel ventre. Non era precisamente qualcosa di finito, ma per un primo tentativo, egli poteva esserne contento. Il Piemontese stette a guardarlo, gli diè un colpetto di pollice qua, un altro là, adoprando anche una stecca, lo raddrizzò perchè pendeva un po' da un lato, e disse a Cardello:

—Bravo! Ma per far meglio, ci vuole la ruota. Va' a chiamare un falegname.

Il Piemontese, quando gli veniva un'idea, un capriccio, non metteva tempo in mezzo per attuarlo. Questo modo di agire piaceva tanto a Cardello! Anche lui ora si sentiva preso da grande smania di fare. E non pensava ad altro che alla fabbrica di stoviglie, dove egli sarebbe stato il capo operaio, come gli diceva spesso il padrone.

La ruota era pronta.

—Ecco come si adopra. Si imposta un blocchetto di creta sul piano e col piede si dà il movimento. Le dita intanto stringono la massa l'allargano facendo il vuoto, tornano a stringerla, tirando su il collo, così, così, intingendo di tanto in tanto le dita nell'acqua.—

Quante diavolerie sapeva fare quel Piemontese! Cardello lo guardava a bocca aperta.

Qualcuno, incontrandolo per via, lo fermava domandandogli:

—Ma che cosa intrugliate, chiusi in casa tu e quel matto di
Piemontese?

—Niente.

—È vero che praticate gli scongiuri per trovare un tesoro?

—Il tesoro lo abbiamo già trovato,—rispondeva Cardello, ridendo.

—E tu, hai tu avuto la tua parte?

—La mia parte, s'intende.

—Dunque sei ricco?

—E nessuno lo sa!… Lasciatemi andare.

—Qualche diavoleria fate certamente. I lavori della conduttura dell'acqua intanto non vanno avanti.

—Se la deve vedere lui col Municipio.

—Si dice anche che stampate monete false!

—Fosse vero! Arricchiremmo con niente.

—Bada, che quel matto non ti trascini in galera!—

Cardello riferiva questi discorsi al padrone.

—Faremo monete vere!—rispondeva il Piemontese:—Domani accenderemo il forno.—

Questa infornata dei vasetti e delle tazze eccitava l'immaginazione di Cardello. Ma ancora il Piemontese non era contento; ottenere della buona terracotta da gareggiare con quella dei vasetti antichi già gli sembrava poco. Bisognava trovare una vernice fina come quella di essi, uno stagno almeno da poter fare la concorrenza alle altre fabbriche di stoviglie stagnate. Per questo aveva ordinato quei medicamenti, come Cardello li chiamava, arrivati dal Piemonte in due cassette suggellate e che erano costate un occhio, secondo lui.

All'alba del giorno dopo, essi erano in piedi, attorno al forno che bruciava, dopo che i vasetti di creta già asciutti erano stati collocati nella parte superiore; e doveva bruciare fino a sera, senza che il fuoco si rallentasse un solo momento.

Quella era una prima prova per vedere a che punto di raffinatezza e di leggerezza fosse stata ridotta la creta seccata, polverizzata, stacciata, lavata e poi ridotta a pastoncini con tutte le cure possibili. A Cardello, alimentando il fuoco con le legna, sembrava di fare un'operazione straordinaria. Nella stanza si scoppiava dal caldo. Il Piemontese beveva e ribeveva per asciugare il sudore, diceva; e avrebbe voluto indurre anche Cardello a fare come lui. Ma Cardello aveva paura di ubbriacarsi, perchè il vino traditore una volta gliel'avea fatta, ed egli era stato male una settimana per effetto della solenne sbornia presa la sera di Natale, mesi addietro.

Dall'ansia e dalla commozione Cardello non sentiva sete nè fame. Assorbiti dall'operazione, essi non avevano pensato neppure a comprare un po' di pane… E il forno divampava, e la legna crepitava da ore e ore e doveva durare fino a sera!

—Basta!—disse finalmente il Piemontese.

Cardello si era immaginato che, cessato il fuoco, si sarebbe veduto sùbito il risultato della cottura. E rimase deluso, quando sentì dirsi:

—Bisognerà aspettare fino a domani, perchè il forno si freddi.

* * *

E durante la nottata, non riuscendo a chiuder occhio, arzigogolava:

—Ora, neppure don Carmelo, se uscisse di carcere, potrebbe indurmi a riprendere il mestiere di burattinaio. Sì, era divertente, dava belle sodisfazioni quando la gente applaudiva. Mi sentivo quasi preso da malìa, facendo muovere e parlare i pupi come tanti cristiani vivi…. Ma ora è un'altra cosa. Ho fatto bene ad andar via dal Decano. "Don Calogero, ve ne pentirete!". La profezia gli è fallita. E quando saprà che sarò arrivato a esser capo di una fabbrica di stoviglie, sotto la direzione del Piemontese, rimarrà con tanto di naso… Una fabbrica! Il Piemontese è capace di fare miracoli… Domani… Non veggo l'ora che aggiorni, per sfornare i vasetti… E poi, egli dice, li stagneremo… Chi sa come si dovrà fare? Impastare, credo, quei medicamenti e ungerne i vasi e rimetterli al forno… Bella quella rota! Gira, gira, gira e il vaso vien su, su, tra le mani. Demonio di un Piemontese! Le sa tutte, lui… Ha quattrini, e può cavarsi qualunque capriccio… Dicono che i quattrini non sono suoi; intanto il Municipio, glieli dà, o per conto di coloro che lo hanno mandato qui a dirigere lo scavo della conduttura, o per conto di lui stesso, non significa niente. Ma stando con lui, uno si sente uomo, e non sente il peso del lavoro… Si dimentica fin di mangiare e di bere, come nella giornata di ieri… Lui, no, ha bevuto ieri; e più beveva e più sudava… È di acciaio! Io mi farei ammazzare per lui. La fabbrica!… Capo operaio!… Allora vorrò tornare al paese e far vedere a tutti che cosa è divenuto Cardello! Peccato che la povera nonna sia morta! Mi voleva bene, poveretta! Ora avrei potuto aiutarla, renderle quel che aveva fatto per me quand'ero bambino. Sarebbe stata tanto contenta di vedermi cresciuto, ripulito, con un po' di quattrini da parte nel libretto postale… Non mi par vero! Quando si dice la sorte, il destino! Burattinaio, servitore—com'ero buffo, non posso neppur pensarci!—ed ora in procinto di essere stovigliaio. Chi avrebbe mai potuto immaginarlo?… E i vasetti e le tazze saranno riusciti ben cotti?… Meno male! Cantano i galli.—

Saltò giù dal letto. Il Piemontese dormiva ancora; russava come un orso.

Egli andò di là piano piano; girò e rigirò attorno al forno con la tentazione di aprirlo prima che il padrone si svegliasse.

E un'ora dopo, mentre questi apriva la porticina superiore del forno, Cardello non respirava, intento. Il Piemontese era rimasto serio, impassibile osservando i vasetti da grigi divenuti rosei coperti da fine polvere che quegli cacciava via col soffio; ma Cardello saltava dalla gioia; e quando ebbe in mano uno dei vasetti, si diè a baciarlo e a ribaciarlo, come un portento, e aveva le lacrime agli occhi!

VIII.

IL CAPOLAVORO DI CARDELLO.

La creta, manipolata con tanta accuratezza, aveva dato terrecotte infinitamente superiori alle rozze stoviglie dei quartarai, ma da quelle alle terrecotte leggerissime dei vasetti antichi ci correva ancora molto.

Cardello fu incaricato di triturare in un gran mortaio di marmo una buona quantità della creta già ridotta in polvere fina e ben stacciata; forse bisognava renderla impalpabile per ottenere maggior densità d'impasto e nello stesso tempo maggior leggerezza.

Le due tazzine già cotte erano sottili quanto le tazze di porcellana; ma il piemontese ne aveva spezzata una per accertarsi della qualità dell'impasto e aveva buttato via i cocci con stizza. Cardello, a quell'atto, s'era sentito stringere il cuore. Non riuscivano dunque! E gli era parso di veder svanire tutt'a un tratto il suo bel sogno della fabbrica.

Il Piemontese però era ostinato come un mulo. Quando si metteva in testa una cosa, non pensava ad altro, fino a che non si persuadeva che era inutile ritentare.

La creta, ridotta in polvere impalpabile— Cardello aveva le braccia indolonsite dal pestare e confricare due intere giornate!—era stata impastata aggiungendovi un po' di strutto per renderla grassa. E intanto che i vasetti e le tazze foggiate stavano esposte al sole nella terrazza, il Piemontese cavava fuori dalle cassette i medicamenti e li scioglieva con l'acqua, in due catinelle, dopo aver pesato accuratamente le dosi e misurata l'acqua col bicchiere graduato; tanti grammi di quella, tanti grammi di questa, col libro davanti per non sbagliare,

Cardello avrebbe voluto sapere che cosa erano quei medicamenti e come si chiamavano: ma il Piemontese, zitto zitto, faceva tutto da sè. Cardello doveva contentarsi di stare a guardarlo, e sgranava gli occhi seguendo quell'operazione misteriosa che doveva poi dare lo stagno ai vasetti e alle tazze.

Infatti, quando le misture furono pronte, quegli prendeva uno dei vasetti, lo immergeva in una delle catinelle, agitandolo, rivolgendolo da tutte le parti e, tiràtolo fuori, faceva colare il liquido in modo da poter formare uno strato uguale; poi, con un pennello, vi spruzzava su un po' del liquido dell'altra catinella e metteva il vasetto su una tavola perchè la mistura colasse ancora, e si eguagliasse meglio. Ripeteva la stessa operazione con altri due vasetti e con la tazza rimasta intatta, e insieme con Cardello portava delicatamente la tavola al sole, nella terrazza.

—Diventeranno lucidi, ora?—domandò Cardello.

—Bisognerà rimetterli nel forno. Lo accenderemo domani.—

Che sorpresa per Cardello quando, due giorni dopo, vide cavar fuori vasetti e tazza lucidi, con un bel verde scuro macchiettato qua e là di nero!

Ah! Quel Piemontese era un mago a dirittura!

Questa volta il padrone gongolava. Osservava sorridendo i vasetti, voltandoli e rivoltandoli, passandoseli da una mano all'altra, presentandoli all'ammirazione di Cardello, con dirgli:—Eh? Eh? Eh?—a cui Cardello rispondeva battendo le mani.

Solamente egli sentiva un po' di tristezza, pensando che il Piemontese avrebbe tenuto quel segreto per sè, e che lui non avrebbe mai saputo fare niente di simile. E guardava con un senso d'invidia quel libro che il padrone consultava a ogni po'. Doveva essere un libro di magia!

Una volta, nell'assenza di esso, Cardello avea provato di leggerlo, ma non ci aveva capito niente!… Si era però trascritto il frontispizio, per ogni caso; leggi e rileggi, doveva finire con intenderlo! La buona volontà non gli sarebbe mancata.

* * *

Ci furono parecchi giorni di sosta. Cardello avea dovuto tornar a sorvegliare gli operai. Il Piemontese, a corto di quattrini, passava intere giornate al Municipio per strappare un acconto al Sindaco, che giurava di non dare più un soldo se i lavori laggiù non venivano spinti innanzi con sollecitudine.

Oltre alla testardaggine, il Piemontese aveva anche, quando occorreva, una bella chiacchiera. Pregava, minacciava liti, si raccomandava, faceva veder le cose quattro e quattro fa otto, protestava che prima della fine dell'anno i lavori sarebbero compiuti. Voleva guadagnarsi il premio stipulato nel contratto, pel caso che la conduttura fosse allestita prima del termine fissato; non era così sciocco da lasciarsi sfuggire di mano quella bella sommetta di parecchie migliaia di lire. E tornando a casa, senza aver cavato un ragno da un buco, si sfogava con Cardello, mentre questi preparava il desinare, gli ripeteva la scenata avuta con quel somaro di Sindaco, quasi i quattrini, invece di questo avesse dovuto darglieli Cardello!…

Intanto non potevano fare altri esperimenti; questo era il gran guaio!

Gli mancavano parecchi ingredienti per lo stagno, e bisognava farli venire da Torino.

—Costano troppo?

—Un centinaio di lire. Non posso spendere per essi le paghe degli operai.—

—Cardello, stette zitto. E la mattina dopo, mentre il padrone si preparava in fretta e in furia per andare al Municipio ad assalire nuovamente qull'asino di Sindaco e indurlo ad accordargli l'acconto, e a firmare il mandato, Cardello, tutto confuso, si presentava al padrone, balbettando;

—Ecco le cento lire… se le accetta.

—Chi te le ha date?

—Sono mie… Risparmi che tenevo alla posta.

—Sei un buon figliuolo! Ti ringrazio…. No no! Va' a rimetterle dov'erano.

—Perchè mi dà questa mortificazione?—aveva risposto Cardello con voce piena di lacrime

—Le accetto, per pochi giorni—riprese il Piemontese commosso.—Sei un bravo figliuolo!… Il Sindaco dovrà darmi l'acconto, ora che arriva la prima spedizione dei tubi di ghisa; ho ricevuto l'avviso ieri sera.—

Appunto per quei tubi erano sorte difficoltà con la dogana.

Il Piemontese avea dovuto assentarsi, e siccome nella settimana si attendeva la visita di un ingegnere della Provincia per osservare lo stato dello scavo, e i lavori erano stati sospesi fino al ritorno dell'appaltatore e all'arrivo dell'ingegnere, Cardello rimasto solo in casa, con tutta quella creta, con la rota, col forno e coi medicamenti a sua disposizione riprese sùbito a foggiare vasetti, come meglio sapeva, e tazze, disfacendo e rifacendo quelli che gli sembravano mal riusciti, e mettendoli al sole perchè si seccassero presto. Voleva far vedere al Piemontese che egli, Cardello, non era uno stupido e che se, un giorno o l'altro, veniva messo a capo della fabbrica di stoviglie stagnate, quel posto se lo sarebbe meritato.

E mentre i vasetti e le tazze si seccavano al sole—neppure a farlo a posta, in quei giorni il sole si affacciava a intervalli dalle nuvole che ingombravano il cielo, nè tirava un soffio di vento che sarebbe servito ad asciugare la creta quasi quanto un'occhiata di sole!—Cardello preparava la legna per riscaldare il forno, e si aggirava per le stanze stringendo i pugni, alzando biecamente gli occhi al soffitto appena rifletteva che non avrebbe saputo come regolarsi per le dosi dei medicamenti. E poi le boccette erano parecchie; e nel momento che il Piemontese aveva fatto la mescolanza egli avea dovuto andare di là, non ricordava più per che cosa, forse allontanato a posta da quello per timore che lui potesse impadronirsi del segreto…. Il libro era là, su la scrivania, ma egli non ci capiva niente, per quanto leggesse e rileggesse…. Basta! Si sarebbe affidato alla sorte!

Intanto bisognava prima cuocere i vasetti e le tazze.

Intorno alla riuscita di questa operazione non aveva dubbi di sorta alcuna. In un vasetto soltanto era avvenuta un'incrinatura al collo, forse perchè non bene asciutto…. Ma questo era niente.

Il difficile veniva ora.

Gli tremavano le mani sturando la boccetta, versando un po' del contenuto nella catinella con l'acqua, facendo una mistura a casaccio, rimestandola, aggiungendovi un po' di medicamento dell'altra boccettina quando gli era parso che il liquido non fosse denso a bastanza.

—Chi sa che intruglio ho fatto!…—

E soltanto ora che non poteva rimediare, gli si affacciava alla mente la riflessione che forse aveva sciupato cosa costosa, e che il Piemontese, al ritorno, non gli avrebbe perdonato l'imprudenza commessa.

—Ormai, è fatta!—egli esclamò:—Si pagherà, se mai, con le cento lire.

Cominciò a collocare i vasetti già ben secchi nella parte superiore del forno, come aveva visto fare al padrone, e diè fuoco alla legna, alimentando continuamente la fiamma, col cuore che gli batteva forte dall'ansia, pregando a mani giunte:

—Madonna Santa, aiutatemi!—

Diciotto ore di fuoco, di continua commozione; e anche digiuno!

La sera si era buttato sul letto, sfinito, dopo aver mangiato soltanto due bocconi di pane con un po' di cacio, e bevuto un bicchierone d'acqua.

Avea dormito così profondamente che, svegliandosi, non si rammentava bene di quel che aveva fatto il giorno avanti; poi, in camicia e in mutande, scalzo, si era precipitato a corsa nella stanza del forno già freddato, e, quasi non respirando, con mani convulse, avea cavato fuori uno dei vasetti.

Rimase! Non credeva ai suoi occhi! Invece di verde scuro, macchiettato di nero, il vasetto era iridato, con riflessi di verde pallidissimo, con venature che, secondo la luce, apparivano di oro rosso cupo, cangianti. Fin l'incrinatura del collo era sparita sotto lo strato dello stagno!

L'altro vasetto e le due tazze, chi sa perchè?, erano riusciti meno belli; poche iridi, poche venature di oro rosso cangianti, e larghe chiazze di color cioccolata, e di grigio sporco. Cardello stette lunghe ore quasi in adorazione davanti al mirabile vasetto. Si figurava che il furbo Piemontese nel primo esperimento non avea voluto adoprare i medicamenti più costosi, contentandosi di ottenere quel colore verde scuro macchiettato di nero, tanto per persuadersi se sarebbe riuscito.

—Che dirà?—si domandava Cardello.

Ma la vista del vasetto lo consolava anticipatamente di tutte le sgridate, e anche dei possibili furori del Piemontese, che di ordinario era freddo, serio, ma, se montava in bestia, diventava proprio intrattabile.

Cardello si affrettò a far sparire ogni traccia delle operazioni fatte; buttò via la mistura dei medicamenti, ripose le boccette nella cassetta in modo che quegli non avesse potuto accorgersi sùbito che erano state adoprate; nascose i vasetti e le due tazze in un baule, e aspettando il ritorno del Piemontese si stringeva nelle spalle, ripetendo:

—Ormai!…—

E non poteva trattenersi dal soggiungere sorridendo di sodisfazione:

—Intanto il mio vasetto è assai più bello dei suoi!

IX.

INFORTUNIO DEL LAVORO

Il Piemontese, arrivato assieme con l'ingegnere provinciale, per due giorni aveva avuto ben altro pel capo che occuparsi dei suoi esperimenti di terracotte. Era di cattivo umore; Cardello che lo aveva accompagnato laggiù, sentendolo discutere violentemente con l'ingegnere avea temuto, in certi momenti, che non venissero alle mani, alla presenza del Sindaco e degli Assessori presenti anch'essi per la ispezione.

Poi tutto era andato bene. L'ingegnere partito, i lavori di scavo ripresi, Cardello per parecchi giorni avea dovuto tornare al suo posto di sorvegliante ora che si iniziava il traforo della collina; traforo di qualche centinaio di metri, che però richiedeva molta attenzione e molte precauzioni perchè non accadessero disgrazie…. E degli esperimenti di terracotta neppure una parola!

Cardello si sentiva rodere dalla smania di mostrare al Piemontese il bellissimo vasetto; ma quegli, preoccupato della natura del terreno della collina da traforare, la sera, desinando, parlava delle opere di travatura che occorrevano per prevenire una frana e, tra un boccone e l'altro, faceva calcoli, col lapis, sul libretto degli appunti e tentennava la testa, e borbottava contro l'ingegnere, contro il Sindaco…. E degli esperimenti di terracotta neppure una parola!

Era proprio un'angoscia per Cardello. Di tanto in tanto, si sentiva spinto a interrompere i ragionamenti e i calcoli del Piemontese e gridargli:—Ma che traforo! Ma che travatura!… Pensiamo a cose più serie…. Non le preme dunque di vedere il mio vasetto?—

Quasi quegli ne sapesse qualcosa!

Una mattina Cardello non ne potè più. Corse al baule dove il vasetto era nascosto, involtato in un giornale, e così com'era lo presentò al Piemontese senza neppur dirgli: "Guardi!"

—Dove l'hai trovato?—domandò questi, spalancando gli occhi dallo stupore.

—L'ho fatto io,—rispose timidamente Cardello.

—Come? Tu! Come?—

Di mano in mano che Cardello, preso animo, gli raccontava un po' confusamente quel che aveva operato, il Piemontese se lo divorava con gli occhi, ne approvava con la testa ogni parola, sollecitandolo, col gesto, di andare avanti, di andare avanti…. Quel che più gl'interessava di sapere era il mezzo con cui Cardello aveva ottenuto quello splendore di cristallizzazione….

—E hai preso…. Quale preparato hai preso?

—Un po' da una boccetta, un po' dall'altra… a casaccio….

—Da questa?

—Sì.

—E anche da quest'altra?

—Da quasi tutte…. Ho fatto male?

—No…. Ma ricòrdati bene…. In che dosi?

—Che ne so!… Da una più, da un'altra meno, come capitava, a occhio. Da quella boccettina là, soltanto un pizzico.

—Imbecille! Cretino! Ma prova a ricordarti! Ma sfòrzati!…—si spazientiva il Piemontese.—Fai un esperimento così delicato e, per precauzione, non prendi nota neppure delle dosi… dell'essenziale! Ed eri presente…—imbecille! cretino!…—quando io pesavo diligentemente i preparati e misuravo l'acqua col provino…. Non sapevi, va bene, quale preparato sciogliere prima, quale dopo; ma, pensando a quel che ne poteva nascere, dovevi capire…. Niente! Butta giù tutto come vien viene… e gli càpita la disgrazia…. Sì, è stata una disgrazia; perchè se tu capissi che miracolo hai prodotto—e nessuno saprà più riprodurlo—dalla rabbia ti sbatteresti la testa a un muro. Su, vediamo: tenta dunque di ricordarti….—

Ora lo prendeva con le buone, accorgendosi che sgridandolo a quel modo lo sbalordiva maggiormente.

—Su, tenta…. Non sarà difficile…. Ma non intendi che poter ottenere quello stagno sarebbe la nostra fortuna? E senza scomodarci, senza lavorare, vendendo soltanto la privativa del segreto…. In Francia, in Germania, in Inghilterra, in America farebbero a gara per strapparcelo di mano a furia di centinaia di mila lire!—

Cardello scoppiò in un gran pianto, quasi quelle centinaia di mila lire se le vedesse rubare proprio in quel momento da qualcuno invisibile, contro cui non era possibile resistenza alcuna. E singhiozzando balbettava:

—La mia disgrazia è stata di non essere andato a scuola! Se avessi saputo leggere bene, se mi avessero fatto studiare! Ci ho perduto gli occhi in quel suo libro, senza capirne niente. È colpa mia forse?… Chi poteva prevedere quel che è accaduto? Neppure lei, credo….

Il Piemontese smaniava, aggirandosi per la stanza, alzando i pugni al soffitto, fermandosi a contemplare il vasetto posato sul tavolino, e che pareva formicolasse di iridi, goffo di forma ma inarrivabilmente bello con quel verde pallidissimo su cui si ricamavano le venature di oro rosso cupo…. E tutto ciò era opera del caso!—E tornava a smaniare, ad alzare minacciosamente i pugni al soffitto, mentre il povero Cardello singhiozzava in un canto, senza osar di guardare il vasetto che avrebbe potuto essere la sua fortuna, se lui avesse saputo….

—Ritenteremo…—egli disse all'ultimo, per consolare il padrone…. Chi sa? Potrà darsi!…

* * *

Un'altra scena avveniva il giorno dopo quando il Piemontese volle restituirgli le cento lire.

—No! No! Le tenga. Comprerà altri medicamenti!

—Le hai guadagnate con tanti stenti e vorresti sciuparle così?
Rimèttile nella cassa postale, non far lo sciocco!

—No! No!—insisteva Cardello.

—E del vasetto che farai?—soggiunse il Piemontese dopo che Cardello, vedendolo irritare, aveva ripreso il biglietto da cento lire.

—Ma il vasetto è suo.

—Via, sì, mio per metà. Lo manderò a Torino; ce lo pagheranno bene…. È un pezzo unico al mondo! Tu ancora non lo capisci.—

Dopo tutti quei dispiaceri, il pensare ch'egli, senza volerlo, senza sapere quel che facesse, era riuscito a produrre quel che il Piemontese chiamava un pezzo unico, lo riempiva d'orgoglio e di speranza. Il Signore, che lo aveva aiutato finora, avrebbe continuato ad aiutarlo. Ormai si credeva uomo maturo, a vent'anni, Non aveva frasche per la testa. Per lui si poteva dire che i divertimenti e gli svaghi non esistessero. Voleva essere un onesto operaio, guadagnarsi il pane col sudore della sua fronte, e crearsi—se il Signore lo aiutava—una discreta posizioncina al sole. Poter arrivare a metter su un piccolo negozio era la sua più alta aspirazione. E se davvero il Piemontese si decideva a fondare la fabbrica di stoviglie stagnate…. Non era cattivo mestiere quello dello stovigliaio. Col tempo forse non gli sarebbe difficile avere una piccola fornace di suo, trovare un compagno che possedesse qualche capitale da impiegare…. Tanti e tanti avevano cominciato più modestamente di lui, ed ora erano ricchi negozianti, con palazzi e ville e giardini.

E si rivedeva ragazzo in casa della nonna, mal coperto dai laceri panni ricevuti per elemosina, ma attivo, allegro, pronto a qualunque servizio; e poi giovane di burattinaio…. Quello era stato il suo primo passo nella via della fortuna…. E i due anni passati con quel mezzo matto del decano Russo, ripensandovi, non gli sembravano poi tanto cattivi, non ostante il vestito nero e la tuba e l'ombrello di seta rosso!… Che fissazione il farsi portar dietro l'ombrello anche col bel tempo!… Un altro non si sarebbe mosso da quella casa, dove la principale occupazione era il mangiar bene…. Ma lui voleva lavorare e, soprattutto, essere un uomo libero, un buon operaio…. Era stato fortunato capitando col Piemontese. Quando si dice il destino! Era proprio vero: ognuno ha il suo destino!… Se don Carmelo non avesse ammazzato la povera donna Lia—la rivedeva come in quella notte, in una pozza di sangue, coi capelli sciolti e le mani increspate dalla convulsione della morte—egli errerebbe ancora di paese in paese, non sempre sicuro che l'Orso peloso guadagnasse da regalargli qualche paio di lire al mese e da dargli da mangiare ogni giorno; e forse, all'ultimo, si sarebbe trovato su una via, senz'arte nè parte….

Intanto quella galleria da scavare non permetteva al Piemontese nè a lui di riprendere gli esperimenti. Si procedeva lentamente, con gran cautela, e il Piemontese voleva sorvegliare i lavori d'impalcatura, mentre i muratori rizzavano il rivestimento dei lati e della vôlta con solidi massi, di mano in mano che si procedeva innanzi. Il Piemontese ripeteva spesso a Cardello:

—Voglio guadagnarmi le dieci mila lire di premio, consegnando i lavori con l'anticipazione di sei mesi. Serviranno per la fabbrica.—

E sentendola nominare, Cardello la vedeva coi forni rotondi, come li indicava il libro, con dieci, venti ruote in movimento e parecchie dozzine di operai intenti a foggiare vasi di ogni genere, ad asciuttarli al sole, e riporli gli uni su gli altri per essere cotti con trent'ore di fuoco, come indicava il libro. Lui si sarebbe riservato la immersione nello stagno, operazione delicatissima, come diceva il Piemontese, e che richiedeva abile lestezza di mano… E vedeva le stoviglie che partivano pei paesi attorno, e anche più lontano, accatastate sui carri, o incassate per le spedizioni con la ferrovia. Giacchè la sera, desinando, anche il Piemontese almanaccava quanto lui, e gli faceva su la tovaglia, col manico di una forchetta o di un cucchiaio, il disegno all'ingrosso della fabbrica che doveva occupare un vasto terreno… laggiù vicino al posto dei futuri canali, dov'erano le rovine di un vecchio convento, terreno che dal Governo egli avrebbe avuto quasi per niente. Cardello, passando di là nel recarsi a sorvegliare i lavori della galleria, lo accennava compiacentemente al padrone, e per poco non gli sembrava che già fosse cosa decisa, e che quei fittaiuoli che mietevano il rachitico fieno sotto gli ulivi, fossero degl'intrusi che commettevano una prepotenza occupando la proprietà altrui.

X.

SPERANZE E DOLORI.

Era stata una lieta mattinata. Due giorni avanti gli operai avevano buttato giù l'estremo mezzo metro di terra sbucando dal lato opposto della collina. E proprio da questa parte ora facevano ultimi lavori d'impalcatura.

Cardello avea badato al trasporto delle grosse travi e dei tavoloni, e aveva anche aiutato i manovali a piantare, a legare, a inchiodare, stimolandoli con l'esempio.

Poi il Piemontese e lui avevano percorso la galleria da un capo all'altro, contenti che non fosse accaduto nessun tristo incidente.

Più tardi, una famiglia di signori villeggianti là vicino avevano voluto visitarla. Le signore e le signorine procedevano paurose, fra strilli e risate.

Due bambini correvano, tornavano indietro, riprendevano a correre, felicissimi di trovarsi sotto terra.

Uscendo all'aria aperta dal lato opposto i bambini avrebbero voluto tornare addietro e rifare la strada, ma Cardello si era opposto; sarebbero stati d'impaccio agli operai che, dopo colazione, riprendevano il lavoro di sgombero e di muratura. E così quelli risalivano la collina assieme con Cardello, che dava spiegazione per contentare la curiosità delle signore ancora meravigliate di aver avuto il coraggio di attraversare la galleria….

Un rumore sordo, un urlo soffocato! Cardello si diè a correre all'impazzata in mezzo agli alberi di ulivi, divenuto tutt'a un tratto pallido come un cadavere, agitando le braccia disperatamente, gridando:—Oh Dio! oh Dio!—e chiamando a nome il padrone. Si era precipitato giù da un ciglioncino col pericolo di rompersi il collo, e neppure scorgeva il Piemontese e parecchi operai che urlavano e piangevano davanti la bocca della galleria e non osavano di entrare. Dovette premersi il cuore con una mano; se lo sentiva scoppiare!

Pochi momenti di esitanza; poi il Piemontese e lui s'inoltrarono cautamente con una lanterna accesa. Dal centro della galleria arrivavano gemiti e grida. Due operai mezzi sepolti dalla frana gemevano:—Aiuto! Aiuto!—

Cardello si era buttato carponi, smovendo il terriccio con le mani, e senza punto curarsi del pericolo, tirava fuori dall'ingombro i due sventurati che fortunatamente non erano neppure feriti.

E gli altri?… Come soccorrerli?

Tornavano indietro. Le signore e i bambini, impietriti dallo spavento erano rimasti, là tra gli ulivi, con un confuso terrore d'imminente pericolo che il terreno si sprofondasse sotto i loro piedi; e scoppiavano in grida e in pianti vedendo arrampicarsi affannosamente il Piemontese Cardello e parecchi altri operai che accorrevano a portar soccorso dall'altra bocca della galleria, con zappe e picconi… Anche da questa parte si erano potuti salvare altri due operai contusi, mezzi asfissiati dalla frana che li aveva coperti. Mancavano tre….

Il Piemontese afferrò Cardello per un braccio.

—Bada!….

La frana aveva fatto una smossa.

Ma Cardello, liberatosi con uno strappo dalla vigorosa stretta, si dava a buttar da lato con una pala il materiale cautamente, insistentemente, rimovendo pezzi di travatura frantumata, scavando anche qui con le mani per paura che la pala non ferisse qualcuno dei sepolti. Gli altri non potevano aiutarlo per la strettezza del posto. Nessuno fiatava; e nel sinistro silenzio si udiva il raspare di Cardello che, ora ginocchioni, ora carponi, continuava a lavorare.

Quando arrivarono sul luogo il Sindaco, il Pretore, i carabinieri, tre cadaveri erano stesi al sole neri, gonfi, quasi irriconoscibili. La gente che, alla notizia, portata in paese da un operaio, era accorsa precedendo il Sindaco, il Pretore e i carabinieri, si affollava attorno ai disgraziati, commiserandoli, chiedendo notizie agli scampati, a Cardello, al Piemontese, che guardava attorno come un ebete, pensando alle conseguenze di quella disgrazia!

E tra le grida strazianti dei parenti che piangevano i morti,
Cardello si affannava a spiegare al Pretore:

—Erano state prese tutte le precauzioni possibili. L'impalcatura non poteva essere più solida; possono attestarlo gli stessi operai.

—Intanto abbiamo qui tre cadaveri!—rispondeva il Pretore, consultando con gli occhi il Sindaco e il brigadiere.

Faccia il suo dovere,—disse il Piemontese, avanzandosi verso il Pretore:—Io ho la coscienza tranquilla. L'inchiesta dimostrerà che non c'è stata trascuranza da parte mia. L'ingegnere provinciale la settimana scorsa—chiamo in testimonianza il signor Sindaco,—non ha trovato niente da ridire.

—È vero,—confermò il Sindaco.

—Intanto, per semplice formalità, non posso fare a meno di ordinare il suo arresto,—soggiunse il Pretore.

—Sono ai suoi ordini.

Cardello, vedendo condur via il padrone tra due carabinieri, si mise a corrergli dietro, voleva essere arrestato anche lui, assumere la sua parte di responsabilità. E piangeva, piangeva!

—Torna sul luogo; bada a tutto. Non darti pensiero di me. Ho la coscienza tranquilla.—

Cardello si sentiva accapponare la pelle pensando che pochi minuti prima, assieme con le signore e coi bambini, era passato sotto il punto dov'era avvenuta la frana! E ripeteva:

—Quando si dice il destino! È proprio vero: ognuno ha il suo destino!—

I due ingegneri provinciali e quello del Genio Civile furono maravigliati della intelligente cooperazione di Cardello nella inchiesta. Per ogni appunto egli aveva una risposta esplicativa, chiara, precisa, esauriente.

Dovettero convenire che tutte le precauzioni suggerite dall'arte, dall'esperienza erano state messe in opera, e che la disgrazia di quella frana non era umanamente prevedibile.

Cardello in quei terribili otto giorni avea perduto il sonno e l'appetito. La sera, tornando a casa, gli sembrava di trovarsi in un deserto, quasi le stanze si fossero ingrandite e fossero divenute stranamente paurose. Non sapeva darsi pace che il padrone stesse nella lurida buca del carcere in cui doveva soffrire immensamente, quantunque gli fosse stato concesso di farsi portare letto e biancheria di suo, e il desinare, pel quale Cardello sfoggiava tutta l'abilità culinaria appresa al servizio del Decano. E sembrò quasi impazzito la mattina in cui apprese che il Piemontese sarebbe stato rimesso in libertà per inesistenza di reato. Gli avea ornato la camera con fiori a mazzi e sciolti e sul cassettone, in mezzo ai fiori avea collocato il vasetto pezzo unico, non ancora spedito a Torino per esservi venduto, tentando così di ricordare al padrone la ripresa degli esperimenti. Chi sa? Forse il caso li avrebbe aiutati ad ottenere altri pezzi unici anche migliori di quello.

Dopo di essere scampato miracolosamente dal pericolo della frana, Cardello avea acquistato una gran fiducia nel suo destino. Gli pareva mill'anni di trovarsi a capo della fabbrica di stoviglie stagnate. E per ciò si era affannato a rimettere in ordine lo stanzone dov'era il piccolo forno in mezzo, e la legna in un angolo, e in un altro la creta da lui tenuta attentamente umida per averla subito pronta sotto mano. Quella pulizia, quell'ordine dovevano dar nell'occhio al Piemontese appena fosse entrato colà, e spronarlo, istigarlo.

Si era piantato davanti il portone del carcere in attesa dell'usciere o del brigadiere (non sapeva chi dei due) che doveva portare l'ordine di scarcerazione. E appena vide comparire il Piemontese, che gli parve sofferente e così dimagrito che le straordinarie orecchie sembravano più enormi di prima, Cardello gli si precipitò incontro a baciargli le mani ridendo convulsamente dalla gioia…. Se lo sarebbe tolto in collo e lo avrebbe portato così trionfalmente fino a casa, se quegli lo avesse permesso, e se, invece di lasciarsi baciare le mani, non lo avesse abbracciato e baciato su le due guance.

—Grazie di tutto quello che hai fatto! Sei un buon figliuolo! Su, su!
Niente sciocchezze!—

Il Piemontese, ordinariamente serio e freddo, aveva la voce commossa, e non potè trattenersi dal ridere quando Cardello, non sapendo come meglio esprimere la sua grande gioia, buttò per aria il berretto, gridando inattesamente:—Viva Umberto I!… Viva il Re!

XI

ABNEGAZIONE

La galleria era terminata. Mentre al di là di essa veniva continuato lo scavo quasi a fior di terra per la conduttura, dal lato opposto, s'iniziavano i lavori di collocamento dei tubi di ghisa, di saldatura e copertura con piccole lastre di pietra. Il Piemontese e Cardello erano sul posto da mattina a sera; uno da questa parte, perchè la saldatura voleva farla da sè; e l'altro a sorvegliare lo scavo fino alla sorgente. Cardello avrebbe voluto essere un mago e far trovare allestita ogni cosa dalla sera al mattino per opera d'incanto.

Desinando, il Piemontese accennava qualche volta alla ripresa dei saggi di terracotta. Tra giorni sarebbero arrivati da Torino i nuovi preparati per lo stagno. Appena liberato dall'impresa della condotta dell'acqua, egli avrebbe iniziato col Demanio le trattative per l'acquisto del terreno dove dovea sorgere la fabbrica. Aveva in mente anche un progetto di società tra lui e i cinque o sei stovigliai del paese, che egli non voleva rovinare con una concorrenza contro cui non avrebbero potuto difendersi. Ma, al solito, costoro erano diffidenti; la novità li sbalordiva. Non capivano che uno potesse mettersi ad esercitare il loro mestiere senza aver fatto prima una larga pratica. Essi erano stovigliai da padre in figlio, e ascoltavano sorridendo d'incredulità quella che stimavano spampanata del Piemontese.

—Peggio per loro!—rispondeva Cardello.—Ma già sarà meglio far da noi soli. Bisognerà diventare sin da principio abili operai.—

Il Piemontese avea loro mostrato i primi saggi di stagnatura, per persuaderli con una prova di fatto; non gli avevano creduto.

Un giorno Cardello era stato avvicinato da un vecchio stovigliaio.

—Tu, che sei siciliano come me, dimmi la verità. Quei vasetti stagnati….

—Li abbiamo fatto noi. Belli, eh.? E non avete visto il pezzo unico?

—Che cosa è il pezzo unico?

—Un vasetto meraviglioso. A Torino ce lo pagheranno mille lire.

—Non spararle grosse! Te l'ha dato a intendere lui? E vuole dunque metter su una fabbrica di quartare?

—Si capisce, e di altro. Abbiamo già comprato il terreno.—

Non era vero; ma Cardello non dubitava affatto delle parole del suo padrone. Quando il Piemontese si metteva una cosa in testa!… Non aveva detto: "Inizierò le pratiche col Demanio"? Per Cardello significava: "Il terreno è comprato".

—E quei vasetti?—insisteva il vecchio non ancora persuaso.

—Ci ho messo le mani anche io.

—Sarà!… E le mille lire, le hai tu viste?

—Verranno.

—Aspèttale! Io sono vecchio,… Ma neppur tu che sei giovane vedrai questa famosa fabbrica! A che scopo poi? Si campa a stento noialtri, e fabbrichiamo cose di prima necessità, che costano pochi soldi. E lui, il Piemontese, vuole arricchirsi con lo stagno?… Dice che farà arricchire anche noi, e ci chiama in società! Lui è piemontese e furbo. Ha imbrogliato il Municipio per la condotta dell'acqua; ma noi, noi siamo assai più furbi di lui. Chi sa dove li ha comprati quei vasetti stagnati, e vuoi darci a intendere, come l'ha dato a intendere a te, che essi sono opera sua.

—Vi giuro…!

—Lascia andare! Mangi il suo pane; devi dire quel che vuole lui.

—Ebbene… Datemi un vasetto di terracotta fatto con le vostre mani. Ve lo restituirò stagnato come quelli che il Piemontese vi ha mostrato.

—Manderà a farselo stagnare al suo paese.

—Potrete assistere all'operazione; vedere coi vostri stessi occhi.

—Lascia andare! Mangi il suo pane, devi dire quel che vuol lui.

—Io sono bestia,—esclamò Cardello vedendo allontanare il vecchio:—ma a questo mondo c'è gente più bestia di me!—

Ogni metro di conduttura messo a posto era per Cardello un avvicinarsi alla realizzazione della fabbrica. Tra due mesi sette rubinetti della fonte, ora muti, avrebbero schizzato fuori ridenti getti di acqua, rumorosi, limpidi, da dissetare uomini e bestie, da alimentare il lavatoio là dietro, e anche per annaffiare gli ortaggi che potevano piantarsi nei terreni circostanti.

E, a pochi passi dalla fonte, sarebbe sorta la fabbrica delle stoviglie, a dispetto degli stovigliai che la discreditavano anticipatamente e avrebbero dovuto poi mordersi le mani per non aver voluto entrare a far parte della Società.

Una mattina, andando a sorvegliare i lavori, Cardello non aveva resistito al desiderio di dar un'occhiata al fondo. Le rovine del vecchio convento erano ridotte a pochi muri, e a mezz'arco crollante. Qua e là, pochi alberi di ulivi che crescevano stentati sul terreno infecondo. Il fittaiolo, vedendolo guardare attorno, gli si era avvicinato domandandogli che cosa cercasse.

—Niente. Questo fondo si vende?

—Ho l'affitto per nove anni.

—Non lo lascerete prima?

—Perchè dovrei lasciarlo? Pago una bazzecola.

—Ah!—fece Cardello, un po' deluso.

Chi vuole comprarlo?—domandò il contadino con aria di scoprir terreno.

—Nessuno. Dicevo così per dire. E poi giacchè è affittato per nove anni,—replicò Cardello misteriosamente:—Scusate il disturbo.

—Potremmo intenderci,—soggiunse il contadino, vedendo che colui se n'andava.

Cardello non si volse addietro, non rispose. L'aver messo il piede colà gli dava quasi il senso di una presa di possesso, non ostante i nove anni di fitto vantati da quel contadino. E lungo la strada sorrideva di sè stesso, per la sufficienza con cui aveva parlato, come se il compratore avesse dovuto esser lui, e i quattrini li tenesse in tasca o nella cassetta, o alla Banca!… Infine la fabbrica non sarebbe stata un po' cosa sua?

* * *

Il Piemontese si era affaticato troppo in quegli ultimi giorni. Dopo aver lavorato ginocchioni, curvo sui tubi da saldare, sotto la vampa del sole che scottava, con appena qualche ora di riposo all'ombra di un albero, la sera tornava a casa sfinito, e non aveva voglia neppur di desinare. Beveva due tre bicchieri di vino sopra un boccone di pane, e andava a letto. Si sarebbe buttato vestito su le materasse, se Cardello non lo avesse aiutato a spogliarsi.

Quella notte Cardello, che dormiva nel camerino accanto, sentendolo smaniare e voltarsi e rivoltarsi sul letto, stava per domandargli: "Ha bisogno di qualche cosa?" Pel gran calore dormivano con gli usci spalancati e con le due finestre della stanza vicina spalancate anch'esse per godere il refrigerio dell'aria notturna.

Aperti gli occhi, si accorse che il padrone aveva acceso il lume.

Saltò giù dal letto. Il Piemontese era già in piedi.

—Si sente male?

—Ho una grande arsura, mi sembra di aver la febbre.

—Perchè non mi ha chiamato? Non sarà niente; è il troppo sole che ha preso ieri….

—Volevo farmi una limonata.

—Si rimetta a letto; gliela faccio sùbito io. Avrebbe dovuto chiamarmi.—

Il Piemontese tracannò avidamente la limonata. Era acceso in viso, con la bocca arida, e non poteva star fermo sotto le lenzuola.

—Non si sventoli!—si raccomandava Cardello.

—Va' a letto; non mi occorre altro.

—Mi lasci star qui; tanto, non potrei più dormire.—

Cardello gli aveva detto: "Non sarà niente!" ma quella grande smania e il viso un po' sconvolto del padrone gli mettevano in cuore uno sgomento contro cui avrebbe voluto reagire.

Seduto a pie' del letto, con le mani su le ginocchia e gli occhi fissi intenti sul padrone che smaniava, Cardello si perdeva a fantasticare:

—E se si ammala ora, sul punto di terminare e consegnare il lavoro della condotta dell'acqua? Ci voleva proprio questa disgrazia!… Non si sventoli, per carità!—Gli passavano per la testa presentimenti ancora più tristi.

"Siamo nelle mani di Dio! Da un giorno all'altro!… No! No!… Gli faccio la iettatura, pensando queste brutte cose! Appena sarà giorno, correrò da un medico… Potrò lasciarlo solo!… Manderò qualcuno del vicinato."—Non si sventoli, fa peggio! Vuole un'altra limonata?

—Sì, sì! Vorrei anzi sentirmi scorrere in gola uno dei canali della fontana!… Senti come scrosciano? Tutti e quattro!… E buttarmi nella vasca!… Così!…—

Cardello dovè trattenerlo. La febbre lo faceva delirare.

—Beva!… Questa le farà bene!

—Grazie! Va' a letto.

—Non vede! È l'alba.

—Alziamoci dunque… Al lavoro!…

Il Piemontese fece l'atto di saltar giù dal letto, ma ricadde supino, con gli occhi chiusi, col respiro affannoso, quasi esaurito dallo sforzo, Cardello gli mise una mano alla fronte. Dio! Come scottava!

Approfittando di quel momento di tranquillità, egli si era affacciato a un balconcino, e aveva pregato uno del vicinato perchè andasse a chiamare, di urgenza, un dottore.

Quindici giorni di angoscia! Si era sviluppato il tifo; Cardello sembrava una larva di uomo, dopo tante giornate e tante nottate passate a far l'infermiere, aiutato un po' da due operai incaricati di eseguire i servizi fuori di casa. Nei momenti in cui la febbre non gli offuscava la mente, il Piemontese seguiva con sguardi pieni di gratitudine Cardello che preparava la vescica di gomma col ghiaccio, le lenzuola da ricambiare, e badava a fargli prendere le medicine o ad apprestargli le limonate. Sorridendo, gli diceva:

—Povero Calogero! Povero Calogero!—

Da lì a poco, il delirio lo riprendeva:

—Come hai fatto?… Imbecille!… Dovevi notare le dosi!… Ma rammèntati dunque!… Hai preso questo preparato qui?… O quest'altro?—Non so! Non ci ho badato!—Lasciami vedere! Una meraviglia!—Non so! Non ci ho badato!—

Egli tentava di calmarlo, quasi il delirante potesse intendere ragione.

—Ah!… Rammenti dunque? Bravo! Bravo! La nostra fortuna è fatta! Non si è mai visto uno smalto simile. Il forno è acceso!… Che caldo! Soffoco! Tutti i rubinetti! Fatemeli schizzare addosso… Li ho messi in opera io… Dite al Sindaco che voglio tutta l'acqua per me… altrimenti… ecco… li schianto a uno a uno! Così! Così!

E agitava le braccia, facendo l'atto di schiantare i rubinetti, buttando via il lenzuolo che Cardello era pronto a rimettere al posto, tentando di rabbonirlo:

—Sissignore… Tutti e sette per lei… Il Sindaco ha dato il permesso… Stia fermo!

Era uno strazio!

* * *

Finalmente, al quattordicesimo giorno la crisi era superata. Il malato sembrava destarsi da lungo sonno.

Quando il dottore gli disse:—Avete avuto un infermiere maraviglioso!—il Piemontese prese Cardello per una mano e gliela strinse, esclamando commosso:

—Povero Calogero! Povero Calogero!—

E al povero Calogero venivano le lacrime agli occhi, non per quelle parole affettuose e per la gioia della convalescenza in cui entrava il padrone, ma, di nuovo, pel terrore che c'era mancato poco ch'egli non perdesse quel suo secondo padre, come lo chiamava, a cui voleva bene più del suo vero padre da lui appena conosciuto e del quale gli rimaneva soltanto un ricordo molto sbiadito e che andava affievolendosi ogni giorno più con l'andare degli anni.

Tutte le volte che, parlando del Piemontese o ragionandone da sè, gli accadeva di chiamarlo suo secondo padre, Cardello si metteva a ridere, pensando:

—Quanti secondi padri ho io avuti! Prima l'Orso peloso, poi il signor Decano; ora questo!—

E soggiungeva:

—Non ne voglio altri!—

Questa volta però, sentendosi stringere la mano, e udendo le affettuose parole: Povero Calogero!—pur provando il terrore del pericolo corso dal terzo secondo padre, e la gioia di vederlo salvo, Cardello non rise; ormai, per lui il Piemontese era l'unico e vero suo secondo padre!

Il giorno che il convalescente potè lasciare il letto, Cardello non riusciva a star fermo dalla contentezza. Saltava, come un bambino, per le stanze, si affacciava ai balconi, comunicava alle persone che passavano la lieta notizia.—Stavo per fartene una brutta assai!—gli diceva il Piemontese:—povero Calogero!

—Dica: Povero Cardello!—egli rispose:—come mi chiamavano al mio paese quando ero ragazzo.

—Perchè?

—Credo perchè ero vispo come un cardellino.

—Da ora in poi ti chiamerò Cardello anche io. Ti fa piacere?

—Certamente. Mi parrà di tornar ragazzo.

XII.

LA FORTUNA DI CARDELLO.

Il giorno in cui fu inaugurata la condotta dell'acqua, Cardello non stava nei panni.

Migliaia di persone attorno alla fonte in attesa di veder funzionare i sette rubinetti di rame che, ripuliti il giorno avanti da lui, luccicavano al sole quasi fossero di oro. Tutto il Municipio in gran gala, la banda con la nuova divisa, impennacchiata, che si sfiatava a suonare… E, al momento decisivo, marcia reale, appena l'acqua schizzò con violenza, limpida come cristallo, tra un gran urlo di: Viva! Viva! e infiniti bàttiti di mano. Era stato lui, Cardello, che aveva aperto l'ultima valvola, distante un centinaio di passi dalla fonte. E compiuta l'operazione, era corso a gridare: Viva! Viva! anch'esso e ad applaudire, pallido dalla gran commozione, a lato del Piemontese che riceveva congratulazioni da ogni parte. I carabinieri stentavano a trattenere la folla che si pigiava per tuffar le mani nella vasca, e i ragazzi che si davano spinte ed urtoni per essere tra i primi a riempire le quartare e portar a casa l'acqua nuova! Festa, delizia di paese assetato, e che pareva di essersi ora ubbriacato con la sola vista dell'acqua sospirata da tanti anni!

La gioia di tutta quella gente era stata però niente a confronto di quella di Cardello, a cui importava poco della sete altrui e che avea gridato Viva! Viva! e avea battuto furiosamente le mani unicamente pensando: "Ora daremo mano alla fabbrica!"

Egli aveva tale illimitata fiducia nell'abilità del Piemontese, da figurarsi che le pratiche per la compra del terreno avrebbero potuto condursi a termine in un paio di giorni. E quando vide che andavano per le lunghe, e quando apprese che per lo fornaci occorreva l'opera di un ingegnere pratico di quel genere di costruzioni, sentì uno scoraggiamento grande. Aveva avuto la fabbrica davanti agli occhi, come un miraggio, e così vicino che quasi gli sembrava di toccarla con le mani, e ora la vedeva indietreggiare e allontanarsi in fondo in fondo e dileguare, come al destarsi da un sogno.

Meno male che il Piemontese riprendeva intanto a fare nuovi saggi d'impasto della creta, e di stagno, e di altri colori.

Cardello questa volta spalancava bene gli occhi, mentre il padrone pesava i preparati, notando tutto in un quadernetto che si era cucito per tale scopo. Il Piemontese gli diceva scherzando:

—Vuoi rubarmi l'arte?

—Sono ignorante; non posso rubarle niente.

—Fai bene a prender nota di ogni cosa; dicevo per celia.—

Ma il Piemontese non era mai contento, quantunque i vasetti uscissero dal forno con lo stagno ben cristallizzato, e con vividi colori di verde macchiettato di nero e di giallo. Cardello se n'angustiava.

Finalmente arrivò il giorno in cui fu firmato il contratto di compera del fondo. L'ingegnere però non arrivava! Cardello passava le giornate a sorvegliare i carrettieri che portavano dalla cava le pietre di arenaria e i manovali che le rizzavano in mucchi quadrati. E il miraggio della fabbrica tornava a riapparirgli davanti agli occhi vicinissimo, con gli stanzoni rustici per la manipolazione della creta, con quelli destinati agli operai che dovevano lavorare a le ruote, coi forni là accanto, rotondi, come il Piemontese glieli aveva fatto osservare nel disegno del libro.

L'ingegnere intanto non arrivava!

A Cardello sembrava quasi impossibile che il suo padrone avesse bisogno dell'opera di mi ingegnere, lui che aveva murato da sè il piccolo forno riuscito a meraviglia.

—Ma che bisogno ne ha lei che sa far tutto?—gli disse una volta.

—L'ingegnere arriverà domani,—rispose il Piemontese.

E fu come se gli avesse detto:—Domani la fabbrica sarà allestita di tutto punto.

Sì, l'ingegnere stette là otto giorni a prender misure, a tracciar disegni, e andò via senza far murare una sola pietra.

Il Piemontese era di malumore. Contava su le dieci mila lire del premio che il Municipio avrebbe dovuto dargli; ma il Sindaco lo rimandava da un giorno all'altro, da un mese all'altro, e gli toccava di leticare coi carrettieri e coi manovali che volevano essere pagati e che egli, a corto di quattrini, non poteva pagare, Tutto era di nuovo sospeso, anche i saggi di terracotta, perchè il Piemontese perdeva le giornate a sollecitare il Sindaco, e anche a trovar quattrini in prestito da qualche strozzino.

* * *

Come vedeva sorgere da terra i muri per gli stanzoni rustici, Cardello si sentiva crescere, su su, anche lui. Per ora, una sola fornace e non molto grande; le altre due rimanevano in progetto, ma erano segnate sul terreno con cerchi di grosse pietre.

—Tra sei mesi!—aveva detto il Piemontese.

E sei mesi sarebbero passati presto.

Cardello però notava che il padrone era spesso preoccupato di qualche cosa ch'egli non riusciva a indovinare. Difficoltà di denaro, forse, dopo tanto che se n'era speso? Ma con quell'uomo le difficoltà duravano poco! Cardello continuava sempre a crederlo una specie di mago.

A un tratto, il Piemontese parve preso da una gran fretta di inaugurare la fabbrica con quattro operai andati a cercare in un paese vicino e tre ragazzi che aiutavano Cardello a manipolare la creta. Degli stanzoni uno solo era stato coperto. Tutto alla meglio, pur d'iniziare la produzione.

I vasi, gli orci già seccavano al sole nella spianata; oggetti piccoli però, per saggiare la cottura nella fornace e poi saggiare la stagnatura. E l'ansietà della prima prova era tale in Cardello che non lo faceva dormire.

Quando i vasi e gli orci vennero tratti fuori, anche il Piemontese perdè un po' della sua serietà davanti al bel resultato. La creta, nella cottura, aveva preso un colore di rosa carnicina soavissimo; anche per la leggerezza il resultato era stato eccellente; a confronto di quelli degli stovigliai, quegli orci, quei vasi pesavano poco più della metà. La creta avea potuto esser ridotta sottile senza nulla perdere in resistenza.

Cardello, incontrato quel vecchio stovigliaio, gli disse trionfalmente:

—Venite a vedere!—

E lo condusse con sè.

—Non c'è che dire; ma costeranno di più

—Possiamo darli allo stesso prezzo dei vostri.—

Il vecchio crollava la testa, incredulo.

—E poi, che può importare che siano più legger?

—Faremo roba fina. Quando vedrete lo stagno!… Tornate tra otto giorni.—

In quei giorni nella fabbrica era un via vai di gente. I cinquanta vasi disposti con bell'ordine sui rozzi tavolini coperti con fogli di carta, attiravano una folla di visitatori che veniva parte a vedere se era vero che il Piemontese fosse riuscito a dar lo stagno alle stoviglie, parte a rallegrarsi che un'industria nuova sorgesse a dar lustro alla città e pane agli operai.

Cardello, interrogato, dava qualche spiegazione; ma ordinariamente stava zitto, mescolato tra la folla, ammirando anche lui e dandosi già l'aria di capo-operaio e di qualcosa di più, di mezzo padrone.

Il Piemontese gli aveva detto due giorni avanti:

—Io dovrò assentarmi per qualche mese. Qui tutti hanno paura di metter fuori quattrini e avventurarli in un'impresa; e senza capitali, le industrie non vanno avanti: vado a cercarli lassù, in Piemonte. Tu baderai a fare e a far fare quel che si potrà. Ti lascerò istruzioni precise. Intanto in questi quindici giorni, ti regolerai come se io non fossi qui. Voglio vedere se sei capace di far riuscire un'infornata…. Altrimenti bisognerà attendere il mio ritorno coi nuovi operai.

E così, dopo quattro giorni di esposizione, era stato ripreso il lavoro, sotto la direzione di Cardello. Egli tremava per la responsabilità assunta, e a ogni po' interrogava con lo sguardo il padrone che fumava e andava su e giù, muto, serio, indifferente, quasi niente di quel che si faceva colà lo interessasse, e non gli rispondeva neppur con un cenno della testa.

La prima cottura era andata bene. Il difficile veniva ora, con la manipolazione dello stagno; ma Cardello si era già infrancato, e immergendo i vasi, chiuso nello standone a parte, ripeteva dentro di sè la preghiera:

—Signore, aiutatemi! Fatemi riuscire un altro pezzo unico…. Così il padrone andrebbe via contento!—

Il Signore non gli concesse la fortuna del pezzo unico, ma tutto andò bene, come se quel mago del Piemontese ci avesse messo le mani. E mentre questi gli diceva:—Bravo! Bravo! Bravo!—tre volte, Cardello si sentiva quasi impazzire dalla gioia al pensiero che per qualche mese il padrone della fabbrica sarebbe stato lui!…

E tornava a ripetere, pensando ai casi della sua vita:

—Quando si dice: "Il destino!" È proprio vero che ognuno ha il suo destino!—

E il cuore gli si gonfiava di grandi speranze; e i suoi sogni a occhi aperti arrivavano fino all'assurdità dei sogni veri, ed egli stesso talvolta ne rideva.

* * *

Sul punto di partire, il Piemontese lo aveva tratto da parte, e gli aveva consegnato una busta sigillata, senza indirizzo.

—Senti: conserva bene questa busta. Se io tardassi molto a scrivere—i casi son tanti—aprila; vi sono istruzioni che adempirai minutamente…. Appena arrivato, spedirò un po' di denaro. Tu sei un buon figliuolo, saprai regolarti.

—Torni presto! Torni presto! Mi parrà di essere una mosca senza capo con la mancanza di lei.

—La testa non bisogna perderla mai, in qualunque circostanza…. Va', tu sei un buon figliuolo!… Tornerò presto! E mi raccomando: ordine e pulizia!

—Scriva sùbito.

—Appena arrivato.—

Cardello si accorgeva che il Piemontese serio, freddo, faceva in quel momento grandi sforzi per non mostrarsi commosso; ed egli lo imitava, trattenendo i singhiozzi nella gola e le lacrime tra le ciglia, per non fargli il cattivo augurio.

E arrivò la prima lettera e poi la seconda e poi la terza; e arrivarono anche mille lire! Cardello, che non aveva mai avuto, in vita sua, tanti quattrini da spendere, non volle tenerli in casa e li portò alla cassa postale; là erano sicuri!

Poi, con intervallo di quindici giorni, un'altra lettera affettuosa, ma breve, che prometteva vicino il ritorno…. E poi niente più!

Cardello, non fidandosi delle sue scarse abilità epistolari, si faceva scrivere lunghe lettere dal segretario comunale; ma rimanevano tutte senza risposta. Un telegramma venne restituito con la osservazione: "Irreperibile!"

Il Piemontese non era dunque più a Torino?

Che cosa doveva egli fare? Attendere ancora o aprire la busta e adempire le istruzioni lasciategli?

Intanto le ruote lavoravano, la fornace ardeva, e la vendita degli oggetti stagnati procedeva bene in città e nei paesi vicini. Cardello, però, vedeva diminuire la provvista dei preparati ch'egli si ostinava a chiamare medicamenti. Una lettera raccomandata venne rimessa al mittente per irreperibilità del destinatario.

Allora l'idea d'una disgrazia, di qualche malattia grave—alla morte non osava di pensare—riempì di terrore Cardello.

Se avesse saputo dove andare a rintracciarlo, sarebbe partito senza indugio; gli rimanevano ancora cinquanta lire.

E andò a consultarsi col Segretario comunale, che dimostrava di volergli bene, e gli diceva spesso, come il Piemontese:—Sei un buon figliuolo!—cosa che a Cardello faceva tanto piacere perchè gli sembrava di sentirlo dire dal padrone lontano.

—Ha scritto finalmente?—gli domandò il Segretario vedendolo.

—Ma che! Non so che pensare. Ho il cuore piccino piccino…. Mi consigli lei che ne sa più di me. Sul punto di partire….—

E riferì sillaba per sillaba le parole che il Piemontese gli aveva dette consegnandogli la busta sigillata.

—Che cosa devo fare? Attendere ancora? Aprire la busta ed eseguire le istruzioni che contiene? Non so come regolarmi.

—Io, nel caso tuo, aprirei la busta.—

Cardello la trasse di tasca e gliela consegnò:

—L'apra lei.—

Il Segretario, spiegato il foglio, spalancò gli occhi dalla sorpresa.

Cardello non osava di domandargli:

—Che cosa dice?—

—È il suo testamento!—soggiunse il Segretario.—Lascia tutto a te, la fabbrica e il resto del premio che il Municipio deve pagargli: sei mila lire,

Cardello, interdetto, non respirava; temeva di avere inteso male.

—E sai come dice?—riprese il Segretario:—Istituisco mio erede universale quel buon figliuolo del mio operaio Calogero Strano!—

Cardello diè in un gran scoppio di pianto!

—È dunque morto?… Non è possibile! Come? Dove?—Non se ne potrà saper niente? Oh Dio!… Non è possibile! Voglio attenderlo! Tornerà!

—Potrebbe anche darsi. Intanto è bene far registrare il testamento. È una bella fortuna, sai? Sappi conservartela!

—Che farò, senza la sua guida?… No, non è morto: voglio attenderlo…. Tornerà!—balbettava Cardello quasi soffocato dai singhiozzi.

E, come compianto del suo padrone, gli sfuggì di bocca:—Quando si dice: "Il destino!" È proprio vero: ognuno ha il suo!

—Il nostro destino—lo ammonì il Segretario—ordinariamente ce lo facciamo con le nostre mani. Tu sei stato un buon figliuolo; la fortuna che ti càpita oggi te la sei meritata! Sappi conservartela, caro mio!